Senza pudore

Stampa questo copione

SENZA PUDORE

SENZA PUDORE

di Michele Casetta

Premessa tecnica

Poemetto contro la prostituzione minorile e la pedofilia scritto per essere recitato a tre voci e coro con accompagnamento di suoni e immagini.

I personaggi recitanti sono in numero di tre, una donna e due uomini, e si alternano nelle varie parti. La donna impersonifica sempre e solo la protagonista Kristina.

La scena: al centro del palco un letto dal quale recita l’attrice/Kristina. A destra e a sinistra del letto due sedie per gli attori/uomini. In un angolo il rumorista che accompagna l’esecuzione con effetti sonori di vario tipo ( è consigliabile l’utilizzo di un chitarrista con multieffetto).

(** vedi nota finale)

***

Prologo ( personaggio maschile 1)

Da qualche parte bisogna pure cominciare.

Le storie sono fatte di persone, di parole e di ricordi;

le storie sono fatte di re, di regine e di prodi cavalieri;

le storie sono fatte di principesse in castelli, di draghi e fattucchieri;

le storie sono belle e finiscono sempre bene.

Ma da qualche parte bisogna pure cominciare

se infine al lieto fine si vuole arrivare.

Le storie: c’è sempre qualcuno che le racconta

e c’è un cantastorie per ogni paese

perché ogni paese ha le sue storie. E che storie!

Ma ci sono storie che nessuno racconta

forse perché sono contro il senso del pudore,

forse perché sono contro la pubblica morale,

forse perché non interessano a nessuno, nemmeno ai cantastorie.

O forse perché non ci sono più cantastorie

e non ci sono più perché le storie sono diventate brutte

e le storie brutte nessuno le vuole ascoltare,

e le storie brutte nessuno le vuole cantare.

A volte le leggi sul giornale, giri la pagina e la vita continua;

a volte le senti al telegiornale, cambi canale e la vita continua.

Ma le storie non le puoi cambiare;

le storie sono uno specchio che ci sta sempre di fronte.

Le storie in cui ci si può specchiare

stanno diventando sempre più brutte, brutte, brutte.

E noi diventiamo brutti con loro.

E non possiamo più cantare le storie,

e non possiamo più raccontare le storie,

e non possiamo più dire le storie.

Possiamo solo urlare, gridare, bestemmiare le storie.

Se questa che vi sacramento addosso adesso è una brutta storia io non lo so, signori.

Fate un po’ voi.

" La casa del racket " – da Il Gazzettino 30 gennaio 2000

Gli ingredienti della storia sono: una bambina di tredici anni, albanese e schiava in Italia, il racket della prostituzione, i clienti rintracciabili dai numeri lasciati sul cellulare della schiava, la malattia della bambina che fa saltare il coperchio, infine la polizia che indaga e fa partire le adeguate denunce.

C’è poco da commentare quando le storie sono così squallide e orribili. Adeguato sarebbe solo il silenzio, un silenzio glaciale e continuato attorno ai clienti e agli sfruttatori – ad esempio quello della cella d’isolamento – e un silenzio partecipe e commosso attorno alla vittima. Ma c’è il cellulare. Il cellulare che suona, che è piegato agli scopi della prostituzione ma che ricorda. Il cellulare che non è essere umano, che non ha sentimenti ma che ha delle tracce utili da dare alla polizia.

Io non ho un cellulare, mi ha sempre dato fastidio l’idea di dover essere sempre rintracciabile, per non parlare dei trilli a teatro o al cinema o durante una conferenza: ma questa volta m’è simpatico questo aggeggio quieto e fermo che improvvisamente si anima e dà i numeri. Dar i numeri a volte serve, perbacco. Certo non davano i numeri i pedofili che violentavano questa ragazzina.

Kristina ( voce recitante femminile)

Ho avvertito il peso della leggerezza

toccando le ali delle farfalle, il loro banale vestito.

Ho vestito un vestito leggero per il caldo giorno di festa.

Ho già pronto un vestito di filo spinato per il giorno freddo del dolore.

Avrò un vestito da vestire per ogni occasione,

sì avrò un vestito da vestire per ogni occasione.

Perché questa è la vita: avere un vestito per ogni occasione.

E io sono Kristina, sono il bianco sporco di qualcosa.

D'altronde anche le ali delle farfalle

non sono mai di un bianco impeccabile,

di un bianco a prova di macchia;

sono di un bianco sporco di qualcosa.

E io sono il bianco sporco, il primo fiore della primavera,

sono la rapsodia della luce, la fiamma novella;

e sono una creatura bella per definizione e per necessità

come bella deve essere ogni luna nuova.

La luce della luna è bianca sporco;

la luce del lampione è bianca sporco;

la luce della giovinezza è bianca sporco.

La luce dentro casa mia non arriva

perché la linea dell’energia elettrica è stata interrotta

dalle bombe intelligenti cadute sovrappensiero;

e di notte la luce delle lampade a petrolio è bianca sporco.

Ma io sono Kristina, sono una bambina,

sono solo una bambina. Io sono la vita

con la faccia sporca di bianco sporco.

Abbiamo tutte le facce e le mani luride,

le guance rigate di nero, la punta del naso affumicata,

le borse sotto gli occhi che gridano la nostra fame;

siamo luride com’è lurida la nostra etnia,

siamo nere com’è nera la nostra terra.

Siamo bambine, siamo solo bambine

e coviamo la vita sotto la scorza d’odio dei padri

e abbiamo il bianco sotto lo sporco.

E sogniamo di avere un vestito per ogni occasione,

sì sogniamo di avere un vestito per ogni occasione.

e abbiamo il bianco sotto lo sporco.

Abbiamo già una coscienza e forse anche la nostra coscienza è bianca sporco.

E’ ormai lontano il tempo in cui davamo la caccia alle farfalle;

non è più tempo di giochi e di corse per noi;

il nostro è il tempo del dopoguerra;

è tempo di scarpe da cucire a mano per nove lire al paio;

è tempo di ricostruire le case;

è tempo di ricostruire le anime e le persone;

è tempo di ricostruire gli acquedotti, i ponti, le linee ferroviarie;

è tempo di tornare a vedere il sole;

è tempo di rinascere da un aborto.

E non do’ più la caccia alle farfalle,

non avverto più il peso della loro leggerezza;

sento solo un acuto dolore alle dita

che reclamano la loro stanchezza,

che non sopportano più il movimento della cucitura:

infila l’ago nella tomaia, tendi il filo di spago,

infila l’ago nella tomaia, tendi il filo di spago,

infila l’ago nella tomaia, tendi il filo ..

infila il filo nella cruna dell’ago e poi infila l’ago nella tomaia

per sedici ore di fila infila e sfila aghi e fili e spaghi.

Sono Kristina, la " piccola cucitrice " così mi chiamano in paese

perché ho dita sottili ma robuste e infilo e sfilo veloce

fino a cento paia di scarpe al giorno;

e un giorno, se il vecchio Gimo mi regalerà un pezzo di stoffa,

mi cucirò da sola un vestito rosso, bello per ogni occasione.

Ma per adesso è tempo di scodelle con acqua e pane nero,

di notti buie e silenziose come caverne,

di pensieri tristi e spietate povertà.

Mio padre e mia madre attorno al tavolo,

di sera, con i volti riscaldati dalle lampade a petrolio

sono un quadro di desolazione.

Se solo potessi essere il pretesto di una gioia ritrovata…

E cucio le scarpe, infilo e sfilo aghi e fili e spaghi

per poche lire, per fare star zitta la fame che ciarla a sproposito.

Ma per adesso è tempo di vivande riscaldate,

di bestemmie profonde come ferite,

di peccati che non si possono fare a meno di fare.

E’ tempo di arrangiarsi e di sopravvivere

spigolando, rastrellando e raspollando i campi

fertilizzati dall’uranio impoverito.

E’ solo una questione di tempo:

anch’io domani avrò un vestito, un vestito di seta italiana,

ma oggi sono solo una bambina con la faccia sporca,

le dita callose e le mani grosse, gli occhi grossi, il cuore grosso.

Mio padre e mia madre attorno al tavolo,

questa sera, non parlano. Si guardano l’un l’altra.

Mio padre rigira tra le dita un tappo di bottiglia;

pare nervoso. Mi guarda, si bestemmia addosso e abbassa gli occhi desolato.

Forse i soldi non sono bastati

domani cucirò più scarpe

domani forse qualcosa accadrà.

La compravendita

( due voci recitanti maschili. Zingaro: pers. Maschile 2/ Padre: pers. Maschile 1)

Zingaro (Z) – Voi siete il padre?

Padre (P) – Sì, sono io.

Z – Il padre di Kristina, la piccola cucitrice?

P – Sì, sono proprio io. Ma voi chi siete e cosa volete da me?

Z – Io sono una specie di mediatore di vacche, compro e vendo carne viva..

P – Non capisco. Cosa volete da me? Cosa cercate?

Z – Vostra figlia ha dita robuste e mani veloci;

certe mani le pagano bene al di là del mare

mentre qui sono semplicemente mani buone solo per cucire tomaie.

P – Le scarpe ce le pagano poco, è vero:

ma Kristina ci aiuta a sopravvivere.

Z – Potrei aiutarvi anch’io, se lo volete.

P – Ditemi: cosa mi offrite?

Z – Duecentomilalire per le mani di vostra figlia.

P – Volete comprare Kristina? Ma è ancora una bambina?!

Siate sincero con me: a cosa vi serve mia figlia?

Z – Certe mani le pagano bene al di là del mare

e a voi i soldi servono. A me serve vostra figlia.

Insomma, le volete e non le volete queste duecentomila?

P – Ma vi rendete conto di quello che dite? E’ un’assurdità.

Le mani di Kristina possono cucire fino a mille scarpe alla settimana.

Duecentomila sono troppo poche. Voglio il doppio!

Z – Forse vostra figlia vale anche qualcosa di più

ma io posso offrirvi solo questo. Prendere o lasciare!

P – Mia figlia vale più di un milione, ve lo dico io che sono il padre!

E voi avete fatto un affare! Datemi le duecentomila e mia figlia è vostra.

Z – Ditemi: voi amate vostra figlia?

P – Certamente.

Z – E non vi dispiace venderla sottoprezzo?

P – Certo che mi dispiace per i soldi che ci rimetto.

Per Kristina non mi dispiace perché già lo sapevo:

è stata sfortunata fino dalla nascita.

Z – Perché?

P – Perché è nata donna. E nascere donna, e per di più nomade, qui in Albania è una bella sfortuna.

Z – Domani verrò a prenderla io.

Lasciatela a casa da sola: le farò credere di averla rapita

così con vi odierà.

P – E’ la cosa più giusta. Siete un uomo sensato.

Z – Sì. È la cosa più giusta.

CORO ( tre voci recitanti in successione)

triste / la vita del figlio / che tradisce il padre

ma ancora più triste / la vita del padre / che tradisce il figlio

La scuola dello zingaro (Zingaro: pers. Maschile 2)

Zingaro (Z) – Ora sei roba mia, Kristina.

Che belle mani! Certe mani le pagano bene al di là del mare.

Kristina (K) – Ho avvertito una strana sensazione;

ho avvertito il peso della mia leggerezza anche nelle vostre mani, signore,

mentre mi portavate via.

Z – Ora sei roba mia, Kristina.

Qualcuno ha messo le tue mani nelle mie;

e io metterò le tue mani nelle mani di qualcuno, al di là del mare,

che, a sua volta, metterà le tue mani nelle mani di uomini

che per mani come le tue pagano bene.

K – Le mie mani sono buone solo per cucire tomaie, signore.

Riportatemi da mio padre.

Piove.

Z – La pioggia insegna che tutto cade e nulla si arresta.

Le tue mani sono cadute nelle mie: ora sei roba mia.

Sai cosa significa?

K – Riportatemi da mio padre, a cucire le scarpe.

Questa stanza grida di squallore

E voi, signore, avete un sorriso sporco di qualcosa di brutto.

Piove. Slegatemi le mani.

Z – Io ti insegnerò ad usare le tue mani

usando le mie mani su di te.

K – Le vostre mani sono nere. Non gioco con voi.

Z – Ne troverai di peggiori:

E’ una questione di tempo: col tempo ci si abitua alle cose più tremende.

Ma da qualche parte bisogna pure cominciare.

Voce ( pers. Maschile 1)

Pelle di mula sporca

e ossa sporgenti di bambina;

ancora il sapore del latte

in bocca e sale di mare

che brucia e taglia Kristina;

cosce crude di susina,

occhi di troia, occhi di santa;

martire dentro bianche lenzuola,

fammi l’amore Kristina,

pelle di mula sporca

e lingua che bagna, lingua che non parla;

e solo tredici volte il sole è girato; ti giri Kristina,

cosce crude di susina e labbra

di bagascia, ti giri e fai senza guardare,

e fai senza piacere tutto quello

che hai da fare; occhi di troia,

occhi di santa, fammi l’amore

Kristina. E canta fica sazia

un pianto; chiedi pietà al vento

che ci liberi dal tuo penare,

dal mio godere. Si gonfia il lenzuolo

un istante: scappa Kristina, occhi di santa,

pelle di mula sporca, scappa

e non avrai più voglie da sgonfiare

col groppo che hai tra le gambe.

Ho chiuso gli occhi ( voce recitante femminile)

Ho chiuso gli occhi.

Ho chiuso gli occhi quando la rabbia dello zingaro

mi è entrata dentro la carne come un acido;

quando le sue mani nere mi hanno battuta

come si battono i cani bastardi per strada;

quando la sua lingua cercava la mia bocca

per iniettarmi dentro il veleno della violenza;

quando il suo corpo premeva contro il mio

e io ero una formica sotto una montagna;

quando il suo corpo premeva contro il mio

e dio non ascoltava le mie preghiere,

e nessuno sentiva le mie urla penose,

e chi sentiva faceva finta di non sentire,

e chi sentiva faceva finta che fosse normale;

quando i sensi mi hanno abbandonata

come mercenari traditori che abbandonano il campo di battaglia;

quando sono stata ferita .. . ho chiuso gli occhi

come se chiudendo gli occhi potessi fermare la vita.

Ma la vita è scorsa nel sangue che scendeva

lungo le mie gambe piegate e vinte;

è scorsa nelle lacrime tossiche che rigavano

la mia faccia sporca di bianco sporco;

è scorsa nel mio grembo sacro, violato;

è scorsa nella indifferenza che giustifica gli orrori,

è scorsa nelle lenzuola imbrattate,

nelle mie mani legate,

nelle sue mani soddisfatte;

la vita è scorsa addosso alla mia nudità

profanata senza pudore

e non mi ha lasciato più niente,

solo un vestito di filo spinato per il giorno freddo del dolore.

E mi ha lasciata sola, la vita, sopra il letto di uno sconosciuto,

nuda e senza pudore.

CORO ( due voci in successione)

chiude gli occhi chi muore

ma chi chiude gli occhi, spesso, lascia morire

Il viaggio ( pers. maschile 1)

Mi fanno ridere i professori illustrissimi

che spiegano l’essenza del viaggio

citando a memoria romanzi romantici e ottocenteschi.

Le bestie non viaggiano; le bestie fanno la transumanza;

le bestie si trascinano dalla stalla al macello.

Mi fanno ridere i turisti perbenisti

che viaggiano perché viaggiare è uno status simbol,

che viaggiano per poter vantarsi di aver viaggiato.

Le bestie non hanno ambizione; le bestie non hanno status simbol;

le bestie non hanno vanità.

Le bestie hanno una cavezza al collo

e vanno dove le porti, e fanno quello che dici;

perché le bestie non hanno destinazione,

hanno solo un destino che qualcun altro ha già scelto per loro.

Una Fiat Punto colore grigio metallizzato sporco,

rubata in Italia, senza targa e senza anima

conduce la bestia Kristina fino a Durazzo.

Sono passate due settimane dalla prima violenza

e la piccola cucitrice ha già chiuso gli occhi sulla vita.

Lo zingaro trova un compratore. Vende Kristina per quattrocentomila.

Lei è una privilegiata: per lei il viaggio in gommone non costa nulla.

" I soliti favoritismi " pensano gli altri profughi clandestini a bordo

che pagano milioni per un viaggio di andata e mai più ritorno.

" I soliti favoritismi ". Pesano a Kristina gli sguardi dei profughi a bordo.

E lo sa che il suo destino sarà di sangue intossicato,

sarà di uomini malati, drogati, disturbati,

sarà di case buie, di strade notturne, di marciapiedi perfidi in porfido,

sarà di amplessi subiti, svogliati, sfiniti.

Sarà quel che sarà: concentrati sul viaggio, Kristina!

Partire è un po’ morire, se non si è già morti prima.

E Kristina ha la morte dentro, nel profondo;

e si lascia imbarcare da mani che la passano ad altre mani,

e si lascia portare da onde che seguono altre onde,

e lascia che tutto sia come se tutto fosse distante,

come se tutto le fosse estraneo, forse anche il dolore.

La vita è rotta ormai; la vita è una rotta che

da Durazzo conduce a Bari su di un gommone;

quindi da Bari a Torino chiusa in un vagone di un treno merci;

ma a Torino il mercato è saturo, non c’è lavoro;

e il viaggio continua verso Padova senza successo.

Capolinea: Vicenza. Arriva in taxi con altre due albanesi

davanti al cancello di una villetta di proprietà di un professore illustrissimo,

uno di quelli che spiegano l’essenza del viaggio

citando a memoria romanzi romantici e ottocenteschi.

Ma le bestie non viaggiano; le bestie fanno la transumanza;

le bestie si trascinano dalla stalla al macello.

C’è un odore di macello

nelle stanze della villetta in città;

ci sono materassi disfatti, preservativi ovunque,

televisori e videoregistratori per le cassette porno

e un armadio pieno di vestiti.

Così anche Kristina avrà un vestito rosso da vestire per ogni occasione.

La transumanza ora è finita

E per vivere anche Kristina dovrà fare la vita.

Il padrone ( pers. maschile 2)

Sono il padrone dai denti d’oro

con la camicia hawaiana sbottonata

per mostrare il petto villoso, peloso zerbino,

e le scarpe Nike cucite da mani bambine,

da mani veloci e robuste come le tue, Kristina.

Certe mani le pagano bene al di qua del mare.

Io sono il padrone che dovrai amare,

perché ogni bravo servo ama il suo padrone

e rispetta le sue mani e il suo denaro.

Anch’io ho servito e fatto la guerra:

è il denaro che fa la guerra;

la guerra fa il dopoguerra;

il dopoguerra fa la ricostruzione e le puttane;

la ricostruzione e le puttane fanno il denaro

e così via all’infinito. E’ la storia.

E io sono la storia e fumo quintali di Marlboro

al tavolo più prestigioso del caffè più prestigioso

di una città qualunque di uomini qualunque,

di uomini che per certe mani pagano bene;

e fumo con disprezzo perché io sono il padrone,

a me il fumo non nuoce gravemente alla salute.

Ho più oro addosso io della Madonna di Loreto;

e mi baciano le mani gli uomini che si credono potenti.

Le donne si vantavano un tempo di prendere gli uomini per la gola.

Io gli uomini li prendo per il pelo,

per la loro insaziabile fame di culi femminili o effemminati,

di cosce crude da sfiorare con avvizziti membri tremuli.

Non faccio niente di strano e niente di diverso

da quello che fanno i nobili, colti e intellettuali direttori

delle riviste patinate: vendo culi e tette tridimensionali,

ma ai miei Espresso, Time e Panorama puoi mettere una mano tra le gambe.

Perché io sono il padrone dai denti d’oro,

il servo arricchito grazie al dolore dei servi;

sono l’imprenditore e farò di te, bambina,

il mio business, la mia miniera di Caravaggio,

la ruota di scorta della mia BMW nero antracite.

Io gli uomini li ricatto con l’amore sporco,

perché loro per un po’ del tuo amore sporco

mi riempiono di denaro

e il denaro fa la guerra;

la guerra fa il dopoguerra;

il dopoguerra fa le puttane;

le puttane fanno il denaro

e così via all’infinito. E’ la storia.

E’ un giro; e tutti siamo nel giro.

E tu, Kristina, girati e fai tutto quello che hai da fare,

e il cliente ha sempre ragione

il cliente ha sempre ragione,

il cliente ha sempre ragione.

Duecentocinquantamila a prestazione, non si fanno sconti.

Ricordati di farti pagare prima, di essere gentile

e di fingere piacere, ma fingere bene – con sentimento.

A tutti i clienti lascia questo numero di cellulare

Perché tu sei disponibile 24h su 24h,

sei un distributore automatico, self service:

una banconota – una erogazione;

un’altra banconota – un’altra erogazione.

Non si fanno sconti nemmeno a Natale, Pasqua o Capodanno.

Non si accettano comitive, non si accettano extracomunitari.

Sono graditi solo gli italiani che pagano bene.

E il denaro fa la guerra;

la guerra fa il dopoguerra;

il dopoguerra fa le puttane;

e le puttane fanno il denaro

e così via all’infinito. E’ la storia.

Ma io sono il padrone con la camicia hawaiana,

non faccio nulla e arricchisco.

E anche tu ora sei roba mia, Kristina;.

Non hai un nome, non hai un’identità,

non hai nemmeno un documento;

hai solo un padrone e mi dovrai amare

perché io sono il padrone, colui che ha tutto.

Ma la vita è bizzarra e mancina

se anch’io, pur essendo il padrone,

per farmi qualche ora d’amore

non posso fare altro che andare a puttane.

Il cliente ( pers. maschile 1)

E ti vengo a cercare

con la mia fuoriserie, con la mia utilitaria

davanti alle pompe di un distributore CHIUSO per turno.

E ti vengo vicino, accosto col finestrino elettrico abbassato;

il motore diesel al minimo sbuffa come un gatto in calore.

" Quanto vuoi, bella! " " Va bene. Sali! "

E ti vengo a caricare

e ti porto il pane; perché con me avrai pane per i tuoi denti,

perché io sono il principessino dei clienti: sono il CLIENTE.

La mia faccia è uguale a tutte le altre facce;

il mio nome è un nome qualunque;

le mie mani per te non sono diverse da tutte le altre mani;

le mie mani sono mani che per mani come le tue pagano bene.

E ti vengo a comprare

come se fossi un pezzo di carne da fare in brodo

o una porzione di patate fritte transgeniche e unte.

E ho l’alito che puzza d’aglio

E tradisce la cucina pesante di mia moglie:

perché io sono il marito felicemente ammogliato,

il padre paterno da sit. commedy americana,

sono l’imprenditore di successo e quello fallito,

sono l’operaio di ultimo livello e il perito,

il prete ubriacone, il vescovo, il cardinale scurrile,

sono il banchiere con le calze a rete sotto il loden,

l’impiegato dell’ufficio postale, il pubblico ufficiale,

il professore onorato, il laureato disoccupato e pervertito,

sono il malato, il drogato e l’intossicato,

sono il guardiano dell’obitorio, il medico del turno di notte,

sono l’imprenditore che si è fatto da solo,

sono il cliente che paga e fotte.

E il cliente ha sempre ragione.

E ti vengo a toccare

con le mie mani intarsiate di anelli d’oro anneriti

per strapparti le calze di nylon da 9000 lire al paio,

per abbassarti le mutande consumate sul cavallo,

per sentire se posso ancora sentire qualcosa,

se qualcosa giù infondo si muove.

Sono il cliente tutto casa e chiesa,

lavoro e fisco; e ti chiedo la fattura

per scaricare dalle tasse ogni tua prestazione:

perché sono il libero professionista

che rispetta la deontologia professionale e la morale

e che si cala le braghe in fretta.

E ti vengo a cercare

in via dei perduti interno 4 " citofonare Kristina ";

e prima di venire da te mi lavo e mi profumo

- non lo faccio più nemmeno per mia moglie –

e mi vesto bene perché la bella presenza è tutto.

E da te vengo a mendicare un sogno o un amplesso,

a te chiedo quello che non avrei il coraggio di chiedere a nessun’altra,

perché io pago anticipatamente.

Io sono il CLIENTE.

E il cliente ha sempre ragione,

perché il cliente non ha colpa;

il cliente di giorno grida con gli altri:

" Bastoniamo le puttane! Cacciamole dalle strade! ",

poi di notte il cliente striscia con gli altri

davanti alle pompe di un distributore CHIUSO per turno.

" Quanto vuoi, bella? Va bene, sali! ";

il cliente ha la coscienza apposto,

si confessa di sabato, di domenica fa la comunione.

Il cliente ha sempre ragione

perché paga anticipatamente,

il CLIENTE.

Ho chiuso la vita ( voce narrante femminile)

Ho chiuso la mia vita

dietro la porta di questa villetta in città

e ora sono come sepolta dagli sguardi della gente benpensante

che pensa che io mi diverta a fare quello che faccio;

ora sono inchiodata dal silenzio

di chi trova sconveniente parlare di me.

Ho chiuso la vita

e le mogli dei miei clienti dicono che è mia la colpa,

e le prediche dei preti dicono che è mia la colpa,

e il padrone dice che è mia la colpa

se una notte non c’è lavoro.

Ma io sono Kristina, sono solo una bambina

e tra un cliente e l’altro cucio scarpe con la mente

e infilo l’ago nella tomaia, tendo il filo di spago

ma alla fine tra le mani non rimane niente.

Ho chiuso i miei giorni,

le violenze acide, i letti disfatti,

il sudore dei clienti, il loro sbuffare pietoso,

gli aborti che piango, le lacrime che ho pianto,

le scarpe che avrei potuto cucire, le scarpe che avrei potuto consumare,

il vestito che avrei potuto vestire,

il vestito rosso della festa, bello per ogni occasione.

Ma ho chiuso la vita

come si chiudono i balconi di casa ogni sera,

e dentro non rimane che il silenzio,

e fuori non rimane che il silenzio,

ma non ci sarà nessuna alba che mi sveglierà domani,

e non tornerò mai più ad aprire i balconi.

Perché ho chiuso la vita,

non ho più alba fuori.

Epilogo ( pers. Maschile 1)

La salvezza a volte arriva per vie imprevedute.

Nella maggior parte dei casi non arriva neppure.

Devo aver letto da qualche parte

che un tempo uno schiavo che voleva affrancarsi

doveva pagare il padrone; oggi le cose devono essere cambiate.

La salvezza di Kristina ha un nome chirurgico:

PERITONITE ACUTA. Perché ogni salvezza deve passare attraverso il dolore.

C’è da chiedersi perché non l’abbiano lasciata morire di morte naturale.

C’è da chiedersi se il padrone abbia provato compassione.

O forse non gli servivano più quelle mani di bambina,

quel corpo denutrito, abbandonato su una lettiga del Pronto Soccorso

senza un nome, senza un’identità,

senza neppure un documento.

" Quanti anni hai? " " Tredici "

" Come ti chiami? " " Kristina "

" Cosa fai? " " La puttana "

Le infermiere fanno finta di niente,

qualcuno si scandalizza, qualcuno sghignazza,

qualcuno pensa che le puttane fanno il denaro,

il denaro fa la guerra,

la guerra fa il dopoguerra,

il dopoguerra fa le puttane

e così via all’infinito. E’ la storia.

E’ una storia che nessuno vuole raccontare,

forse perché è contro la pubblica morale,

forse perché è contro il senso del pudore,

forse perché è una brutta storia solamente.

E Kristina, benchè liberata, non vivrà felice e contenta

perché ormai ha chiuso la sua vita

e non ha più alba fuori dove c’è solo rumore

e anch’io non ho alba

ne le insegne pubblicitarie di mercanti di provincia,

ne le code di auto metallizzate e catalitiche,

ne le code a le porte dei centri commerciali,

ne l’aria condizionata libera come l’aria,

ne l’arroganza de la contadina che ha sposato un banchiere,

ne la pelliccia de la signora per bene,

ne i jeans elasticizzati de la giovane trendy,

nel suo culo esaltato da un tanga,

ne la spranga del delinquente che ha fame,

ha fame, ha fame, ha fame, ha fame,

di voi che siete sazi, di voi che siete sazi, di voi che siete pieni

...ne le smorfie di una troietta di tredici anni,

ne le ceneri di Pier Paolo Pasolini,

ne l’assicuratore che rende la vita sicura,

nel venditore di aspirapolvere usate,

nel piccolo imprenditore che è scemo come il grande imprenditore,

nel grande imprenditore che è cattivo esempio,

nel laureato che pensa di aver diritto a un lavoro ben retribuito,

ne l’ignorante che crede di meritarsi solo merda,

nel piede del calciatore o nel dito del pianista,

ne la legittima difesa,

ne le VERY IMPORTANT PERSONS,

ne la filosofia di Burt Simpson declamata in rutti,

ne la busta paga di mio padre,

ne la busta paga di mia madre,

ne la prostituta che mi mostra la sua ferita,

ne i tre ragazzetti sorpresi nei cessi de l’ipermercato a fumare marja,

ne le donne manager senza le gonne per fare carriera,

ne la fiction trasmessa come una preghiera de la sera

Non ho alba

ne le zone industriali diventate sinagoghe,

ne le zone industriali diventate moschee,

ne le tette di Paola Barale quotate in borsa,

ne gli affanni de i disoccupati giocati in borsa,

ne la concertazione che mi sconcerta,

sconcerto nel vedere gli opposti toccarsi,

sconcerto nel rifiuto del comunismo,

sconcerto nel misurare la libertà col portafogli,

sconcerto nel silenzio de le coscienze

ne la popolazione mondiale arrivata a 6.000.000.000,

ne la fame di chi non ha bisogno di pane,

nel fatto che non c’è abbastanza pane per tutti,

ne la caotica maratona de i SALDI di mezza stagione,

ne la giovane incinta che si guarda la pancia dentro una vetrina,

nel trans che femminilmente soffre la mancanza di quella pancia,

ne le case popolari disegnate da VERSACE,

ne la voce calda di De Andrè,

ne le sue vite disperate cantate, cantate tutta la notte

sconcerto nel dover essere imprenditore di te stesso

sconcerto nel silenzio de le coscienze

sconcerto nel mutismo de le coscienze

sconcerto ne la rassegnazione de le coscienze

sconcerto ne la frigidità de le coscienze

Non ho alba

nel silenzio di chi violenta,

nel silenzio di chi giustifica,

nel silenzio di chi fa finta di niente,

nel silenzio di Kristina, martire di ogni silenzio,

in questo silenzio così colpevole

e senza pudore.

CORO

chiude gli occhi chi muore

ma chi chiude gli occhi, spesso, lascia morire

MICHELE CASETTA 18. VII. MM

Rappresentato a San Donà di Piave il 1 Ottobre 2000 in Piazza Ex Cantine Murer, e il 10 Dicembre 2000 al Centro Culturale "L. Da Vinci".

A seguito della rappresentazione il regista e autore del presente poemetto è stato vittima di atti vandalici e di lettere minatorie rivolte contro la sua persona.

Solo per aver portato in piazza una orribile verità.

La storia, infatti, è tratta da un episodio di cronaca.