Shakespeare family

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D: Vieni... avvicinati!... Non stupirti se mi tengo nascosta. Vedi... porto ancora sul collo quei lividi neri. Neri... come le manbi che mi hanno stretta e uccisa. Dillo, è l’unica cosa di me che ancora si scorge, nell’ombra, ora che il mio corpo è svanit

SHAKESPEAREFAMILY

Incontro con Desdemona

di

Giuseppe Manfridi

DESDEMONA: Vieni... avvicinati!... Non stupirti se mi tengo nascosta. Vedi... porto ancora sul collo quei lividi neri. Neri... come le mani che mi hanno stretta e uccisa. E’ l’unica cosa che, dall’ombra, di me ancora si scorge, ora che il mio corpo è svanito. Dimmi... questi poveri segni lasciano almeno intuire un collo delicato, chiaro e sottile... degno di una dama veneziana? Sii sincero: si intuisce qualcosa della mia bellezza?

VOCE: Lo sai... giunto fino a te non mi è data l’opportunità di vedere ma solo quella di ascoltare. Tu sei invisibile.

DESDEMONA: Ma in ciò che non si vede vale ciò che si immagina, e tu come mi immagini?

VOCE: Non ti sapevo vanitosa.

DESDEMONA: Non lo sono mai stata, difatti. Perlomeno, non molto. Ma dacché mi trovo nella condizione di chi non può più peccare, che colpa sarà mai concedermi il capriccio di queste domande?... Non debbo piacere a nessuno... nessuno più mi vede né desidero che questo avvenga. Le mie grazie, che il tempo s’è affrettato a sacrificare allontanandole da sé nell’opacità del nulla, rimarranno per sempre intatte. Negate ad ogni malinteso. Per me, tu conosci la mia storia e puoi capirmi, dire ‘malinteso’ è come dire ‘crimine’, ‘misfatto’. Un’equivalenza che la mia vita ha sperimentato come inesorabile. Così,  a volte, sono indotta a rimirare i tesori che ebbi sulla terra e, seppure tra mille rimpianti, ad assaporare la lusinga di quella sventura che, da essi suscitata, troppo precocemente me li strappò. Perciò te lo domando ancora: come mi immagini?

VOCE: Io?... Non so...

DESDEMONA: Cos’è che t’imbarazza?

VOCE: Niente, perché?... Che non ci ho mai... beh, sì... è noto che fosti assai bella.

DESDEMONA: E’ noto?...

VOCE: D’altronde lo sai. Non c’è bisogno che sia io a...

DESDEMONA: No, no, aspetta! Qui sei tu che mi fraintendi. Lo capisco dal tono della tua voce. Cos’è che ti preoccupa?... Una sensualità che non volevi... che non t’aspettavi di trovare in me?... E questo che ti mette a disagio?

VOCE: Può essere... forse. Anzi sì, hai ragione. Lo ammetto, è questo. Francamente mi aspettavo altre parole.

DESDEMONA: Quali parole?

VOCE: Probabilmente meno legate... alla terra, ecco. Alla realtà dei corpi, delle cose che sono.

DESDEMONA: Meno frivole?

VOCE: Quasi. Ma questo me lo fai dire tu.

DESDEMONA: Sta’ tranquillo... io non sono altro da quella che credi, ovvero: da come, nel mondo, tutti mi figurano. Fu virtù, in me, consacrare a un solo uomo l’entusiasmo della mia passione e la mia bellezza. Sono stata una moglie fedele... già, fedele... (sorride)

VOCE: Cos’è? Perché ridi?

DESDEMONA: Se penso quante ne avete dette, voi, sulla mia fedeltà!

VOCE: Sbagliando?...

DESDEMONA: Oh no, per carità!... Fedele, fedele!... Se poi fu un gran merito restare fedele per i tre giorni tre, non uno di più, che durò il mio matrimonio!...

VOCE: Comunque, fedele.

DESDEMONA: Cos’è? Te ne vuoi convincere a forza di ripeterlo?...

VOCE: Ma no, sei tu piuttosto che sembra voglia prendermi in giro.

DESDEMONA: L’ultima delle cose! Soprattutto toccando certi argomenti. Sì... sono stata una moglie devota e leale, ma non per questo insensibile. E, credimi, fu vocazione tutta femminile innamorarmi di un uomo solo ascoltandolo narrare, presa dall’entusiasmo dei suoi racconti.

VOCE: Desdemona, dimmi... e Cassio?... Lui non fu nulla per te?

DESDEMONA: No!

VOCE: Cerca di capirmi..  io parlo solo... solo di...

DESDEMONA: T’ho detto, no!

VOCE: Però tu, insomma... a un certo punto, voglio dire... tutte le tue preoccupazioni per lui...

DESDEMONA: Per piacere, non insistere! Sarebbe inutile: non ho mai avuto il dovere di difendermi, adesso non ne ho più neanche la voglia. Io, innocente, ho pagato al più caro prezzo le responsabilità di una colpevole. Per un equivoco... per un raggiro della sorte, o per altro che è meglio non dire... l’amicizia fece immaginare il tradimento, la dedizione al mio sposo sembrò un alibi, e una scellerata fatalità - quel fazzoletto! - partorì l’imperdonabile.

VOCE: Davvero quel fazzoletto può dirsi il simbolo di questa tua sciagurata storia! Il dettaglio che si fa catastrofe... il nonnulla da cui matura la tragedia.

DESDEMONA: No, sbagli. Non si trattava di un nonnulla né di un dettaglio, anzi!... Io che, sola, conosco l’intero corso del mio destino è solo ad esso che ripenso e non ad altro. Questo per dire: niente e nessuno può dirsi più esperto di me e di ciò che mi riguarda. E dunque sappi che quel fazzoletto era di natura molto, molto bizzarra. Non esagerava Otello nel pretendere che io lo serbasi con cura infinita e che lo tenessi a cuore come il più prezioso dei suoi doni. Si trattava di cosa magica, stregata... impregnata di forze tratte da sortilegi compiuti in terre lontane e a me sconosciute. Con tutta l’anima mi scongiurò di non separarmene mai e di tenerlo sempre con me... perché potessi baciarlo, e parlarci... sempre. A ogni istante. Io commisi, comunque, una colpa nel perderlo. Ah, quel fazzoletto ricamato a fragole!... Ascolta... ascolta ciò che Otello mi disse allora, un tempo, quando a udire le sue parole, ignara di ciò che sarebbe stato, il mio cuore era già stretto dalla paura...

STACCO

OTELLO: Questo fazzoletto, bada, lo dette a mia madre una zingara, una maga che riusciva quasi a leggere nei pensieri. E disse a mia madre che, finché ella lo avesse avuto, questo fazzoletto l’avrebbe resa desiderabile e mio padre le sarebbe stato in tutto e per tutto soggiogato. Ma se lo avesse perduto o dato ad altri gli occhi di mio padre l’avrebbero guardata con odio. Morendo, poi, ella me lo consegnò, perché se al fato fosse piaciuto che io avessi moglie, lo dessi a lei; e questo è ciò che io adesso faccio. Ora che è vostro tenetelo caro come i vostri occhi, Dsedemona. Smarrirlo o donarlo sarebbe una perdita che nulla potrebbe compensare. Nulla.

STACCO

DESDEMONA: Smarrirlo o donarlo. Venni accusata di averlo donato quando in realtà l’avevo smarrito. Non una colpa ma l’altra, comunque una colpa.

VOCE: Ma se tu stessa ti riconosci innocente!...

DESDEMONA: Innocente secondo giustizia ma non secondo le sue leggi. Non secondo le leggi di Otello, che erano quelle della sua tribù. Io non ne avevo inteso la severità se non subendone la condanna. - Vedi... qui è la ragione di tutto. Non donarlo... né smarrirlo. Lui me l’avevo detto.. me l’aveva detto cosa sarebbe accaduto altrimenti. E non si trattava di una minaccia ma di un avviso del quale non seppi tener conto. Così lo persi. E fui io - io! - a farlo. Non altri per me. - E comunque ho ancora troppa fiducua negli uomini per credere, come qualcuno mormora, che l’idea del mio tradimento sia stata concepita e diffusa da una volontà malvagia. No! L’origine delle mie sciagure è tutta lì: in un attimo di negligenza... mia, e di nessun altro.

VOCE: Ma cosa dici? Non è vero!... Tu non lo sai, ma dopo la  tua morte un reale colpevole, l’artefice di tutta questa messinscena, è stato smascherato e preso!

DESDEMONA: Un colpevole?... E chi?...

VOCE: Il suo nome forse ti soprenderà.

DESDEMONA: Ma chi?

VOCE: Jago.

DESDEMONA: Jago?... L’alfiere devoto, l’amico fedele... lui?... Non è possibile, non ci credo... ma se Jago ha sempre avuto per me solo parole di conforto... 

VOCE: Certo! Proprio questa la sua arma migliore, la sua carta vincente: nessuno, quanto Jago, sapeva dissimulare e fingere... nessuno, quanto lui, sapeva irretire la buonafede degli amici e costringere l’altrui volontà ai propri desideri!

DESDEMONA: Jago... Jago... mai per un istante ho dubitato del suo affetto... mai.

VOCE: E, come te, il tuo sposo.

DESDEMONA: Ma perché lo avrebbe fatto?

VOCE: Invidia, ambizione... le ragioni erano molte e una sola, ma tutte comunque incomprensibili a chi non ne senta, per naturale disposizione dell’animo, l’oscura attrattiva.

DESDEMONA: Ma questa colpa lui l’ha confessata?

VOCE: Ha dovuto. Le prove erano schiaccianti.

DESDEMONA: E sarebbe accaduto dopo la mia morte?

VOCE: Quando ormai tutto era compiuto.

DESDEMONA: Lui, insomma... com’è che hai detto?... L’artefice?...

VOCE: Lui, sì.

DESDEMONA: No, impossibile!...

VOCE: Ma è la realtà, Desdemona. La realtà dei fatti avvenuti. Da te ignorati ma avvenuti.

DESDEMONA: Non discuto i fatti ma la loro interpretazione.

VOCE: Cioè?

DESDEMONA: Quell’uomo non fu che il pallido strumento della magia.

VOCE: Come della magia?

DESDEMONA: Non posso credere che in un’anima dimori tanta crudeltà e, in una mente, la capacità e lo sprezzo per attuarne i piani. No, la magia piuttosto... la magia!

VOCE: Forse parli solo per indulgenza.

DESDEMONA: Di Jago non m’importa nulla!

VOCE: Allora è che non vuoi vedere quanto possa essere orrendo un cuore umano.

DESDEMONA: E perché?... Tu pensi sia meglio temere il cielo più che la terra?... Gli spettri più degli uomini?... No... ben più terribile è sapere che grandi inimicizie ci sovrastano. Grandi inimicizie. - Ascolta... voglio dirti come quel fazzoletto venne stregato; forse ti sarà più facile capirmi. Ascolta... “Una sibilla, che duecento volte aveva contato il corso del sole, lo ricamò mormorando vaticini. I bachi che dettero la seta erano consacrati, e i colori furono estratti da sostanze che la gente dell’arte trova nel cuore delle vergini imbalsamate...”

VOCE: Dio del cielo! Questo racconto ti rapisce come se, invece di pronunciarlo, tu lo stessi ascoltando. Altri inorridirebbero, mentre tu sembri così affascinata!...

DESDEMONA: Lo amo. E non è un caso. Nonostante tutto. Alla storia di queste magie si fonde l’intero universo di fiabe e di leggende che Otello spalancò dinanzi ai miei occhi. Quando ripenso al fascino di quel piccolo lembo di seta trapunto di sortilegi mi è facile tornare alla meraviglia dei nostri primi incontri, quando lui, il mio uomo... colui per il quale seppi rinunciare a tutto il resto, mi incantava con lo splendore delle sue parole che raccontavano di popoli misteriosi, di oceani selvaggi e di avventure esotiche, e mi dicevano dell’Africa e dell’India, dell’Oriente e dei tropici rivelandomi religioni tenebrose e i costumi di razze tanto lontane da me quanto una stella dall’altra.

VOCE: E fu allora che tu t’innamorasti di lui...

DESDEMONA: Oh, sì!... Otello mi parve la creatura di un altro cielo venuta a portarmi notizie della sua patria remota. E la sua vita tumultuosa, carica d’avventure, me lo descrisse nelle vesti di un dominatore della terra; e intendo dire della terra tutta... penso a paesi, a regioni, a emisferi dei quali, appena, sapevo l’esistenza. Finanche la sua pelle scura rese più possente il segno della diversità che egli incarnava. E in quanti mi derisero!... In quanti ci derisero!... In quanti vennero a rinfacciarmi la bruttezza del mio sposo!... Alcuni apertamente, altri con più malizia. Ma io scorgevo in essi la cecità assoluta poiché, nel profondo di me, non potevo dar pace all’esultanza per quel cosmo agitato, imperscrutabile e vivido come una perla al fondo degli abissi, che io sapevo racchiuso nel cuore del Moro. E il destino mi aveva offerto quell’uomo per consorte! Ah, non poteva darsi gioia più grande di questa!... Era, allora, il tempo in cui, alle porte di Venezia, approdavano le civiltà più straordinarie. E le più diverse. Noi eravamo come il punto di fuga. La pietra angolare dell’intero pianeta. Infinite lingue potevo ascoltare nel corso di una stessa giornata, dalla sera alla mattina, mentre vedevo sbarcare uomini vestiti nelle fogge più strane, e ciascuno di diverso colore nel volto. “Chissà quale sole - pensavo - assai lontano da questo, ne ha bruciato le carni?... “ - E con gli uomini i loro carichi... bagagli e mercanzie... forzieri che stipavano tesori inenarrabili e gli oggetti più curiosi. Le gemme del deserto, le stoffe di Damasco, gli ori di Bisanzio, le pergamene di Costantinopoli. E noi... noi tutti... noi tutte, stavamo nell’aria tagliente dei moli, ciraondate dal fasto dei nostri palazzi, tra l’acqua e la luce, con lo sguardo abbacinato ad ammirare.

VOCE: Come a dire che Otello rappresentò anche qualcos’altro da sé, e che pure di questo tu t’innamorasti...

DESDEMONA: Pure di questo, sì. Troppe cose mi giungevano con il suo amore. La festa variopinta di quei traffici quasi mi sembrava simulasse il paradiso. Certo, la guerra imperversava, ma era una guerra di conquista: una guerra gloriosa combattuta in isole lontane. Anche della guerra, a Venezia, non giungevano che i benefici. Non riuscivamo a immaginare, per essa, una sola vittima. Forse in Otello io concepii un uomo in cui potesse concentrarsi la vastità di tutte queste bellezze senza che nulla andasse perduto. Ma perché ciò avvenisse con tanta forza e con tanto trasporto bisognava che quest’uomo fosse davvero un campione del nuovo mondo. Un uomo del quale fosse impossibile dubitare pure quando raccontava l’impossibile.

VOCE: Indubbiamente dimostrasti molta determinazione nell’abbandonare tuo padre per sposare Otello. Il coraggio era una virtù che non ti era affatto ignota; forse per questo ti entusiasmava tanto riconoscerla negli uomini.

DESDEMONA: Certo non mi sarei mai innamorata di un vile.

VOCE: Andrei oltre.

DESDEMONA: In che senso?

VOCE: Dì... amavi immedesimarti nelle avventure che ti raccontava Otello?

DESDEMONA: Se l’avventura era bella mi sarebbe piaciuto averla vissuta affianco del protagonista.

VOCE: Ma io dico proprio... esserne tu stessa la protagonista!...

DESDEMONA: Come donna non credo, come uomo di sicuro. (Rumore di carte) Cos’hai lì? Cos’è che sfogli?

VOCE: La tua storia. Intendo, la tua storia così come noi la conosciamo: divisa in scene e in battute. Sto cercando perché... (ancora rumore di carte) perché forse puoi aiutarmi a chiarire una frase un po’ controversa che, ti confesso, mi incuriosisce molto.

DESDEMONA: Io?... No, non ci sperare. Io, oramai, ho dimenticato quasi tutto delle mie vicende. Tranne l’essenza. Tranne il dolore, e l’amore.

VOCE: Ma tu fammi provare lo stesso. Ascolta. Alla terza scena del primo atto Otello deve difendersi, dinanzi a tuo padre e al Doge di Venezia, dall’accusa di averti sedotto gazie all’uso di pratiche magiche... di fatture amorose. Insomma, dall’accusa di stregoneria. Per farlo egli dichiara che, a sedurti, non fu alcun esercizio occulto bensì, come sappiamo, la suggestione suscitata in te dai suoi racconti di viaggi e dice:”Avrebbe voluto... - è evidente che si riferisce a te! - avrebbe voluto non avermi mai ascoltato, ma avrebbe anche voluto che un uomo simile il cielo l’avesse creato per lei.”

DESDEMONA: Verissimo. Conosci bene l’incanto che operò su di me.

VOCE: Già, ma in una nota a piè di pagina trovo scritto:’Passo che si può diversamente interpretare, ad altri pare più consono leggere:”Che il cielo avesse fatto lei un tale uomo.”’ - Insomma... non può essere che tu ti sia innamorata di Otello poiché nel suo ardore intuisti l’uomo che tu avresti voluto essere?

DESDEMONA: Sciocchezze! Le frasi vivono appena il tempo che serve a pronunciarle. Cavarne documenti è una meschinità che detesto. Facile rendere ambigue le parole, e muoverle come si vuole sino a pietrificare i pensieri, che per natura sono più inquieti e inafferrabili del sangue. Stringili in pugno, se puoi!... Vedi bene che è impossibile, eppure ci provi. E’ la flessibilità delle parole a consentirti questa presunzione. La loro morbidezza. La loro vanità. Perciò preferisco i gesti. Le azioni inevitabilmente chiare. Ma voglio risponderti ugualmente. Io ho voluto essere una donna forte. E lo fui. Una donna tanto audace da poter vivere al fianco di un uomo non meno audace di lei senza abbandonarlo mai... anche attraversando il mare per recarmi sino ai limiti di un campo di battaglia. O tu credi che una donna non possa essere così?

VOCE: Lo credo, invece. Ma consentimi d’essere un semplice notista.

DESDEMONA: Lo dici per cortesia. Ma torna a quel giorno... quando la mia decisione fu presa e andai incontro alla mia scelta come potrebbe solo un martire chiamato dalla Grazia. Riascoltami, e non mi farai più certe domande. Ultima scena del primo atto. A Otello si chiede di partire, di andare a combattere. Sono lì il Doge, i vecchi del Consiglio, e c’è pure mio padre. E, con loro, ci sono io.

STACCO

OTELLO: Venerabili senatori, la tiranna abitudine ha fatto sì che il giaciglio di pietra e di terra della guerra sia per me diventato il più molle letto di piume. Non ritrovo la mia naturalee pronta alacrità come in mezzo ai disagi. Accetto di condurre questa guerra. Frattanto, inchinandomi umilmente alla vostra autorità, chiedo sia concessa a mia moglie una degna situazione: privilegi e trattamento quali spettano al suo rango, e un alloggio e un seguito che siano degni dei suoi natali.

DOGE: Se credete, potrà tornare presso il padre.

BRABANZIO: Non accetto.

OTELLO: Né posso io.

DESDEMONA: E neppure io. Non vorrei star là a infastidire mio padre con la mia presenza. Graziosissimo Doge, ascoltate con orecchio benevolo quanto sto per dirvi, e fate che in voi la mia debolezza trovo sostegno.

DOGE: Che vorreste, Desdemona?

DESDEMONA: Che io abbiamato e ami il Moro da voler vivere con lui, lo proclamano al mondo la mia aperta ribellione e le mie tempestose vicende. Il mio cuore è totalmente legato alla vita di mio marito. Io ho visto il volto d Otello nel suo spirito, e la mia anima e la mia sorte le ho consacrate al suo valore e alla sua gloria. Se mi terrete qui, larva di pace, mentre egli è in guerra, mi priverete dei riti del mio amore. La sua assenza sarà pr me un intervallo angoscioso. Lasciate che io lo segua.

STACCO

DESDEMONA: Spero che adesso tu non abbia bisogno d’altro.

VOCE: Io no. Ma forse tu, piuttosto. Sto per andarmene... c’è niente che ti va di ricordare e che può essere io non conosca?... Quello che vuoi.

DESDEMONA: Sì... - sì, solo una cosa. Prendila quasi come una lettera a lui. Vorrei ricordare... vorrei ricordare almeno solo la dolcissima passeggiata in gondola con Otello la sera delle nostre nozze segrete. Ancora tutto era sereno e il pensiero del futuro appariva come una fonte di limpidissime gioie. Andavamo lungo Riva degli Schiavoni, verso il Canal Grande. Dalla laguna veniva un vento freddo che sapeva di burrasca. Il Moro mi teneva congiunte le mani sul grembo con una carezza che appena le sfiorava e le riscaldava. Il gondoliere remigava lento perché potessimo assaporare, ad ogni giro sullo scalmo, i battiti delle acque leggere come un cuore, e i tremolii delle stelle che bruciavano nei loro riflessi. Mi scoprivo, stupefatta, a rimirare la mia città quasi che non vi fossi nata e vissuta... quasi fossi pur io divenuta un ospite straniero alla sua corte... come il mio caro sposo, giunto da altri oceani, da altri orizzonti. Poi, per le piccole calli silenziose, entravamo nell’arco buio dei ponti come nel cavo di minuscole grotte... un attimo di tenebre, e poi ancora nella luce della luna colma di azzurri profondi e di vapori, dove ogni peso si faceva vuoto e levitava in un alito profumato. Io socchiudevo gli occhi... m’accorgevo che la felicità andava misurata respiro a respiro. Nell’emozione pacata di un sorriso trattenevo l’irruenza di un giubilo incontenibile. E lui stringeva le mie mani tra le sue.


Incontro con Shylock

di

Giuseppe Manfridi

Siamo nel sedicesimo secolo. Nelle angustie del ghetto di Venezia vive e opera il vecchio  usuraio ebreo Shylock, temutissimo dai più per la triste fama che lo circonda. Lo si sa avido e impietoso, e non c’è cliente che egli non trasformi in vittima. Ma è pure dileggiato come un rifiuto. Scansato, fuggito.

Il più fiero ed acceso dei suoi denogratori è senz’altro Antonio, il giovane mercante veneziano che, per l’appunto, dà il titolo alla commedia: “Il mercante di Venezia”. Allorché Antonio, volendo far fronte alle urgenti necessità economiche dell’amico Bassanio, accetta, con un certo coraggio, di affidarsi all’usura di Shylock, questi coglie l’occasione per imporre al suo acerrimo antagonista un negoziato feroce: se entro tre mesi Antonio non avrà reso i tremila ducati avuti in prestito, egli dovrà saldare il debito con una libbra della sua stessa carne. Antonio, sicuro dei suoi traffici marini e comunque deciso ad aiutare l’amico in difficoltà, non esita a sottoscrivere il contratto. Ma le clausole pattuite si riveleranno, ahilui, una trappola micidiale. Nel corso dei tre mesi prefissi, difatti, mille disgrazie si abbatteranno sulla testa del povero mercante, le cui ragusine, cariche di tesori, affonderanno tutte prima di giungere a destinazione.

Scaduto il termine stabilito, Shylock, inesorabile, trascina la sua causa dinanzi al Doge, il quale, pur se a malincuore, non trova modo di sottrarre a morte certa Antonio, che appare ormai già rassegnato.

La turpe operazione sta per avere inizio quando interviene uno sconosciuto e giovane avvocato padovano... questi dapprima conferma la leggitimità del caso, aggiungendo, però, che Shylock non deve azzardarsi a versare una sola goccia di sangue dal corpo della sua vittima: il sangue, difatti, non è menzionato nel testo del contratto. Inoltre, prosegue con fare cavilloso l’implacabile avvocato, dopo aver preso quanto gli spetta, Shylock dovrà essere giudicato per avere attentato alla vita di un nobile veneziano, e quindi condannato a morte. A questo punto il doge interviene per salvare quantomeno l’usuraio, così astutamente beffato, dall’esecuzione capitale e commutando la pena di morte nella confisca dei beni, che andranno metà allo stato e metà ad Antonio.

Siamo così all’epilogo della storia. Quel che segue è un tripudio di nozze coordinate e di impreveduti smascheramenti in un clima di grande festa collettiva, mentre il vecchio Shylock, abbandonato anche dalla figlia Jessica scappata con un cristiano, se ne va ridotto in miseria. 


SHYLOCK: Fila via, tu! Cos’hai da guardare?... Mai visto uno straccione, un mendicante?... Eccolo qui! Presente! Contento?... Ora gira i tacchi e vattene! Oppure frugati in tasca e pagati il permesso di tenermi gli occhi addosso!... Capito che ho detto o no?

VOCE: Povero Shylock! Che fine triste hai fatto!

SHYLOCK: E che ne sai tu come mi chiamo?... Chi sei? Che vuoi?

VOCE: Sono uno che ti conosce ma che non pretende di essere conosciuto da te. E quel che vorrei è parlarti. Posso?

SHYLOCK: Qui? A un angolo di strada?...

VOCE: Se non c’è altro posto...

SHYLOCK: Non mi va di parlare a qualcuno dovendolo guardare dal basso all’alto. Mettiti giù!

VOCE: Per terra?

SHYLOCK: Mi dispiace, non ho più poltrone. E se posso starci io per terra, che sono molto più vecchio di te...

VOCE: D’accordo, d’accordo!... Così va bene?... 

SHYLOCK: Comodo?

VOCE: Non più di te.

SHYLOCK: Ah, se per questo, io sto comodissimo. La pietra, oramai, m’è divenuta parente stretta. Non cambierei questo lastricato col più soffice dei materassi. Ci intendiamo. Non mi chiede, mi sopporta e quello che è si vede. Fossero gli uomini così... che se poi gli dici ‘cuore di pietra’, la prendono per offesa!... Insomma, che cerchi?... Hai da spendere insulti o da elemosinare un prestito?... Ti mando via deluso in ogni caso. Passato è il tempo!... Se cerchi soldi t’hanno indirizzato male: ho tasche senza monete, vestiti senza tasche e uno straccio per vestito. Ma non basta... c’è pure chi sostiene che sotto questo straccio non vi sia più nemmeno un corpo. Se così è sarà che son già morto. Meglio, preferisco. Allora ascoltami come si ascolta un morto.

VOCE: Cioè, come?

SHYLOCK: Tremando. Ma con rispetto. Anche se all’apparenza, ammetto, non vedo perché dovresti. Io sono il risultato di un destino che è stato fatto rotolare giù per un dirupo in una botte irta di chiodi. Che poteva rimanerne?... Brandelli. E qui li vedi. Bello l’usuraio ridotto a cliente d’usuraio! Beh, proprio quel che è successo a me. Sai immaginare nulla di più penoso?

VOCE: E sei tu a dirlo? Non pretendevi rispetto?

SHYLOCK: Esistono pene molto rispettabili.

VOCE: Per conto mio, sta’ certo, non ti disprezzo affatto.

SHYLOCK: Ah, ma il disprezzo so sopportarlo, eccome! Anzi, ti dirò... sguazzo meglio nel livore altrui piuttosto che nella simpatia del prossimo. Che comunque, io, ho in acerrima antipatia. Oh, sia chiaro... mica sono stato sempre così. Prendila come una mia conquista. Devo chiamare a raccolta i ricordi di tutta una vita per confermarmi, ben saldo, in tanta insensibilità. Come vedi, ho poco da dire e nulla da fare, né da pretendere né da contestare. Sono un vecchio che non invecchierà più. Sono un metallo rovente... qualche forte vento potrebbe forse stiepidirmi. Ma poco, e per poco. In breve: da Shylock non t’aspettare... musiche che non siano degne di Shylock. Io perpetuo tale e quale sono nelle parole del mio dramma - dici di conoscermi, lo conoscerai - ... e che mi descrivono benissimo.

VOCE: Dramma o commedia?

SHYLOCK: La mia storia ti pare una commedia?

VOCE: Non dico la tua storia, ma l’opera che la racconta siamo abituati a considerarla più una commedia che un dramma.

SHYLOCK: Ovvio! La mia sofferenza conta meno che nulla. Anzi, il fatto che io sia stato ridotto a quello che sono, peggio che un cane scacciato, è la nota più lieta di tutta la vicenda. E’ l’’happy end’ che leva il giubilo degli spettatori... è il concludersi in gloria di avvenimenti  tormentati. Rischio di spuntarla, ed è lo sconcerto generale... poi mi si truffa, vengo messo in scacco e tutti tirano un bel respiro di sollievo. Se a questo aggiungi lo sfizio di qualche matrimonio d’occasione, te la puoi figurare tutta quell’accolita di imbroglioni esultante e soddisfatta! Squllino le trombe e si dia il via alle danze!... Pollice verso per l’aguzzino! Pollice verso per il giudeo!...  La canaglia è sconfitta e mandata alla gogna mentre i giusti trionfano spassandosela con le sue ricchezze!... Che poi erano il frutto di tutta una vita... tutta una vita di fatica e patimenti. Per il resto, quale altra gioia mai?... Ma sicuro, non c’è dubbio: è una commedia, e che commedia! D’altronde, si sa...è triste regola che il benessre di certuni nasca dal dolore di certaltri. Legge durissima, ma tanto più spietata quando a fare la parte degli altri è uno solo. Eppure, chissà come, è proprio questo il caso capace di suscitare minore interesse e commozione. La maggioranza, caro mio, assurge sempre a categoria morale. E lo dico con sdegno.

VOCE: Parli di leggi durissime. Va bene, concordo. E le dici spietate. Concordo. Ma tu, allora?... Tu, che non avresti esitato un solo istante a rasoiare via una libbra di carne viva dal petto del povero Antonio?

SHYLOCK: Ma sentitelo... il povero Antonio!... Il povero Antonio aveva sottoscritto il contratto in piena libertà... senza dire che aveva tutto il tempo per saldare il suo debito entro le scadenze prefisse. Non lo fece,  e io non pretesi altro che quanto mi spettava di diritto.

VOCE: Ma lo pretendesti, per l’appunto, spietatamente.

SHYLOCK: Meglio dire: inflessibilmente. Evitai solo di fargli concessioni. Nessun colpo improvviso o vigliacco. Io mi rifeci solo a quello che, da reciproca intesa, venne steso nero su bianco. La musica delle carte, se rendo l’idea. Che era già musica di Shylock. Antonio, e lo sai benissimo, non ignorava nulla di quel contratto. Prima formulato a voce, poi redatto, quindi riletto e quindi firmato. Da me, e da lui. Ammetto: non fui magnanimo, ma non perciò spietato.

VOCE: Un distinguo esilissimo, in certi casi.

SHYLOCK: Ma cruciale. E legittimo.

VOCE: Vuoi riascoltarlo l’eco della tua voce in quei momenti lì?

SHYOLCK: Musica. Io la chiamo musica. La mia musica.

VOCE: E dunque... primo atto, scena terza.

STACCO

SHYLOCK: Signor Antonio, più e più volte a Rialto mi avete biasimato per i miei denari e per i mei interessi, e io sempre a sopportare tutto con una paziente alzata di spalle, perché la sopportazione è il distintivo di tutta la nostra razza. Mi avete chiamato miscredente... cane di uno strozzino, e avete sputato sulla mia gabbana di ebreo; e tutto ciò perché? Per come uso quel che è mio. Ebbene, ora però vi servo. Avanti, dunque! Voi venite da me e mi dite: Shylock, vorremmo del denaro. Così mi venite a dire, voi che avete schiccherato il vostro moccio sulla mia barba e che mi avete preso a calci, come e peggio di quando si scaccia un randagio dalla soglia di casa. Mi chiedete del denaro! E io cosa dovrei rispondervi? Non farei forse bene a dirvi: “Ha forse denaro un cane? E’ mai possibile che una bestiaccia rognosa possa prestare tremila ducati?” - Oppure dovrei inchinarmi sino a terra e col tono di uno schiavo, col cuore in gola e biascicando umilmente mormorare: “Caro signore, mercoledì passato mi avete vomitato addosso, il tal giorno mi avete preso a pedate, e un’altra volta mi avete chiamato bestia schifosa... e per tutte queste cortesie è giusto che vi presti tanti soldi.”

ANTONIO: E sono pronto a chiamarti così di nuovo, e anche a prenderti a calci. Se vuoi prestarmi questa somma, fallo, ma non come a un amico. Quandomai l’amicizia ha preso dall’amico un frutto dello sterile metallo? Prestala piuttosto al tuo nemico, dal quale, se mancherà all’impegno, potrai a viso più aperto esigere la tua penale.

SHYLOCK: Via, ma come vi irritate! Io vorrei che noi due fossimo amici; vorrei guadagnarmi il vostro affetto, dimenticare gli affronti con cui m’avete insozzato e soccorrere ai vostri bisogni senza pretendere neppure un centesimo di interesse per quel che vi do, ma voi niente... non volete nemmeno ascoltarmi. E’ un’offerta cortese. E di questa cortesia voglio darvi una prova. Venite con me da un notaio e firmatemi un’obbligazione. Ma solo voi. Così, per scherzo... firmate che, per quel tal giorno e in quel tal luogo, mi rimborserete la somma che vi presto o, come sarà dichiarato nel contratto, l’ammontare della penale sarà rappresentata da una libbra esatta della vostra bella carne da tagliarsi e da prendersi in quella parte del vostro corpo che a me piacerà.

STACCO

SHYLOCK: Mi abbraccerei, se lo potessi. Quel me stesso lì, di allora. Le ripeterei anche oggi quelle parole. Dalla prima all’ultima.

VOCE: Anche sapendo quello che poi...?

SHYLOCK: ‘Quello che poi’ è secondario. E’ lì che ho vinto. E nel volermi ancora così.

VOCE: A ogni buon conto, Shylock, sappi che, nel tempo, non pochi hanno voluto riconoscere al tuo personaggio una dignità e un valore di cui puoi farti vanto.

SHYLOCK: Oh, oh... la buona novella!

VOCE: Certo, è giocoforza che nella temperie della scena il publico si accenda contro di te parteggiando per i tuoi avversari...

SHYLOCK: Dì carnefici, piuttosto!

VOCE: Quelli che sono. Poi, però, nel computo calmo delle valutazioni, molte opinioni tendono a cambiare prospettiva, tanto che, oggigiorno, la schiera dei tuoi ammiratori si è fatta assai nutrita e determinata.

SHYLOCK: Ammiratori!... Addirittura!

VOCE: Diciamo, al minimo, di gente disposta a giudicarti con ben altra clemenza da quella che ti toccò in sorte, anzi: che non ti toccò in sorte dinanzi al tribunale di Venezia. Voglio leggerti, ad esempio, quanto ha scritto in poche righe, e a tuo vantaggio, un importante critico della mia epoca; e credimi... è solo un esempio... posso?

SHYLOCK: Per quel che me ne importa!

VOCE: Ebbene, dice... “E’ davvero impossibile decidere per chi parteggiare, se per Shylock o per Antonio: la crudeltà dell’uno, ahimè, sembra troppo giustificata; la mitezza dell’altro, ahimè, troppo malfida.”

SHYLOCK: ‘Ahimè’ lo dico io. Eccolo un avvocato che m’avrebbe fatto comodo allora! Sentirle adesso, queste cose, serve a poco. Solo ad aumentare la rabbia. Se pure ne hai altre di queste perle, evita.

VOCE: ne avrei, ne avrei.

SHYLOCK: Appunto. Passa oltre.

VOCE: Che la giustizia, si sa, ha il passo lento.

SHYLOCK: Ah, sicuro. Quello del boia è sempre più veloce. Si giudica, si condanna, cade la scure, poi si fa: ”Ops... ci siamo sbagliati, riattaccate la testa.” E per riattaccarla, la si riattacca. Se però non riesce più a deglutire... ah beh, quella è una questione secondaria. Ma l’hai detto: si sa. Prima c’è chi uccide, depreda e se la gode, dopodiché i nipoti dei nipoti della vittima li si manda a sputare sulla tomba dell’assasino e giustizia è fatta. O perlomeno: quella giustizia è fatta.

VOCE: A ogni modo, insisto, tu non è che fossi proprio il tipo della vittima indifesa. Sapevi combattere con gli artigli e con i denti. E’ comprensibile che, a giudicarti, sia facile equivocare... o, comunque, che sia facile regolarsi a fatica tra pena, spavento e ammirazione.

SHYLOCK: Con l’ammirazione a la paura, soprattutto se altrui, posso convivere benissimo. Potessi invece sbarazzarmi della pena!...

VOCE: Sei stato tu a parlarne per primo.

SHYLOCK: Non per auspicarmela. La sopporto, come tutto il resto. Ma quando tocca il suo turno vuol dire che l’ingiustizia è già bella che consumata. Meglio starne alla larga! Ma com’è che dite voi?... A ognuno la sua croce. A me le mie.

VOCE: Senz’altro vero, ma per dirla tutta, Shylock... io stesso ogni volta che, ripercorrendo le tue vicende, mi trovo quasi sul punto di schierarmi dalla tua parte vengo come ricacciato indietro da una parola, da un gesto che - puntualissimi - arrivano a dirmi:”In guardia! Non ti fidare!”

SHYLOCK: Ma che parole? Che gesti?

VOCE: Tuoi, Shylock! Tuoi!

SHYLOCK: Sai tu di che parli!

VOCE: Certo che lo so. Vuoi un esempio?

SHYLOCK: Sei pieno di esempi, sei!...

VOCE: Non volevo farmi trovare impreparato.

SHYLOCK: Oh-oh... il signor diligentino!...

VOCE: Giuro, è l’ultimo.

SHYLOCK: E sù avanti, sentiamo!...

VOCE: Dunque... (Sfoglia) prima scena del terzo atto: ti si sente piangere disperato per la fuga di tua figlia e si pensa: “Però!  A questo diavolo di usuraio non si può dire che manchi il cuore di un padre.” E tu, subito, t’affretti a farci capire che tante lacrime sono solo per la perdita dei tuoi tesori, portati via come giusto pegno per una dote che non ti saresti mai sognato di dare.

SHYLOCK: Perdita gravissima... pietre di inestimabile valore!

VOCE: Alle corte... vuoi essere sincero una buona volta?...

SHYLOCK: Sempre stato. Sarà che mi confondi con qualcun altro.

VOCE: Va bene, diciamo: chiaro.

SHYLOCK: Nemmeno la fiamma è troppo chiara per un cieco.

VOCE: Non credo d’essere cieco. Forse un po’ miope, e allora aiutami. - Cosa ti addolorò maggiormente in quella fuga: l’essere stato abbandonato o la perdita di quanto Jessica, per sopravvivere, porto via con sé?

SHYLOCK: Che domande! Ma il furto dei miei capitali, è logico!... E ti prego di non farmi lezioni di buon senso, ci mancherebbe solo questo!... Poi da uno che nemmeno conosco, figurarsi!... Sai quanto me ne può importare di quello che pensi!... Tanto tu m’hai giudicato già da un pezzo, vero o no?... E sei venuto qui solo a cercare conferme, e sai perché? Perché il tuo giudizio ti pesa, ma io questo peso te lo lascio... non farò nulla per farti cambiare idea. E’ una tua responsabilità. Uno specchio, ecco cos’è... uno specchio in cui rifletti te stesso fatto a mia misura. Tientelo! Sei rozzo e volgare e non puoi che partorire pensieri rozzi e volgari. Ma allora apri bene le orecchie... l’unica colpa che può autorizzare un padre a misconoscere la propria carne - la carne della propria carna - è il tradimento! Ti suona questo?... Il tradimento. E io... io non venni forse tradito da mia figlia?... Rispondi: non fu così?... Perciò l’ho bandita da me. Perciò ho smesso di volere il suo bene. Per il suo tradimento ho cessato di amarla. Quel che non ho mai sperimentato, invece, è l’infedeltà dell’oro. Ti sembra dunque strano che io abbia potuto soffrire tanto per la sorte dei miei denari?... Jessica era già persa da tempo: da quando rinnegò la sua razza provando vergogna per essa, e di più ancora, provando vergogna per suo padre. Non sopportava di essere nata ebrea. Come rimpiangere una figlia simile?... Scappata con un cristiano e corsa battezzarsi, smaniosa di disinfettarsi dalla sozzura della nostra vicinanza! So bene che non era una vita facile, per noi, a Venezia; ma ‘resistere’, ‘sopportare’... non sono questi gli imperativi insegnamenti dei nostri sacri testi?

VOCE: Suvvia, Shylock... adesso, però, non esagerare!

SHYLOCK: Non esagero. Ma nemmeno un po’. Dicevi di esserti preparato, e allora?... Dimostramelo. - A noi ebrei era interdetto ogni rapporto con la società, e se una sciagura si abbatteva sulla Repubblica ci si vendicava su di noi. Puntualmente, sempre. Lo sapevi questo?... Lo sapevi?...

VOCE: Ma sì, che fosse una convivenza particolarmente difficile...

SHYLOCK: Ma sciacquati la bocca! Convivenza!... Quella tra un servo e un padrone la chiameresti convivenza?... Io no. Prigionia la chiamo. Prigionia!... Venezia ci aveva voluti e Venezia avrebbe anche dovuto proteggerci, tutelarci, mentre invece...

VOCE: Aspetta un attimo! Parli di una città in cui pure a te fu possibile giocare, e con discreto successo, la tua brava parte nella caccia al profitto.

 

SHYLOCK: Ah, questo sì. E me ne vanto... perché ero tanto abile e tanto ostinato da superare i mille impacci della mia condizione... difficoltà che avrebbero messo a terra ma sai quante solide tempre d’affaristi e d’imbroglioni!...  Ma io li sapevo maneggiare i soldi, e così fu che mi riuscì di vivere decentemente tra quelle palafitte. Non c’era virtù che tenesse banco dinanzi a chi possedeva l’arte di far fiorire, in quattro e quattr’otto, la pianta rigogliosa di un intero capitale dall’inezia di una sua piccola radice.  

VOCE: E tutto serviva allo scopo: pure l’usura.

SHYLOCK: Tutto ciò che serve è desiderato e lecito, e , sta’ sicuro, l’usura non serve solo agli usurai ma anche ai loro clienti.

VOCE: Se addirittura vuoi farmi credere che si tratti di un’attività ben vista...

SHYLOCK: Non sarà ben vista ma di certo è richiesta.

 

VOCE: E sia, ma torniamo a noi.

SHYLOCK: Quando uno non sa che rispondere!...

VOCE: Che prefrisco parlare di te, Shylock. E il tempo non è molto. In particolare, vorrei tornare a quella fatidica giornata in tribunale, quando vedesti rovesciati i tuoi diritti e vanificate le tue speranze di vendetta. Ti è stato detto che il giovane avvocato, tanto abile nello sbrogliare la causa a vantaggio di Antonio, altri non era che la giovane sposa del suo amico Bassanio?

SHYLOCK: Sì, sì... certo che l’ho saputo come venne ordita quell’ignobile tresca.

VOCE: Beh, che sia proprio tu a parlare di tresca...

SHYLOCK: Sicuro, e con pienissimi diritti. Perché Shylock... non ha mai tramato alle spalle, lui!... Non ha mai agito oltre i limiti della legge, mai!... All’interno di essi, però, sapeva fare acrobazie. Non era furfanteria la sua, ma ingegno. Qualità che i mediocri s’affrettano a rinnegare anteponendole i pallidi valori di una morale fumosa che non pretende alcuna attitudine e che s’adatta a chiunque. Ah, i cristiani... mi viene da ridere a pensarci!

VOCE: Capisco la tua rabbia, ma tanta coscienza di te dovrebbe almeno confortarti.

SHYLOCK: Io quello che mi domando è come abbiano fatto ad averle tutte vinte! Tutte!... Come? E’ un mistero per cui non mi darò mai pace. Quel poco, pochissimo, che hanno dovuto patire è davvero nulla se confrontato alle nostre tribolazioni. Ancora brandiscono, per glorificarsi, il ricordo di qualche pugnetto d’ossa e di carni deperite sacrificate secoli e secoli addietro. Ma cosa avranno mai da spartire coi loro martiri? Stitici in tutto, anche nei ricordi. E pure i luoghi di quei supplizi... cosa sono divenuti ormai? Poche brecce dirupate. Caverne a cielo aperto dove non potrei nemmeno difendermi dalla pioggia. Pensa al mio popolo, piuttosto! Il mio popolo che ha innaffiato di sangue e sudore il deserto... il mio popolo che che ha dovuto costruire le sue città nella polvere, levando mura e palazzi dove non c’era pietra che fosse più consistente di un grano di sabbia e dove pure la gelida fibbra dei rettili stecchiva nell’arsura. E pensa alle nostre persecuzioni che non hanno mai avuto termine e che non ne avranno in futuro, poiché, se è vera l’immagine che mi tormenta, crudeltà sempre più atroci ricadranno sui figli della mia razza, e ancora strazi, disprezzo e sterminio.

VOCE: Ora mi fai rabbrividire. Tu sai forse cos’è accaduto al mondo nelle epoche successive alla tua?

SHYLOCK: Io non so nulla. Prevedo.

VOCE: Quel che prevedi si è già avverato.

SHYLOCK: E continuerà. Ma non parlarmene! Son già troppo colmo di me stesso per aggiungere altro furore alla violenza che mi mastica l’anima. E tu sai che, per un’eccesso di furia, i morti rischiano di tornare in vita?... Lo sai?... Rischio vostro più che mio. Potrei sollevarmi da questa pietra, dove incarno da pezzente una miseria eterna,  e avanzare con un passo in cui tuoni tutto il gemito della mia specie. Un lamento che cadrebbe come un manto sulla terra a spegnervi tutti nella grandiosità della nostra ombra... a voi, da sempre, inconoscibile.

VOCE: Che sinistro anatema! Temo a riaverti tra noi con lo stesso odio di allora.

SHYLOCK: Ah, puoi giurarci: così verrei. Il mio odio non può diminuire. Ho la memoria aguzza io. Ogni insulto ricevuto, ogni oltraggio, ogni sputo mi si è ficcato tra le viscere a infocolare, con l’incandescenza di un carbone acceso, un incendio il cui fumo, dal profondo di me, è affiorato alla pelle trasmettendo nel corpo i colori dell’ira. E modellandomi, torcendomi nelle linee delle gambe, della schiena e del viso sino a cavarne questo mio torvo e inconfondibile profilo. Io non posso dimenticare. Come potrei? Sarei un altro uomo se dimenticassi... potrei finanche confondermi con un cristiano, se dimenticassi. La mia natura è tutta qui: nella memoria che possiedo. Come un minerale: è cuore del mio cuore. E solo la coscienza di quanto mi è toccato subire basta a determinare l’intera complessione di un personaggio pulcioso e spregevole quanto vi pare, ma incontestabile emancipatore... di un abietto sin troppo ardente che non riuscirete mai a scacciare tanto lontano da voi quanto vorreste. Trituratemi pure le ossa... non basterà a far tacere le strida della mia voce... impeciatevi le orecchie... non basterà a frenare l’onda del mio fremito!... Ho risorse, io, che voi ignorate e contro le quali non c’è ghetto, non c’è muro. Solo un Dio, probabilmente. Ma non il vostro. Io dico il Dio del dolore e non quello della compassione. Un Dio senza progenie e che per noi significa una potente attesa. Un Dio che non scende, che non si cala, non si confonde. Che sta, e conosce senza dover sperimentare. Ignaro di miracoli. Un Dio del quale il vostro Dio è una costola. Un Dio che lo precede e gli susseguirà. Ora tu... ascolta bene quello che sto per dirti, dopodiché vattene, sono stanco: la storia dei popoli che che ci hanno perseguitato e di quelli che ci perseguitaranno  verrà ricordata, nella storia delle storie del mondo, come una breve parentesi nella storia del popolo ebraico. E si dirà allora, in un mediocre compianto: “Poveri carnefici, stritolati dal giudizio dei tempi!”


Incontro con Giulietta

diGiuseppe Manfridi

Il dramma di “Romeo e Giulietta” venne scritto da Shakespeare verso il 1595. L’argomento, molto noto in Italia dove era già stato trattato da Masuccio Salernitano e Luigi da Porto, giunse a Shakespeare nella più celebre versione di Matteo Bandello. Si tratta della tragica vicenda amorosa di due giovani appartenenti a due nobili famiglie veronesi in lotta tra di loro: i Montecchi e i Capuleti.

Il personaggio di Giulietta, poco più che una bambina, fa la sua comparsa nel dramma alla terza scena del primo atto. Nelle sale del grande palazzo dei Capuleti fervono i preparativi del ballo che, la sera stessa, verrà dato in suo onore e si parla delle prossime nozze con il Principe Paride, per il quale Giulietta non ha la minima vocazione. Ma sarà proprio nel corso di quella festa che la fanciulla verrà segretamente avvicinata da un giovane mascherato introdottosi furtivamente nel palazzo. Fra i due adolescenti corrono poche ed intense parole il cui effetto è un amore folgorante. Ma quel giovane è Romeo: l’unico erede del vecchio Montecchi. La notte che segue al loro incontro, i due amanti, in una memorabile scena presso il verone di Giulietta, pronunciano il più solenne dei giuramenti, e il giorno successivo già celebrano segretamente le loro nozze. Poche ore dopo Giulietta è raggiunta dalla notizia che Romeo, per vendicare la morte dell’amico fraterno Mercuzio, ha ucciso in duello il cugino di lei, Tebaldo, e perciò è bandito in perpetuo da Verona. Ma il giovane Montecchi, quella notte,  raggiunge comunque la sua sposa per poi fuggire alle prime luci dell’alba. Giulietta non può attendere a lungo il mutare degli eventi: le pretese nozze col Principe Paride incombono. Ultima speranza è il piano congegnato dal fedele confessore, Frate Lorenzo. Questi, dedito a scienze farmacologiche e all’erboristeria, le darà un siero che la farà cadere in un sonno catalettico, in tutto e per tutto simile alla morte. Dal finto suicidio ella si dovrebbe destare entro poche ore, attesa da Romeo, richiamato nottetempo da Mantova. Ma quando Giulietta schiude gli occhi nell’ombra della cripta vede con orrore, ai piedi del giaciglio, il corpo esanime del suo innamorato che, credendola perduta, si è tolto la vita con un veleno. La fanciulla intuisce il desegno di un tremendo equivoco e, mentre una folla tumultante preme alla porta del sepolcro, si trafigge con il pugnale levato dalla cintola del suo sposo.


VOCE: Giulietta... posso stare qui ad ascoltarti, all’ombra di questo verone dove tu sei tornata e dimori in perpetuo, invisibile come un’idea?

GIULIETTA: Se sono invisibile come fai a sapere che mi trovo a questo balcone?

VOCE: Le idee hanno una loro forma e uno loro sostanza, e, non vedendole, è possibile intuirne la presenza e comunicare con esse.

GIULIETTA: Se, com’è vero, io sono un’idea, anche il luogo che m’accoglie non è altro che la vaga parvenza, solo l’immagine, del mio verone. Essa mi fa da cripta e dal suo ciglio mi sporgo ormai molto di rado. Tu vuoi ascoltare me? Ma io io non ho nulla da dire.

VOCE: Io so chi sei. Giulietta, figlia dei Capuleti. Tutti conosciamo l’infelice storia del tuo amore. Fu scritto:”Poiché non vi fu mai storia più dolorosa di questa di Giulietta e del suo Romeo”.

GIULIETTA: E’ dolce sapersi presso gli uomini come una creatura dei poeti.

VOCE: Ma è possibile immaginare che un tempo, a questo balcone...?

GIULIETTA: Ascolta. Io sono solo ciò che ricordo, e ciò che ricordo è vero poiché colui che m’inventò fu tanto grande nel descrivere il mio dolore da donarmi pure il seme della memoria. Io sento in me l’intera complessità di tutte le cose create, ma se pure di carne o di solo pensiero non so. Di certo rammento con forza di aver vissuto, quale che sia stata la forma del mio esistere e lo spazio che l’accolse. La mia sofferenza, certa come le parole che sto pronunciando, è pane degli uomini tutti. Li commuova e li conforti! Questo è ciò che conta. Vorrei si parlasse di me solo come di una fanciulla che, giunta appena all’orlo dei suoi quattordicianni, venne travolta da un sogno santo e sventurato. Come tutti i grandi sogni che vivono i mortali. Ora, di qua dal limite delle mie vicende umane, nell’oblio di un universo dove non scorre il tempo, io resto memoria di ciò che sulla terra fui. E se pure non ebbi un’esistenza reale, a generarmi fu comunque un’anima tanto vasta da comprendere in sé tutti i germi della vita.

VOCE: E non vi è nulla di cui sei certa. Possibile?

GIULIETTA: Oh, di aver amato sì. E vere furono pure le mie lacrime. Per questo dico: io fui viva! Viva!... Ah, se gli uomini sapessero quante vite si muovono fra le loro, moltiplicandoli, purificandoli, non si porrebbero simili domande, e non distinguerebbero l’ombra dal corpo, né il corpo dallo spirito: tutto sembrerebbe loro vincolato da un solo poderoso abbraccio che nega ogni sottomissione. Figure e fantasmi ne sono ugualmente coinvolti. E’ la compenetrazione che genera la bellezza.

VOCE: Ma tu, Giulietta,  non parli come una giovane quattordicenne. Un tempo erano altre frasi sulle tue labbra.

GIULIETTA: Perché io non sono più nel fuoco della vita. Ma altra. Fuori da ogni misura. Le controversie, le lotte... le vedo fisse nel tempo passato, come fossili nella pietra. Non mi toccano più. Non mi coinvolgono più. Io posso scrutare i miei casi trascorsi come un oceano ghiacciato all’improvviso, al culmine di una burrasca. Vecchi e bambini, intelligenti e sciocchi: la morte conduce tutti alla medesima sapienza.

VOCE: Pensi mai alla tua città, alla tua casa... ai personaggi della tua infanzia?

GIULIETTA: La mia casa... la mia stanza... cosa ne rimane oggi? E la mia città... la mia città che nemmeno ho conosciuto se non per qualche rara strada, dove sfilavo in un corteo di bimbe dallo sguardo prezioso, seguite dal passo severo dei padri, avvolte di chiarissimi rasi e al fianco di donne stupende cui  tanto sognavo di rassomigliare un giorno, crescendo. E ricordo il sagrato, il marmo caldo e lucente della chiesa dove fui sacramentata, dal battesimo alle nozze, in un giro brevissimo d’anni. Quanto vorrei vedere ancora quei miei luoghi, e scoprirli finalmente! Lì, ai palchi dove scorsero le scene dalla mia esistenza... di un’esistenza per la quale ancora tremo di gioia e di spavento.

VOCE: Più la gioia o lo spavento?

GIULIETTA: Nell’una stava l’altro. Un destino non ha misure, ma identità. Così per noi. La meraviglia dell’amore non può durare... io e il mio sposo lo comprendemmo subito: sin da quando sulle nostre labbra irruppe la vita, come un belva gioiosa, bruciante di incredula felicità. Stavamo per amarci e già il nostro pensiero volava all’ora successiva, prevedendo la fine. Nulla dura al vertice dell’onda. Ma noi accettammo comunque, pur sapendo e senza riflettere. Questo bisognava fare, e nulla per noi ha mai avuto il sapore del sacrificio. Io sono passata attraverso tutta l’infanzia e sono sorta alla prima luce della giovinezza solo per incontrarmi con lui. Davvero non altro che l’amore mi fu dato come destino ed io, naturalmente, lo tramutai nella mia vita. E oggi, perciò, niente di me è qualcosa d’altro da quel che fui, e che ebbi, nei miei due ultimi giorni: da quando conobbi il mio Romeo, e m’innamorai di lui. Così, in un’ombra gravida di passione, io sono come una piuma leggera nell’ala bianca d’Amore che libra sulla fantasia degli uomini. E della mia storia, che sulla terra è mutata in leggenda, nulla è oscuro alla mia coscienza. Ne scorgo chiaramente le ragioni e gli errori, ma di più ancora la suprema bellezza che non sarebbe avvenuta senza tanta sfortuna.

VOCE: Davvero la tua storia non ne è stata avara, sia di bellezza che di sfortuna.

GIULIETTA: Il tempo dona e sottrae, unisce e divide senza alcun criterio apparente. Che si può fare più che tessere un tenue filo di ragione che serva ad affrontare la propria sorte per poterla almeno comprendere, nell’impossibilità di poterla dirigere?

VOCE: Cosa ricordi della tua vita prima dell’incontro con Romeo?

GIULIETTA: Un lago di tenerezza e di pace. La vociona roca della mia buona nutrice. Gli abiti meravigliosi della mia mamma... e quelle grandi feste, quei tripudi di luci e di eleganza!... Ne ero così presa!... Quasi che già sapessi!... Ah, quando li vidi entrare, quei ragazzi mascherati e con quell’aria manigolda... quei ragazzi che nessuno si era sognato di invitare... il primo che scorsi fu Mercuzio: il più chiassoso ed allegro, secco come un ramo... coi gonfi riccioli fulvi che gli grondavano sul cartone della maschera. Mercuzio... l’attore, il poeta!  Fu per vendicare la sua morte che Romeo uccise mio cugino e venne bandito il giorno stesso delle nostre nozze. Mercuzio, l’attore! Io sapevo di lui. A Verona era famoso per il suo genio, per il prodigio della sua chiacchiera, travolgente e sciagurata. D’altronde, non furono proprio le sue inquiete parole a scatenare il duello in cui rimase ucciso?... Ah, tutto questo non sarebbe dovuto accadere! E fu Mercuzio a trascinare Romeo con sé, alla mia festa. Fu per Mercuzio che lo conobbi, e poi... ah, io non amo le parole! Ogni inganno è frutto loro. Le parole tiranneggiano sui casi della vita, e se pure li condizionano, neanche sanno possederli. Mai sanno curare il male che producono. Eppure sembra facciano a gara, l’una con l’altra, per produrne quanto più possono.

VOCE: Parole come nomi... come quello infausto di Romeo, o della sua famiglia...

GIULIETTA: Quel nome, non l’ho mai maledetto abbastanza! Quel nome che lo pose lontano da me più ogni altro essere, e che schierò fra noi forze insormontabili!... No... io non amo le parole degli uomini: le parole che fabbricano e che disfano, che proclamano e non significano. Io amo altre parole... indistinguibili dalle emozioni... inutili, superflue... che valgono il respiro che le porta, e non più dell’aria a cui si mischiano. Quelle! Solo quelle!... Se il mio amante mi chiamava “Cara Santa”, io sapevo rispondergli pensandolo:”Più bianco della neve sul dorso del cervo.” Ecco... se vuoi chiedimi solo queste parole, e non altre.

VOCE: Ma il tuo Romeo, quando lo incontrasti la prima volta, aveva il viso coperto da una maschera di cartapesta, e non avesti da lui che la sua voce: le sue parole, appunto, per cui t’innamorasti.

GIULIETTA: Tu lo dici: le sue, che non erano quelle degli uomini. A farmi innamorare fu il suo cuore, che in esse traspariva, ma pure la sua bellezza che la maschera non poteva nascondere del tutto. Non ci fosse poi stata anche una scala di seta a farlo salire nella mia stanza la sera dopo le nostre nozze, come potrei votare questa mia eternità al ricordo incorruttibile di un amante struggente e di uno sposo che, allora, il canto di un’allodola mattutina fece fuggire, troppo presto e per sempre, dal mio letto.

STACCO (REPERTORIO)

GIULIETTA: Vuoi gIà andartene? Non è ancora vicino il giorno. L’usignolo e non l’allodola ha trafitto il cavo impaurito del tuo orecchio. Tutte le notti canta su quel melograno. Credimi, amore, è staTo l’usignolo.

ROMEO: E’ stata l’alldola, nunzia del mattino, non l’usignolo. Guarda, amore, quali perfide strisce orlano gli sguardi delle nuvole lassù, a levante. Le candele della notte sono quasi consumate e il giorno attende giocondo in punta di piedi sulle cime delle montagne velate di nebbia. Io debbo andarmene e vivere, o restare e morire.

GIULIETTA: Quella non è la luce del giorno, la conosco io; è qualche meteora esalata dal sole perché ti faccia da portatrice di luce questa notte e ti illumini la via per Mantova. Perciò fermati ancora, non occorre che tu parta già.

ROMEO: Ma sì, che io sia preso, che io sia messo a morte; sono contento, se tu vuoi così. Dirò che quel grigio lassù non è l’occhio del mattino, che è solo il pallido riflesso sulla fronte di Cinzia; né che è l’allodola quella che batte le sue note contro la volta del cielo così in alto sopra la nostra testa. Io ho più desiderio di restare che volontà di andare: vieni, o morte, e sii la benvenuta! Giulietta lo vuole. Come stai, anima mia! Su, dunque, parliamo; non è giorno ancora.

GIULIETTA: Sì, sì, è giorno. Via di qui, parti, via! E’ l’allodola che canta con voce così stonata, forzando aspri accordi e sgradevoli acuti. Oh, parti subito, si fa sempre più chiaro!

STACCO

GIULIETTA: E partì, abbandonando, con un taciuto addio, il mio letto di bambina. Come tutto il mondo che ancora mi avvolgeva: il più quieto e incantato mondo di bambina che si possa immaginare... io, così, ancora pervasa più di giochi che di saggezza, scoprii la mia vita precocemente cinta da una ricchezza incommensurabile e nuova; e ora, presso le soglie di un nuovo mondo donde mi è possibile scorgere, quasi impartecipe, l’intero filo delle mie vicende, mi domando se in esse non sia pure celato il segno di qualche nostra colpa.

VOCE: Di colpe vostre contro voi stessi? Tue e del tuo Romeo?

GIULIETTA: Sì. E, per me, non c’è pensiero più penoso di questo. Intravedo delle ombre sottili che, nel vivo della passione, avremo certo confuso con l’ardore stesso dei nostri sentimenti, con l’idea di un diritto che sentivamo purissimo e irrinunciabile. E quando due anime cozzano fra loro con la furia delle nostre, e nello splendore di tanta giovinezza, non ci si può sentire preda di nessuna legge: legislatori piuttosto! E così, come dei principi folli asserviti unicamente al loro sommo incarico, volammo per una sola strada al cui termine tutto fu dilaniato e infranto “come in un lampo, per cui non si fa in tempo a dire ‘lampeggia’.” Adesso m’accorgo che se alla fiamma di un desiderio indomabile avessimo saputo aggiungere anche qualche lume di ragione... se avessimo saputo attendere, pazientare...

VOCE: Pazientare? Ma non si poteva. Tu eri già stata promessa al principe Paride senza che si sapesse nulla del tuo matrimonio con il giovane Montecchi.

GIULIETTA: Eppure, in qualche altro modo che non fosse la morte... non poteva essere la morte l’unica soluzione!

VOCE: Ma tu non la scegliesti. Fu la sfortuna a trasformare in tragedia il tuo finto suicidio... e quanto coraggio, non premiato, ti costò quella decisione!... Non essere troppo ingenerosa con te stessa.

GIULIETTA: No...  non si simula la morte impunemente. Il povero frate fu indotto a darmi quel consiglio innaturale, e quella fiala, solo perché io corsi da lui minacciando di uccidermi realmente. Sarei dovuta, piuttosto, fuggire da Verona... farmi cacciare da mio padre, rifiutarmi di sposare Paride e accettare la vergona, la miseria... Non sarebbe più sensato il disonore piuttosto che la morte? Non dico se meglio o peggio ma solo: più sensato. Avrei dovuto accettarlo. Questo dovevo fare e non altro. Pensare a vivere innanzitutto, poiché solo nella vita avrei potuto riconcontrare il mio Romeo. Quanto spesso quel che ci appare come il sacrificio più estremo viene assai prima di altre rinunce che nemmeno abbiamo il coraggio di prospettarci! Morire, una facile impresa. Questione di minuti, di attimi, quando il coraggio si misura nel tempo... nei giorni e negli anni. Così per me. Nemmeno osai immaginare di rinunciare ai miei vanti, ai titoli della mia virtù, alla dolce fama nella quale volevo che il mio nome continuasse a vivere. Non ho saputo, con un gesto scoperto, ricusare il mondo purché il mondo mi lasciasse Romeo. E non mi dà pace il ripetermi che questo, e non altro, era ciò che soprattutto volevo.

VOCE: Ma tu, poi, saresti comunque fuggita. Tutti venne progettato con quest’unica intenzione.

GIULIETTA: E dunque? Perché ho voluto mascherare la mia fuga con un trucco che mi ha fatto assaporare due volte la morte? Poi non è solo questo. Un altro pensiero mi tormenta costringendomi nella certezza che qualche colpa dobbiamo averla commessa.. Lieve forse, ma offensiva della perfezione amorosa cui abbiamo avuto la presunzione di accostarci. Non saremmo stati altrimenti puniti con la massima delle pene che può toccare a due amanti.

VOCE: Di che parli?

GIULIETTA: Dello sciagurato equivoco che ha condannato, prima l’uno poi l’altra, a inginocchiarsi desolato presso il proprio amore morto e nelle più terribile delle constatazioni:”Io, qui... eccomi sopravvissuto a ciò che più di ogni altra cosa amo... a ciò che ho amato, che mi ha amato... fino a morirne.” E’ allora che la vita si trasforma, senza rimedio, in un baratro di insostenibili schianti e di vertigini, e se, nell’ombra di una cripta, brilla la lama di un pugnale... come non sognare la pace che può venirne?... Il caro balsamo, la sola medicina quando l’intero universo ruota in un’onda tetra di schegge e frantumi attorno al cuore. E ancora, quando già impugnavo quell’arma dolcissima, un’ultima commozione seppe conquistarmi. Fu un’emozione breve ed intensa che corse nello stento dei miei sospiri estremi: ”E solo qualche attimo prima di me - pensai - qui dove sono io, vedendomi distesa, immobile, e senza conoscere la natura del mio sonno, lui pure avrà provato quello che sto provando io...  avrà tremato come adesso, affianco del suo povero corpo bellissimo e senza vita, sto tremando io.”

VOCE: E che gioia può esservi in questo?

GIULIETTA: Al culmine del dolore, quando nient’altro m’avrebbe potuto dare conforto, sentii vibrare in me, prepotente, la mia natura di moglie: carne della sua carne, pensiero del suo pensiero. Riuscii, per una volta almeno e in quegli attimi spaventosi, a sentirmi identica a lui... per ogni viscera, per ogni emozione... come fossi stata, io, il suo corpo stesso, pochi istanti prima, genuflesso, lì, presso il volto cereo della sua Giulietta. Lì, quando, ignaro, il mio amore era sceso a dimorare nella nostra felicità. Nel cuore stesso della nostra felicità. Ogni ombra funebre, in quel sepolcro, avrebbe dovuto essere per lui di una lucentezza accecante; e l’odore grave di quel sotterraneo, i liquami, il marcio... ah, perché non seppero stordirlo con l’estasi di chi, incredulo, abbia raggiunto il proprio meglio?... Così avrebbe dovuto essere: questo!... Il fato da noi determinato: in quella predisposta felicità che, ahinoi, non riuscì ad esistere.  Poiché lì, sul catafalco di una dormiente, era adagiata la certezza di un futuro da vivere insieme: allestita in quella cripta... edificata lì dentro. E non vista. Non intesa. Ma lì era. Edificata dal mio coraggio e vanificata da una malignità senza intenzione. Che è la stessa della valanga che cade, e che chi c’è travolge. Senza gioia. Senza nemmeno una fame da sfamare. Ma così si volle dove ruotano le stelle. E l’invisibile, che era presente, invisibilmente sparve, e le effigi del lutto rimasero se stesse. Lui vide ciò che vide, non altro!... Non altro!... Oh, povero amore... la gioia che eri venuto ad abitare ti fu impercepibile, e ti scansasti. Ogni forma d’attorno se ne appagò, e le esequie della morte si rallegrarono, al mio risveglio, di non essere state, per una volta ancora, ingannate da nessuno. Ma per pochi istanti, almeno, lì in quel budello di penombre e di zolfi puteolenti, visse una moglie. Visse. Respirò. La più autentica delle mogli. E lì ancora si consumò un abbraccio. Imprevisto. Rubato al destino. Ed ignota agli Dei è la veemenza con la quale si abbracciano i mortali.


Incontro con Romeo

di

Giuseppe Manfridi

Quando Romeo fa la sua prima comparsa in scena, all’inizio del primo atto, ci appare come un personaggio romantico, rapito dalla seducente immagine di una certa Rosalina, fanciulla che non interverrà mai nel dramma e che, alla passione del giovane Montecchi, ha preferito i voti monacali. Questa precoce infatuazione non è, però,  che il pallido preludio del sentimento che si accenderà nel petto di Romeo quando questi, introdottosi furtivamente in una festa al palazzo dei Capuleti, incontrerà Giulietta. Da quell’istante l’amore divamperà irrefrenabile e i tempi della storia precipiteranno racchiusi in un giro brevissimo di giorni e di avvenimenti: le nozze segrete, la morte in duello di Tebaldo - ucciso da Romeo per vendicare l’amico Mercuzio - quindi l’esilio che colpisce il giovane e, infine, la dolcissima notte d’amore trascorsa dai due sposi prima della fuga di Romeo a Mantova. Qui egli verrà  presto raggiunto dalla terribile notizia del suicidio di Giulietta.

Senza curarsi della pena di morte che pende sul suo capo, Romeo, sconvolto dal dolore, rientra a Verona, corre nel cuore della notte, al sepolcro dei Capuleti, ne schiude le porte e, ai piedi del feretro su cui giace la sua innamorata, si toglie la vita con una fiala di veleno.

[AT1]
VOCE: Romeo, una confidenza: quante donne hai amato? E quante ne hai fatte innamorare?

ROMEO: Io? Forse mi confondi.

VOCE: Via, un bel giovane come te, rampollo di una ricchissima e nobile famiglia... poi con quella tua aria da poeta solitario...

ROMEO: Ma che poeta solitario!

VOCE: E i tuoi vagabondaggi notturni per i boschi, a meditare sulle pene d'amore e sulla fugacità delle goie umane?... Nega se puoi!

ROMEO: Ma sì, l'età!...

VOCE: Già, e non eri tu che, pur tanto abile nel maneggiare le spade, fuggivi indignato le rappresaglie che insanguinavo le piazze della tua città?

ROMEO: E se fossi stato un viglIacco?

VOCE: Ma non lo eri, e si sapeva.

ROMEO: Comunque, t'ho capito. Dillo chiaro: tu vuoi sapere di Rosalina, che tanto m'ha fatto delirare prima di conoscere Giulietta.

VOCE: Perché no?

ROMEO: Una semplice infatuazione. Con ciò, chiuso.

VOCE: Allora non avresti detto così.

ROMEO: Allora. Ma si cresce.

VOCE: Fermo là. Vorrei ricordarti alcune frasi dette, da te, all'amico Benvolio che cercava di consolarti per quell'amore infelice...

ROMEO: Capirai, quella matta si era fatta suora!

VOCE: Cito: "Ella è troppo bella e troppo saggia, nella sua saggezza troppo bella per meritarsi il gaudio celeste riducendo me alla disperazione; ella ha fatto voto di rinuncia all'amore e per quel voto io vivo nella morte, poiché vivo solo per dirti questo."

ROMEO: Che miseria! Trattare le parole di un innamorato come un documento da impugnare in tribunale!... Ma fu proprio ciò che appresi di me soffrendo per Rosalinda...

VOCE: Per Rosalina.

ROMEO: Per Rosalina, sì... fu proprio quello che mi predispose, che mi maturò, per quando avessi poi dovuto incontrare la mia vera ed unica sposa: la mia Giulietta! Distinguere una donna fra tutte: innamorarsi non è che questo. Un diritto che, a quel punto, io mi ero conquistato.

VOCE: Ma pure Rosalina, se non avesse preso i voti, avrebbe potuto diventare la tua sposa...

ROMEO: Credo al caso come si crede a un Dio. E il caso è il Dio che sovrintende ogni incontro. Ebbene, quel Dio ha voluto che, per consolarmi di una passione infelice, io mi recassi alla festa dei Capuleti, che  lì incontrassi la mia Giulietta, e che mi dimenticassi del resto. Quel Dio ha compiuto il disegno del nostro avvicinarci. Noi due non abbiamo fatto altro che portare devozione al suo desiderio. Quel Dio l'ha voluto.

VOCE: Sembra che tu stia parlando di te e di Giulietta come di due marionette.

ROMEO: Ma divine. Potevamo sottrarci. Non l'abbiamo voluto.

VOCE: Rimorsi?

ROMEO: L'intelligenza, forse, direbbe sì. Ma fu talmente esitante allora che la nostra vera saggezza fu nel non darle ascolto, mai. Il tempo incalzava, pretendeva mosse repentine, azioni ardite. Ogni pensiero che inducesse alla calma era un pensiero di rinuncia. Riflettere avrebbe significato perdere. Perderci, l'un l'altra. Solo il nostro desiderio aveva per noi valore, perciò lo fissavamo con la tenacia di chi, in bilico su un ciglio, si imponga di non scostare lo sguardo dall'alto. Quel desiderio, per noi, recingeva il mondo.

VOCE: Va bene, ci torneremo. Ora raccontami qualcosa della tua giovinezza. In fondo, di essa, a parte il corso dei suoi ultimi giorni, ignoro quasi tutto.

ROMEO: In quegli anni, lo sai, la mia città era ferita da un odio senza ragione, capace di trasformare due nobili casate in due sette sanguinarie e istupidite. Per le sue vie e per le sue piazze io m'aggiravo con la testa votata a ben altro che non fosse quella faida maledetta o l'uso delle armi, pur se non mi rifiutai di apprenderne il mestiere.

VOCE: E votata a cosa?

ROMEO: A strani fantasmi, strane malinconie. E così m'accompagnavo ad amici leali e fannulloni. Ricordo i consigli e il conforto che mi venivano da Benvolio, il mio caro cugino, e il furore poetico e le impudenti guittate dell'impareggiabile Mercuzio. Io mi affidavo al calore concreto di quegli affetti che non conoscevano reticenze né risparmi. L'amicizia aveva mischiato il nostro sangue più che se fossimo stati dei fratelli. Nemmeno ci rendevamo conto della solidità di questi vincoli tanto essi erano affondati al centro delle nostre anime. Ma gli eventi mostrarono la verità, con forza, senza pace, e d'improvviso. Fu per la morte di un amico, caduto battendosi per il mio onore, che io arrischiai, senza esitare, il tesoro più prezioso: fu per Mercuzio, morto per me, che lanciai in campo il fragile futuro del mio amore, che lo giocai e lo persi. Anche in quei momenti l'intelligenza strepitava le sue ragioni ma continuò a trovarmi sordo, sempre. Avanti, domandami di nuovo: 'rimorsi?'... No, ho vissuto una sola vita. Quella che dovevo. Io non ho mai scelto, io ho corso... volato... e il volo non è una scelta, ma natura. Come cadere non è condanna, ma probabililtà. E compimento. Ma prima che tutto avvenisse, l'avrai capito, lasciavo scorrere le mie giornate come acqua di fiume. Non possedevo nulla, non temevo nulla e desideravo molto. Soprattutto, non ti sembri un gioco di parole, desideravo desiderare. Così, lentamente... e bruscamente, mi educai ad amare di tanto amore per quanto, poi, il destino ne pretese da me più che da qualsiasi altro uomo. Da qualsiasi, credimi!... Da qualsiasi. A volte, poi - poteva essere a strappi, poteva essere a onde - dal profondo dei nervi e del sangue avvertivo la suggestione di qualcosa che, appena formato, mi sussurrava: "Stai in guardia su ciò che passa nei tuoi giorni: ormai sei pronto ad accogliere i beni più preziosi."

VOCE: Presentivi il tuo futuro?

ROMEO: Certo, come ogni età presagisce la successiva. Come l’oggi sa del domani. Con la stessa identica naturalezza e semplicità. Può sembrarti poco, ma non lo è. Percepivo quanto fosse possente l'affetto invocato, con ansia, dai sogni che mi sostaziavano il cuore. Non altro avrebbe saputo colmarli. Ecco... io pecepivo ciò che desideravo, ma non ciò che sarebbe accaduto.

VOCE: Altrimenti?

ROMEO: Il volo si sarebbe imposto comunque.

VOCE: Pur sapendo quanta morte avrebbe dispensato attorno?

ROMEO: Tu vorresti la logica dove la logica non ha accesso.

VOCE: Parlo delle responsabilità.

ROMEO: Mie?

VOCE: Vostre.

ROMEO: Comprensibili solo a chi usi la logica.

VOCE: Non sarà un lusso eccessivo consentirsi di ignorarla?

ROMEO: Per me è come se tu mi rimproverassi di non avere un terzo braccio. Non ce l'ho e basta.

VOCE: Insomma, uno scriteriato.

ROMEO: Casomai due. Aggiungi anche lei. Anzi, con Mercuzio, tre.

VOCE: Un po' restrittivo come autoritratto, non ti pare?

ROMEO: Sei tu che m'imponi di farmene uno. Io non sono nelle parole che  sto dicendo ma in quelle che ho detto un tempo, e non a te. Che ho detto ad ad altri, ad altre, e altrove. Il mio pronuciarmi adesso non è che un modo garbato di modulare il silenzio che vai perlustrando. Non mi aggiunge più nulla, serve solo a te.

VOCE: Ti è sgradito?

ROMEO: Soprattutto inutile.

VOCE: E' una maniera per dirmi 'vattene'?

ROMEO: O no! Forse, piuttosto, è una maniera per scostare l'insidia del fraintendimento. Io sono più elementare di quanto tu non pensi.

VOCE: Perché ci tieni tantro a ribadirlo? E’ già la seconda volta che lo fai.

ROMEO: Detesto essere frugato dentro. Quel che di me si può scorgere è anche tutto ciò che contengo. La passione, quando è estrema, non è mai ambigua. E io non ho vissuto d’altro.

VOCE: E credi che io non possa capirlo?

ROMEO: Non lo so. Lo spero per te. Quello che ti chiedo e di non cercare dei sottintesi dove non c'è nulla. Forse ciò che vedi ti pare poco? Una pura storia d'amore e morte scolpita più nelle sillabe che nei gesti.

VOCE: Questa non la capisco. Perché nelle sillabe e non pure nei gesti?...Allora, che so, il duello con Tebaldo... la fiala di veleno... la discesa nella cripta?...

ROMEO: Conseguenze delle parole, credimi. Sono o non sono la creatura di un poeta? E dunque?... Chi vuole davvero conoscermi non ha che da leggere o riascoltare quel che nel corso delle mie vicende ho detto, e di lì, forse, potrà percepire anche i turbamenti del mio spirito, le mie emozioni non dichiarate. Tu pensa se dinanzi al volto spento della mia Giulietta io fossi rimasto col fiato mozzo a subire il tumulto che mi squassava, così... in silenzio, gemendo!... Come il migliore degli uomini avrebbe senz'altro potuto fare!... Ah, che misera figura... e che pianto inespressivo sarebbe mai stato il mio, se privo di parole! D'altronde lo sai: quei versi, in perpetuo recitati, non mutano. Quei versi CHE SONO ME. Interamente me. Ebbene, quei versi, e non altro che quelli, descrivono un unico Romeo, e le pene di un unico e tristissimo amore. Perciò non nego il piacere di queste poche e ulteriori parole, sfuggite a quell'unica mia vita, e che ora, a mio nome, mi stai regalando tu. Ecco perché non me la sento proprio di dirti 'vattene!'. Ti sembro egoista?

VOCE: Lo sei mai stato?

ROMEO: Nella mia vita ho molto preteso, dunque si... credo di esserlo stato.

VOCE: Anche con Giulietta?

ROMEO: O no...  l’egoismo, anzi, lo sento al centro della nostra affinità. Di ciò che ci ha chiamato l’uno verso l’altra. Ci siamo stretti come complici, partecipi di un uguale colpa: l’esilio dagli altri... con vanità, con gioia! Ma dimmi di lei! Cosa sai? Le hai parlato?

VOCE: Sì, ma sembra molto diversa dalla fanciulla che gli uomini conoscono.

ROMEO: Molto diversa? E come?

VOCE: Quasi reclusa in un suo mondo inaccessibile. Lontana, molto lontana, da tutto ciò che le accadde sulla terra.

ROMEO: Si è dimenticata di me? Per questo?

VOCE: No, per niente. Ma non la si direbbe più un'adolescente.

ROMEO: Certo! Morì sposa, moglie. In quella cripta era sepolta una donna, non una bambina.

VOCE: Io parlo della sua esuberanza, che l'accompagnò fino al vostro ultimo bacio.

ROMEO: Vedi bene, la morte che ci ha divisi non ci ha più riuniti. Se vai a caccia di gioia non cercarla presso di noi.

VOCE: Eppure in te l'ardore sembra rimasto intatto.

ROMEO: Ma vuoi costringermi a indovinare che?

VOCE: E' come se la tua Giulietta avesse compreso tutto.

ROMEO: Tutto cosa?

VOCE: Il disegno completo della vostra storia. L'architettura del dolore.

ROMEO: Dillo: si è scordata di me!

VOCE: Tu sei il suo solo pensiero.

ROMEO: Ma, insomma, che ti ha detto?

VOCE: Che non avrebbe mai dovuto perderti.

ROMEO: Ma non è stata lei a perdermi! Così come lo dici sembra che si faccia delle colpe... è assurdo!

VOCE: Sì, è vero... si fa delle colpe. E molto gravi.     

ROMEO: Si è pentita?... Si è pentita di noi due, di tutto quello che...?

VOCE: No... è la sua morte il peccato di cui si accusa.

ROMEO: Giulietta era una donna che amava! Che amava! Oh, facile dire: ci voleva pazienza... più fiducia nella buona sorte, in se stessa, nel suo sposo!... Lei era una donna che amava, che mi amava!... O mia fragile stella, mio dolce angelo, dove sono allora le mie colpe, mille volte più gravi delle tue?

VOCE: Romeo, tu non sai tutto.

ROMEO: Non so tutto? Cos'è che non so?

VOCE: Forse non ho il diritto di svelarti la verità, né tu quello di ascoltarla.

ROMEO: C'è una verità che non conosco? Ma su chi? Su cosa?

VOCE: Mi credi se ti dico che Giulietta ha dovuto sopportare un dolore molto più grave del tuo?

ROMEO: No, è impossibile! A me... a me è toccato di vederla morta! A me è toccato di giungere, con un ultimo passo, alla soglia oltre la quale ogni speranza cadde e fu una perdita irreparabile... e di inginocchiarmi, e di carezzare la cera delle guance, e di schiacciare   gli occhi, e l'anima tutta contro l'evidenza dell'esito... a me di abitare la tragedia... con i polmoni ancora pieni d'aria e il sangue non stanco di picchiare nel petto, e di sapermi vivo in un mondo vuoto di lei! A me!... Straziato come una bestia trafitta...  scuoiato e squartato!... Giulietta non può sapere cosa significhi piangere la sua morte.

VOCE: Ma cosa significhi pangere la tua sì. E tu questo lo sai?

ROMEO: Lei la mia?... Se non è mai avvenuto!

VOCE: Invece sì. E proprio in ciò che ignori è l'essenza profonda delle tue stesse vicende. Non dico l'amore, ma le leggi imperscrutabili della sorte. Quelle del tuo Dio, Romeo... dinanzi alle quali avete dovuto soccombere. Giulietta le ha conosciute invece, in pochi attimi terribili... conosciute e comprese. Per questo, forse, la sua anima ci appare ormai tanto lontana, quasi persa al culmine di una vetta che a stento riusciamo a concepire.

ROMEO: Non capisco...  cos'è, forse mi parli di qualcosa successa prima che io rientrassi a Verona?...      

VOCE: No, dopo. Nel buio del suo sepolcro. Lì. Quando ti sei chinato a sfiorarla... a baciarla... a rivolgerle la tua ultima preghiera. Quando sei sceso, come dici, ad abitare la tragedia... tu, in verità, ancora abitavi una finta tragedia, ma non lo sapevi. Lì, Romeo, il tuo Dio si è fatto Demone. Io non so con quale sguardo ti abbia seguito sino a farti versare lacrime per una fanciulla che non era morta... ma solo addormentata.

 

ROMEO: Io non ho sentito quello che hai detto. Ripetilo.

VOCE: Solo addormentata. Giulietta non aveva preso del veleno ma un siero preparato da Frate Lorenzo. Servì a fermarle il cuore e a ghiacciarle il sangue. Ma appena per qualche ora, capisci? Un messo avrebbe dovuto raggiungerti a Mantova per avvertirti di modo che tu fossi nel sepolcro al momento del risveglio, ma il tuo servo Baldassarre fu più veloce a raggiungerti e a portarti la notizia del falso funerale. A quel punto davvero tutto precipitò. Così, per uno stupido equivoco. 

ROMEO: La mia Giulietta non era morta... in quell'orrore... su quel feretro... fra quei cadaveri... lei era viva.. viva!... Ma come posso crederlo? Nel suo volto la vita e la morte non erano che ombre sottomesse alla sua regalità, di cui né il mondo né l'oltremondo hanno saputo essere padroni, e mi confusi. Cantare la bellezza di Giulietta in terra o pregare la sua anima in cielo non mi parve differente, e  mi confusi.

STACCO (REPERTORIO)

ROMEO: Oh, amore mio, moglie mia... la morte che ha succhiato il miele del tuo respiro, non ha avuto alcun potere sulla tua bellezza. Tu non sei vinta; ancora l’insegna della bellezza è porpora sulle tue labbra e sulle tue guance. Dovrò credere che l’invisibile Morte si sia innamorata di te e che quello scarno mostro aborrito ti tenga qui al buio per fare di te la sua amante? Perché questo non avvenga io resterò sempre con te... mai più fuori da questo regno della tenebrosa notte!... Qui, qui vorrò restare con i vermi che sono i tuoi servitori. Qui fisserò il mio riposo eterno e scuoterò il giogo delle infauste stelle da questa carne stanca del mondo. Occhi, guardate per l’ultima volta! Braccia, prendete l’ultimo abbraccio! E voi labbra, porte del respiro, suggellate con un bacio sacro un patto eterno con la Morte che tutto divora! Vieni, veleno... Oh amaro condottiero... vieni!... Tu, disperato pilota, ora manda rapidamente a infrangersi sugli irti scogli il tuo vascello stanco del mare. Ecco... brindo al mio amore!... O sincero speziale, la tua droga agisce rapida. Così, con un bacio io muoio.

STACCO

ROMEO: Che ne è stato poi di lei?

VOCE: Non lo puoi immaginare?

ROMEO: Niente immagino, se la fantasia non mi è servita a intuire la salvezza quando l'avevo dinanzi; se baciando le labbra della mia sposa non m'accorsi che Giulietta era viva!...

VOCE: Si è risvegliata poco dopo la tua morte. Per pochi istanti ancora, per ripetere le tue parole, ha abitato la tragedia, poi ha usato il pugnale che portavi alla cintola.

ROMEO: O povera martire... povera martire solitaria!...  Io mi ero solo accorto dell'ostilità degli uomini contro il nostro amore... per me la morte fu anche un rifiuto indignato della loro razza... ma solo a lei, mia piccola martire, fu chiaro che, dopo gli uomini e più degli uomini, operò l'inimicizia del fato. Della sorte. L'inimicizia del Dio. Di Dio. Avevi ragione: non avresti dovuto dirmi nulla. In questo aldilà, da oggi, si dovrà contare un bestemmiatore di troppo.

VOCE: Ti lascio con un grave peso. Mi ritraggo impaurito. E un po' colpevole. Come un profanatore. 

ROMEO: Sta' tranquillo. Torna in pace alla tua pace, e non chiederle nulla più di se stessa. Ti sia sufficiente. Sopporta la tua quiete, e non cercare altrove. Forse meglio la normalità della morte. E forse io... ero creatura, in realtà, normale. Normalissima. La normalità, però, mi fu negata. E così pure alla mia sposa. Una costrizione celeste ha reso possibile il nostro incontro solo in un luogo dove tutto fosse... esagerato. E noi abbiamo detto sì. Sì, comunque. Abbiamo ecceduto per raggiungere una normalità che ci contemplasse entrambi. Troppa ambizione, forse, in due anime troppo poco ambiziose. E tutto, così, ha complottato contro. E nel peggiore dei modi. Ma quello che tu sei venuto a raccontarmi, io lo dimenticherò. Dall’insopportabile ci si difende instupidendosi. E dunque, eccomi pronto a instupidire!... Non voglio sapere quello che so. Non voglio! Non voglio!... Tu non m’hai detto nulla. E se me l’hai detto, hai mentito. So che non è vero.. che non hai mentito, ma io riuscirò a crederlo in ogni caso. Quel che non potrà mai fare lei... che ha visto! Vissuto!... Ora, però, in quest’istante, ancora segnato dalla tua verità, io le sono identico. La sento in me... che m’abbraccia. Ee il suo dolore che si fa sangue mio e che versa baci in quest’ombra che fila parole. In... me. - No, sta’ tranquillo! Del danno che hai fatto non saprà nulla nessuno. E, di certo, non basterà questo a mutare i versi nella bocca degli attori quando torneranno a dire:"Quale luce sfolgora da quel balcone lassù? Esso è il levante e Giulietta è il sole." E così, ogni sera, nei loro gesti, nei loro passi e nella loro paura, io ridiscenderò, ignaro, in quella cripta, consumando fino all'ultimo, come la poesia ha voluto, la brama cieca della mia passione.


Incontro con Mercuzio

di

Giuseppe Manfridi

Mercuzio è, senz’altro, fra i personaggi non protagonisti più meorabili del teatro di tutte le epoche e di ogni letteratura. La sua parte, per quanto non ricchissima di battute al pari di altre, è ambitissima dagli attori per l’affascinate densità vitale che in esse è contenuta.

Mercuzio è l’estroso e poliedrico genio di una compagnia di giovani veronesi. Di questa compagnia fa anche parte Romeo che, proprio dal suo bizzarro amico, viene trascinato alla festa dei Capuleti, dove incontrerà Giulietta. Ma Mercuzio non saprà mai dell’amore nato fra i due protagonisti del dramma, anzi, egli resta fino all’ultimo dell’idea che Romeo sia innamorato di Rosalina, un’incosistente passione adolescenziale del giovane Montecchi.

Quando Tebaldo, l’arrogante e rissoso cugino di Giulietta, entra in campo affrontando Romeo perché si batta a duello e questi si rifiuta, il generoso Mercuzio, con una mossa sprovveduta, prende le parti dell’amico: sfida Tebaldo e, dopo una breve scaramuccia, riceve un colpo mortale. Prima di morire, comunque, egli troverà ancora il tempo di giocare, con un ultimo sberleffo, la sua parte di poeta e di attore impenitente.


 VOCE: Mercuzio... finalmente avrai trovato un po’ di pace! La tua lingua si sarà      calmata e i nervi inquieti, che ti rovinarono in vita, non sono più nulla, solo una pallida memoria.

MERCUZIO: Lascia stare, non son fatto per le ombre io! Annusa quest’aria beduina che passa dove la vita manca, e guarda chi è che mi fiancheggia: creature ormai spente ad ogni gesto. Oh, cielo... sapere che non sarò più vivo! E dire che ancora mi sento quasi intatti i cinque sensi.

VOCE: E pensare che di te fu detto:”Quell’ardito spirito che troppo prematuramente disprezzò la terra.”

MERCUZIO: Ma certo! Fu questo il mio epitaffio pronunciato dal buon Benvolio, vale a dire dal rissaiolo più saggio e premuroso che io abbia mai conosciuto. Quante volte arroventammo le nostre lame insieme bisbocciando per taverne e lupanari! ecco uno dei pochi che quasi sapesse tenermi il passo! Furbo come una pantera brada, dolce come una fanciulla, intelligente come un capo, orgoglioso e folle più di un eroe: Benvolio... un caro amico, un ottimo compagno! Quella volta... quella sciagurata volta... ah, se ce la mise tutta per stiepidirmi il sangue e per tenermi quieto mentre, indemoniato, impastato come sono nello zolfo, ricamavo insulti affilati e pungenti come stiletti sull’onore di Tebaldo:”Vieni via... vieni via che non ne vale la pena!...” Ma il sole picchiava troppo forte, le vene bruciavano, io avevo la testa cotta e dalle parole sprizzavano scintille. Ahimè, fossi stato un altro in quei momenti truci! Tebaldo avrebbe lasciato la sua spada al fresco e io avrei visto il plenilunio promesso dagli almanacchi per quella notte appresso. Ma le parole mi pirotettavano sulle labbra ‘sponte loro’, e pace... così doveva andare. Tant’è! Si dica pure che Mercuzio è morto di sua mano. E poi, cielo santissimo, cos’altro potrebbe mai cacciarci così nel fuoco, nel gusto della vita? Solo il disprezzo per le cose della terra e un’eterna ostilità sanno attizzare nei muscoli la foga e la gioia di essere uomini. Ma tu che fai? Te ne stai muto? Non mi dai spago? Ah, com’è vero che tutto rammolisce in questi panorami. Via, fatemi tornare al vecchio mondo, in fondo è ancora poco che son morto!

VOCE: Già, vedo. Niente ti cambia. Lo sberleffo è sempre stato il tuo linguaggio. Ma ormai sarai costretto a cambiare abitudini o intristirai davvero, poiché qui nessuno più si offende.

MERCUZIO: Io!... Sono io che mi offendo per tanto silenzio... per la mosceria di questo altrove dove m’hanno piazzato. Sai cosa fu pure detto di me?... “E’ un gentiluomo che ama sentirsi parlare, e dice più parole in un minuto di quante non ne ascolti in un mese.” Sta’ sicuro: nemmeno l’eternità potrà mutarmi.

VOCE: Devo dire che ti trovo esattamente come ti prevedevo: tutto teso in un ruggito alle spalle della vita, e pronto a saltarci di nuovo dentro con un balzo sfrontato e senza poterti capacitare di esserne fuori per sempre.

MERCUZIO: Stavolta l’hai detta giusta. La morte m’ha incattivito, e non mi rassegno, non mi rassegno ancora. Confido sempre di poter cogliere l’istante in cui la vecchia strega sarà distratta e fuggire, come un baleno, alle sue grinfie per andarmene dove più mi garba. Allora sì ne sentiresti delle belle.

VOCE: Torneresti a Verona?

MERCUZIO: E perché no?... Ma sarà ancora in grado di accogliermi? Chissà!

VOCE: Temi di non essere più degno della tua città?

MERCUZIO: O che la mia città non sia più degna di me.

VOCE: Spiegati.

MERCUZIO: Immagino che sia cambiata la vita in quei posti , e temo... non so dire ma temo che non si sbalordisca più più l’uno per l’altra come avvenne un tempo.  Bah... chi rivivrà vedrà. Di sicuro Verona è, nei miei pensieri, lo scenario di tutto. Ciò che ho vissuto altrove è come non l’avessi vissuto. Quasi stento a deriderla. Privilegio mai toccato a nient’altro. Né ad altri. Che Verona fu per me quel per un attore è il suo teatro. In più fu la mia culla. Ha, le belle mattinate che me ne stavo rovesciato, sotto il sole, nella rena delle sue piazze, come un animale scannato, come una beata carcassa a scandalizzare la ciurmaglia che passava... con la lama rovente che mi scaldava la coscia...   e poi saltare su come un demonio!

VOCE: Ti piaceva fingerti morto?

MERCUZIO: Da matti. Il primo ruolo in cui dovrebbe cimentare ogni istrione. Così, quando mi trovai sul punto di crepare sul serio, invertii le parti e mi piacque fingermi del tutto vivo.

VOCE: E cera chi ti teneva dietro quando ti divertivi con queste ragazzate?

MERCUZIO: Ovvio. Uno come me è nato per avere seguaci.

VOCE: Insomma, la tua è stata una giovinezza felice.

MERCUZIO: Per quant’è durata...

VOCE: Breve ma felice...

MERCUZIO: A dire di no meriterei l’inferno, ma con un sì qualche anno di purgatorio me lo guadagno lo stesso. Ah, però... quell’ultima volta... quell’ultima volta lì, sulla piazza... Dio sa quanto mi sono divertito... quella volta, quella... che ci ho lasciato la pelle...

STACCO

MERCUZIO: Beh, che c’è Benvolio mio, che guardi? Chi arriva?

BENVOLIO: Scommetto la testa che quelli lì, che vengono, sono i Capuleti.

MERCUZIO: Se tu scommetti la testa io ci scommetto il resto che non me ne importa un fico. Ehilà, chi vedo! Il dolce Tebaldo, occhio ardito e cuore saldo!

TEBALDO: Che ridi tu? Che dici?... Io ti conosco a te, ti conosco. Tu sei Mercuzio, eh?... Mercuzio della banda di Romeo.

MERCUZIO: Banda? E come? Ci hai presi per suonatori? Se ci hai presi per suonatori allora ti presento l’arco del mio violino. Ecco qui lo strumento che ti farà ballare. Per le ferite di Cristo, parla di banda costui... e dunque via, si aprano le danze!

BENVOLIO: Non è opportuno che ci fermiamo a parlare in un luogo frequentato come questo; o ci ritiriamo in qualche posto appartato o meglio andarsene. Qui tutti gli occhi ci guardano.

MERCUZIO: Gli occhi degli uomini furono fatti per guardare, e lascia che guardino. Non mi muoverò per far piacere a nessuno, io.

STACCO

MERCUZIO: E difatti... lì al mio posto fino all’ultima battuta! Dentro le cose. Dentro, capisci?... Dentro sino all’estremo! Totalmente dentro... sino all’estremo delle cose e all’estremo di me. Così ero fatto e così sono ancora. Lasciarci la pelle non era che un’opzione di poco conto. Il mia senso della vita non sarebbe stato il mio se non avessi saputo prescinderne sempre, ogni istante, e meravigliosamente.

VOCE: O sconsideratamente?

MERCUZIO: Mi dispiace, ma io mastico altri vocabolari. Pronunci parole che neanche mi arrivano all’orecchio.

VOCE: Certo che è difficile parlare con te.

MERCUZIO: Ma, vedrai... indimenticabile.

VOCE: Hai ragione. Indimenticabile è il termine giusto.

MERCUZIO: Non sfottere!

VOCE: Non sfotto. Io ti ammiro. Sarei un pazzo a non ammirarti.

MERCUZIO: E se tu fossi pazzo parteciperesti dell’ammirazione che tocca a me.

VOCE: Ma che è incondivisibile.

MERCUZIO: Ben detto. Per cui, vedi... la normalità è la tua condanna. 

 

VOCE: Dì... ti interessa sapere cosa ne è stato dei tuoi amici?

MERCUZIO: Me l’immagino tutti morti coi capelli bianchi: nella pace del letto e in pace col mondo. Ottimi figlioli e di gran fegato, non dico di no... ma preferivano le sberle ai coltelli, qui la differenza.

VOCE: Vorrei dirti almeno cosa ne fu di Romeo.

MERCUZIO: Ah, Romeo. Meravigliosa fibra la sua! E che eleganza... che cultura!... Un po’ lunare, melanconico, ma sicuramente fra i migliori. Peccato che si fosse tanto rammollito per quella sua Rosalina. Non rispondeva più alle offese, sguainava la spada raramente e non si batteva più, così... toccò a me fare le sue veci finanche in un duello, e mi fu fatale. ma via, l’amicizia non tien conto di nulla.

VOCE: Romeo era innamorato.

MERCUZIO: Certo! Di una contadinella da due soldi.

VOCE: No, tu non sai come sono andate le cose. La stella di Rosalina tramontò la sera stessa in  cui tu lo conducesti alla festa dei  Capuleti. Lì conobbe la giovane figlia del padrone di casa.

MERCUZIO: La piccola Giulietta.

VOCE: Lei, sì. Ecco di chi era innamorato il tuo Romeo.

MERCUZIO: Ma dimmi tu!.. . E pensare che io, fino all’ultimo, l’ho menato in giro per quella squinzietta di Rosalina. Dunque ci voleva ben altro... un bocconcino ben più succulento... la piccola Giulietta... la piccola Capuleti. Ma poteva essere più pazzo! L’ultimo dei Montecchi con l’ultima dei Capuleti... chi l’avrebbe mai immaginato. E dì... poi com’è finita?

VOCE: Malissimo.

MERCUZIO: Cioè?

VOCE: Morti, tutti e due.

MERCUZIO: Buon per loro, se di vecchiaia.

VOCE: Sono morti due giorni dopo di te.

MERCUZIO: Ah, no... dunque non di vecchiaia.

VOCE: Direi proprio di no. Si sono uccisi, cadendo l’uno sul corpo dell’altra.

MERCUZIO: Volevo ben dire! Un Montecchi con una Capuleti... ma come gli è venuto in mente? Per loro, amarsi e morire era tutt’uno.

VOCE: Lo sapevano. Fin dal principio.

MERCUZIO: Al diavolo! Cos’è? Li devi glorificare d’ufficio?... Beato me che ho vissuto solo!

VOCE: E sei pur sempre morto due giorni prima di loro.

MERCUZIO: Me la sono voluta e me la sono presa! Là per là, senza troppi struggimenti. Alla millesima facezia, alla millesima risata, al millesimo tentativo. Anzi, troppo è andata per le lunghe. La mia passione per quel gagliardo di Mercuzio ha resistito  un bel po’ di anni, mentre la loro, santiddio, due giorni appena! Ma questa Giulietta era poi carina?

VOCE: A te sarebbe piaciuta.

MERCUZIO: Come quasi tutte. Per quanto le bellezze più prelibate, queste squisitezze adolescenti, questi fiori di serra, non abbiano mai attizzato troppo la mia fantasia. Un gran tumulto, invece, era scatenato in me dalle donne fatte:  quei bei corpi dagli odori forti che non è facile pescare alla corte di certe famiglie, dove corre per le stanze un che di latte e di troppa educazione. In quelle stanze vivono fanciulle alla fin fine tristi e malinconiche. No, ci vuol altro! Mercuzio non è mai andato troppo per il sottile e sono più le donne che ha posseduto di quelle con le quali ha scambiato un bacio. Io tra le mani volevo carne viva, ricca di sangue, e due labbra pulsanti come una ferita aperta. Ma Romeo, lo so, era fatto di un’altra pasta. Era una creatura poetica lui, e nonostante la nostra amicizia mi sfuggiva ben volentieri. Il mio troppo ardore, se pure non lo intimoriva, di certo un po’ lo disgustava. Lo capisco. Alla lunga uno come me stanca. ma di una cosa soprattutto mi vanto: di essere stato un temerario. Neppure la pozza che mi fu aperta in petto riuscì a smorzare né l’impeto della mia lingua né quello del mio spirito. Tutti che si facevano attorno e non capivano. Mi guardavano con la faccia imbecillità di chi è troppo, troppo sano. E dalla mia febbre guizzava un ultimo lampo di genio. “Dai, Mercuzio... smettila... smettila... che sono queste buffonate?...” E io, con le mani artigliate sulla pancia a turarmi il sangue, tenevo banco nel centro della piazza. Tentennavo ma non cadevo. Sproloquiavo della mia ferita, ma non la mostravo. Ululavo il mio dolore e sembravo il più felice, il più vivo di tutti. Pure Romeo, il migliore tra noi, finì dritto a capofitto nel mio sacco. Se poi la recita non durò molto non fu mia la colpa. L’epilogo un po’ mi sfugge  ma mi conosco e sta’ sicuro che soltanto lo strappo dell’ultima viscera avrà potuto farmi stramazzare al suolo, non altro! Solo nel mio dito mignolo era una dose di vita tale che il più solido degli uomini non se la ritrova in tutte e quattro le membra.

VOCE: Ma sai cosa costò a Romeo questa tua bella morte?

R: Ne avrà sofferto, non dubito. Non fosse bastato l’affetto, come non pensare che io, in fondo, mi sono battuto per lui. Tebaldo stava ridendo del suo onore, non del mio. Per cui, anche non fosse bastata l’amicizia... - Poi, senza presunzione, ma una perdita come la mia pesa, pesa... sta’ sicuro!

VOCE: Calma, Mercuzio!... Posto che nessuno ti chiamò al duello ma fosti tu a cercarlo, e con una certa protervia...

MERCUZIO: Protervia la chiama, ma tu senti!... Forza d’animo, altro che storie!

VOCE: ...E posto che in un tempo di pace precaria e di equilibri esilissimi la catastrofe da evitare sopra ogni altra tu, con i tuoi lazzi, la invocasti a squarciagola, è bene che tu sappia quanto Romeo ha fatto per te, sconvolgendo la sua vita e rinunciando a ogni sogno di felicità e alla sua Giulietta.

MERCUZIO: O Gesù, ha parlato il profeta dell’Apocalisse! Avanti, sentiamo... cos’è che avrebbe fatto per me?

VOCE: Ti ha vendicato. Tebaldo ti è sopravvissuto pochissimo.

MERCUZIO: Vuoi dire che l’ha fatto secco?

VOCE: Proprio questo.

MERCUZIO: Subito dopo?

VOCE: Esattamente.

MERCUZIO: O meraviglioso giovane!... O ardito Montecchi!... Dicevo io che eri assai meglio di quello che volevi far credere!

VOCE: Sì però il punto è che, uccidendo Tebaldo, egli uccise praticamente un suo parente.

MERCUZIO: Come hai detto, scusa?

VOCE: Acquisito, ma parente. Una sorta di cognato, visto che appena poche ore prima Romeo aveva già sposato Giulietta.

MERCUZIO: Ma come? La ragazzina, lì... sposata?...

VOCE: In Chiesa e con tutti i sacramenti. Capirai ora il motivo per cui si sforzò in ogni modo di regolare pacificamente la contesa senza reagire alle provocazioni. Ma fu impossibile e tu sai perché. Così, vendicata che fu la tua morte, venne bandito da Verona e questo esilio, più che l’ostilità tra le due famiglie, segnò la fine della sua breve gioia d’amore. E della sua vita. E di quella della sua sposa.

MERCUZIO: E già... e sì, ho capito... sarebbe che dopo loro... dopo la condanna... dopo che lui... Oh, ma non potevano in un’altra maniera, non so...? Ma, insomma, non così... uccidendosi...

VOCE: Forse. Ma un’altra maniera, allora, non seppero vederla.

MERCUZIO: E bravo! Ci sei riuscito a farmi sentire in colpa. Insomma, io avrei generato dei delitti postumi. Grazie per la notizia. Chi l’avrebbe mai detto che proprio Mercuzio, per tutta la sua vita dispensatore eccelso di amenità e sollazzi, giusto morendo avrebbe combinato tanti imbrogli. Avrei preferito non saperlo. E’ la prima volta che mi tocca spartire la responsabilità di un gesto compiuto con un’altra vita che non sia la mia. Sgradevolissimo. Ah, bella visita la tua... bella davvero!... Però... può capirmi forse chi passa sulla terra con una testa simile alla mia: ingombra di fantasie, sgorbiata dall’egoismo e spennellata di una poesia indecente... votata ad una legge che misconosce tutte le leggi. E chi mi vendicò mi amava per questa testa, per questa vita, pericolosa e imprevedibile come una stoccata. Via, basta, versami da bere!

VOCE: ma tu non hai più labbra...

MERCUZIO: Ah, dimenticavo. Quante me ne sono capitate! Ma dunque è davvero impossibile essere degli uomini liberi se nemmeno si può disporre della propria morte. A mia disdetta m’accorgo che non per mia volontà ma per la natura con la quale nacqui, per la tempra che fece di Mercuzio Mercuzio e non un altro, io mi trovo colpevole di quanto è accaduto. E ancora stento a crederlo. No... tu queste cose non dovevi dirmele. A me bastava sapere della terra quel che vi accadde quando l’abitavo io, poi, del mondo senza Mercuzio, avevo in animo di non sapere nulla. Per quel che potrà valere, pensavo... io mio, già sono di un tale malumore da quando son morto... ci mancavi solo tu!... E bisogna pure che io ti tenga buono: sei la prima briciola di pubblico che mi torna dopo un’eternità. Ho perso il gusto della battuta ardita, dell’anagramma geniale, dell’indovinello aritmetico, del guizzo folgorante... tutto perso: per disabitudine. Merito di questa perpetua sonnolenza che mi ha ridotto come un abito per la festa cacciato in un baule. Ora capisco perché: in castigo. Eppure in me qualcosa ancora scalpita. Chissà, forse mi riuscirebbe ancora di imbastire uno di quei discorsi alati capaci di incantare le folle più variopinte, le brigate di beoni e spadaccini che m’accompagnavo nottetempo, e le belle sciattone con le quali mi trastullavo. Conoscevo l’arte di stregare sia uomini che donne senza doverli scrutare negli occhi. Quando le sillabe mi partivano inarrestabili, in tumultuosa armonia, e s’infilzavano le une con le altre, e tutto il globo terracqueo dalle mie parole spiccava il volo, l’umanità intera zittiva in ascolto delle mie epopee. Ecco cosa sono stato io! O cielo, che vorrei qualcuno, là sulla terra, zompasse nuovamente sù  a reinventare le mie parole, a ricordare che io fui per gli uomini e quel che feci a vantaggio della vita nei miei pochi anni, poiché, non lo scordare, pur io sono morto giovane! Come vorrei, e non per superbia ma per amore, che qualcuno ancora si appiccicasse una maschera sul muso, qualche pennacchio addosso, e recitasse la parte di Mercuzio il folle, il poeta, l’attore, l’assassino di ogni morale e di se stesso, e rammentasse a chi l’ascolta che anche così si vive, dissipatori e soli.


Incontro con Baldassarre

di

Giuseppe Manfridi

Probabilmente la storia d'amore di Romeo e Giulietta avrebbe avuto ben altra e più felice conclusione se, nel corso degli avvenimenti, non fosse intervenuta la figura del tutto marginale e, all'apparenza, inconsistente di Baldassarre, un servitorello di Romeo cui spettano poche ma decisve battute.

Egli compare assai tardi in scena: solo all'inizio del quinto atto. Romeo, reo di aver ucciso Tebaldo, ha trovato rifugio a Mantova e, prima di abbandonare Verona, gli lascia l'incarico di vegliare sulla sua sposa. Baldassarre, nemmeno il giorno successivo alla partenza del suo padrone, accorgendosi di strani traffici presso la cripta dei Capuleti, s'arrampica su per il muro di cinta e, con orrore, vede sfilare sotto i suoi occhi il corteo funebre che accompagna al sepolcro il corpo di Giulietta. Inforcato, allora, il suo cavallo vola a Mantova e, senza troppe premure, racconta al suo padrone ciò che ha visto. Di qui la curva che piegherà la fiaba d'amore in tragedia, sino ai suoi esiti ultimi.

Immaginiamo adesso che questo defilato e un po' occulto personaggio venga raggiunto nell'ombra in cui riposa da una voce impertinente, curiosa di saperne di più circa la storia di Giulietta e del suo Romeo.


                        

VOCE: Baldassarre... pare che la mia voglia di parlare con te ti stupisca.

BALDASSARRE: Ovvio. Non mi fido. Chissà cosa ti passa per la testa!

VOCE: Perché 'ovvio'?

BALDASSARRE: Sì, bravo, fai anche dello spirito! Ma come perché? So di contare poco e nulla, per cui...

VOCE: Santo cielo, come ti butti giù!

BALDASSARRE: Senti, non c'è bisogno che me lo venga a dire tu quello che sono! Un umile servo, e basta.

VOCE: E basta?

BALDASSARRE: Che vorresti sentirmi dire? Che so anche di essere stato una creatura malefica? E per coloro che ho maggiormente amato! Eccoti servito: te l'ho detto.

VOCE: E chi è che avresti maggiormente amato?

BALDASSARRE: Ma lo sai benissimo. Il mio padrone Romeo, innanzi tutto. Poi, via, mettiamoci anche quel fiorellino di campo che si era scelto... la piccola Capuleti!

VOCE: Certo che malefico non è che ti ci veda molto. Un po' chiuso a riccio, questo sì.

BALDASSARRE: Ma la vuoi smettere di prendermi in giro? Lo sai meglio di me che se non mi fossero scappate, da vivo, le poche e dannate parole che ho detto, e se per qualche battuta male assestata non avessi combinato il pasticcio che ho combinato, io, per come sono, non t'interesserei né poco né tanto.

VOCE: Permaloso?...

BALDASSARRE: Lascia stare che è vero! Quale altro motivo avresti per cercarmi? Io non sono stato altro che un minuscolo motore: la mia sciagurata intromissione in una vicenda che poco mi riguardava, e tanto di me più grande, ha finito per trasformare una palpitante storia d'amore in una tragedia. Ah, ma credi che non lo sappia? Questo venne deciso da altri... da qualcuno al quale il mio sacrificio fece molto, ma molto comodo. E così ora eccomi con questa bella sporta di rimorsi sulle spalle!

VOCE: Perché non mi racconti un po' tutto dall'inizio?

BALDASSARRE: Già, perché il signorino non sa nulla!

VOCE: Una questione d'ordine.

BALDASSARRE: Cosa credi che non t'ho capito? Tu ti sei messo in testa di fare di me un personaggio: così, dal nulla. Sei più patetico di me. Evidentemente i pezzi grossi della storia non sono alla tua portata - il mio padrone, ad esempio, o la sua Giulietta - e, allora, a corto di risorse, hai pensato bene di venire a scovare il piccolo Baldassarre: nato, vissuto e morto servo. Ma io non sono che un ballerino di ultima fila, tanto che quando l'attore più scalcagnato si vede affibbiare la mia parte... uh, che scene! Un muso lungo sino a terra. Capirai... per quelle due battutine saporite che mi sono state messe in bocca! Io, con i miei panni, offro poco più di una comparsata. Ma che t'importa di me? Non ho storia. Alloggiavo nell'ala sporca del castello, nelle cellette dei domestici. M'accoppiavo con le sguattere, io! Sai cosa mi è stato detto che è stato detto si me?

VOCE: No, di'!

BALDASSARRE: Che sarei un elemento strutturale. Proprio! Del tutto privo di un'immagine mia e asservito alle esigenze di una storia che, senza di me, avrebbe dovuto trovarsi tutto un altro finale. Che felicità! C'è di che esserne orgogliosi.

VOCE: Ma lascia stare i critici! Te li raccomando, quelli!...

BALDASSARRE: Intanto... carta canta.

VOCE: Dimmi, piuttosto, tu di te quello che pensi. Cos'è? Ti senti, per caso, un personaggio approssimativo, irrisolto?

BALDASSARRE: Magari lo fossi! Ma sai che ben altro fascino!... No, il guaio è che io, nella mia tapinaggine, sono del tutto risolto. Quindi, immobile. I personaggi irrisolti tendono alla compiutezza e, per loro fortuna, possono almeno agitarsi, e così, in qualche modo, vivono! 

VOCE: Eppure, caro mio, c'è qualcosa di te che, a ben guardare, quasi resta nell'ombra...

BALDASSARRE: A ben guardare già è tanto se uno s'accorge di me. Io, te l'ho detto, sono tutto in quelle due scenette striminzite: prima, quando arrivo a Mantova e racconto quel che credo di aver visto, poi, quando seguo il mio padrone a Verona, fino al sepolcro dei Capuleti, e me ne rimango acquattato tra le siepi, incapace di muovere un dito mentre lui e la sua sposa si tolgono la vita. Ma quel mio ingresso!... Ah, quel mio primo ingresso cosa non è di ridicolo!

VOCE: Appunto, torniamoci insieme!

BALDASSARRE: Bel gusto rimestare il coltello!...

VOCE: Vorrei solo riepilogare meglio. Dunque... quando tu arrivi a Mantova e, dicendo a Romeo quelle cose di cui ti fai tanto carico, avvii un equivoco mortale, tu, correggimi se sbaglio, ti limiti a eseguire un compito che ti venne affidato; non agisci di testa tua. Solo per questo la tua colpa è minima, se non del tutto inesistente.

BALDASSARRE: Ah, un ragionamento che filava pure per me, sul principio! "Ma via... per cosa ti vai a torturare! - mi dicevo - Non hai fatto altro che riferire ciò che ti sembrò essere la verità!" E così continuavo:"Non hai fatto altro che il tuo dovere!... Non hai fatto altro che il tuo dovere!..." Sennonché, a forza di rimuginare, le cose cambiano, e si finisce per vederle in modo completamente diverso.

VOCE: Ovvero?

BALDASSARRE: Troppi rimuginii snudano aculei che ti mordono il cuore e il cervello.

VOCE: Ovvero?

BALDASSARRE: Insomma, era proprio necessario che m'arrampcassi su per quel muraglione? Ma dico... io, che per sana abitudine ho sempre fatto un terzo di quel che mi si ordinava, proprio allora dovevo dimostrare tanto zelo?... Neanche a dire che ci fosse qualcuno a controllarmi!  E dopo, ancora: se solo avessi avuto un po'... che so? di tatto... beh, non mi sarei scapicollato con tanta furia a Mantova per raccontare di un funerale - e, forse, ci sarebbe stato anche il tempo di vederci un po' più chiaro in quel finto suicidio. Ah, capra! Capra che non sono altro! Ma dì... vuoi che ti ricordi la mia battuta maledetta: quella con cui mi presento in scena all'inizio del quinto atto? Vuoi?

VOCE: Comincio io: Mantova. Strada con botteghe.

BALDASSARRE: Con botteghe, già: di speziali avvelenatori.

VOCE: Entra Romeo...

BALDASSARRE: Sguardo da lupo, ma con una luce negli occhi...

ah, con una luce!...

VOCE: Quella di chi ha sognato cose buone. Tanto che dice: "Se posso fidarmi della verità lusingatrice del sonno, i miei sogni presagiscono che è vicina qualche lieta notizia."

BALDASSARRE: E già, poveretto: pensa a quella che avrei dovuto portargli io, e che sarebbe stata veramente buona, se solo avessi saputo vedere meglio. E termina dicendo: "...Quanto deve essere dolce l'amore... quanto deve essere dolce l'amore..." - Aspetta che non mi ricordo bene... ah, sì, così: "Quanto deve essere dolce l'amore l'amore posseduto nella realtà, se solo le ombre dell'amore sono tanto ricche di gioia..." - Capirai, queste parole mi sono entrate nel cervello a furia di ascoltarle standomene appollaiato tra le pieghe del sipario! Ma ecco... Romeo fa la finta di vedermi su per il sentiero... io avanzo di un passo verso le quinte e già sono nelle luci della scena - ancora, però, non mi si vede - e lui: "Ebbene, Baldassarre? Come sta la mia Giulietta?... Se ella sta bene nulla può andar male." - Alché io, da perfetto imbecille - ascolta, ascolta!...: "Allora ella sta bene e nulla può andar male, dacché il suo corpo dorme nel sepolcro dei Capuleti e la sua parte immortale vive con gli angeli." - Capra! Capra! Ma perché non m'è cascata la lingua? Perché?

STACCO (PEZZO DI REPERTORIO)

ROMEO: Se posso fidarmi della verità lusingatrice del sonno, i miei sogni preagiscono che è vicina qualche buona notizia. Il signore del mio petto se ne sta giososamente sul suo trono e un insolito spirito da questa mattina mi solleva al di sopra della terra con lieti pensieri. Ho sognato che la mia donna è venuta e mi ha trovato morto - strano sogno che permette a un morto di pensare! - ed ella ha infuso con i suoi baci tanta vita nelle mia labbra che sono resuscitato e mi sono trovato imperatore. Ahimè! Quanto deve essere dolce l’amore posseduto nella realtà, se solo le ombre dell’ amore sono così ricche di gioia!

(Cavalli)

Notizie da Verona! Ebbene, Baldassarre? Non mi porti una lettera del frate? Come sta la mia signora? Sta bene mio padre? Come sta la mia Giulietta? Trono a domandartelo perché, se ella sta bene nulla può andar male.

BALDASSARRE: Allora ella sta bene e nulla può andar male. Il suo corpo dorme nel sepolcro dei Capuleti re la sua parte immortale vive con gli angeli. L’ho vista io stesso calare nell’arca della sua famiglia e subito ho preso dei cavalli di posta per correre a dirvelo. Oh, predonatemi se vi porto queste cattive notizie, ma è il compito che mi deste, mio signore.

ROMEO: Sono proprio queste le notizie? Allora, stelle, vi sfido. Tu conosci il mio alloggio. Procurami carta e inchiostro, e va’ a nolleggiarmi dei cavalli; partirò questa sera.

BALDASSARRE: Vi supplico, mio signore, abbiate pazienza. Siete  pallido e stravolto, e questo significa disgrazia.

RAOMEO: Zitto, ti sbagli. Lasciami e va’ a fare quello che ti ho ordinato. Non ha i lettere del frate per me?

BALDASSARRE: No, mio buon signore.

ROMEO: Non importa, va’ a noleggiarmi quei cavalli. Ti raggiungerò immediatamente.

(Baldassarre esce)

ROMEO: Giulietta, questa notte io gacerò accanto a te.

STACCO

BALDASSARRE: Un monumento all’idiozia! S’è mai visto di meno e di peggio?

VOCE: Non entro nel merito e andiamo avanti. Dopo questo folgorante ingresso, tu riappari nella terza scena del quinto atto...

BALDASSARRE: Ovviamente al cimitero.

VOCE: Difatti la didascalia dice: "Verona. Un cimitero. Il sepolcro dei Capuleti. Entrano Romeo e Baldassarre."

BALDASSARRE: Che momenti! Che momenti!

VOCE: "...Con una torcia, un piccone e un palo di ferro."

BALDASSARRE: Un palo di ferro?... A volte sì, a volte no... insomma, non sempre col palo di ferro.

VOCE: A ogni modo, qui Romeo ti ordina di andartene. Tu sai che vuole profanare il sepolcro: per riprendere la vera nuziale di Giulietta, ti dice, ma tu non gli credi e disobbedisci.

BALDASSARRE: E non gli credo no! Solo a vedere lo stato in cui si trova!...

VOCE: Ti rintani dietro una siepe e resti a spiare. Giusto?

BALDASSARRE: Sì, giusto.

VOCE: Bene, ci siamo. E' qui, Baldassarre, che tu non mi convinci del tutto.

BALDASSARRE: Cioè?

VOCE: Ma sì, è qui che il tuo personaggio mi si fa alquanto enigmatico, tanto da apparire, ma ti dico: d'un nulla, irrisolto... vale a dire: ancora aperto, da svelare...

BALDASSARRE: E insisti!

VOCE: Certo che insisto. Permettimi di ricordarti, alla lettera, l’ordine che ti dai, da solo, una volta rimasto solo...

BALDASSARRE: Sarà stato per il gusto di dare ordini a qualcuno.

VOCE: Ma hai capito di che parlo?

BALDASSERRE: Fare il pedante è cosa tua. Va’ avanti, mi diverte.

VOCE: Parola più parola meno, dici: “Me ne andrò, signore, e non vi disturberò”...

BALDASSARRE: O numi, che battuta scolpita nel marmo!

VOCE: Aspetta. Romeo ti risponde: “Così mi dimostrerai la tua amicizia...” Quindi ti dà del denaro...

BALDASSARRE: Arraffato con la mano di Giuda!

VOCE: ...E conclude: “Vivi, abbi fortuna e addio.”

BALDASSARRE: Buonuomo.

VOCE: Come, scusa?

BALDASSARRE: Termina dandomi del ‘buonuomo’. ‘Good fellow”, così che dice. Quasi a prendermi in giro. Una cosa tipo: “Stattene al tuo posto, zitto e mosca!”

VOCE: In questo non m’immischio.

BALDASSARRE: Tanto per dire. Transeat.

VOCE: Veniamo a te. Lo vedi che si allontana, hai un presentimento e pensi: “Nonostante tutto, mi nasconderò qui vicino: il suo sguardo mi spaventa, ho timore delle sue intenzioni.”

BALDASSARRE: Niente da dire: un’autentica aquila.

VOCE: Poi dici di Romeo!... Quanto ti piace insultarti da te!

BALDASSARRE: Che non ho bisogno di specchi: io sono, da capo a piedi, in quel che ho fatto e chiuso. Il mio errore mi descrive con più chiarezza di quanto non possa il pennello del pittore più provetto. Almeno in questo davvero ho del coraggio. Guardo i miei gesti, evidenti come è evidente che una pentola è una pentola, e mi dico: io sono lì. Non avanzo d’un unghia. Lì e basta.

VOCE: Appunto! E tu non credi che anche le parole dette e i pensieri pensati equivalgano a dei gesti?

BALDASSARRE: Vuoi dire, non meno di un pugno o di una pedata?

VOCE: Non meno.

BALDASSARRE: Facciamo conto di sì. Giusto per capire dove vuoi andare a parare.

VOCE:  Se sì, ed è si!, ma allora tu sei anche nelle parole che pensasti in quei precisi istanti, per cui consentimi di indagarle meglio. Il moto dell'anima che t'avverte del pericolo a cui è esposto il tuo padrone e che t'induce, sfidando i suoi ordini, a non allontanarti da quel cimitero, è tutto tuo! Non avresti potuto far niente, in nessun caso, eppure... non hai avuto la forza di andartene. Prova ne sia che, quasi sotto i tuoi occhi, Romeo si batte a duello con il Principe Paride, lo uccide e poi si toglie la vita - e tu?... Lì, che non ti rendi conto di niente... ma lì!

BALDASSARRE: Se non mi sono mosso... se non mi sono mosso... mica che avevo paura!

VOCE: Io dico della tua angoscia, non della tua paura.

BALDASSARRE: Angoscia, sì... è la parola giusta.

VOCE: Fu quella a tenerti inchiodato.

BALDASSARRE: Ma se mi ci sono pure addormentato dietro a quella siepe...

VOCE: Vero... questo, almeno, è quello che dici a Frate Lorenzo quando ti raggiunge presso la cripta. Che avresti sonnecchiato...

BALDASSARRE: ‘I did sleep’... dormito, non sonnecchiato.

VOCE: D’accordo... dormito, e... ‘I dreamt’... sognato. E sognato cosa?... “Il mio padrone che si batteva con un altro, e lo uccideva.” Tu hai sognato quello che hai visto, Baldassarre... e lo hai sognato mentre lo vedevi. Strano sogno questa visione del reale che la tua angoscia ha trasformato in un presentimento!... La bizzarria è che tu hai presentito il presente.

BALDASSARRE: Dio mio, mi ci sto perdendo.

VOCE: Insomma, io vorrei farti comprendere come sia in questa fugacissima scena, dove per una volta tanto potresti essere tu il protagonista, che il pubblico può intuire tutta la portata del tuo amore per coloro che proprio la jattura del tuo intervento ha condannato.

BALDASSARRE: Fosse vero.

VOCE: Ma lo è!

BALDASSARRE: Dunque... un po' autentico?...

VOCE: Che?

BALDASSARRE: Io!... Sarei davvero un po' autentico...

VOCE: A me sembra.

BALDASSARRE: Vedi... a me non importa di essere stato chiamato in causa solo perché ci voleva qualcuno a cui far dire quelle due o tre frasi che servivano a un dato momento, dopodiché chiuso. So di personaggi formidabili che entrano in scena - ma così, vi passano di sfuggita! - e si incidono nella memoria con la forza di pochissime battute, a volte con un silenzio o con un cenno appena. Per carità!... Io, addirittura, a volermi dare delle arie, potrei quasi definirmi un'incarnazione del fato. Maligno, ma pur sempre fato. No, non è questo. Odio la frustrazione. Complessi d'inferiorità? All'inferno!

VOCE: Oh, bravo! Un po' d'animo, mi piace.

BALDASSARRE: Anzi, ti voglio confidare una cosa: non è tutto vero quello che ti ho detto circa gli improperi degli attori che mi debbono interpretare.

VOCE: Ah, no?

BALDASSARRE: Ora ti spiego. La mia parte, pur se piccola, pretende requisiti molto precisi che non possono essere ignorati. Io sono un valletto, assai giovane dunque, ragion per cui è facilissimo che essa venga affidata ad attori giovani e giovanissimi, spesso al loro debutto. Giovani ai quali io offro, dunque, la prima occasione della loro vita. Il che vuol dire: una grandissima gioia, ti pare?... Così, dei miei panni, si sono vestiti e si vestono attori straordinari ma ancora sconosciuti e attorucoli mediocri che, dopo di me, il più delle volte, chiudono la carriera. Dunque, almeno un piccolo vantaggio posso vantarlo sul mio padrone! Un ruolo come il suo è per lo più ricoperto da interpreti di indiscusso valore - e tante volte, anche per questo, fuori età - mentre a me è data l'opportunità di conoscere un'umanità assai più vasta e indifesa... un'umanità dove talento e cagneria, sogni e disillusioni sono ancora cose del tutto mischiate e confondibili. Certo, mi fossi ritrovato nelle vesti di un Amleto o di un Marc'Antonio... ah, beh... ah, beh... logico che uno si voglia sempre meglio di quello che è. E se agli uomini migliorare è possibile... noi, creature dei poeti, come siamo stiamo, rendo l'idea?... Non possiamo mutare le nostre forme, né quel grano sottratto all'essenza del mondo che in ciascuno di noi è riposto. Simboli... non siamo forse questo?

VOCE: E tu? Di cos'è che ti vedi simbolo?

BALDASSARRE: Ma un po' del fato, te l'ho detto... del corso misterioso e infido del destino che non si fa srcupolo di niente, neanche di usare la buona fede, la cecità di un povero servo pur di portare a compimento le sue trame... di allestire le sue trappole. Io rappresento la sfortuna, le disavventure che intervengono nelle storie degli uomini a sciupare speranze e progetti. Per mettersi in lotta con la felicità. Non c'è forza terrena che valga a fronteggiare gli eventi quando siano pilotati da un'ispirazione nefasta; e in me, allora, essa trovò un incosciente sicario. E' terribile come, a volte, vi sia uno scompenso sconvolgente tra l'inconsistenza di un piccolo errore di valutazione e le sue conseguenze.

VOCE: Ecco cosa ti porti nel cuore: la cognizione di ciò che sei. Questo è il tuo peso.

BALDASSARRE: Accorgersi di ciò che si è significa già soffrire. - Oh, ma basta! Meglio, adesso, che me ne torni ad essere quell'insipido valletto che quando lo si nomina ci si sente puntualmente rispondere: "Baldassarre? E chi è?"

VOCE: Ma come? Non te ne sei convinto anche tu che in te c'è, comunque, qualcosa che ti rende memorabile?

BALDASSARRE: Memorabile?... Chissà. A ogni modo, chi se ne accorgerà ancora... per una seconda volta?


Caterina e Bianca

Di Giuseppe Manfridi

Lucenzio, giovane studente pisano giunto a Padova per frequentare i corsi universitari, ama Bianca figlia minore di Battista. Ma con Lucenzio, ultimo arrivato, un gruppetto di altri ettempati e più favoriti pretendenti corteggia la bella fanciulla. Tutti, però, sembrano destinati a veder naufragare i propri desideri amorosi. Battista, difatti, ha posto il veto assoluto sul matrimonio di Bianca se prima non gli riuscirà di maritare la primogenita Caterina, nota in tutta la città per il suo terrribile carattere bisbetico.

Finalmente, prodigio insperato, compare all’orizzonte Petruccio, un nobile veronese in cerca di una moglia provvista di congrua dote. Caterina la dote ce l’ha, quanto al resto Petruccio non sembra impressionarsi.

Fatto è che il ruvido e tenace veronese, alternando maniere forti a dolci lusinghe, riesce a domare la sua scorbutica moglie, e a tal punto che, sorta tra mariti una discussione su quale sia la consorte più docile e remissiva, sarà proprio Petruccio a vincere la scommessa.

Nel frattempo, il concludersi di questo matrimonio ha permesso anche alla ben più soave e mansueta Bianca di sposare il suo bel Lucenzio evitando ogni altro pretendente.

Nel nostro dialogo si immagina che Caterina, andata a vivere con Petruccio a Verona, torni dopo qualche tempo a Padova per incontrarsi con Bianca.

Le due sorelle, mentre i rispettivi mariti se ne stanno probabilmente in taverna, hano così modo di tornare su vecchi ricordi e di riaccalorarsi  in nuovi bisticci.


BIANCA: Caterina... finalmente! Un altro po’ e diventavamo due estranee.

CATERINA: Eccolo il mio fiore di bosco... la mia mammoletta bella in carne, e cresciutella anzichennò!

BIANCA: Mi trovi ingrassata?

CATERINA: Vivaddio, un po’ di forme!

BIANCA: Tu, piuttosto! Tutto il tempo che è passato sembra che tu l’abbia scalato e non aggiunto.

CATERINA: Galanterie da cavaliere!

BIANCA: Figurarsi... invidia, piuttosto! Ma vieni... mettiamoci sedute.

CATERINA: Ti vedo prospera, per quanto affaticata.

BIANCA: Cara sorella, lo sai... son già al terzo mese.

CATERINA: Sarà mica solo questo? Io al quinto.

BIANCA: Non è un mistero: la tua tempra non è la mia. Da sempre. Dover fabbricare questa creaturina che mi porto in pancia so già che sarà un’impresa capace di svuotarmi di ogni forza.

CATERINA: Laddove, invece, guarda un po’... a me ne accresce. Ma via, si sa... c’è chi porta e chi sopporta. Verrà pure il momento in cui tu rifiorirai e io sarò da raccogliere in palmo di mano. - Gran bella casa, non c’è che dire!

BIANCA: Quel che si può.

CATERINA: E tenuta come c’era da aspettarsi da te. Anche la polvere fa luce.

BIANCA: Ne vedi?

CATERINA: Quanto basta per non mettere a disagio una trasandata che ti venga a fare visita.

BIANCA: Non più come te, cara sorella.

CATERINA: Non più come che?

BIANCA: Come una, quale tu più non sei, che non si curi della casa. Oh, immagino.

CATERINA: Cosa, di grazia?

BIANCA: Che ci si muova, da te, come su specchi.

CATERINA: Ti sfugge un tono di cui forse non t’accorgi.

BIANCA: Un tono nel senso?

CATERINA: Di rimprovero, possibile?

BIANCA: Se sarà stato, lo dici da te: perché sfuggito. Temo che la tua frecciata, invece, fosse molto più determinata.

CATERINA: Per carità, io dicevo in allegria. Ma è che tu, consentimi, non hai mai sfuggito, per educazione e garbo, le sfumature, stentando, per contro, a interpretarle. L’opposto di me: radicale, come ti ricorderai, in tutto ma capacissima - e lo dico a costo di sbrodarmi da me sola - di intendere l’inteso e il sottinteso. Nonché, in caso di bisogno, di replicare allusiva alle allusioni e proprio perciò confermandomi pericolosa nel giudizio di chi, volente o nolente, si ritrovava in una disputa con me. Ma l’ho capito il vero perché di quest’allarme... non mica tanto nella mia presunta sfrontatezza. No, vuoi saperlo?... Che io parlavo esattamente come sarebbe piaciuto di parlare a loro. Padroneggiavo i loro modi, usavo i lro termini, cavalcavo le loro metafore... li trattavo di sopra in sotto né più né meno di come fanno loro. Ma, per lo più, meglio di loro.

BIANCA: Ma loro chi?

CATERINA: Loro, i maschi. Che fingono l’attacco a viso aperto mentre, in realtà, sono tutto un ingombro di pensieri impilati uno sull’alltro a sgomitare e senza che mai ne mostrino uno chiaro e definitivo: che sia quello, uno per tutti e basta. Dicono di sì, e non sanno, dicono di no, e non sanno. E pure quando sanno, il sapere che sanno gli fa paura, tanto che, l’ho capito, preferiscono, tra sé e sé, convincersi che è ancora tutta da vedere, pur dando a vedere, con ostentata presunzione, che il loro sapere ha la durezza della roccia.

BIANCA: E chi è che t’ha fatta esperta dei sottofondi maschili a questo modo? Forse Petruccio? E lui, dì, che ti fa da cavia?

CATERINA: Innanzitutto la Caterina che sono sempre stata. E che quel che pensa adesso l’ha pensato sempre.

BIANCA: Già, come non ci fossero stati cambiamenti...

CATERINA: Minimi. D’età.

BIANCA: Ma Caterina, come puoi dirlo?... Per cortesia, non farmi ridere, che con questo bel pancione che m’è venuto è una faticata in più!

CATERINA: Un tempo ti lamentavi che ti facevo piangere...

BIANCA: Appunto. E la cavezza che t’ha messo tuo marito?

CATERINA: Le briglie leggere, a un buon puledro, lo fanno andare più veloce.

BIANCA: Già, ma quelle lui non te le ha messe per farti correre, bella mia.

CATERINA: Ah, no, e perché, sentiamo?

BIANCA: Per trascinarti, piuttosto.

CATERINA: Me?

BIANCA: Te, proprio. Trascinare davanti all’altare, prima, e trascinare a Verona, poi - e, soprattutto, trascinare ai fornelli, trascinare ai mille ‘signorsì, padron mio!’ che ostentatamente ti si è visto tributargli con gran genuflessioni... e trascinare a chissà quali e quant’altre soperchierie tra le mura di casa vostra. Ma và, và... nemmeno volevo stare a dire. Giusto solo per ché tu adesso mi ci hai per l’appunto, come dire?...

CATERINA: Trascinata?

BIANCA: Trascinata, sì.

CATERINA: Bene, allora, ricapitoliamo. Punto primo: trascinata all’altare. Ho sposato chi dovevo per il motivo, pure e semplice, che fu un dovere che mi imposi da me stessa.

BIANCA: Spiegala meglio, se ti riece.

CATERINA: Già, cara Bianca. Sono stata dura con me più di quanto lo sia stata con voialtri. La mia più severa legislatrice. Devi - mi dicevo - capire ciò che vuoi e di ciò che vuoi devi farne il tuo dovere. Ovverosia: ti sia imposto d’avere ciò che ad averlo sarebbe il tuo piacere.

BIANCA: Ovverosia, per dirne una... ovverosia: Petruccio?... Non vorrai adesso venirmi a dire che te n’eri, tutta d’un colpo, innamorata?

CATERINA: Banalizzi, ma direi di sì.

BIANCA: Ma sentitela, banalizzo!... Uso le parole che, in certi casi, vanno usate.

CATERINA: Amore è una parola disossata. Racconta poco e niente.

BIANCA: Dio, che sofista. Già, che lei parla da uomo!...

CATERINA: Per carità, no! Da donna, eccome!... 

BIANCA: Io con te ci perderò la testa.

CATERINA: Ce l’hai attaccata a un filo. Potrai smarrirla, forse, ma perderla mai.

BIANCA: Tu almeno cerca di chiudere quel che cominci a dire.

CATERINA: Certo, da donna. Amore è parola loro, mica nostra.

BIANCA: Cioè, nel senso?

CATERINA: Non dico che l’amore a noi non ci riguardi. Ma che, semplicemente, noi sappiamo cosa sia. E quanto sia indicibile. E’ un punto dell’anima, che è in se stessa un punto. L’amore ha luogo lì. E noi lo sappiamo.

BIANCA: Noi?... Intendi dire... anch’io?

CATERINA: Senz’altro.

BIANCA: Come, insomma... per una specie di istruzione naturale?

CATERINA: Esatto. Perciò, sta’ sicura, tutte le volte che noi la pronunciamo questa povera paroletta senza odori...

BIANCA: Amore?

CATERINA: Amore, già... e che la mercanteggiamo, la diffondiamo, la rimpalliamo come il piumino d’un volano da una racchetta all’altra... in realtà lo facciamo solo per compiacere loro. Meglio: per aiutarli; tanto hanno bisogno che noi li si informi del fatto che noi, sì, ci stiamo... che noi, sì, li ammiriamo... che noi, sì, li veneriamo... che noi, insomma, li amiamo.

BIANCA: Ma lo stesso di cui abbiamo bisogno noi per prime.

CATERINA: No, Bianca, non è lo stesso bisogno. E sai perché? Perché siamo più forti.

BIANCA: Tu, forse, ai tempi tuoi.

CATERINA: Anche tu, come anch’io adesso. A noi l’amore non serve come cibo, come qualcosa da prendere e da mordere. Per noi, è nella concretezza del vivere. In questi rumori che ci sentiamo dentro, sia io che te... qui nel grembo che si gonfia. In queste voci. Non è un pensiero. Ha canali in cui corre sangue... bisbetico, se ti va... come le vita... che è rumorosa, bizzosa e fatta di slanci e di improperi. E che è... inevitabilmente evidente. Inevitabilmente espressa. Esibita. Sino all’eccesso, sempre. Come me ai tempi miei; così mi capisci meglio. Comunque, torniamo ai tuoi punti d’accusa... dici che sarei stata  trascinata a vivere dove non avrei mai voluto...

BIANCA: Non era un’accusa, solo una considerazione.

CATERINA: Ma offensiva.

BIANCA: Oh, senti... se t’offende ricordare come sono andate le cose..

CATERINA: Può offendermi come le interpreti.

BIANCA: Beh, che t’abbia preso e portato dove pareva a lui...

CATERINA: Nella sua città. 

BIANCA: Quel che è. Fosse stata in Africa t’avrebbe portata in Africa.

CATERINA: Concretezza, cara sorella, concretezza. M’ha portato dove avevamo  casa. E dove dar seguito a quel progetto a cui il nostro incontro aveva dato principio. Altrove non si poteva, lì sì. Cosa avremmo dovuto fare? Restarcene a Padova dove ci sarebbe toccato questuare un tetto sulla testa? Un lavoro per me o mio marito?...

BIANCA: Spero tu non voglia rinfacciarmi di aver preferito, invece, restarmene qui. Lucenzio aveva ancora da farsi una posizione, doveva finire i suoi studi... e se nostro padre è stato tanto caro da volerci offrire dove stare senza che ce ne dovessimo andar via, cosa pretendevi? Che dicessimo di no?

CATERINA: Te la suoni e te la canti. Ti sei presa i tuoi diritti, come io i miei.

BIANCA: Poi io la amo questa città. E’ giovane. E’ giovane e piena di giovani. Non me ne separerei mai e poi mai. L’aria che si respira... di libri, d’arte, di scienze, d’univesità. Ha suoni, ha chiasso. Tutto quello che si fa qui è giovane. Anche come ti fanno la corte. E’ diverso che da un’altra parte, ne sono sicura.

CATERINA: Dico, sorellina... sei una signora sposata. Nonché prossima madre, e nonché prossima zia.

BIANCA: Tranquilla, a cosa ti credi che pensi?... A Lucenzio, penso. Figurati, sono proprio il tipo!...Dico, ma ti ricordi come arrivò a dichiararsi?... Quello che non s’inventò. Fingersi maestro di latino per venirmi a dare lezione!... Cambiare nome e vestire dei suoi abiti il proprio servo per lasciarsi campo libero con me!... Ti ricordi?... Ma dove, se se non qui, si possono giocare di questi giochi? E’ l’aria che si respira... c’è come un senso di vacanza, d’età sospesa, incerta, ma pure di continua effervescenza che io ancora sento quando, ora, in attesa - o presa da qualche pratica domestica - me ne sto  a sfaccendare, oppure mi metto seduta lì a bermi un po’ di sole e guardo fuori per la via le masnade dei ragazzi che scorazzano impertinenti. E’ per troppa impazienza che fanno così... impazienza che la vita cominci e che li chiami; e corrono, corrono... scomparendo verso Dio sa dove e alla ricerca di Dio sa che. Allora mi ricordo quel nostro parlarci in codice... e lo smercio dei bigliettini... le passeggiate nel giardino mormorando avventatezze... le nostre prime... le nostre... (a troncare) bah! - Ma aspetta, aspetta... (rumore di cartuccelle) Ce li ho ancora quei foglietti che mi lasciava nelle grammatiche... ascolta: “Ecco un prontuario, o mia adorata, che vi renda più facile la scala delle note. ‘Do’, io sono il principio di ogni accordo, ‘Re’ per dirvi tutto il mio grande amore, ‘Mi’ che di vostra beltà mi sento ingordo, ‘Fa’  che sappiate la brama del mio cuore, ‘Sol’, ho due note per una chiave sola, ‘La, Si’ già  il vedervi mi basta e mi consola!” Carino, no?...

CATERINA: Certo, molto. L’unica cosa... che avrei una piccola perplessità, ma forse mi sbaglio.

BIANCA: Che perplessità?

CATERINA: Oh, una sciocchezza... solo che quel biglietto parla di scale musicali e non di latino.

BIANCA: E allora?

CATERINA: Scusa, ma... non era Ortensio a darti lezione di musica?

BIANCA: Musica?... Ah, sì, forse.

CATERINA: Mentre, Lucenzio, di lettere classiche.  Cosa a cui ‘Do, Re, Mi, Fa’ non alludono molto.

BIANCA: In effetti.

CATERINA: E Ortensio non era un altro tuo pretendente che, con un espediente analogo a quello del tuo caro latinista, si intrufolò in casa nostra per starti sempre attaccato alle sottane?

BIANCA: Ferma là, cosa vorresti insinuare?

CATERINA: Com’è che mi dicevi prima?... “Se t’offende ricordare come sono andate le cose...”

BIANCA: Lascia fare, e dilla tutta!

CATERINA: Quel che è. Dovessi dirti, però, quello che penso... secondo me i foglietti che insisti a conservare tanto gelosamente sono quelli di uno spasimante che, poi, non è diventato tuo marito. Tutto qui.

BIANCA: Anche fosse, conta poco se, comunque, li ho tirati fuori per dirti quanto ancora possa struggermi il pensiero di me e di Lucenzio, e sottolineo: Lucenzio, all’inizio del nostro fidanzamento. Chi li ha scritti, li ha scritti. Se mi ineteneriscono e li attribuisco a lui, vorrà dire che, a ogni modo, mi intenerisco per lui e per nessun altro, chiaro?

CATERINA: A me sembra, piuttosto, che tu abbia una nostalgia tremenda per un’età che ti ostini a sentire trascorsa. Dunque, alla fin fine, per te stessa...

BIANCA: Riecco la filosofa!

BIANCA: ...e per tutti coloro che ne furono protagonisti. Lucenzio compreso, non dico di no. Ma anche tutti gli altri tuoi innamorati.

BIANCA: Capirai, Ortensio... non mi sarei fatta sfiorare con un dito da un tipo come quello!

CATERINA: Ma le sue scale, a quanto pare, non ti lasciarono del tutto indifferente. Senza dire che la stessa calligrafia già ti avrebbe dovuto far sospettare che, forse, ecco...

BIANCA: ‘Forse’ cosa?

CATERINA:  Dico, ne avrai viste di cose scritte da tuo marito di suo pugno, no?!...

BIANCA: Dio come sei pedante! Se permetti, crescendo si può cambiare. Anche stile di scrittura.

CATERINA: E anche gusti.

BIANCA: Prego?

CATERINA: Per me... si tratta di un equivoco rivelatore.

BIANCA: Pedante! Pedantissima! 

CATERINA: No, che vorrei esserti amica oltre che sorella.

BIANCA: Parla la convertita. Dopo avermi fatto passare anni di inferno... a riempirmi di botte, a legarmi ai mobili, e rinchiudermi nei ripostigli!...

CATERINA: Ma sì, giochini.

BIANCA: E sempre insultata, aggredita, disprezzata...

CATERINA: Giochini, giochini.

BIANCA: E adesso viene pure a fare l’amica.

CATERINA: Perlomeno vorrei.

BIANCA: Quella che ti scava dentro a sguainarti l’anima come un pugnale dal fodero!

CATERINA: Che metafora allarmante!

BIANCA: Del genere che un tempo preferivi. Comunque: per cortesia, evita. Credo d’essere in tutto e per tutto una sposa irreprensibile, per cui i tuoi ricamucci lasciano il tempo che trovano.

CATERINA: Bianca! Bianca!... Ma che parte mi stai facendo fare? Davvero quella della saccentona che viene a darti le bacchettate sulle mani. Te ne avrò date a suo tempo, è vero, ma allora ti domando: perché non ti sei mai provata a restituirmene? Se una ti mena, tu reagisci! Era mica per punirti che lo facevo. Cercavo la rissa, non la trovavo e finivo per incaponirmici ancora peggio. Umanissimo. Umanissimo.

BIANCA: A me la rissa, invece, non piaceva proprio per niente, guarda un po’! Belle pretese che tutte dovessero essere fatte com’eri fatta tu.

CATERINA: Se io ti imponevo le mie, di pretese, tu potevi impormi le tue. Chi te l’impediva?

BIANCA: Importi le mie? E come?  A suon di unghiate e di ceffoni?

CATERINA: Quando l’ideale merita!...

 

BIANCA: Ma se l’ideale è la mitezza? Che paradosso sarebbe imporre a calci il quieto vivere?

CATERINA: Dio mio, ecco che resuscita il peggio di te.

BIANCA: Sarebbe?

CATERINA: Quel tuo odiossissimo candore!

BIANCA: Vedi? Ricominci.

CATERINA: La perfettina, buonina, gentilina!... Ma ad averti d’attorno così com’eri, mattina e sera, c’era, credimi, di che consacrarsi alle pratiche più turpi pur di respirare un po’ d’aria sostanziosa, capace d’areare l’ambiente spurgandolo di tutti quegli effluvi di miele ripassato allo zucchero candito che ci spargevi tu.

BIANCA: Sta’ a vedere che adesso sono io che le ho rovinato l’infanzia!

CATERINA: Perché la sottoscritta, invece, è questo quello che avrebbe fatto con te?

BIANCA: Diciamo che la buona volontà ce l’hai messa tutta. E non solo l’infanzia ho rischiato di rimetterci, non solo l’infanzia!... Che, se non fosse stato per quella santa tempra da cavaliere alle crociate di Petruccio - che il cielo lo benedica in eterno! - io, per te, potevo anche restarmene zitella.

CATERINA: Che tristissima parola! Dì, piuttosto, libera.

BIANCA: Perché lo dici sorridendo?

CATERINA: Perché mi sa tanto che, in cuor tuo, non me ne avresti poi fatto un gran rimprovero. - Povera Bianca... che se ne sta alla finestra e sospira lì affacciata a guardare la vita fuori!

BIANCA: Ah no, cara mia, se vuoi riprovarti a chiudere un cerchio che non esiste caschi male. Io t’ho detto solamente che in questi giorni - un po’ afflitti dalle nausee e in cui l’andarmene in giro, tutti me lo dicono, è meglio dosarlo - può essere che, così, io mi trovi, ogni tanto, a riesumare di qui o di là momenti, cose, barbagli di memorie per cui basta un profumo, uno scalpiccìo, o un certo tono d’una certa voce che chiama da un angolo di strada; ma questo si sa che accade a tutti. - Ah!...

CATERINA: Sorellina, che hai?

BIANCA: Lì c’è dell’acqua... me la passi? (Beve) Ma come hai fatto tu... che sei pure al quarto...?

CATERINA: Quasi al quinto.

BIANCA: Al quinto mese, meglio ancora... come hai fatto ad affrontare così, come nulla fosse, un viaggio da Verona sino a qui? Io poco mi reggo se debbo andare ad aprire una porta.

CATERINA: Questione di sangue in circolo. Personalmente ne ho d’abitudine che va al galoppo. Tu, al contrario, sembra che ti bevi l’aceto. Dubito, anzi, che qualche volta tu non l’abbia fatto per davvero. Chiaro che quando una ha il culto del pallore come principio di bellezza, e dai, dai, il corpo alla fine se ne convince e, per quanto può, si adegua. Sino a sbiancare, oltre che fuori, pure dentro e nelle vene ti ci va il latte, poi latte si fa acqua e patapùmfete! D’altronde, mia cara, il nostro destino è nel nostro carattere. Coincidenza assoluta. Tu vivi in un mondo che ha la pressione bassa, io invece in uno che ce l’ha alta. E non che, perciò, il mio sia meglio del tuo. Ne denuncio solo la diversità, come di un colore da un altro. Né più né meno.

BIANCA: Caterina, vieni un po’ qua... vieni più vicina, per favore... ora non mi riesce facile di parlare forte... - dì... ma Petruccio dov’è che l’ha raggiunto mio marito?

CATERINA: So che si sono dati un appuntamento, ma dirti dove...

BIANCA: Se è stato Lucenzio a suggerire il posto, mano sul fuoco che ora se ne stanno in taverna. Ci ha fatto banco oramai.

CATERINA: Cos’è? Beve?

BIANCA: Più che altro, va a sciuparci il tempo. Poi neanche che possa dirsi questo gran bevitore; diciamo che non regge. Una confidenza: ha invidia di suo cognato.

CATERINA: Di Petruccio? E perché mai?

BIANCA: Forse gli invidia te.

CATERINA: Ma non dire sciocchezze! Me!... Se mi fuggivano tutti come la peste!... Dico,  c’è bisogno che te lo stia a raccontare? Lo sai. Poi ero sulla piazza, poteva farsi avanti.

BIANCA: Ma naturale che io non alluda a quella che eri quando il signorino sbarcò qui a Padova con tanta poca voglia di studiare e tanta, piuttosto, di far baldoria. Io mi riferisco alla Caterna di dopo. Di adesso. Insomma, via: a quella di Petruccio, e che ha saputo metterci tutte nel sacco come le è parso e piaciuto con la ridicola storia di quella fessa disputa tra maschi balordi e giustappunto fessi... - ah, come se la spassavano lì a tavola ad alzar palette  mettendoci in gara l’una contro l’altra alla ricerca della mogliettina ideale fra tutte noi!... (Caterina ride) Eh, ridi, ridi. Intanto, da quel giorno, sei diventata il nostro incubo, se vuoi saperlo... la pietra di paragone buona per ogni scopo. “Ah, ma com’è corsa a un solo cenno del marito!... Ah, ma come chinava pudibonda il capo!... Ah, ma come qui, ma come là!...” - E dai che ridi!...

CATERINA: Per rimanere in tema: moglie ideale in quanto fessa, e di mariti ancor più fessi.

BIANCA: Quella che t’è piaciuto mostrare e che, sembra, sia piaciuta non poco a tutti.

CATERINA: La serva del padrone... la ‘signorsì, comandi’! Questo vuoi dire?...

BIANCA: Inutile che minimizzi con l’autosarcasmo. Non funziona.

CATERINA: Minimizzo ricordando.

BIANCA: Mi sa tanto, però, che ricordi male. Le tue parole te le potrei ripetere ad una ad una. Una resa totale. Una capitolazione assoluta. Unico scopo: fare bella te e deprimere noi. E da quanto te lo volevo dire!... Da quanto me lo tenevo in gola questo rospo!... Una figura ignobile: ecco quello che ci hai fatto fare. E che hai fatto fare anche a te stessa. In quanto donna, dico. Avvilirisi così!... Umiliarsi sino a quel punto!... Tu, che in fondo... - e via che lo sapevi!... - tu che quasi, per noialtre, eri un modello di forza e ribellione...

CATERINA: Niente niente ora si scopre che quasi mi ammiravi!

BIANCA: Se non questo... beh, nel tuo comportamento, nella tue prepotenze... io perlomeno - ma non solo io, credimi - trovavo una sorta di compenso a ciò che da me stessa non sapevo consentirmi. E invece... vederti così mortificata... schiacciata, spossessata di te stessa... che delusione! Che crollo!... Meglio allora accettare senza smanie i propri obblighi e sobbarcarsi l’eroismo della sopportazione, senza finti giubili o pignistei, ma in silenzio. Meglio allora starsene a guardare fuori la vita altrui dalla finestra. Centomila volte meglio!... Inutile che fai quella faccia quasi non mi capissi... forse, davvero, non te lo ricordi sino a che punto sei stata capace di abbassarti.

CATERINA: Anch’io potrei ripeterti le mie parole ad una ad una. Me le ricordo benissimo, altroché. - Benissimo. La cena è al termine... si vuotano gli ultimi boccali... il mio consorte, con uno schiocco di dita, mi manda a chiamare ed io, lestissima come non mai, arrivo.

STACCO

(monologo di Caterina dalla seconda scena del quarto atto)

(... Tuo marito è il tuo signore, la tua vita, il tuo custode, il tuo capo, il tuo sovrano: è uno che si prende cura di te e che per mantenerti sottopone il suo corpo a penoso lavoro, sia in mare che in terra, a vegliar la notte fra le tempeste e il giorno in mezzo al gelo, mentre tu riposi in casa al caldo, tranquilla e sicura; non esige da te altro tributo se non amore, dolci sguardi, schietta obbedienza: troppo piccolo compenso per un debito così grande. L’obbedienza che un suddito deve al suo re, la donna deve a suo marito... - Mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre dovrebbero chieder la pace in ginocchio; che vogliano legiferare, dominare, soverchiare, quando son nate a servire, ad amare e ad ubbidire...)

STACCO

BIANCA: E allora?... Trovami giustificazione a tanta vergogna.

CATERINA: Giochi, sempre di questo si tratta: di semplici giochi. La tua troppa serietà ti impedisce da sempre di penetrarne il senso. Ma proprio questo è quello che non si è mai capito né di me né di mio marito. Che a noi piace, sorella mia... recitare. Dar di matto... fare spettacolo. Stupire. Esistere. Scombinare. E senza mai l’obbligo di essere nel vero. Io, allora, dissi ciò che, allora, avrebbe potuto, allora, più di ogni altra cosa, allora, suonare... folle. Ovvero, secondo il mio stile, ardito.

BIANCA: Sicché non ci credevi!

CATERINA: Né a quello né al suo contrario.

BIANCA: Ma, dunque, non sono state queste le leggi che hanno improntato la vostra vita coniugale!...

CATERINA: Non quelle che trovi nel senso delle mie parole, ma quelle che trovi nel loro suono. Ah, lì sì che io e Petruccio ci siamo intesi benissimo.

BIANCA: Scusa, mi sfugge.

CATERINA: Teatro, Bianca... teatro. Abbiamo voluto brindare alle nostre nozze con un colpo di scena. Oh, mica che fosse concordato. Ma io capivo che lui m’avrebbe capita, poiché... già avevamo percepito entrambi le nostre affinità. Eravamo due guitti ‘in pectore’. E lo siamo ancora oggi. Credimi, ci divertiamo molto. Moltissimo. E durerà, sta’ certa. Non siamo di natura facile al cambiamento, né io né lui.  - Ma parliamo d’altro. - Dì... cosa vorresti che fosse: un maschio o una femminuccia?

BIANCA: Quel che voglio, voglio... tanto temo già di saperlo quel che è. Scalcia troppo. Direi una femminuccia. Come sua zia. - E tu?

                                           

  

 

 

 

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