Servi e padroni

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SERVI E PADRONI

Commedia in tre atti

Di VINCENZO TIERI

PERSONAGGI

ADRIANO VALFREDA, 55-60 anni

DIEGO MINORCA, 28 anni

REMO MINORCA, 50 anni

ERMANNO AJAN, 50 anni circa

LEONARDO VALFREDA, 20 anni

GIACOMO SENNA, 60 anni

GIOSUE’ FONSECA, 55 anni

SILVIO COSTA, 45 anni

UGO, 40 anni

STEFANIA ALVA, 30 anni

ATTILIA VALFREDA, 50 anni

MARINELLA VALFREDA, 22 anni

EVA MINORCA, 20 anni

LORENZA MINORCA, 48 anni

DARIA, 25 anni

TULLIA, 25 anni

Il primo atto nel palazzo dei conti Valfreda, a Roma; il secondo e il terzo in un grande albergo di Milano. Tempi moderni.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Salotto nell'antica casa signorile dei Valfreda. Mobili, quadri, tappeti di gran pregio. Una porta a destra e una a sinistra. Nel fondo un grande arco che si apre sullo studio di Adriano Valfreda; e dello studio si vede chiaramente un angolo, ricco anch'esso di mobili lussuosi. Tardo pomeriggio d'autunno. Quando si alza la tela, sono nel salotto Remo e Lorenza Minorca, entrambi in veste da camera, sdraiati su due divani e mezzo addormentati. Il loro abbigliamento è chiassoso, volgare, da nuovi ricchi e contrasta con la signorilità dell' ambien­te. Nello studio invece è la loro figlia Eva, che è molto ben vestita e legge un libro. Breve silenzio.

Diego                            - (ben vestito anche lui, entrando dalla sinistra) Papà.

(Contemporaneamente, Remo e Lorenza bal­zano in piedi).

Remo e Lorenza            - (insieme) Che c'è?

Diego                            - (dopo averli guardati, con irritazione). E smettetela di fare così! Che cos'è questa paura?

Remo                            - (irritato anche lui) Be'! Ma tu potresti anche avere una voce meno allarmante!

Diego                            - Che voce? Che allarmante? Ho detto « papà ».

Remo                            - E l'hai detto come se gridassi « aiuto! » o « al fuoco! »

Lorenza                         - (ricadendo sul divano) Ma insomma, non ricominciate, in nome di Dio!

Diego                            - Mammà, non sono io che ricomincio. È lui. E un poco sei anche tu, che ti spa­venti ogni cinque minuti'come se fossi nella casa degli spiriti 0 nella grotta del lupo man­naro. Ma che d'amine! Vi manca il senso dell'autonomia come se foste vissuti in regime di schiavitù. Non vedo l'ora di uscire da questo maledetto palazzo!

Remo                            - (dandosi l'aria del disinvolto) Ci era­vamo un poco appisolati, questo è tutto. Tu entri così, all'improvviso, come per darci chi sa quale notizia...

Diego                            - Andiamo, che non sono le notizie quel, le che tu temi! Quali notizie vuoi che ti porti io! Tu temi che arrivi lui, questa è la verità. Alla sua ombra ti sei fatta l'anima del servo. Hai perduto la nozione e la coscienza dei rapporti umani.

Eva                                - (dallo studio) A proposito di rapporti umani, senti un poco, Diego, quello che dice Platone...

Diego                            - Ecco, quell'altra adesso mi tira fuori Platone! (Poi, rivolgendosi alla sorella) Non è con Platone, sai, che ti darai del tono. E qui s; manca di tono, capisci?, si manca di classe.

Eva                                - (lascia il libro ed entra). Di tono e di classe ho da regalartene, per tua norma. Lui qua, lui là, lui detta leggi. Con quello strac­cio di laurea che s'è presa, vorrebbe man­giarsi il mondo. Insomma, che cosa vuoi?

Diego                            - Voglio evitare da una parte (accenna ai genitori) il servilismo, e dall'altra (accenna a Eva) la pacchianeria: ecco quello che voglio.

Eva                                - Se tu credi che si diventi padrone facendo la voce grossa o si eviti la pacchiane­ria usando i tuoi modi...

Diego                            - Sono i modi a cui mi costringete voi­altri!

Lorenza                         - (a Remo) Remo, fagliela smettersi

Remo                            - (sforzandosi di fare l'autoritario) Smet­tetela!

Diego                            - Io non la smetto per niente, fino a che non avrò ottenuto quello che chiedo.

Eva                                - (ironica) Ecco, bravo! Incomincia lui a mancar di rispetto a suo padre: e poi pretende che suo padre si dia l'aria del pa­drone...

Lorenza                         - (a Diego) Ha ragione tua sorella, scusa.

Remo                            - (incoraggiato, montandosi) D'alba par­te io non ho mica mandato i mici figli a studiare e a diventare dei signorini per far­mi mettere i piedi sulla testa!

Diego                            - Ma che piedi! Ma che testa! Quello che dico io è tutt'altro, caro papà. Ti dico che padroni non si nasce ma si diventa, e tu ancora non hai fatto proprio niente per diventare padrone secondo la tua fortuna e il tuo diritto. Adesso, per esempio, c'è di là il signor Ajani. Voglio vedere come ti com­porti col signor Ajani.

Remo                            - (preoccupalo, facendo l'atto di slacciar­si la veste da camera) Ah, c'è il signor Ajani?

Diego                            - (fermandogli le mani, con violenza) Sta' fermo! Rimani in vestaglia; così; come sei! (Poi, rapido, alla madre che si è alzata) E tu pure! (La madre siede) Il signor Ajani non è mica il Padreterno. Ha molto più bi­sogno lui di voi che voi di lui. È tempo che lui si abitui a trattarvi secondo il vostro grado.

Remo                            - Diego! Ma il nostro grado ancora...

Diego                            - (irritatissimo) Ancora che cosa? Il grado di una famiglia è dato prima dalla sua potenzialità finanziaria e poi dalla sua edu­cazione. Quanto a denari, ormai nessuno ha da prestarcene; e quanto all'educazione era inutile che tu mandassi i tuoi figli in collegio, a studiare, a laurearsi, per tenerli ancora in questo stato di soggezione di fronte a gente che per una ragione o per l'altra ha oggi il dovere di piegarsi dinanzi a noi.

Remo                            - Ancora un po' di pazienza, figlio. È questione di giorni, forse di ore...

Diego                            - Ma che non lo capisca tu, non mi me­raviglia. Mi meraviglia che non lo capisca lei! (Accenna a Eva).

Eva                                - Io non capisco la tua arroganza, anche se capisco le tue ragioni.

Lorenza                         - Ma intanto vi pare il caso di conti­nuare questa discussione se dì là c'è il signor Ajani?

Diego                            - Aspetti, il signor Ajani!

Remo                            - Non si può farlo aspettare, Diego! Vado io di là.

Diego                            - Nossignore! Tu lo riceverai qua, alla nostra presenza. Voglio vedere come ti com­porti.

Remo                            - Ma lui, alla presenza di tutti, non parlerà...

Diego                            - (meravigliato) _ Perché non parlerà?

Remo                            - (imbarazzato e impaziente). Insomma, ci sono cose che tu non sai. D'ego.

Diego                            - (fissando il padre) Ma io voglio sa­perle! (Una pausa; poi  con tono, inquisito­rio) Ci sono cose, dunque, che il signor Ajani ha il diritto di sapere e io no?

Remo                            - Non è questo; ma...

Diego                            - Tu m'hai sempre detto che il signor Aiani è soltanto il tuo uomo d'affari. In altri termini, un tuo dipendente

Remo                            - Naturalmente. Tuttavia...

Diego                            - Un dipendente, anche c?-n cri.i; n-nr i di nobiltà, è sempre un dipe^d/»*!*? O d- ' b credere che tu lo tratt' con: mun*! • n solo por i suo: quarti di nobiltà ma an he per altre ragioni?

Remo                            - Per un compasso di ragioni..,

Diego                            - Ah. non per un « complesso d’inferiorità  come credevo io; ma por un  - (•nmplpsgj di rag:oni...

Eva                                - (sarcastica) Lui non perirete rV- io riti P'atone; ma poi lui cita Freud: il « com­passo d'inferiorit'i »...

Diego                            - (alla sorella, ma sempre listando il padre) Sta' zitta. Lasciami sentire...

Eva                                - Ma da dove vieni tu? Dal mondo della luna? Credi che j danari s: facciano col solo aiuto della Divina Provvidenza?

Diego                            - (voltandosi a guardare la sorella). Si fanno col lavoro. (Poi, fissando nuovamente il padre) Col lavoro e anche con la fortuna; ma con nient'altro, vero, papà?

Eva                                - (scrollando le spalle con disprezzo, e ri­tornando nello studio) Che stupido! (Siede al medesimo posto di prima, riprende la let­tura).

Diego                            - (Dopo averla seguita con lo sguardo, volge gli occhi al padre come uno che inco­minci a indovinare la verità, e poi, con ama­rezza) Ah, be'! Allora... (Si volta dall'altra parte, fa qualche passo, poi rivolgendosi di nuovo al padre) Tu mi avevi parlato sem­pre dei tuoi risparmi, di una vincita con i Buoni del Tesoro, di qualche operazione di borsa ben riuscita... Non era solo questo, dunque... (Una pausa; poi, ripensandoci) E mia sorella sa più cose di me... Tutti, qua dentro, sanno più cose di me... (Guarda Lo­renza) Anche mia madre, naturalmente. (Lo­renza abbassa il capo. Remo evita lo sguardo del figlio. Diego, dopo un'altra pausa, con­tinua): Eh, adesso capisco. (Poi ripensan­doci ancora) Di modo che noi ci prepariamo a partire ma... non a fronte alta... piuttosto a fronte bassa... come ladri...

Remo                            - (ribellandosi) Oh, ladri poi...!

Diego                            - (nervosissimo) Lo spero, lo spero! Ma... vorrei anche sapere... Vorrei uscire dalla mia cecità; o dalla mia stupidità, come dice mia sorella.

Remo                            - Ohe, ragazzo! Ma che credi? (E subito, con improvvisa decisione, con la volontà di chiarire, va alla porta di sinistra, l'apre, chiama nell'interno) Signor Ajani, accomo­datevi. (Diego fa l'atto di uscire dalla parte opposta; e Remo, voltandosi per fermarlo): Rimani! (Diego si ferma all'angolo di destra, umiliato e curioso nello stesso tempo. Dalla sinistra entra Ermanno Ajani, uomo di età indefinibile, sguardo furbo, modi raffinati ma ' con qualche cosa di equivoco, eleganza inap­puntabile -ma che si vuol far notare. Lorenza si alza in piedi. Remo, scostandosi per la­sciarlo passare, dice subito): Noi chiediamo 6cusa se... (Vuol dire: a Se v'abbiamo fatto aspettare ») E chiediamo anche scusa se... (Accenna all'abbigliamento proprio e della moglie).

Ermanno                       - (dopo aver guardato l'abbigliamento d'entrambi; lievemente ironico) Per carità! (Poi, toccando la stoffa della vestaglia di Remo) Bella! (Poi, volgendosi a Lorenza) Comoda, signora. Prego!

Lorenza                         - (sedendo) . Grazie.

(Ermanno avanza, seguito da Remo. Siedono anche loro).

Ermanno                       - (dopo essersi volto a guardare Diego e Eva) E i giovanotti son tornati definiti­vamente?

Remo                            - Sì, sì, definitivamente. Partiranno con noi. Diego ha finito anche la sua pratica nello studio dell'avvocato Sordello a Genova e farà presto gli esami di procuratore. Eva s'è laureata il mese scorso; naturalmente, non per esercitare la professione...

Ermanno                       - Molto bene. (Una pausa; poi, guar­dando la vestaglia dì Lorenza) Anche la vestaglia della signora è bella. Bellissima.

Lorenza                         - (con comica soddisfazione). Grazie, signor Ajani.

Ermanno                       - (dopo un breve silenzio) Debbo parlare alla presenza dei giovanotti?

Remo                            - Anzi, ve ne prego. (E, guardando Die­go) Mi piace che i miei figli sappiano tutto.

Ermanno                       - Io ebbi un figlio che mi volle molto bene fino all'età della ragione; ma poi inco­minciò a giudicarmi e non sempre mi per­donò. Comunque... (Una pausa) Ho da darvi tutte notizie consolanti, signor Minorca. Il signor Valfreda può considerarsi un uomo letteralmente finito.

Remo                            - Altre volte mi avete detto così; ma poi...

Ermanno                       - Certo, era duro a morire. Una po­tenza e una ricchezza come le sue non si sgretolano senza fatica. Ma non dovete fi­darvi dello stato di euforia in cui egli ha vissuto e forse vive ancora. Io non mi mera­viglierei nemmeno che, rientrando, egli non avesse ancora la nozione e la coscienza della sua fine. Eppure...

Remo                            - (impaziente) Avanti, dite, vi prego.

Ermanno                       - Quanto alla sua potenza, dopo aver perduto tutte le sue cariche pubbliche, non gli rimaneva - come sapete - che il posto di Presidente del Consiglio d'Amministrazione della Gazzetta quotidiana; un posto ap­parentemente di poco conto, ma in sostan­za prezioso per il suo prestigio politico e mon­dano. Egli era l'eminenza grigia del giornale anche fra i tavoli della redazione. Ebbene, via, l'hanno cacciato; letteralmente; ieri se­ra; senza nemmeno attendere il suo ritorno; facendo presentare le dimissioni dell'intero Consiglio.

Remo                            - E potevano farlo?

Ermanno                       - (stringendosi nelle spalle con aria mi­steriosa) « Tutto si puote ciò che si vuole; e più non rimandare »... D'altra parte, egli è ormai assente da quattro mesi; non si sa bene nemmeno dove sia... Il suo ammini­stratore dice di essere andato a incontrarlo a Napoli. Sarà. Ma se l'ha incontrato, non gli ha dato certo delle buone notizie, perché , oltre tutto, fra cinque giorni avverrà anche la vendita del palazzo - mobili com­presi - e il bando di vendita sarà notificato stasera...

Remo                            - (ansioso) Per conto di chi?

Ermanno                       - (con un sorriso furbo) Naturalmen­te, per conto mio, signor Minorca: vale a dire per conto vostro...

Remo                            - Non sono intervenuti altri creditori?

Ermanno                       - (c. s.) E che cosa avrei fatto io in questi giorni, se non mi fossi preoccupato di acquistare tutti i crediti residuali? Il mio gioco è stato audace ma perfetto. Letteral­mente. Ho diffuso fra i creditori il necessa­rio panico; sono calato in mezzo a loro come un falco, fingendomi suo emissario; ho pagato cinquanta quello che valeva cento... Un af­fare in grande stile.

Remo                            - Insomma, secondo voi, non c'è il pe­ricolo di una sua ripresa?

Ermanno                       - E quale ripresa signor Minorca? Fra quello che ha venduto lui e quello che gli faremo vendere noi, egli rimane letteral­mente in mezzo a una via. Il fondo di San­ta Barbara non l'ha più; i mulini di Casoria sono già miei, cioè vostri; le azioni della «Sacci » le ha cedute sei mesi fa per pagare quel primo debito che aveva con me, cioè con voi; il lungo viaggio con la sua amica è andato a farlo dopo essersi fatto prestare il danaro da me, cioè da voi; le tre case dell'Aventino sono ipotecate fino al terzo grado; il palazzo e i mobili glie li vendo all'asta io, cioè voi... Anzi, a proposito del palazzo, vi darei un consiglio, signor Minorca: quello di acquistarlo. Sarebbe letteralmente un affare.

Remo                            - (dopo aver guardato la moglie) No, il palazzo no.

Lorenza                         - Eh, no, il palazzo no.

Ermanno                       - (a Lorenza) Perché , signora? (Poi, rivolgendosi a Diego che non s'è mosso) Io scommetto che i giovanotti sono del mio parere.

Diego                            - (sdegnato) Io sono del parere che mio padre farebbe bene a liberarsi di voi!

Ermanno                       - (sorpreso, alzandosi) Di me?

Diego                            - (riprendendo l'avverbio che Ermanno usa come intercalare) Letteralmente.

Remo                            - (alzandosi anche lui). Ma che dici, Diego?

Diego                            - Dico che non mi sembra per niente pulito quello che avete fatto ai danni del signor Valfreda!

Ermanno                       - (con aria di padre nobile) Codesto vuol essere un giudizio morale sull'attività finanziaria del vostro genitore?

Remo                            - Ma io, prima di tutto, ho fatto gli interessi della mia famiglia; e poi ho ritar­dato, invece di affrettarla, la rovina del si­gnor Valfreda.

Lorenza                         - Il quale signor Valfreda, dilapidando il suo, ha fatto correre anche a noi il pericolo di finire in un asilo di mendicità...

Eva                                - (accorrendo dallo studio) ...Mentre lui scorrazzava di qua e di là con la sua mante­nuta, senza preoccuparsi né di sua moglie né dei suoi figli!

(Improvvisamente si apre la porta di destra e appare Adriano Valpreda. È un bell'uomo, fra i cinquantacinque e i sessant'anni, molto elegante, raffinatissimo; scettico per educa­zione e per cultura oltre che per esperienza; ironico per natura; ma fondamentalmente ot­timista per quello che riguarda la sua perso­nale fortuna. Ha l’abitudine di portare nella tasca di sinistra alcuni monocoli cerchiati dì tartaruga scura; non li incastra mai nell'orbi­ta, ma spesso ne tira fuori uno, lo avv'eina all'occhio come una « lorgnette » e quasi sempre, volendo rimetterlo in tasca, lo lascia cadere per terra. Se il monocolo caduto si rompe, egli ne tira fuori istintivamente un altro e lo avvicina all'occhio; ma, si rompa o non si rompa, egli non si china mai a rac­coglierlo, anche perché è abituato a vedere qualcuno piegarsi per lui. Ora indossa un vestito da viaggio e ha aperto la purta come attratto e incuriosito dal clamore della di­scussione che avviene nel salotto. La sua ap­parizione inattesa genera stupore, silenzio e imbarazzo. Sopratutto Remo e Lorenza sono imbarazzatissimi).

Adriano                         - (dopo aver guardato tutti). È un comizio ?

Remo                            - (quasi balbettando) Chiediamo scusa, signore; non avevamo notizia del vostro ri­torno; comunque stavamo per... (Fa l'atto di voler uscire per la sinistra, seguito da Lorenza) .

Adriano                         - (fermandoli). Un momento, un mo­mento. (Fa alcuni passi verso di loro, cava di tasca un monocolo, lo avvicina all'occhio sinistro) Vale sempre la pena, di tornare a casa inaspettati. E sorprendere la servitù in abbigliamento intimo non è meno emozio­nante che trovare uno sconosciuto nel pro­prio ietto. Ora posso dire di aver provato tutte le emozioni. (Fa l'atto di rimettere in tasca il monocolo, che cade per terra. E mentre Remo si piega premurosamente a raccoglierlo, egli ne cava fuori un altro e guarda Ermanno, Eva, Diego; poi dice) I signori m'hanno l'aria di assistere a una sfilata di nuovi modelli di veste da camera. Chi sono?

Remo                            - (che nel frattempo ha messo nella tasca di Adriano il monocolo caduto) Quelli sono i miei figli, signore,

Adriano                         - Ah, bene! Non li vedevo da molti anni. Sono fatti grandi. E vestono certamente meglio dei loro genitori.

Diego                            - (con aria saegnata, a Eva) Andiamo, Eva! (Diego e Eva escono per la sinistra).

Adriano                         - Perbacco, come sono fieri dei loro vestiti! Ma Ercole si vestiva della pelle del leone da lui strangolato; Apollo delle squame di un serpente morto sotto le sue frecce. Che merito hanno quei ragazzi per pavoneggiarsi nella lana di una pecora o nella bava di un bruco che non sono stati uccisi da loro?

Remo                            - (umilissimo) Chiedo scusa per loro, si­gnore; e, se permettete... noi andiamo, a... (vuol dire, accennando a sé e alla moglie, <( a cambiar vestito »)

Adriano                         - (guardando nuovamente Remo e Lo­renza) Peccato! Stavate tanto bene così! In ogni modo, non sarò certamente io a im­pedirvi di abbandonare un indumento al qua. le non siete abituati (Remo e Lorenza escono per la sinistra inchinandosi. Adriano, rivol­to a Ermanno, continua): Ho piacere d'in­contrarvi, signor Ajani.

Ermanno                       - (ipocritamente compito). Il piacere è tutto mio, signor Valfreda.

Adriano                         - Io e voi siamo destinati a incon­trarci sempre in circostanze eccezionali.

Ermanno                       - Dipende dalla mia professione, si­gnor Valfreda.

Adriano                         - Già! È una professione anche la vo­stra, sebbene Shylock la esercitasse alla ma­niera dei macellai.

Ermanno                       - Voi sapete che io non chiedo libbre di carne, signor Valfreda.

Adriano                         - Del resto, ieri sera in un ristorante sul mare ho pagato cinquanta lire una bi­stecca ai ferri. Ogni centinaio delle vostre lire non costa di più; e almeno le vostre lire si trovano sempre.

Ermanno                       - Non sempre, purtroppo, signor Val­freda.

Adriano                         - (sorpreso) Olà! Bisogna ricorrere alla borsa nera anche per il denaro? (Fa l'atto di mettere in tasca il monocolo che cade per terra).

Ermanno                       - (premurosamente raccogliendo il mo­nocolo caduto) Forse è nera anche la mia borsa, signor Valfreda; ma per lutto; perché voi l'avete vuotata. Letteralmente vuotata.

Adriano                         - (prendendo il monocolo dalle mani di Ermanno e mettendolo in tasca) Andiamo! Sedete. Non vi basta più il cinquanta per cento?

Ermanno                       - (sedendo) Siedo per obbedirvi. Ma anche se voi mi offriste il doppio, non sarei in grado di... Tutta la mia poca fortuna è già nelle vostre mani.

 

Adriano                         - (sedendo anche lui) Vorrete dire nel­le mani dei sarti e degli osti che mi spogliano e mi avvelenano col pretesto di difendermi dalle intemperie e dalla fame (Ride ironico).

Ermanno                       - Ammiro il vostro buon umore, si­gnor Valfreda. Nella cattiva sorte, esso è indice di fegato sano, di buona salute.

Adriano                         - (colpito) Perché nella cattiva sorte?

Ermanno                       - Diciamo magari nella sorte avversa. Voi avete perduto, una per una, tutte le vo­stre cariche pubbliche...

Adriano                         - Non sono così pazzo da sacrificare al potere la mia libertà.

Ermanno                       - Ma voi il potere l'avete perduto non per volontà vostra.

Adriano                         - Nessuno fa niente per volontà pro­pria e tutti ci attribuiamo la premeditazione delle tegole che ci sono cadute sul capo.

Ermanno                       - Dunque riconoscete voi stesso che...

Adriano                         - (si alza) Ho capito, signor Ajani. Voi mi negate improvvisamente la vostra fi­ducia perché non dispongo più di uno sti­pendio di duemila lire mensili e del permesso di libera circolazione sulle strade ferrate. Dopo tutto, solo in questo consisteva il potere elargitomi dalle mie cariche pubbliche. Ma io sono un Valfreda. E, se amo far di­menticare il mio titolo di conte che mi pro­viene da una serie di dodici generazioni, ho ancora un potere privato del quale né la po­litica né il censo potranno defraudarmi. A meno che voi non crediate di essere il solo usuraio superstite sulle rive del Tevere...

Ermanno                       - (che s'è alzato anche lui) Io sono un modestissimo banchiere privato che difen­de il suo poco denaro... (Adriano s'è avvici­nato al telefono, ha staccato il ricevitore, forma un numero. Nel frattempo entra dal fondo Remo, che s'è levata la vestaglia e appare in perfetta livrea di maggiordomo. Con lui è Lorenza che ha un semplice vestilo da guardarobiera).

Remo                            - Avete comandi, signore?

Adriano                         - Fate disfare i miei bagagli e prepa­ratemi il frac.

Remo                            - (a Lorenza). Va'. (Lorenza esce per la destra. Remo continua): Andate forse all'Opera, signore?

Adriano                         - (senza rispondere a Remo, parla al telefono). Pronto? Sono Valfreda. Chi par­la?... Caro signor Montemerlo, io ho urgente bisogno di voi... Come?... Non ho capito... (Sorridendo) Naturalmente. A voi non ho mai chiesto di salvare la mia anima né di guarire il mio corpo. Ci penso io, con il vo­stro denaro... (Sorpreso) Ah, non ne avete neanche voi? (Depone lentamente il micro­fono, guarda Ermanno, poi Remo; e dice a Remo): Dicevate?

Remo                            - Mi ero permesso di domandarvi se an­date all'Opera, signore.

Adriano                         - Sì.

Remo                            - (con umiltà e discrezione) Ma... non so, signore, se sia stato rinnovato il vostro abbonamento...

Adriano                         - Perché non sarebbe stato rinnovato?

Remo                            - Non saprei... Ma mi pare che il signor amministratore... prima dj partire...

Adriano                         - È partito?

Remo                            - Ha detto di dovervi incontrare a Na­poli...

Adriano                         - E perché a Napoli?

Ermanno                       - Se posso osare d'interloquire...

Adriano                         - (a Remo) Preparatemi il frac.

Remo                            - Subito, signore. (Esce per la destra).

Adriano                         - (nuovamente al telefono, forma un altro numero) Pronto?... Il signor Sarno?... Parla Valfreda. Desidero vedervi subito, si­gnor Sarno... '(Ride) Perché!  (Ride ancora) Vorrei potervi rispondere « perché vi amo ». Ma io non amo voi: amo la vostra cassa­forte... (Ride ancora; ma ascoltando si ran­nuvola; dice a bassa voce): Ho capito. (La­scia cadere nuovamente il microfono sull'ap­parecchio; guarda Ermanno; si sforza a sor­ridere) Sarebbe un bel fatto che tutti gli usu­rai dell'Urbe fossero caduti in miseria. Ma è probabile che stiano per aumentare il tasso di sconto. Vero, Ajani? Pazienza! Aspette­remo. E se voi non volete perdere tempo nell'aspettare con me... Vi saluto, signor Ajani.

 Ermanno                      - Debbo dirvi una sola cosa, signor Valfreda; e poi vi saluto anch'io.

Adriano                         - Dovete dirmi che ci avete ripensato?

Ermanno                       - Purtroppo no. Ma il non avere più denaro da prestarvi non mi leva, spero, il diritto di riavere quello che vi ho prestato.

Adriano                         - Quant'è? Molto?

Ermanno                       - Direi, signor Valfreda.

Adriano                         - Molto per voi o molto per me?

Ermanno                       - Per tutt'e due, signor Valfreda. Voi, forse, abituato come siete a nuotare nel­la ricchezza, non prendete nota né del denaro che incassate né di quello che spendete; ma io...!

Adriano                         - Passate domani dal mio amministra­tore e mettetevi d'accordo con lui.

Ermanno                       - Il vostro amministratore non c'è e del resto, da qualche tempo, invece di al­lentare i cordoni della borsa, si stringe nelle spalle...

Adriano                         - È un suo tic nervoso.

Ermanno                       - Non lo escludo; ma bisogna che io glie lo curi in qualche modo. E ho incomin­ciato a curarglielo, durante la vostra assenza, che si è prolungata più del previsto, notifi­candogli qualche atto legale...

Adriano                         - Ah! (Ha un lieve moto d'impazien­za; fa qualche passo lungo la sala),

Ermanno                       - Voi capirete: si sono accumulati anche gl'interessi... Non solo per me, ma an­che per gli altri vostri creditori, i quali ne­gli ultimi tempi si mostravano impazienti...

Adriano                         - E quali?

Ermanno                       - (accennando ai due cui Adriano ha telefonalo) Il Montemerlo, per esempio; il Sarno... Io, per riguardo a voi e al vostro nome, d'accordo con il vostro amministratore, ho rilevato i loro crediti...

Adriano                         - (amaro). Vi ringrazio della fiducia...

Ermanno                       - Dovere, dovere, signor Valfreda. Ma... capirete... passa oggi, passa domani... I secoli sono brevi ma i giorni sono lunghi; e più lunghi ancora sono i minuti. Io mi trovo letteralmente al verde; e, se entro sta­sera. ..

Adriano                         - Entro stasera? (Nervosissimo) Ma insomma, questa è un'aggressione o, peggio ancora, un agguato!

Ermanno                       - Calma, calma, signor Valfreda... Se non potete stasera, avrete dalla parte vo­stra la legge, eh'è molto più longanime di me... Vedrete che la legge vi concede cinque giorni di tempo, signor Valfreda... In cinque giorni un uomo come voi è in grado di far onore a qualunque suo impegno... (Untuoso, complimentoso, inchinandosi, si avvia per la sinistra) I miei rispetti, signore. (Esce). Adriano è rimasto, per un momento, immo­bile, pensieroso; ma ecco che scrolla subito le spalle, non credendo alla gravità della sua situazione, così come già gli si profila. E si avvia verso lo studio, quando dalla destra, rapida, entra Stefania Al va.

Stefania                         - (in vestito da pomeriggio, elegantis­sima). Sai che non posso venire all'Opera, stasera?

Adriano                         - Perché ?

Stefania                         - La sarta non mi ha mandato il vestito.

Adriano                         - Cara! Tu sei arrivata con me due ore fa. Non pretenderai che in due ore...

Stefania                         - Ma no! È uno dei vestiti che le ho ordinato quattro mesi fa, prima di partire. E infatti lei lo ha già pronto. Ma non me lo vuol mandare.

Adriano                         - Non te lo vuol mandare?

Stefania                         - Leggi la lettera che m'ha fatto tro­vare a casa. (Cava dalla borsetta una lettera, la porge a Adriano).

Adriano                         - (prendendo la lettera) Che dice?

Stefania                         - Leggi.

Adriano                         - (spiega la lettera, prende uno dei mo­nocoli che al solito avvicina all'occhio sini­stro, legge; poi fa lentamente l'atto di rimet­tere in tasca il monocolo che al solito cade per terra).

Stefania                         - (raccogliendo il monocolo) È la ter­za volta da stamattina che raccolgo il tuo monocolo. (Glie lo mette in tasca).

Adriano                         - Scusa. Grazie.

Stefania                         - Tu sei buono e caro; ma questa storia del monocolo...! Non potresti portarlo attaccato a un cordoncino; o abituarti a rac­coglierlo da te?

Adriano                         - Carlo I d'Inghilterra lasciava cadere spesso il pomo d'oro della sua mazzetta per vedere qualcuno piegarsi ai suoi piedi.

Stefania                         - Ah, grazie! Ma ti potresti almeno ricordare che io sono una donna...

Adriano                         - A ricordarmelo, basta la tua sarta.

Stefania                         - Che vuol dire?

Adriano                         - Scherzo.

Stefania                         - Ma con lei non mi pare più il caso di scherzare. È una villanzona e una sfac­ciata. L'anno scorso abbiamo speso nel suo negozio più di centomila lire. Quest'anno, prima della nostra partenza, le abbiamo dato un acconto di trentamila lire. Non mi farò più un vestito da lei nemmeno se mi prega in ginocchio! Adesso tu le saldi subito quel conto; e io le lascio anche i vestiti che m'ha fatti; a costo di non andare all'Opera sta­sera! (Parlando, ha già suonato un campa­nello eh'è vicino al telefono. Dalla destra è entrato Remo. Ella, rivolgendosi a Remo, continua): Remo, prendete l'assegno che vi dà il signore e fatelo recapitare subito alla mia sarta. (Stacca il ricevitore del telefono e formando un numero continua) Intanto io le telefono e le dico quello che si merita...

Adriano                         - Aspetta.

Stefania                         - (col microfono alle mani, sorpresa) Perché ?

Adriano                         - (a Remo) Andate, Remo. (Remo s'in­china e esce per la destra. Adriano continua): Non ho con me il libretto degli assegni. Deb­bo averlo lasciato nel baule.

Stefania                         - (deponendo il microfono) Vuoi che vada a cercarlo io?

Adriano                         - Ma che fretta c'è?

Stefania                         - Scusa, sai; ma ho bisogno anch'io di un po' di denaro, per...

Adriano                         - Per che cosa?

Stefania                         - In questi quattro mesi che sono stata fuori con te, non ho pagato i forni­tori, la servitù...

Adriano                         - Pagherai domani. (Una pausa).

Stefania                         - Ti trovo cambiato, Adriano.

Adriano                         - (scherzoso, per simulare buon timore). Cambiato in meglio o in peggio?

Stefania                         - (fissandolo) Non so.

Adriano                         - (c. s.) Forse dipende dal fatto che sono già vecchio. All'età mia si cambia da un'ora all'altra...

Stefania                         - Non mi vuoi più bene?

Adriano                         - (ride) Si direbbe che per te il bene consista in un foglietto rettangolare con la scritta: « pagate per questo assegno al si­gnor... » (ride ancora; ma ridendo si rannu­vola) Vero è che all'età mia...

Stefania                         - (irritata) Insomma, che hai? Non ti capisco.

Adriano                         - Si. vede che riesco, come voglio, a non farmi capire. Tu invece non ci riesci.

Stefania                         - Cioè?

Adriano                         - È la prima volta che ti dico « pa­gheremo domani », e tu vedi l'amore crol­lare come un edificio mal puntellato. Ep­pure io non t'ho detto di non volerti più bene.

Stefania                         - Me l'hai fatto capire; eh'è peggio. Perché non è il denaro che conta. Conta l'umore con cui si dà o si nega, il denaro. Devi ammettere che mai, prima d'ora, tu... (vuol dire: « me lo hai negato ») Fino a stamattina, fino a poche ore fa, tu li preve­nivi i miei desideri e i miei bisogni, anzi­ché farteli ricordare. Adesso, invece, improvvisamente... Lo capirei, se tu fossi impo­verito...

Adriano                         - E non potrebbe essere?

Stefania                         - (dopo averlo guardato) Ma va!

Adriano                         - E se io realmente fossi impoverito?

Stefania                         - (lo guarda ancora una volta) Non può essere. (Ma la sua convinzione non è sicura; vacilla; infatti, per sapere, ella con­tinua) Tu me lo dici per provare i miei sen­timenti... (Una pausa) Tu sospetti che io sia legata a te non per amore, e quindi... (Un'al­tra pausa) Infatti basterebbe che io ti dicessi « ti amo comunque », e tu... Non è così? Perché non rispondi?

Adriano                         - (che la guarda come un giudice). Con­tinua, continua. M'interessano, le evoluzioni della tua logica. (Rifacendo il ragionamento di lei) Io sospetto che tu non sia legata a me per amore: faccio finta di non aver denaro per metterti alla prova; tu potresti dirmi che mi ami comunque, ma non me lo dici... (Ride, ironico; poi) Non so perché ; ma ho una grande pietà di me e di te in questo momento... Questo fondo limaccioso dei no­stri sentimenti eh'è stato portato a galla da un pugno di denaro c'imbruttisce tutt'e due. Non senti come siamo brutti? Già! Ma tu non ti vedi mai, se non nello specchio di cri­stallo per giudicare una piega della gonna o la falda del tuo cappellino... E del resto non per altro mi sei piaciuta... (Una pausa) Non ti nascondo che fuori mi si crede po­vero. La lettera della tua sarta ne è una prova. Evidentemente in questi, quattro me­si è avvenuto qualche cosa che ancora mi sfugge. Ma è curioso che l'immagine della povertà mi sembra non appartenermi. Troppi secoli di ricchezza e di dominio scorrono nel mio sangue perché io possa vedermi con l'immaginazione dentro un vecchio vestito in attesa della scodella di minestra offerta dal refettorio comunale.

Stefania                         - Perché parli così? Che hai?

Adriano                         - (scrollando le spalle) Oh, niente, niente. Va' pure a casa e aspetta il vestito che la sarta ti manderà fra poco. Verrai all'Opera. Con me.

Stefania                         - Ci pensi tu a farmi portare il ve­stito?

Adriano                         - Si.

Stefania                         - Mi permetti di aspettarlo qui, da te, invece di tornare a casa?

Adriano                         - Come vuoi.

Stefania                         - (spiegando) Ho lasciato su, in ca­mera tua, tante piccole cose che mi servono...

Adriano                         - Prego, prego.

Stefania                         - Se non ti dispiace, vado su adesso...

Adriano                         - Va' pure.

Stefania                         - (avvicinandoglisi) Non sei mica in collera con me?

Adriano                         - Oh, no! (Le accarezza un braccio).

Stefania                         - (porgendogli la  mano perché egli lei baci) Allora arrivederci.

Adriano                         - (baciandole la mano) Arrivederci. (Stefania esce per la sinistra. Egli va al te­lefono, forma un numero). (Al telefono) Pronto?... La Gazzetta?... Sono il Presidente. Datemi l'Amministratore... Pronto?... Come?... Ma no, caro Rossi, sono Valfreda... (Ascolta; e prima non capisce; poi con meraviglia) Una lettera di dimissioni? Mia? E quando?... (Ascolta con crescente stupore; poi): Ma ci dev'essere un equivoco! Io non mi sono mai dimesso... E con me tutto il Consiglio?... Ma, Rossi, siete sicuro di quello che dite? (Ascolta ancora; ha l'aria di ren­dersi lentamente conto di tutto; non inter­rompe più il suo interlocutore; dice solo alla fine tristemente): Ho capito. Buona sera. (Depone il microfono, poi con un gesto d'ir­ritazione suona un campanello e a Remo, che appare subito dopo, domanda): Ma ch'è successo durante la mia assenza?

Remo                            - (simulando perfettamente). Niente, si­gnore, ch'io sappia.

Adriano                         - Niente in casa?, niente fuori di casa?...

Remo                            - Niente, signore. A meno che, durante i giorni in cui sono stato fuori anch'io...

Adriano                         - Siete stato fuori anche voi? E dove?

 

Remo                            - Vi avevo avvertito, signore, prima della vostra partenza: e voi, gentilmente, mi avevate dato il permesso...

Adriano                         - Non mi ricordo.

Remo                            - Mi dispiace, signore. E chiedo perdono. Ma, come sapete, avevo da sistemare i ra­gazzi; dovevo scegliere per loro una casa a Milano, dove intendono trasferirsi ora che hanno terminato gli studi... Del resto, a cu­stodia del palazzo, c'era il resto della ser­vitù, la quale soltanto da due giorni è an­data in licenza...

 

Adriano                         - È andata in licenza proprio alla vi­gilia del mio ritorno?

Remo                            - Con il permesso del signor ammini­stratore; il quale forse non immaginava im­minente il vostro ritorno.

Adriano                         - E l'amministratore dov'è?

Remo                            - Ha detto che sarebbe venuto a Napoli, per incontrarvi.

Adriano                         - Ma chi gli ha dato appuntamento a Napoli?

Remo                            - Non so, signore. Gli ultimi giorni il cavaliere s'è visto poco. Ma già sabato scor­so, prevedendo di non incontrarvi, aveva lasciato per voi la corrispondenza insieme con una sua lettera...

Adriano                         - Una sua lettera?

Remo                            - È di là nello studio, signore. Volete che la prenda?

Adriano                         - (con un presentimento). Prendetela. (Remo esce per il fondo e rientra subito, recando un vassoio sul quale è un pacco di lettere normali e telegrammi, oltre una vo­luminosa busta gialla).

Remo                            - (indicando le lettere) Questa è la cor­rispondenza; e questa (accenna alla busta gialla) è la lettera del cavaliere.

Adriano                         - (prende la busta gialla, l'apre nervo­samente, vi trova molti atti legali, dice con meraviglia) Tutta carta bollata... (E poi, scorrendo rapidamente i fogli) Un precetto... un altro precetto... una copia di pignora­mento... Hanno pignorato il palazzo e la mobilia?... (Nervosissimo) Per conto del Si­gnor Ajani? Ah, perbacco! (Butta tutto, con violenza, sul vassoio. Il vassoio cade dalle mani di Remo per terra. Remo si piega a raccogliere il vassoio e le lettere. Adriano, agitatissimo, continua): Ma chi è questo signor Ajani che mi avete messo fra i piedi?

Remo                            - (raccogliendo la roba caduta) Un usu­ra o, signore

Adriano                         - Un brigante! (ÀI colmo dell'ira non controlla più i suoi gesti, tira pugni in aria, butta giù una sedia) E da brigante lo trat­terò! Lui, e quell'imbecille del mio ammini­stratore che ha lasciato arrivare le cose fino a questo punto! Li manderò in galera tutt'e due! Li stritolerò! (Poi sempre adirato, ma con un altro tono) Ma anche voi, Remo, avreste dovuto farvi vivo, cercarmi, avver­tirmi...

Remo                            - (che ha finito di raccogliere le lettere e le ha messe nel vassoio su un mobile) Chiedo scusa, signore; ma io ho ignorato tutto, fino a questo momento. Il cavaliere non mi ha mai fatto capire che... (Una pau­sa) Credete che la cosa sia irreparabile? (Re­mo non ha ancora finito di rivolgere la sua ipocrita domanda, quando dalla destra è en­trata Lorenza). Lorenza      - (a Adriano) Signore, c'è la signora contessa.

Adriano                         - Chi è la signora contessa? Lorenza           - Vostra moglie, signore. (E contemporaneamente Lorenza si scosta per lasciar passare Attilia Valfreda, gentildonna sulla cinquantina, molto loquace in vestito da viaggio).

Attilia                            - (con tono allarmato). Adriano!

Adriano                         - Che c'è? (Quando Attilia incomin­cia a parlare, Lorenza e Remo escono per la destra).

Attilia                            - (rapidamente) Sono io che debbo domandarlo a te. Le lettere del tuo ammi­nistratore prima sono diventate sibilline, poi hanno incominciato a farsi aspettare, poi non sono arrivate affatto. Da due mesi non arri­vano più. Tu sai che la mia poca rendita non mi basta, per vivere. Il tuo assegno mensile, più che necessario, mi è indispen­sabile. Non tanto al marito lo ricordo, quan­to al gentiluomo...

Adriano                         - (come investito dalla loquacità di lei) Un momento! Fermati. Siedi. Riprendi fiato.

Attilia                            - (con la stessa rapidità di prima, se­dendo) Ma io non ho molto tempo da de­dicare a te, sai. Sono a Roma di passaggio. Prima di andare dal mio legale, son venuta da te per amicizia. Le sentenze del tribunale non sono mica pezzi di carta. Sa­rebbe troppo comodo ottenere una separazio­ne coniugale per disinteressarsi della propria moglie. Oltre tutto, porto il tuo nome. Non me lo sono mai levato, appunto per costrin­gerti a rispettare il tuo nome anche se ti sei abituato a non rispettare me...

Adriano                         - Ma il mio nome merita di essere ri­spettato, non foss'altro perché ... è silenzioso. Io rispetterei anche te, se tu parlassi un po' meno... o anche meno rapidamente.

Attilia                            - Quando m'hai sposata, ti piaceva che io parlassi!

Adriano                         - Si vede che l'amore non soltanto è cieco, ma è anche sordo.

Attilia                            - Comunque, vuol dire che allora mi amavi!

Adriano                         - L'amore e il morbillo sono malattie inevitabili nella prima età. (Una pausa).

Attilia                            - Dunque debbo credere che tu intendi disimpegnarti dall'obbligo che t'impone la sentenza del Tribunale?

Adriano                         - Io non ho detto questo.

Attilia                            - E come mai per due mesi di seguito il tuo amministratore non s'è fatto vivo?

Adriano                         - Può darsi che sia morto.

Attilia                            - Morto?

Adriano                         - Per fortuna dell'umanità, anche gli amministratori muoiono. E qualche volta, purtroppo, muoiono prima di andare in galera.

Attilia                            - Era un amministratore disonesto il tuo?

Adriano                         - Nessuno si assumerebbe il fastidio di amministrare il denaro altrui se fosse onesto.

Attilia                            - E tu ti sei lasciato derubare tanti anni? Così?

Adriano                         - Bisogna lasciarsi derubare per vi­vere senza noie.

Attilia                            - Tutto questo non sarebbe accaduto, se tu mi avessi lasciata vivere al tuo fianco!

Adriano                         - Del mio fianco fanno parte anche le mie orecchie. (Un'altra pausa).

Attilia                            - (alzandosi) Ma insomma, sia come vuol essere, io attenderò fino a stasera che tu compia il tuo dovere.

Adriano                         - Ecco: attendi.

Attilia                            - Che cosa intendi dire?

Adriano                         - Quello che ho detto. Attendi. Aspet­ta. C'è tanta gente che stasera aspetta qual­che cosa da me. Poco fa n'ero indispettito e irritato. Ma adesso ho ritrovato tutta la mia calma, e ammetto di doverlo proprio a te. Come vedi, il mio debito verso di te non è soltanto pecuniario. Gli uomini non sorri­dono più quando alla fine del banchetto vie­ne il conto; e io invece sorrido. Sorrido perché non posso pagare.

Attilia                            - (sbalordita) A questo sei ridotto! (Bussano alla porta di destra).

Adriano                         - Avanti!

Remo                            - (entrando) Chiedo perdono, signore; ma avrei qualche cosa di molto urgente da comunicare.

Adriano                         - (calmo) Che cosa?

Remo                            - (mostrandosi perplesso). Non so se...

Adriano                         - Parlate pure.

Remo                            - (porgendo un foglio di carta bollala in un vassoio) Hanno lasciato questo... (Stava per dire « atto legale »; si ferma).

Adriano                         - Di che si tratta?

Remo                            - Veramente... non ho capito bene...

Adriano                         - Date. (Remo si avvicina; Adriano prende il foglio, lo spiega, poi cava di tasca un monocolo, legge senza batter ciglio; infi­ne, rivolto alla moglie, dice): È un bando di vendita. Mi si annunzia la vendita di questa casa...

Remo                            - L'ufficiale giudiziario pretendeva di af­figgerne una copia sul portone del palazzo; ma io... l'ho evitato...

Adriano                         - (buttando il foglio sul vassoio). Pote­vate lasciar fare.

Remo                            - Mi dispiaceva che i signorini, rien­trando...

 

Adriano                         - I signorini?

Remo                            - Hanno telefonato poco fa dalla stazio­ne. Sono arrivati col treno delle 19,30. Mi son permesso di mandare la macchina, senza chiedervi l'autorizzazione, perché temevo di disturbare. Ma ora... dopo l'arrivo di questo atto... (Poi, per levarsi d'imbarazzo): Se per­mettete, vado ad attendere i signorini... (Adriano e Attilia hanno ascoltato l'annun­zio con una emozione profonda ma ben dis­simulala. Adriano ha avuto soltanto un lieve tremito nervoso nella mano sinistra, dalla quale il monocolo è caduto. Remo si piega a raccoglierlo, glie lo inette in tasca, s'inchi­na dicendo): Con permesso. (Ed esce. Una pausa).

Attilia                            - Arrivano i nostri figli, Adriano?

Adriano                         - Sì.

Attilia                            - Permetti che io li saluti qui?

Adriano                         - Come vuoi.

Attilia                            - Essi non sanno nulla... di quanto è accaduto?

Adriano                         - Credo di no.

Attilia                            - Dovevano arrivare stasera?

Adriano                         - Che io sappia, no.

Attilia                            - Forse l'amministratore... non ha pa­gato nemmeno per loro?

Adriano                         - Può darsi.

(Si ode un rumore di passi affrettati, un vocio allegro; e subito si riapre la porta di destra, dalla quale irrompono nel salotto Leo­nardo e Marinella, giovanissimi, elegantis­simi, allegri).

Leonardo e Marinella    - (insieme) Papà! (Si avvicinano tutti e due a Adriano, lo bacia­no contemporaneamente).

Adriano                         - (sforzandosi a sorridere) Non vedete chi c'è? (Allude a Attilia).

Leonardo e Marinella    - (insieme, voltandosi) Oh, mamma! (Hanno detto « mamma » con meno calore e meno gioia che « papà ». Tut­tavia Attilia li guarda con tenerezza).

Attilia                            - (stendendo le braccia) Figli miei! / due ragazzi si avvicinano lentamente a lei, la baciano, l'uno su una gota, l'altra sull'altra. Attilia continua): Come mai così presto?

Marinella                       - Il direttore dell'Albergo ci ha det­to di aver ricevuto una telefonata di papà che ci aspettava...

Leonardo                      - (porgendo una lettera al padre) An­zi ci ha dato questa lettera da consegnarti. (Adriano prende la lettera, comprendendo, senza parlare).

Marinella                       - Figurati che non avevamo nean­che il denaro per il viaggio...

Leonardo                      - Ha dovuto prestarcelo il direttore. Quel cretino del cavaliere non ci mandava un soldo da più di un mese... Adesso che lo vedo, gli tiro i baffi!

Marinella                       - Be', papà, perché questa volta non sei venuto tu a prenderci?

Adriano                         - Non potevo... perché ... proprio sta­sera aspettavo la mamma... e...

Attilia                            - (con rapida decisione) ... e siccome dovete venire a passare un mese con me a Ravello... (Guarda Adriano, come per chie­dere il suo assenso).

Adriano                         - Ecco: appunto.

Marinella                       - (battendo le mani, con gioia) A Ravello? Oh, che bellezza! Brava, mamma. A Ravello ci sono già stata una volta. Tu no, Leonardo. Vedrai com'è bello. (Prende il fratello per una mano, lo trascina verso lo studiò) Vieni, vieni, ti faccio vedere sulla Guida del Touring... (Entra nello studio con Leonardo, si ferma dinanzi a uno scaffale, dove sono allineati i volumi del Touring, legge sul dorso dei volumi): Piemonte, Lom­bardia, Veneto... Marche, Umbria... Ecco: <( Napoli e dintorni »; qua! (Apre il volume su un tavolo. Ella e Leonardo si piegano a guardare l'indice. La voce di lei, ora si sente appena): Ravello, Ravello... pagina 509... (Mentre ella cerca la pagina, Adriano si volge a Attilia, la guarda con emozione e grati­tudine) .

Adriano                         - Ti ringrazio, Attilia. (Attilia volta le spalle ai figli per nascondere il pianto).

Fine del primo tempo

ATTO SECONDO

Vasto salone di un grande albergo a Milano. Colonne a destra, a sinistra e nel fondo in luogo delle pareli, oltre le colonne di destra e di si­nistra, salotti, sale di scrittura, sale di lettura. Oltre le colonne del fondo, una galleria con scale laterali che portano ai piani superiori. Al di là della galleria, il portierato e gli uffici. Fra il primo e il secondo atto sono passati tre anni.

(Quando si alza la tela sono le dieci di una sera invernale. È un'ora di sosta nella vita dell'albergo. Nel salone si vede soltanto Adriano, che è in frac, sprofondato in una poltrona della parte destra, e legge un gior­nale. Poco dopo entrano dal fondo Giosuè Fonseca e Tullia: lui, maturo tipo di vita­iolo, veste lo smoking; lei, giovane ballerinetta del varietà, è in vestito da mezza sera e fuma. Tutt'e due vengono a sedere su due poltrone del lato sinistro).

Giosuè                           - (sedendo). Che ti dicevo io?

Tullia                             - Hai ragione. Ma non vorrai dire che il « Paradiso » sia un brutto albergo.

Giosuè                           - Certo, il Paradiso dove abita il Pa­dreterno... Ma il « Paradiso » dove abitavi tu...

Tullia                             - Perché ? Non c'era la stessa libertà che c'è qui?

Giosuè                           - Sì; ma era una libertà scoperta, senza attrattiva. Uomini e donne che entrano e escono come in un tunnel. Manca la discre­zione; manca il mistero. In un albergo gran­de come questo, si fanno magari le stesse cose; ma con quel tanto di pudore, che è il sale, il profumo dell'avventura. E poi! e poi! L'ambiente. Lo sfondo. Le persone...

Tullia                             - Chi è quel signore che legge il gior­nale?

Giosuè                           - (si volta a guardare Adriano, il cui viso è nascosto dal giornale) . Non lo vedo.

Tullia                             - Tu li conosci tutti, i clienti di questo albergo?

Giosuè                           - Quasi tutti. Almeno quelli che vi di­morano da parecchi mesi come me. Ce ne  sono alcuni che vi dimorano addirittura da anni. (Si volta nuovamente a guardare Adriano che in questo momento mostra il viso nell'alto di voltare la pagina del gior­nale. Nel vederlo ha un gesto di stupore e di sdegno): Oh! (Si alza, come per veder meglio Adriano che ora ha nuovamente il giornale contro il viso. Dice fra se): Pos­sibile?

Tullia                             - (seguendo i movimenti di Giosuè) Che c'è?

(Giosuè si è ora avvicinato a Adriano, lo guarda di lato. Adriano non se ne dà per inteso, come se non se ne accorgesse).

Giosuè                           - (guardando Adriano; ad alta voce) Ma... dico... mi sbaglio?

Adriano                         - (volgendosi) Come?

Giosuè                           - (con tono sdegnato). Domandavo se mi sbaglio!

Adriano                         - (indifferente) Può darsi.

Giosuè                           - È incredibile!

Adriano                         - Che cosa?

Giosuè                           - È incredibile che voi, sprofondato in una poltrona di questo salone, ve ne stiate a leggere tranquillamente il giornale...

Adriano                         - (guarda prima il giornale, poi Giosuè) Perché ? È vostro? (Fa l'atto di porgerglielo).

Giosuè                           - E fate anche lo spiritoso? (Poi, ener­gico, a Tullia) Tullia, vieni via!

Tullia                             - (alzandosi) Ma che c'è?

Giosuè                           - C'è che questo albergo è diventato inabitabile. Su, su, vieni con me      - (E men­tre s'avvia per il fondo seguito da Tullia, continua) È la prima volta in vita mia che nel salone di un grande albergo, nell'ora più delicata della sera...

(È uscito con Tullia gesticolando, minac­ciando; ha varcato la galleria, s'è avviato verso gli uffici; mentre Adriano, stringendosi nelle spalle, ha ripreso la lettura. Subito dopo si vede nella galleria Giosuè additare Adria­no a Silvio Costa, direttore dell'albergo, che veste il tight e, guardando con stupore Adria­no, gli si avvicina).

Silvio                             - (autoritario, a Adriano) Ma che cosa fate qui?

 (Solo adesso Adriano, guardandosi intorno e guardando Silvio, sembra rendersi conto della meraviglia altrui. Balza in piedi, but­tando per terra il giornale. Si vede finalmente che egli è vestito da cameriere).

Adriano                         - (a Silvio) Scusate, signor direttore.

Silvio                             - L'altro giorno nella sala da pranzo; adesso addirittura nel salone... Ma dove lo avete fatto il cameriere prima di venire qui?

Adriano                         - In una casa privata, signor direttore. Nelle case private succede spesso che quan­do non ci sono i padroni...

Silvio                             - Ma volete ricordarvi, sì o no?, che questo è un albergo, non è una casa privata?

Adriano                         - Chiedo nuovamente scusa. Ma il sa­lone era vuoto; quindi... distrattamente...

Silvio                             - Io non ho mai avuto un cameriere come voi!

Adriano                         - Lo credo.

Silvio                             - Voi, qui, siete un cameriere, non siete un cliente!

Adriano                         - Me n'ero dimenticato.

Silvio                             - Ebbene, ve lo ricorderò io. Per ora a suon di multe; e poi, quando avrò perduto la pazienza, con il licenziamento. Intesi?

Adriano                         - Sì, signor direttore.

(Silvio esce per il fondo. Lo si vede sostare ancora un poco nella galleria, chiedere scusa a Giosuè e a Tullia, poi sparire verso gli uffici. Giosuè e Tullia rientrano soddisfatti nel salone e siedono a sinistra, come prima, ma verso l'angolo del fondo. Dalla destra in­tanto entra Ugo, altro cameriere dell'albergo)

Ugo                               - (a Adriano) Ma che vuole quello schifoso?

Adriano                         - (distratto) Quale?

Ugo                               - Quello schifoso del direttore.

Adriano                         - Mah! Niente.

Ugo                               - Ce l'ha sempre con noi! Lui ce l'ha con noi, i clienti ce l'hanno con noi. Ma tu sei uno scemo, perché non gli porti via mai niente. Io gli porto via tutto quello che pos­so. Anche la moglie! I padroni bisogna trat­tarli così.

Adriano                         - È proprio necessario?

 Ugo                              - Di'! Ma dico: da che mondo vieni? Ma veramente vuoi continuare a lavarti le mani prima di servire a tavola? a non pulirti le scarpe col tovagliolo? a non toccare il vino e l'acqua minerale che lasciano nelle botti­glie? Quelli sono dei fetenti, caro mio; ci calcolano meno delle loro vecchie ciabatte. (Giosuè batte l'anello sul tavolino per chia­mare un cameriere, Ugo continua sottovoce): Ecco qua: adesso chiama, il beccaccione! (E poi, ad alta voce): Pronto, signore. (Va verso Giosuè e Tullia, riceve un'ordinazio­ne, esce per il fondo. Contemporaneamente dalla sinistra arriva Giacomo Senna, vec­chietto molto elegante, che accompagna una altra ballerina, Daria, e va a sedere sulla poltrona occupala prima da Adriano. Daria siede vicino a lui, che, appena seduto, chia­ma).

Giacomo                       - Cameriere!

Adriano                         - (che ha guardato Giacomo e ha rico­nosciuto in lui un vecchio amico, ha un lieve moto dì disappunto; ma si domina e risponde subito) prego, signore.

Giacomo                       - (lo guarda perché sembra anche a lui di aver riconosciuto Adriano e ha un gesto come chi non creda ai propri occhi; poi, dopo un breve silenzio, dice): Si può ancora pranzare a quest'ora?

Adriano                         - Non credo, signore. Comunque, pos­so domandare.

Giacomo                       - (sempre col tono di chi non creda ai suoi occhi) Ci basterebbe una piccola cena fredda; perché siamo arrivati eh'è poco e preferiremmo non uscire. (Poi a Daria) O tu preferisci uscire, cara? ,

Daria                             - Come vuoi.

Giacomo                       - (c. s. a Adriano) Allora... volete domandare, per favore?

Adriano                         - Si, signore

Giacomo                       - (c. s.) E intanto portateci due ver­mut.

Adriano                         - Subito, signore. (Esce per il fondo).

Giacomo                       - (che lo ha seguito con lo sguardo) Ma sai ch'è straordinario? Quel cameriere è la copia vivente di Adriano Valfreda.

Daria                             - Di chi?

Giacomo                       - Di un mio vecchio amico che non vedo da qualche anno. Ma sai: due gocce d'acqua. Se non si trattasse di un cameriere, ti assicuro, giurerei che...

Daria                             - Forse è un socio.

Giacomo                       - Un socio? (Ride) Ah, vorrai dire un sosia!

Daria                             - Sì, appunto, un sosia. Un gemello sia­mese.

Giacomo                       - (ridendo, con affettuoso compatimen­to) Cara! (Una pausa) Però, meriti un rimprovero! Perché non sei venuta a incontrarmi alla stazione!

Daria                             - E tu meriti una romanzala, perché sei arrivato con due giorni di ritardo!

Giacomo                       - Non è colpa mia. Se non mi occu­passi un poco io dei miei affari, guai! Ma, in compenso, mi tratterrò con te tutta la settimana. Sei contenta?

Daria                             - Sì.

Giacomo                       - Me lo dici senza gioia.

Daria                             - Tu sai che non sono fatta per le ma­nifestazioni posteriori.

Giacomo                       - (ridendo) Esteriori, cara!

(Ride ancora, mentre Adriano torna con due bicchieri di vermut in un vassoio, e mentre, contemporaneamente, Ugo serve il vermut a Giosuè e a Tullia).

Adriano                         - Ecco, signore. (Depone il vassoio) Fra dieci minuti sarà pronta una cena fredda. (Il riso dì Giacomo si smorza ancora una volta nella meraviglia al suono della voce di Adriano. Egli lo guarda ancora attenta­mente).

Giacomo                       - (a Adriano) Scusate; ma la vostra

 somiglianza con un mio vecchio amico è così perfetta che...

Adriano                         - Somiglio al conte Adriano Valfreda: lo so.

Giacomo                       - Ah, ecco! Lo sapete anche voi! Al­tri, probabilmente, vi hanno detto la stessa cosa.

Adriano                         - Sì, signore. E io conobbi il conte Valfreda. Anche lui, vedendomi, ebbe l'im­pressione di vedersi in me. Mi chiese subito dove fossi nato. Quando seppe che sono nato all'estero, mi fece l'onore di scherzare: « Si vede - mi disse - che mio padre, in gio­ventù, dev'essere capitato dalle vostre parti». Al che io dovetti osare di rispondere: « No, signor conte. So che c'è capitata vostra ma­dre ». (Una pausa. Daria, che ha stentato a capire lo spirito della risposta, ride con ri­tardo) .

Daria                             - Ah, ah! Questa sì ch'è buona!

Adriano                         - (guardandola con compatimento) Ma non è nuova, signora. È attribuita a un contadino meridionale incontratosi con un prin­cipe borbonico che gli somigliava perfetta­mente. (Fa l'atto di allontanarsi),

Giacomo                       - Un momento, cameriere.

Adriano                         - (ritornando sui suoi passi) Prego, signore.

Giacomo                       - Ma quanto tempo è che avete visto Adriano Valfreda?

Adriano                         - (vago). Non ricordo, signore. Ma dev'essere molto tempo - forse tre anni - perché egli frequentava ancora gli alberghi di lusso, non era decaduto...

Giacomo                       - Oh, perbacco! Ma allora è vero che...

Adriano                         - Io conosco la sua storia... per averla sentita raccontare.

Giacomo                       - E cioè?

Adriano                         - (con amarezza e malinconia) È una storia comune, vorrei dire addirittura banale.

Giacomo                       - Si rovinò al gioco? in borsa? con le donne?

Adriano                         - Si rovinò. I modi di rovinarsi sono infiniti.

Giacomo                       - Eppure la sua fortuna era colossale.

Adriano                         - La fortuna dei suoi avi, non la sua. Anche la sua nobiltà era soltanto quella dei suoi avi. Bisognerebbe che il figlio di un no­bile fosse meno nobile di suo padre, e suo figlio meno nobile di lui, finché, dopo un certo numero di generazioni, il discendente di queste famiglie dovesse egli stesso meritarsi il titolo originario o rientrare nella folla.

Giacomo                       - (ripensandoci) Oh, perbacco! perbac­co! E sua moglie? I suoi figli?

Adriano                         - Dalla moglie era già diviso legal­mente... mi pare. I suoi figli andarono con la moglie, che possedeva ancora una piccola parte della propria dote...

Giacomo                       - E lui?

Adriano                         - Mah! Sarà morto.

Giacomo                       - Morto?

Adriano                         - Non si muore solo fisicamente. (Una pausa) Comandate altro, signore?

Giacomo                       - (pensieroso, guardandolo) No, grazie. Ma è curioso che... parlando con voi... mi è parso proprio di parlare con lui... Tanto che vorrei chiedervi un favore.

Adriano                         - Prego, signore.

Giacomo                       - (cercando le parole) È un po' diffi­cile a dirsi... Voi avrete capito che io fui suo amico per molti anni... e sebbene sia tanto tempo che non lo vedo... adesso che ho visto voi... Insomma, preferirei che non foste voi a servirmi a tavola... Mi farebbe impressione.

Adriano                         - Capisco. Vi ringrazio. (Poi, correg­gendosi) Cioè, vi ringrazio per lui. (E poi, riprendendosi) Ma non bisogna credere a un fenomeno di metempsicosi. Sono disposto an­che a immaginare che lo spirito di Adriano Valfreda, volendo scegliere un corpo per purificarsi, potesse scegliere quello di un ser­vo come me. Servire è soffrire, e nulla è più purificante della sofferenza. Ma egli non do­veva credere più alla sofferenza dei servi, perché i suoi lo depredarono. Un certo Minorca, suo maggiordomo, si appropriò di metà della sua ricchezza, nascondendosi dietro le spalle di un usuraio...

Giacomo                       - (improvvisamente si alza, scattando). No, no, no! Io non posso più credere che tu non sia proprio Valfreda. Troppo gli somigli, troppe cose sai di lui, troppo bene parli per essere un cameriere...

Adriano                         - (dopo un breve silenzio) Avete altri ordini, signore?

Giacomo                       - Vuoi... volete proprio lasciarmi in questo dubbio?

Adriano                         - Non vi servirò a tavola, signore, per obbedirvi. (Gira rapido su se stesso e esce per il fondo).

Giacomo                       - (sedendo, a Daria) Tu capisci! S'è ridotto a fare il cameriere! Non ci posso pen­sare!

Daria                             - (che ha seguito il colloquio fra i due con una faccia da ebete) E che cos'è quella cosa che ha detto lui... la metsìcò... la mep-così. ;. ?

Giacomo                       - Ah, la metempsicosi, vuoi dire... (Ride) Cara! Sarebbe troppo difficile spiegar­telo. Pensa all'anima di un uomo o di una donna che si trasferisca nel corpo di un altro uomo o di un'altra donna, o di una pianta, o di un animale...

Daria                             - E anche quella di un animale si può trasferire nel corpo di un uomo o di una donna?

Giacomo                       - (guardandola, con intenzione) Ah, certo, certo!

(Nel frattempo Ugo si è avvicinato, prove­nendo dal fondo).

Ugo                               - Il pranzo è servito, signori.

Giacomo                       - (alzandosi) Andiamo.

Daria                             - Sì, andiamo.

(Mentre Giacomo e Daria si avviano per il fondo, Ugo tracanna rapidamente i due bic­chieri di vermut che sono ancora intatti e poi prende lentamente il vassoio, si accinge a uscire).

Giosuè                           - (guardando l'orologio, a Tullia) Fac­ciamo in tempo a vedere l'ultimo spettacolo.

Tullia                             - Ma sì! Questo albergo è un mortorio. Almeno, al « Paradiso »... (Si alzano, escono. Contemporaneamente dal fondo entra Silvio, che incontra Ugo).

Silvio                             - (a Ugo) Dite in cucina che preparino un'altra cena fredda per quattro.

Ugo                               - Nuovi arrivi?

Silvio                             - Si.

(Ugo esce. Silvio si avvia verso la sinistra per incontrare qualcuno che sta entrando. Si tratta di Remo Minorca, che indossa un ve­stito scuro sul quale stride il colore impro­prio delle scarpe, della cravatta, del fazzo­letto. Appena egli è entrato, Silvio gli chiede): Come avete trovato l'appartamento, signore?

Remo                            - (con aria da nuovo ricco) Buono, buono.

Silvio                             - La signora e i signorini arrivano più tardi?

Remo                            - E già. Col treno di Venezia. Sono stati a Venezia con i due cani e la servitù... Loro vanno tutti gli anni a Venezia. Io no. Non mi piace.

Silvio                             - (che lo guarda con occhio da intendi­tore) Capisco.

Remo                            - (con grossolana malizia) Io vado... al­trove. In buona compagnia.

Silvio                             - Ah, forse la signorina che è arrivata con voi?...

Remo                            - Ecco: bravo! Pago tutto io per lei. Il suo conto a me. Ma, per carità, che non se ne accorga la mia signora!

Silvio                             - Capisco.

Remo                            - (guardando l'ambiente) Però, qui mi spellerete! Quanto costano queste camere?

Silvio                             - Oh, signore! Per un uomo come voi...

Remo                            - Lasciamo andare, lasciamo andare! I denari non sono mai troppi.

Silvio                             - La camera vostra, centocinquanta lire. Quelle dei due figlioli novanta lire ciascuna. Quell'altra della... (Si ferma a cercare la parola).

Remo                            - (con un sorriso idiota che vorrebbe es­sere malizioso) Eh, eh! Della mano sinistra, insomma...

Silvio                             - Ecco. Duecentocinquanta.

Remo                            - Così cara?

Silvio                             - La signorina ha chiesto una camera matrimoniale con salotto, ingresso, bagno e terrazza.

Remo                            - (annuvolandosi) E già! Lei... abituata

com'è...

Silvio                             - Per la servitù e i cani faremo un ar­rangiamento. Per quell'altro signore che do­vrà arrivare...

Remo                            - (spiegando) Ajani, il mio amministra­tore. Oh, per lui una cameretta modesta, eh!

Silvio                             - Va bene, signor Minorca. Io ho ordi­nato la cena per quattro. Debbo ordinarla anche per l'amministratore?

Remo                            - (rassegnalo) Già! Anche gli amministra­tori hanno l'abitudine di mangiare. Silvio         - (con un sorriso malizioso) Sopratutto loro. Con permesso, signor Minorca. (Esce per il fondo).

(Remo si passa una mano sulla nuca in se­gno di disappunto e preoccupazione; e il suo gesto è sorpreso da Stefania che arriva dalla sinistra in vestito da mezza sera).

Stefania                         - Che hai?

Remo                            - Niente, niente. (E poi, con goffa ga­lanteria) O, per meglio dire, ho te.

Stefania                         - Bene. Ma cerca di avere me sola, in questi giorni. Cerca di spedire altrove la tribù.

Remo                            - La tribù?

Stefania                         - Sì, insomma, la tua famiglia.

Remo                            - E me lo dici adesso che stanno per arrivare? Stefania. Te lo dico adesso perché ci ho ri­pensato. Non pretenderai che io ti divida con la signora Minorca e faccia i comodi del­le numerose persone del suo seguito. Pensa che stasera mi toccherà di incominciare la commedia dell'incontro casuale, di cenare sola in camera... No, no, caro. Io sono abituata diversamente.

Remo                            - Ma tu capisci che io non so che cosa pensare per mandarli via...

Stefania                         - Litiga con tua moglie. Non sei ca­pace di litigare con tua moglie?

Remo                            - Poveretta! Mi dispiace.

Stefania                         - Ti dispiace? Ma allora vuol dire che non sei innamorato di me.

Remo                            - Come non sono innamorato? E se non fossi innamorato, spenderei per te tutto quel­lo che spendo?

Stefania                         - (sogghignando) Perché ? Ti costo troppo?

Remo                            - (umile) Ma no. Figurati! Dicevo così per dire.

Stefania                         - E allora che uomo sei, se non sai litigare con tua moglie? D'altra parte, bi­sogna pure che ti abitui all'idea di separarti da lei!

Remo                            - Separarmi?

Stefania                         - Naturale. Un uomo arrivato alla tua condizione non può che separarsi dalla moglie. I grandi signori hanno sempre fatto così. Non ti ricordi Valfreda? Lui s'era am­mogliato per non correre il pericolo di do­versi ammogliare un'altra volta; ma, mes­sosi al sicuro, si era affrettato a chiedere la separazione coniugale.

Remo                            - (rassegnato) Vedrò, vedrò. (Una pausa) Ma,tu.,, mi vuoi veramente bene?

 

Stefania                         - (accarezzandolo, falsa) Ma se non ho amato mai nessun uomo, prima di te!

Remo                            - (baciandole la mano) Grazie, cara!

Stefania                         - (sedendo su una poltrona di sinistra) Ora siedi un poco. (Remo siede, felice) Quan­to tempo abbiamo ancora a nostra disposi­zione?

Remo                            - (guarda l'orologio) Ohe! Appena un quarto d'ora.

Stefania                         - Il tempo di prendere un aperitivo.

Remo                            - (battendo le mani) Cameriere! (E poi a Stefania) Io credo meglio che ci facciamo trovare qua insieme. Ci siamo incontrati per caso. Non ti pare? (Poi, battendo nuova­mente le mani) Ehi, cameriere! (Poi a Ste­fania) Del resto, sai che cosa ho fatto inten­dere a mia moglie?

Stefania                         - Che cosa?

Remo                            - (lieto della sua trovata) Che tu sei l'amante di Ajani...

Stefania                         - (fingendo indifferenza) Ah, sì?

Remo                            - (c. s.) E siccome Ajani arriva stasera con loro... (Batte nuovamente le mani per chiamare il cameriere) Questi camerieri tutti eguali!

Stefania                         - Ma suona un campanello!

Remo                            - Ah, già! (lo cerca con lo sguardo).

Stefania                         - Eccolo. (Preme lei stessa un bot­tone eh'è sul tavolinetto).

Remo                            - Capisci? Lei ti trova qua, e crede che tu sia qua per Ajani... (Mentre egli parla, entra dal fondo Adriano, che si avvicina. Remo continua): lo intanto avverto Ajani, in modo che lui faccia, finta di corteggiarti...

Adriano                         - (distratto, senza guardarli) Prego, signori.

Remo                            - Portateci due buoni aperitivi. (Così dicendo, s'è voltalo a guardare Adriano. L'ultima parola gli si spezza fra i denti. Istin­tivamente, egli balza in piedi, si mette sull'attenti, s'inchina) Buona sera, signore...

Stefania                         - (che ha seguito il movimento di Re­mo, vede Adriano, balza in piedi) Oh!

Adriano                         - (che soltanto ora ha guardato l'uno e l'altra, ha una risatina sarcastica; poi, as­sumendo un atteggiamento impassibile) Prego, signori. Comandate?

Remo                            - (quasi balbettando) Ma... veramente... noi... avevamo chiamato... il cameriere...

Adriano                         - Eccolo, signore. Sono io.

Remo                            - (c. s.) Non... non... capisco.

Stefania                         - (facendosi forza) Ma, che cos'è que­sta commedia?

Adriano                         - Quale?

Stefania                         - Quella che stai recitando tu in que­sto momento!

Adriano                         - Se bastasse portare una cravatta nera sul frac per recitare la parte del cameriere, potrei ben essere scambiato per un attore. Ma io non sono un attore, signora. Sono un cameriere.

Remo                            - (con profondo stupore) Un cameriere, voi?

Adriano                         - Che cosa avrei potuto fare io al pun­to dove ero arrivato? I capovolgimenti so­ciali, per essere perfetti, non tollerano vie di mezzo, così nella società come fra gl'indi­vidui. Forse dipende dal fatto che esiste an­cora una divisione troppo netta fra servi e padroni. Una volta avevo assistito, in teatro, a una vera commedia, nella quale il padrone assumeva provvisoriamente le funzioni del suo servo, e quel padrone, in quelle funzio­ni, non sapeva, fra l'altro, come si dispones­sero le posate a tavola. Errore di un comme­diografo che certamente non era mai stato né servo né padrone. In realtà, chi nella vita sia stato padrone soltanto fra le pareti do­mestiche e le sale degli alberghi, sa perfetta­mente tutte le maniere di essere servito, e quindi di servire. Ora eccomi nelle vesti del servo a mettere in pratica la mia lunga espe­rienza padronale. La vita continua; anche se continua a modo suo.

Stefania                         - Ma allora è proprio vero che tu... che voi...

Adriano                         - Potete darmi indifferentemente del tu e del voi, signora, perché fra servo e pa­drone la questione rimane puramente gram­maticale. Del resto, io ho scelto questa li­vrea anche per passare inosservato. La ser­vitù non ha personalità, e non ha neanche sesso; almeno per i padroni. È vero che qual­cuno mi riconosce e fa finta di addolorarsi; ma io m'affretto a negare di essere quel Val­freda che si compiaceva di vedere schiene curve ai suoi piedi. Con voi due non ho mentito, sia perché era inutile, sia perché mi piaceva ripagarvi di qualche umiliazione pas­sata. Come vedete, ho scelto il mio purga­torio prima ancora di dare un addio alla vita. (Una pausa) Allora, due aperitivi, mi pare.

Remo                            - No... Un momento... Non posso per­mettere... Piuttosto vado io...

Adriano                         - (lo guarda da capo a piedi, sogghigna) Non ve lo consiglio, signor Minorca, perché il gesto scoprirebbe la vostra origine. (Cava dalla tasca sinistra dei pantaloni un monocolo e se ne serve per guardare meglio Remo) Oserei piuttosto suggerirvi qualche ritocco all'abbigliamento serale. Con un vestito scu­ro come il vostro si accordano le scarpe nere, una cravatta grigia, un fazzoletto bianco.. Io ho imparato la vostra arte ma voi non avete imparato la mia. (E, mentre Remo, confuso, esamina il proprio vestito) Del che, non vi faccio colpa, perché molti servi, co­me molte donne, sono insensibili a certe raf­finatezze dell'abbigliamento maschile.

Stefania                         - (con irritazione mal repressa) Lo dite per me?

Adriano                         - (ironico) Oh, no, signora! (E poi con altro tono) Ma certo è pericoloso per una donna della vostra classe non vigilare la ve­stizione di chi entra al vostro fianco nella vita mondana. L'ineleganza è contagiosa.

Stefania                         - (con acredine) Non vi è rimasta che la lingua, per offendere e ferire; ma con­tinuate a servirvene largamente...

Adriano                         - Avete ragione, signora. La lingua s'affila sulla mola delle sventure. Ma a voi che cosa è rimasto della eleganza, della bel­lezza, dell'intelligenza, che il mio amore vi aveva prestato? Voi avete l'aria di parlarmi come una vincitrice invincibile e non avete il merito che di esservi accodata al mio vin­citore. (Nel dir questo, ha fatto il gesto di rimettere in lasca il monocolo; ma il mono­colo è caduto per terra, e Remo, come prima, istintivamente, s'è piegato a raccoglierlo. Adriano, mentre Remo è ancora curvo, con­tinua, con sarcasmo): Eccolo, il mio vinci­tore       - (E poi a Remo, che gli porge il mono­colo): Tenetelo. Vi potrà servire. (E fila ra­pido verso il fondo).

Stefania                         - (investendo Remo) Tu sei uno scioc­co, perché ti comporti dinanzi a lui ancora come un servo! Hai avuto la forza di vin­cerlo; ma non hai quella di dominarlo!

Remo                            - Io voglio soltanto partire da questo albergo.

Stefania                         - Partire? Aver paura di quel rudere d'uomo che è obbligato a servirti? Ma t'im­pedirò io una vigliaccheria simile! Io avrei avuto pietà di lui se avesse accettato la sua sorte con umiltà. Ma non senti come rinfac­cia a me e a te la sua potenza passata? Non contento di avermi umiliata quando ero la sua amica, pretende di umiliarmi anche ora che possa ordinargli di servirmi a tavola; e così fa con te, così fa con tutti. Egli crede di essere nato dal grembo della moglie di Giove, dispensa grazie, dà lezioni di buon gusto, come se invece di crearsi una fortuna non avesse campato da parassita dilapidando quella dei suoi antenati. Io ti giuro che ti pianto, se non ti decidi a fare l'uomo. Dopo tutto, chi è l'imbecille fra voi due? Lui, che s'è fatto spogliare senza accorgersene, pensando che una nascita illustre dia tutti i diritti e che la ricchezza umana sia infinita! Dice di avermi prestato l'intelligenza? Ebbene, gliela mostrerò.

Remo                            - (che ha seguito l'acre sfogo di Stefania, montandosi) Sì, sì, hai ragione. Gliela mo­streremo.

(Riappare improvviso Adriano recante un vassoio con due aperitivi).

Adriano                         - Ecco, signori.

(La sua presenza fa sbollire le ire, ricaccia Remo in uno stato di soggezione, mentre Stefania freme e dopo aver vinto la propria esitazione, cerca un pretesto per dare un or­dine a Adriano).

Stefania                         - (energica) Questo aperitivo non mi va. Portatene un altro!

Remo                            - (umile) Vogliate scusarla...

Adriano                         - Scusarla di che? È un suo diritto, signore. Del resto l'errore mio è quello di averle portato un aperitivo che un tempo le piaceva. Adesso, evidentemente, i suoi gusti   - (con intenzione) sono cambiati, e quindi... Le porterò un aperitivo peggiore.

Stefania                         - Le vostre allusioni e la vostra iro­nia sono inutili. Voi, qui, siete un cameriere. Fate il cameriere!, perché tutto il resto non vi riguarda.

Adriano                         - (che ha ripreso il vassoio, ha un lieve fremito di sdegno; e poi, dominandosi a sten­to) Forse mi riguarda indirettamente, si­gnora; anche perché la fortuna dei Valfreda esercita ancora qualche fascino su di voi, sia pure attraverso... il nuovo proprietario.

Stefania                         - (a Remo) Questa è un'allusione a te. Difenditi!

Remo                            - (fa più volle l'atto di voler parlare ma non ci riesce).

Adriano                         - (dopo una breve attesa) Non c'è fretta per la risposta. Tanto, ci rivedremo. (Esce per il fondo).

Stefania                         - (a Remo, con violenza e disprezzo)

Stupido                         - (esce per la sinistra).

Remo                            - (rimane per un attimo intontito; poi, da solo, come parlando a Adriano) Per tua norma, signor conte Valfreda dei miei stivali, io me ne infischio! La tua prosopopea, me la metto sotto la suola delle scarpe! Io ho fatto i miei interessi ma onestamente. Se ti piace, bene; e se non ti piace, meglio! A ca­vallo bisogna andarci una volta per uno! (Mentre egli parla e gesticola, si vede, nel fondo, Silvio accompagnare Lorenza, Eva, Diego e Ermanno, tutti in vestito da viag­gio).

Silvio                             - (dal fondo, indicando Remo ai soprav­venuti) Eccolo.

(E, mentre Silio riesce per il fondo, i soprav­venuti entrano e raggiungono Remo, cammi­nando in punta di piedi alle sue spalle per fargli una sorpresa).

 Lorenza                        - Cucù!

Remo                            - (che ha appena finito di parlare da solo, si volta e, scuro in viso, dice) Ah, siete arrivati!  

Lorenza                         - (porgendogli la mano da baciare, con affettazione) Buona sera, amico mio.

Remo                            - (sempre più tetro) Buona sera.

Diego                            - Che hai, papà?

Remo                            - (c. s.) Niente.

Eva                                - E ci ricevi con quella faccia?

Remo                            - Scusa, cara. (Le si avvicina, la bacia in fronte; poi dà la mano a Diego) Addio, Diego. (Poi abbraccia Lorenza, baciandola sulle due gote).

Ermanno                       - (eh'è rimasto rispettosamente disco­sto) Buona sera, signor Minorca.

Remo                            - Caro Ajani. (Gli dà la mano; poi, tutti:) Sono arrivato un'ora fa; ma... stavo pensando... che questo albergo non mi piace.

Eva                                - Papà, non ti venga in mente di portarci al tuo « Gallo d'oro »...

Lorenza                         - Questo è l'albergo che ci vuole per noi. (E poi, a Ermanno, sempre con affetta­zione) Non è vero, amico mio?

 Ermanno                      - Ah, certo, signora.

Remo                            - A me non mi va, e basta!

Ermanno                       - (deciso a non guastarsela con nes­suno dei Minorca) Ah, certo, se a voi non va...

Diego                            - Ma perché , papà? L'hai scelto tu stes­so; sei tu che ci hai fatti venire qui.

Ermanno                       - Noi siamo venuti qui, perché voi mi avete scritto di...

Remo                            - E me ne sono pentito! Tanto è vero che stasera stessa...

Lorenza                         - Eh, no! Stasera no, amico mio! (Poi, a Ermanno) Diteglielo voi, amico mio, che proprio stasera non si può.

Ermanno                       - Certo... veramente... stasera non si potrebbe...

Eva                                - Abbiamo una sorpresa da farti, papà...

Diego                            - Ma scusa, papà: qual'è la ragione per cui tu non vuoi...?

Remo                            - Andremo magari in un albergo migliore di questo; ma qui no. Qui... (Vorrebbe par­lare e non osa).

Ermanno                       - Del resto, se il signor Minorca non vuole, avrà le sue ragioni...

Diego                            - Giusto, giusto. Io ho piacere che la volontà di papà sia rispettata. Solo c'è que­sto, papà: che, se non ti dispiace, dovrem­mo cambiare domani, invece di stasera. Sta­sera abbiamo dato appuntamento ad alcuni nostri amici, e mi dispiacerebbe se...

Eva                                - Amici di riguardo, papà, che forse farà piacere anche a te d'incontrare...

Lorenza                         - Amico mio, te li do a indovinare fra mille!

Ermanno                       - In realtà, signor Minorca, sarà una bella sorpresa anche per voi...

Remo                            - Ma chi sono?

Diego                            - Ecco, papà. (Poi, agli altri) Lasciate che parli io con papà. (E poi di nuovo, a Remo) In questi ultimi giorni, a Venezia, sono capitati i Valfreda...

Remo                            - I Valfreda?

Diego                            - Un momento, papà, lasciati spiegare. Non Valfreda, lui, Adriano. Lui non si sa nemmeno dove sia andato a finire. Sono tre anni che la sua famiglia non ne ha notizia. È molto probabile che sia andato all'estero, perché non s'è fatto più vivo. A Venezia, noi abbiamo incontrato la contessa e i figli. Debbo dire che si sono comportati con noi molto affabilmente, da pari a pari. Ora tutti noi, e io per il primo, avremmo evitato ogni contatto con loro. Tu sai che io li potevo vedere come il fumo negli occhi. Ma sono stati proprio loro a venirci incontro; e con tanta grazia e con tanto senso della realtà... Insomma, siamo diventati amici. Noi, dei figli; la mamma, della contessa.

Lorenza                         - Figurati, amico mio, che io e la con­tessa ci diamo del tu.

Diego                            - Ti prego, mamma, lasciami finire. (Poi, al padre) Non è una questione di snobismo, papà. Io ho capito subito che il nostro inte­resse è quello di coltivare e, vorrei dire, di ostentare questa amicizia. Troppe voci, spia­cevoli per noi, sono corse, tre anni fa, dopo il crollo di Valfreda, e la nostra fortuna ai male informati parve... improvvisa. Io stes­so, se ti ricordi, ero contro di te, prima di capire che dalle mani bucate e irresponsabili del conte il denaro dei Valfreda sarebbe finito nelle tasche di qualcuno, anche se non fosse finito nelle tue; mentre nessuno più di te, che avevi sfacchinato tanti anni per lui, se lo meritava. Ora tu capisci: l'amicizia della contessa e dei suoi figli con noi è il contrap­peso alle voci maligne, è la dimostrazione della tua onestà. E poiché la vita, in fondo, è qualche volta riparatrice, non ci sarebbe niente di male se - come dire? - i figli di Valfreda potessero, indirettamente, godere, per mezzo nostro, di quell'agiatezza che il loro sciaguratissimo genitore dilapidò... (Re­mo ha seguito il racconto del figlio con uno stupore crescente, che tuttavia sembra averlo rincuorato. Diego, dopo un breve silenzio, domanda:) Che ne dici, papà?

Remo                            - Che cosa ne dico io?

Diego                            - Naturalmente.

(Remo, con improvvisa decisione, senza ri­spondere, preme il bottone elettrico che gli è a portata di mano. E, mentre gli altri se­guono il suo gesto senza capirlo, arriva, ra­pido, Ugo).

Ugo                               - Avete chiamato, signori?

Remo                            - (con tono energico) Sì, ma non volevo voi; volevo l'altro cameriere.

Ugo                               - L'altro ha già finito il suo servizio, si­gnore. Non so se sia uscito.

Remo                            - Se non è ancora uscito, ditegli di ve­nire qui.

Ugo                               - Guardo subito, signore. (Esce per il fondo).

Eva                                - Papà, non vorrai mica dare ordini per lasciare l'albergo stasera!

Lorenza                         - Pensala come vuoi, amico mio; ma all'appuntamento che abbiamo dato non pos­siamo mancare...

Diego                            - O forse, papà, non ti sei ancora reso conto della situazione?

Ermanno                       - Si tratta, insomma, signor Minorca, della probabilità che fra i giovani la simpa­tia aumenti, vorrei dire si perfezioni, con­duca a fausti eventi...

Remo                            - Un momento, un momento... (Egli guarda in atteggiamento di attesa verso il fondo. Tutti gli altri, seguendo la direzione del suo sguardo, si voltano anche essi a guar­dare verso il fondo. Ed ecco che fra le due colonne centrali appare Adriano, che ora in­dossa sul frac un soprabito chiaro il cui ba­vero è rialzato e porta alle mani un cappello intonato al colore del soprabito. Stupore ge­nerale. Silenzio).

Adriano                         - (dopo averli guardati) Ah! È un vero consiglio di famiglia. Ma il mio servizio è finito per questa sera, signori.

Remo                            - (raccogliendo tutte le sue forze) Non vi ho chiamato per essere servito; ma per darvi la risposta che. non vi ho data poco fa.

Adriano                         - Bene! Questo mi diverte. (Fa alcuni passi avanti) Sentiamo.

Remo                            - La mia famiglia si è riunita in consi­glio per aspettare la vostra famiglia, che fra poco sarà qui. (Adriano rimane come impietrito. Remo continua: ) Ho saputo che la vostra famiglia non ha vostre notizie da tre anni. Dobbiamo dar­gliene noi, o volete aspettarla voi stesso? (Adriano, pallidissimo, non risponde. Remo continua:) I miei figli e i vostri figli si sono conosciuti a Venezia... sono diventati amici... potreb­bero diventare più che amici... perché i gio­vani sono puri e generosi, non conoscono quella che voi chiamate la divisione netta fra servi e padroni...

(Adriano è sempre immobile, ancora più pallido di prima, e la sua emozione profonda è tradita solo dal fatto che gli cade il cap­pello dalle mani incrociate sul mezzo della persona. Istintivamente, tutti i presenti fan­no l'atto di voler raccogliere il cappello; ma il più vicino è Diego e lui solo si piega. Lo raccoglie, lo porge a Adriano. Basta tale ge­sto insieme con quello istintivo di tutti gli altri a riaccendere l'orgoglio di Adriano, a fugare la sua emozione. Egli, dopo aver guardato tutti ancora una volta con aria da padrone, prende il cappello dalle mani di Diego senza ringraziare, e, dopo avere scrol­lato le spalle, saluta).

Adriano                         - Buona sera.

(Sì avvia rapido verso il fondo, mentre gli altri, dopo averlo guardato con disappunto e stupore, si guardano fra di loro).

Fine del secondo tempo

 

ATTO TEMPO

Siamo nello stesso albergo, mezz'ora dopo la fine del secondo alto. La scena rappresenta un salottino posto presso l'atrio, che s'intravede per una porta ad arco aperta sull'angolo sini­stro del fondo. Un'altra porta ad arco è sul lato destro, in primo piano. La parete del fondo è costituita da una vasta porta a vetri, ora co­perta da una tenda. Attraverso i vetri, quando la tenda sarà levata, si vedrà un angolo della sala da pranzo; e, seduti a tavola la famiglia Minorca e Ermanno. Quando si alza la tela, Adriano è nel salottino, in piedi, fra la tenda della porla a vetri e la porta di sinistra, Egli veste come all'ultima scena del secondo atto; ma il bavero del soprabito non è più alzato, e a coprire lo sparato del frac egli s'è messa una sciarpa di seta quale sì usa appunto per un abbigliamento serale. Il suo cappello è su un tavolino, presso di lui, e presso il tavolino è una sedia.

Ugo                               - (entrando dalla sinistra) Stanno per fi­nire. Meglio smorzare la luce e aprire la ten­da. Così, quando escono, li vedi (Egli smorza la luce del salottino, apre la tenda del fon­do, e, attraverso i vetri, si vedono Ermanno e i Minorca a tavola, in fine di pranzo. Poi esce per la sinistra, mentre Adriano rimane al suo posto, nel buio).

Remo                            - (netta sala da pranzo, ad alta voce, par­lando al figlio) Del resto, tu che ti lamen­tavi della paura che avevo di lui, hai sentito benissimo come gli ho parlato. Con quanta energia! Con che tono! Ma con uomini come quelli non c'è niente da tare, sai. Hanno la superbia nei buchi del naso, m ogni poro della pelle.

Diego                            - Con me non l'avranno.

Remo                            - Con te! E chi sei tu per loro?

Diego                            - Sono uno diverso da quello che tu credi e che loro credono.

Remo                            - Mah! D'altra parte, non è mica un bell’affare che fai.

Eva                                - Papà! Ma che c'entrano gli affari in que­sto? Si tratta di sentimenti, non di affari.

Lorenza                         - Al cuore, amico mio, non si co­manda.

Eva                                - E poi che diritti ha ormai lui sui suoi figli se li ha abbandonati?

Remo                            - Staremo a vedere. In ogni modo, non per simpatia verso di lui io do il mio consenso; anche perché , dopo tutto, chi è ormai lui? Un cameriere. Io do il mio consenso per dargli uno schiaffo morale. Faccio bene, Ajani?

Ermanno                       - Letteralmente. Sopratutto dopo quello che ha tentato di farci.

Diego                            - Perché ? Che cosa ha tentato?

Remo                            - Che cosa ha tentato? Diteglielo voi, Ajani.

Ermanno                       - (a Diego) Cose mostruose, avvoca­to. Letteralmente mostruose. Voi eravate tut­ti assenti; ma io e vostro padre ce la siamo vista brutta.

Diego                            - Cioè?

Ermanno                       - Ha tentato di mandarci in galera.

Diego                            - E come?

Remo                            - Con diavolerie che non ti dico!

Diego                            - Per esempio?

Ermanno                       - Impugnando gli atti legali d'ille­gittimità.

Diego                            - Poteva farlo?

Remo                            - Ma neanche per sogno!

Ermanno                       - Noi avevamo le sue cambiali, cam­biali vere, firmate da lui.

Diego                            - E ha tentato di mandare in galera voi e papà?

Remo                            - No. Io non figuravo.

Ermanno                       - Me solo, me solo. Ma naturalmente il suo avvocato gli ha detto: « Per levare ogni valore alle cambiali firmate, bisognereb­be che tu potessi dimostrare di averle firma­te come vittima di raggiri, in istato d'irre­sponsabilità. Il suo avvocato, insomma, ten­tava d'inscenare un processo per circonven­zione d'incapace. E lui, pur di non fare la figura dell'incapace... (Sogghigna).

Diego                            - Ho capito. (Si alza) Be', adesso an­diamo di là, perché la contessa e i figli sta­ranno per arrivare.

Eva                                - Ma che cosa diranno, trovandolo qui come cameriere? (Si alza).

Diego                            - Intanto adesso non c'è, perché non è di servizio. Poi si vedrà.

Remo                            - (alzandosi anche lui) Però bisogna dir­glielo subito, alla contessa e ai figli.

Diego                            - Papà, questo è da vedersi. Lasciate fare a me.

Lorenza                         - Io credo che è meglio dirglielo. E francamente, amici miei, se io l'avessi sa­puto a Venezia...

Diego                            - Andiamo, mammà, non era il caso... Anche sapendolo, non era il caso.

Remo                            - Ti faccio notare, Diego, che adesso sei tu che vuoi trattarlo come un signore. Tu dicevi a me! Ma anche poco fa, nel salone, quando gli è cascato il cappello, tu ti sei piegato come gli altri a raccoglierlo; e anzi sei stato tu stesso che...

Diego                            - Io l'ho fatto perché è un uomo più anziano di me.

Ermanno                       - (alzandosi anche lui) Mi permetto di credere che il signor Diego abbia fatto bene. Alla fine, la nascita di un uomo ha sempre il suo valore...

Remo                            - (ridendo volgarmente) Ah, ah! Voi lo dite per voi stesso, Ajani...

Ermanno                       - No, no... Ma insomma...

Remo                            - (c. s.) Ci tenete ancora ai vostri quarti di nobiltà. Per questo, vi siete innamorato della sua ex amante...

Lorenza                         - (a Ermanno) Già! Ma è vero, dun­que, amico mio che avete preso una cotta per la Stefania?

Remo                            - E come no? L'ho trovata qua, stasera stessa, appena sono arrivato... (Dicendo te ultime battute, sono usciti tutti per la sinistra della sala da pranzo. Con­temporaneamente Ugo è entrato nel salotti­no e ha riacceso la luce).

Ugo                               - Ecco. Ho avvertito il portiere che le faccia entrare qui, le persone che aspetti.

Adriano                         - Grazie. E intanto, fammi il piacere di sorvegliare i Minorca.

Ugo                               - Ma non mi vuoi dire di che si tratta? Chi sono le persone che aspetti?

.

Adriano                         - Ti dirò dopo. Adesso lasciami. E sta' attento, ti prego.

Ugo esce nuovamente per la sinistra e va a smorzare la luce nella sala da pranzo. Contemporaneamente  dalla destra entra nel sa­lottino Stefania, che guarda nella sala da pranzo come per vedere se ci smhu ancora t

MINORCA).

Stefania                         - Oh! Hanno smorzato. (E poi, ve­dendo Adriano) Cameriere, sapete se i si­gnori Minoica hanno già pranzato;'

Adriano                         - Non sono di servizio, signora.

Stefania                         - Non siete di servizio; ma occhi e orecchie, ne avete!

Adriano                         - Nessuna delle parti del corpo mi manca, signora. Ma in questo momento non posso metterle a vostra disposizione.

Stefania                         - Villano!

Adriano                         - (come per restituire l'epiteto). Si­gnora.

Stefania                         - Io, poi, non so che cosa pretendevi da me! Prima di tutto, dopo quella catastro­fe sei sparito; in secondo luogo - anche ammesso che tu fossi rimasto dov'eri - e devi ammettere che la decisione tua è dipesa da te e non da me - che cosa avrei dovuto o potuto fare io - che pure, come sai, ho bisogno di vivere - senza nessuno che mi fosse vicino, che mi dicesse una parola di conforto, che mi conservasse quel tono a cui ero abituata e che insomma - anche al di fuori e al di là dell'amore - al quale del resto non credo più, dopo le disavventure che si sono moltiplicate nella mia vita - fosse il mio sostegno, un sostegno morale se non vogliamo proprio parlare di sostegno materiale - che pure ha la sua importanza - non solo nell'esistenza di una donna come me, ma in qualunque esistenza umana...

Adriano                         - (interrompendola prima che abbia pro­nunziate le ultime parole) Non ho più dita.

Stefania                         - Come?

Adriano                         - Ho detto, signora, che non ho più dita.

Stefania                         - Che vuol dire?

Adriano                         - Una volta il filosofo Emmanuele Kant chiese al suo amico Wlòmer se leggesse i suoi scritti; e Wlòmer rispose: « li leggerei se non mi mancassero le dita. Voi usate tanti incisi, parentesi, proposizioni subordinate da tener presenti, che io sono costretto a porre un dito su una parola, uno su un'altra, uno su un'altra ancora e prima di finire un periodo le mie dita sono esaurite ».

Stefania                         - Non capisco.

Adriano                         - Rinunziateci, signora.

Stefania                         - (acre) Sei incorreggibile!

Adriano                         - Si può correggere l'errore di un gior­no, non quello che dura tutta la vita.

Stefania                         - Almeno lo riconosci, di avere sba­gliato!

Adriano                         - Sbaglio per divertirmi.

Stefania                         - Beato te, che ti diverti, nelle con­dizioni in cui sei...

Adriano                         - Mi diverto delle condizioni altrui.

Stefania                         - Se parli delle mie, non hai gran che da divertirti perché sono floride.

Adriano                         - Pregate Dio che ve le conservi tali. (Entra dalla destra Ermanno).

Ermanno                       - (sorpreso, come per tornare indie­tro) Oh, scusate.

Stefania                         - Venite, Ajani. Non avrete paura di farmi la corte alla presenza della servitù...

Ermanno                       - (mezzo confuso, a Adriano) Ma davvero, dunque, voi, signor Valfreda, vi siete messo a tare il cameriere? Non ci posso credere.

Adriano                         - Credeteci.

Stefania                         - (a Ermanno) Andiamo via! Lascia­molo al suo destino!

Ermanno                       - Un momento. Scusate.

Adriano                         - (ironico) La signora forse mi sfugge per evitare la tentazione di mortificarmi.

Stefania                         - Intendo mortificarvi proprio andan­domene!

Adriano                         - Eppure, se io fossi nei vostri panni, signora, - ipotesi tuttavia assurda perché nei vostri panni sentirei troppo freddo ■- ■; e se voi foste nei panni miei, io mi compor­terei con voi in un altro modo.

Stefania                         - Non ho bisogno delle vostre lezioni.

Adriano                         - Forse perche ora ne prendete dal­l'ex mio servo?

Stefania                         - Meglio prenderne da un servo di­ventato padrone che da un padrone deca­duto.

Adriano                         - (a Ermanno) Credo che lo dica per voi, signor Ajani.

Ermanno                       - Per me?

Adriano                         - Padrone decaduto siete voi, non io.

Ermanno                       - (con un sorriso acido) Ma io non ho indossato la vostra livrea...

Adriano                         - Lo so, lo so. Solo che per non indos­sarla, vi siete piegato ai mestieri disonoranti, avete fatto perfino il mediatore di un usuraio.

Ermanno                       - Voi disistimate me che mi sono pie­gato per non spezzarmi, forse perché igno­rate l'acre piacere che è nel piegarsi. Eppure si può ridere di tutto anche nei panni miei; e il riso è meno esteriore, più sapido. Buona fortuna!

Stefania                         - (prendendo sottobraccio Ermanno) Ecco. Buona fortuna! (Escono per la destra).

Adriano                         - (storcendo la bocca come a un rigur­gito di disgusto) Oh! (Ugo entra dalla sinistra).

Ugo                               - I Minorca sono nel salone, in attesa; ma quelle persone non sono ancora arrivate. (Una pausa) Che hai?

Adriano                         - Niente. Aspetto.

Ugo                               - Non riesco a capire che cosa ti passa per il capo. Non ho mai avuto un compagno come te. (Un'altra pausa) Di': e se quello schifoso del direttore mi domanda perché ti sei fermato qui prima di uscire, debbo dirgli qualche cosa?

Adriano                         - Non so. Che cosa si dice in questi casi?

Ugo                               - Mah! Noi, qui, siamo peggio che vigilati speciali. Per poco non ci perquisiscono, pri­ma di uscire. I camerieri li considerano co­me ladri.

Adriano                         - Non hanno torto.

Ugo                               - (offeso) E come? (Poi, con un sorriso equivoco) Ah, forse tu lo dici per quello che ti ho confidato io?

Adriano                         - (vago) No.

Ugo                               - Ma scusa. Si può vivere in mezzo ai lussi e agli sprechi, contentandosi delle briciole?

Adriano                         - Ci si può vivere per penitenza.

Ugo                               - Già! Ma bisogna vedere che peccati ab­biamo fatto noi... Tu che peccati hai fatto?

Adriano                         - Non conosco la nomenclatura dei peccati. Ma forse ne ho fatti.

Ugo                               - Come sarebbe, la nomenclatura? Mio pa­dre era cameriere, ed è morto povero; io fac­cio il cameriere e sono più povero di lui. I poveri, quando sono poveri, possono aver fatto peccati di desiderio...; ma mi pare che la nostra penitenza per questi piccoli peccati sia troppo forte. (Una pausa) Io credo che si dovrebbe fare un turno, fra servi e pa­droni.

Adriano                         - Qualche volta si fa.

Ugo                               - Magari! Mi vorrei cavare qualche ca­priccio. Vorrei sputare in faccia a qualcuno. A qualcuno che adesso sputa in faccia a me.

Adriano                         - Può darsi che questo qualcuno abbia avuto anche, lui sputi in faccia e adesso è il suo turno perché ne dia. Vedi, dunque, che il turno esiste... e forse è eterno.

Ugo                               - Ma allora è una questione che non si può risolvere?

Adriano                         - Forse no.

Ugo                               - (tendendo l'orecchio verso sinistra) Ecco, credo che siano arrivati. (Si volta a guardare nell'interno; e subito si scosta per lasciar passare Attilia, Marinella e Leonardo, che sono vestiti decentemente ma senza lusso).

Attilia                            - (a Ugo) Abbiamo chiesto dei signori Minorca.

Ugo                               - Ah, sì, signora. Certamente il portiere li avvertirà. Prego. (Fa un lieve inchino e esce per la sinistra),

(Nessuno dei sopravvenuti ha ancora visto Adriano, che è sempre fermo, in piedi, con­tro la parete di fondo).

Attilia                            - (guardando la parete di sinistra) Ve­di, Marinella, questa tappezzeria somiglia un poco a quella che avevamo noi a Como...

Leonardo                      - (che contemporaneamente ha giralo lo sguardo dalla parte opposta, vede Adriano e con sorpresa) Papà!

(Attilia e Marinella si voltano rapida­mente).

Adriano                         - (senza muoversi) Vi prego, non al­zate la voce. Ero qua ad aspettarvi. 'Ho chiesto io che vi facessero entrare qua, pri­ma di avvertire... i vostri amici. Ma bisogna non richiamare l'attenzione di nessuno.

Attilia                            - Era tempo che ti facessi vivo!

Adriano                         - (con amarezza) È giusto. Ma è vivo chi dà, chi è in grado di dare; e in questo senso io non ero più vivo. Comunque, prefe­rirei sorvolare questi preamboli. Spero che i miei figli siano in grado di comprendere anche quello che non si dice; e io faccio asse­gnamento sul loro spirito di comprensione...

Marinella                       - Per quello che ci riguarda, papà, noi non abbiamo mai cessato di volerti bene. Ma tu forse ci hai creduti più ragazzi di quanto non siamo... È vero, Leonardo?

Leonardo                      - Per noi, povero o ricco, eri sem­pre, sei sempre nostro padre.

Adriano                         - (contenendo la commozione) Già. Ma ci sono tante specie di povertà; e la mia è di quelle ch'è difficile capire dal di fuori...

Marinella                       - Noi ti siamo figli e possiamo ca­pire tutto di te...

Leonardo                      - Magari lentamente, com'è avvenu­to in questi tre anni; ma tutto.

Attilia                            - La verità è che c'ero io di mezzo, e tu hai avuto paura di ritrovarmi ai tuo fianco.

Adriano                         - (un po' irritato) Che c'entra questo, adesso? Prima di tutto non e vero; e poi tu e io non abbiamo mai panato di queste cose dinanzi ai nostri figli!

Attilia                            - Ne ho parlato io, con loro. E non per farti odiare, sai! Se essi ti amano an­cora, ti amano anche per me, attraverso me. Perone la sofferenza a me ha fatto capire i miei difetti; e cosi avesse fatto capire a te i tuoi! Solo bisognava ricordarsi che...

Marinella                       - (interrompendola) Mamma, ti pre­go! Papà ha già capito quello che vuoi dir­gli. Lascialo parlare. (Poi, al padre) Tu hai qualche cosa da dirci; vero, papà? Io l'ho già indovinato. Quando tu hai detto « i vo­stri amici », l'hai detto con un tono...

Attilia                            - (che ha seguito le parole della figlia) Ah! Ecco perché ti sei fatto vivo! Per deplo­rare i nostri « amici »! Ma forse tu non sai che...

Marinella                       - (interrompendola nuovamente) Se non sa, immagina. Perché non vuoi lasciarlo parlare? (Poi al padre) Siamo alla fine delle ultime risorse di mammà. Siamo poveri an­che noi,, ecco. Ci difendiamo a stento dalle brutte figure della gente impoverita. Sarà capitata anche a te la stessa cosa; quindi... Avanti, papà, dimmi, dimmi. Di' a me, che sono la più serena; e forse la più interessata a quello che vuoi dire. (Una breve pausa) Ti hanno detto che fra noi e i Minorca è corsa qualche promessa di probabili nozze? Non è così? Forse te l'hanno detto stasera, poco fa. Forse vivi in questo albergo, o forse (gli guarda le scarpe e il lembo estremo dei pantaloni) ci sei capitato per una serata di gala - ti vedo in frac - e hai incontrato i Minorca in persona, e i Minorca ti hanno parlato...

Leonardo                      - (interrompendo, si rivolge al padre) Io, per me, sono... quasi contrario. È bene che tu lo sappia.

Marinella                       - (a Leonardo) Lascia stare la con­trarietà tua. Fermiamoci a quella di papà, se anche lui è contrario. Tu ne fai - per quello che ti riguarda - una questione di simpatia fisica; mentre papà ne farà una questione estetica, forse una questione di razza... o di casta... Non è così, papà?

Adriano                         - (che li ha ascoltati con una espressio­ne di crescente tristezza) Avete detto di volermi ancora bene; e di tutto mi parlate, meno che del vostro bene...

Marinella                       - (mortificala) L'hai detto tu, di sorvolare i preamboli, papà. (Poi, come cor­reggendosi) E non che il bene sia da consi­derarsi come un preambolo; ma - insomma - se discutiamo con te di questo, è presupposto che ti vogliamo ancora bene.

Attilia                            - Marinella, sopratutto, è uscita di minorità; quindi... se ne parla... non può che parlarne per affetto...

Adriano                         - (cadendo a sedere sulla sedia che gli è vicinissima, addossata alla parete, presso il tavolo) Siamo già due mondi lontani... Questi tre anni che sono passati sembrano lunghi come un secolo... O forse non siamo stati mai vicini... E la colpa è mia... (Una pausa) Mah! (Un'altra pausa) Forse è inutile che vi abbia aspettati. (Si rialza e prende il cappello) Buona sera. (Fa l'atto di uscire).

Leonardo                      - Perché te ne vai, papà?

Adriano                         - (si ferma, lo guarda) Capisco. Tu sei un Valfreda. Forse mi somigli...

Marinella                       - (con dolore e fierezza) Anch'io, papà.

Adriano                         - (a Marinella, dopo averla guardata) Certo sei intelligente, agile, arguta. Ma ap­partieni già a un mondo che non è più li mio. Sento che non potremo intenderci. E non per una questione di razza o di casta, come dici tu. Ma perché guardiamo il problema della nostra decadenza da due punti diversi, anzi opposti.

Marinella                       - E quali sarebbero questi due pun­ti diversi?

Adriano                         - (dopo un attimo di esitazione) Io non mi sono abituato, figlia, a questa decadenza. Dico talvolta a me stesso di fare quello che faccio per penitenza, per bisogno di umilia­zione; e non è vero. C'è più superbia in que­sto mio discendere che in qualunque gesto o pensiero di rivolta. Altri, nei panni miei, ha scelto la via mediana, la via della mediocrità, la via del compromesso. Io ho preferito mettermi subito agli antipodi, all'estremo opposto - o padrone o servo - perché solo così si può dominare.

Marinella                       - Non ti capisco, papà.

Adriano                         - Non importa. Tanto, il punto del nostro dissidio non è questo. Mi capirai for­se dopo; forse dopo la mia morte. Il punto del nostro dissidio è un altro. Tu hai pro­messo le nozze a un Minorca, forse anche perché te ne sei innamorata, ma certo perché egli è ricco. Ho capito bene?

Marinella                       - (abbassando il capo) Non siamo più in condizione di poterci contentare solo dell'amore...

Adriano                         - Ebbene, la ricchezza dei Minorca è una ricchezza intrisa delle lagrime di tuo padre, delle lagrime di tutti voi. Non so se voi abbiate pianto, dopo il crollo. Io non avevo ancora pianto fino a stasera, perché non lo credevo definitivo, non mi sembrava possibile. Ma stasera... poco fa... dopo esser­mi illuso ancora una volta di essere potente per aver visto alcune schiene curve sul cap­pello che m'era caduto... ho pianto. Ho pian­to senza lagrime, dentro di me, ch'è un pian­gere più doloroso. E non sulla ricchezza per­duta - perché la ricchezza l'ho sempre con­siderata un mezzo, non un fine - ma su quello che la mia ricchezza rappresentava: la nobiltà della mia famiglia, il valore dei miei avi, il prestigio del mio nome, quel sen­so di dominio per cui la vita mi pareva bella e il mondo mio. Ora tu sai a chi si deve questo crollo, e non senti il ribrezzo di le­garti a un figlio di lui...

(Sguardo di profonda sorpresa da parte degli altri tre).

Marinella                       - Sei sicuro di quello che dici, papà?

Adriano                         - (sorpreso anche lui) Ah, non sai niente, tu? Nessuno di voi sa niente? Aspet­tate, aspettate. (Si volge rapido all'interno di sinistra, chiama) Ugo! (E poi subito) Fam­mi il piacere, va a chiamare i signori Minorca che vengano qua.

Ugo                               - (dall'interno) Ecco. Li chiamo.

Marinella                       - Non c'è più bisogno, papà. Io non sapevo. (Poi guarda Attilia e Leonardo) Nessuno di noi sapeva. Diego Minorca ci ave­va parlato delle sue ricchezze come prove­nienti da un'eredità...

Adriano                         - (con un lampo di gratitudine negli occhi) Ti ringrazio di avermi capito, figlia.

Leonardo                      - E della tua rovina, papà, ci aveva parlato come del frutto di una vita disordi­nata... dissipata... (Dice l'ultima parola a stento, quasi sottovoce),

Adriano                         - (abbassando il capo) Questo, in gran parte, è vero, Leonardo. E di questo debbo chiedervi perdono, sopratutto a vostra ma­dre, che forse, vivendo vicino a me, avrebbe evitato molti dei miei errori...

Attilia                            - (si mette a piangere silenziosamente, senza parlare). (Dalla sinistra entra Diego).

Diego                            - Buona sera. (Con un rapido sguardo si rende conto della situazione, non osa avan­zare) .

Marinella                       - (a Diego) Vi chiediamo scusa di avervi disturbato; ma avevamo fretta di sa­lutarvi perché stanotte ripartiamo.

Diego                            - (dopo aver guardato tutti intorno) Partite? Così presto? (Nessuno risponde. Una pausa. Diego, che sente la sua famiglia avvi­cinarsi, si volta e fa- un gesto con la mano verso l'interno); Un momento, papà. A più tardi. (Poi si volge nuovamente ai Valfre­da): Posso chiedere - scusate - la ragione del vostro atteggiamento che non mi spiego ma che.,, non mi nascondete.

Leonardo                      - C'è stato un equivoco fra di noi: questo è tutto.

Diego                            - Un equivoco?

Leonardo                      - (seccalo) Insomma... non ci siamo capiti bene.

Diego                            - E che c'era da capire? Io mi son permesso di esprimere i miei sentimenti alla signorina Marinella quando la signorina Ma­rinella ha dimostrato di non sgradirli. Altri­menti me li sarei tenuti dentro di me, per quanto sinceri fossero; e anche forti; e alti. (Guarda Adriano) Ma la presenza del signor Valfreda m'illumina un poco; perché il signor Valfreda poco fa - forse per la precipita­zione e la poca destrezza con cui mio padre gli parlò - ha mostrato di disprezzare i miei sentimenti, prima ancora di conoscerli bene.

Adriano                         - (freddo) Io conosco i vostri senti­menti attraverso quelli che la vostra fami­glia ha mostrato di nutrire verso di me, de­predandomi. (A un gesto di Diego) Non fate gesti, ragazzo. Anche se io ho perduto il mio buon umore e mi lascio trascinare da voi a una scena che non è del mio stile, non posso tener conto dei vostri gesti... molto giovanili... perché sono... fuori servizio. Ma mia figlia già vi ha chiesto scusa di avervi disturbato facendovi arrivare fin qui, e quin­di... non abbiamo altro da dirci.

Diego                            - No, no. Noi abbiamo da dirci ancora qualche cosa, signor conte.

Adriano                         - Per conto mio, ve ne dispenso.

Diego                            - E io, invece, per conto mio, non ne dispenso né voi né me.

Adriano                         - (reprimendo uno scatto) Parlate con l'arroganza dell'arricchito?

Diego                            - Parlo con il diritto di chi sa quello che dice e quello che vuole. E parlo non tanto a voi, signor conte, quanto alla creatura che deve conoscermi bene prima di disamarmi.

Adriano                         - (con un tremito di sdegno in tutta la persona) Intendete parlare di mia figlia?

Diego                            - Sì.

Adriano                         - Ve ne credete degno?

Diego                            - Sì. (Una pausa. Poi con energia ma senza enfasi) L'errore vostro consiste nel cre­dere che fra me e vostra figlia voi abbiate qualche funzione o qualche missione da com­piere.

 Adriano                        - La funzione del padre; la missione del padre.

Diego                            - Ve la concedo integra, intatta, sorvo­lando le sue negligenze e le sue intemperanze. Così come la concedo intatta a mio padre, dimenticando alcuni suoi torti che io so. Ma voi e mio padre - e vi chiedo scusa se per un momento vi accomuno a lui - rappre­sentate il passato, mentre noi rappresentiamo l'avvenire.

Adriano                         - Non so più chi mi dà la pazienza di sopportare la vostra retorica avvocatesca...

Diego                            - Ve la dà il diritto, che è nella mia retorica. Non è colpa mia se l'abuso e il cat­tivo uso hanno gonfiato e imbruttito le pa­role. Ma io sto ai fatti. E vi dico che mentre voi e mio padre, con armi che non giudico perché non mi riguardano, vi siete combat­tuti fino a capovolgere le vostre rispettive posizioni, noi ci siamo fatti grandi, abbiamo capito il senso della vita. Sarei uno sciocco e un ingrato, se maledicessi alla vostra bat­taglia; - essa mi è servita per comprendere i vostri errori e per salire; - ma ora la vostra battaglia è finita, e io, che per ra­gioni di sangue sono dalla parte del vinci­tore, vi invito a lasciarmi vivere. Non in­fierisco contro voi vinto; ma vi prego di la­sciarmi vivere. E prego anche mio padre di lasciarmi vivere, sebbene lui, per la verità, non sia contro di me. Vi sembra molto quel­lo che chiedo?

Adriano                         - È troppo comodo, ragazzo, vivere della ricchezza altrui.

Diego                            - Altrui, di chi? Intendete dire vostra? Ma voi ne avete tratto tutto il bene e tutto il piacere. che avete voluto. Sia pure a modo vostro, l'avete già sfruttata. O intendete dire di mio padre? Lui ve l'ha tolta per me, sia pure con le armi che talvolta il povero deve usare contro il ricco. Ma io forse me ne ser­virò meglio di voi e di lui, perché intendo fecondarla col mio lavoro; e anche col mio

 amore                           - (guarda Marinella) se Marinella mi ama. (Una pausa) Mi ama Marinella? (Mari­nella abbassa il capo, non osa rispondere. Diego continua): Io aspetto, Marinella; perché sento che tu mi capisci; e anche che mi ami. (Un'altra pausa. Poi a Leonardo) Leonardo! Tu hai ancora qualche difetto dei Valfreda: un orgoglio smisurato, una coc­ciuta volontà di resistenza... Ma io ti cono­sco. Sei saggio e buono. Vorrei dire che mi somigli, se non temessi di apparire vanitoso. Siamo della stessa generazione, siamo fatti per intenderci, perché le ragioni mie, per molti aspetti sebbene per vie diverse, pos­sono essere le tue. (Anche Leonardo abbas­sa il capo. Un'altra pausa. Poi Diego, con una dolce e virile rassegnazione, come par­lando a sé stesso) Del resto non bisogna aver fretta. Tutto sarà come dev'essere. (Ha det­to queste ultime parole sottovoce. Segue un silenzio che pare generato dal suo tono e dalle sue parole. In questo silenzio Adriano, che è pallido, amareggiato, incapace di rea­zione, scaglia violentemente il cappello a terra. Tutti guardano il cappello; ma nessu­no si muove. Adriano mostra di ricordarsi dei tempi in cui tutti si sarebbero piegati a raccoglierlo. E ora finalmente capisce che per lui è finita. Si piega lentamente a raccogliere il cappello lui stesso. E questo suo piegarsi è così penoso, che il suo volto, quando egli lo alza, pare dissanguato. CU altri non osano guardarlo, non si muovono. Egli fa qualche passo in silenzio, verso l'uscita, quasi bar­collando).

Marinella                       - (volgendosi improvvisamente a guardarlo, pur senza muoversi) Papà!

Adriano                         - (si volta appena, guarda la figlia, ha un attimo di perplessità; poi dice) No! (e riprende il suo cammino).

FINE