Simili a Dio

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SIMILI A DIO

Commedia in un preludio e due tempi

Di A. GALEAZZO GALEAZZI

PERSONAGGI

TEODORA

IL PROF. ODER

DON OLIVO  IPPOLITA

LA MAGGIORDOMA

UN AUTISTA

UN PASTORE

UNA INFERMIERA

La voce della folla.

Commedia formattata da

PRELUDIO

Notte estiva.

Sala a « Villa Ippolita ».

La vetriata è aperta sulla notte. Il suono d'un pia­noforte da una villa accanto. Il pianista ripete tre volte le ultime otto battute della sonata di Beetho­ven op. 109. Poi lieve crepitio di una automobile sul­la ghiaia del viale e il suo arresto.

Ippolita e Oder giungono. Sono in abito da sera. Ippolita, una luminosa donna sui venticinque anni: Oder un uomo sui quaranta di nobile e originale aspet­to: ha una nera capigliatura che potrebbe farlo crede­re un musicista: è invece uno scienziato. L'autista li segue recando un grande mazzo di rose. Ippolita gli fa cenno di deporlo su un tavolo.

L'Autista                       - (esegue) Hanno comandi?

Ippolita                         - Grazie,

L'Autista                       - Buonanotte. (s'inchina ed esce). (Pausa).

Ippolita                         - (rompendo la gravità serbata nell'arrivo, si getta nelle braccia di Oder) Sono la donna più felice del mondo.

Oder                              - Non però l'essere più felice: quello sono io. (ancora un appassionato abbraccio). Ma può dir­lo... un accademico dell'Istituto?

Ippolita                         - Quand'è un accademico affascinante, sì. (poi tenera e accoratamente materna) Però il volto veramente bello, quello che mi fa tremare d'an­sia e d'orgoglio... e che mi stempera l'anima di te­nerezza, è soltanto quello... pallido, fatto più pallido dal camice bianco, chinato sul microscopio.

Oder                              - E anche il tuo più bello è quello di quell'ansia e di quell'orgoglio, mia Ippolita, (le prende il viso tra le mani quasi per ricercarvi l'altro viso: il suo sguardo sì fa intenso fino al dolore). Il nostro orgoglio è là.

Ippolita                         - In quella solitudine.

Oder                              - In quelle attese.

Ippolita                         - In quel timore.

Oder                              - In quelle delusioni.

Ippolita                         - Anche! Sì!

Oder                              - Soprattutto in quelle delusioni. Se la bel­lezza del tuo viso si manifestasse soltanto nelle vit­torie, troppo raramente io ti vedrei bella. E invece ti vedo bellissima sempre.

Ippolita                         - (lo riabbraccia con effusione) Sposo mio! (Un lungo silenzio). Però... oggi... tu devi per­donarmi... se sono stata orgogliosa di un orgoglio non degno di te.

Oder                              - Ippolita cara!

Ippolita                         - Quando ho pensato che la voce del Presidente dell'Accademia, e poi quella del Capo del Governo e poi quella del Ministro dell'istruzione le sentiva tutto il mondo e che tutto il mondo, anche quello degli indotti, udiva il tuo nome e apprendeva della tua scoperta, e di quello che sei nel mondo del­la scienza... ho avuto come una vertigine...

Oder                              - Sposa mia.

Ippolita                         - E mi stupisce dì non essermi afferrata a qualcuno, (pausa) Ma no... perché... guardando tua madre ho trovato il sostegno.

Oder                              - (con intenzione) L'hai vista?!

Ippolita                         - Se l'ho vista!

Oder                              - I miei occhi non hanno fatto che tornare al suo viso.

Ippolita                         - E poche volte l'avevo vista come oggi nel suo segreto.

Oder                              - (sorridendo) Perché sono poche le volte che tace.

Ippolita                         - Ma quando tace!... E finché s'è taciu­ta!... Una presenza da far tremare.

Oder                              - La conosco.

Ippolita                         - Una divinità, misteriosa e magnifica.

Oder                              - La conosco. E che penso di lei lo sai.

Ippolita                         - E oggi sono stati parecchi ad accor­gersene. Però c'è stato un attimo in cui ha affiorato sul suo viso un'impazienza tutta umana. Aspettava nientemeno che il Presidente dell'Istituto nel suo di­scorso nominasse anche don Olivo.

Oder                              - Ero certo di questa pretesa.

Ippolita                         - Ma l'ha avuta la rivincita. Ed è stato nientemeno il Presidente della Repubblica a nomi­narglielo.

Oder                              - No!

Ippolita                         - Sì. Quando è sceso dal podio ed è an­dato a renderle omaggio. Ma aspetta. Prima devo dirtene un'altra. Lo sai che m'ha detto mentre sta­vamo per salire nelle nostre macchine, oggi? Una co­sa che chissà da quanti giorni abbrustoliva dentro: e che m'ha detta invece come le fosse spuntata in quell'attimo per aver messo il piede sul predellino. « Ah... senti, Ippolita... Come moglie di mio figlio-forse oggi... dovrai pubblicamente venire a rendermi omaggio. Risparmiamoci il volgare abbraccio, Ippoli­ta. È anche delle nuore e delle suocere che si dete­stano. Tu... baciami semplicemente la mano. Sarà anche un esempio.

Oder                              - Sempre lei.

Ippolita                         - E l'ho obbedita. Aveva ragione. Mi so­no sentita più nobile anche io.

Oder                              - Sei della sua specie, tu. (la stringe a sé).

Ippolita                         - E adesso torno al Presidente della Re­pubblica: e alla risposta che la duchessa Teodora ha dato a lui. Il Presidente, dopo averle baciato la ma­no, le ha detto: « Ma questa stupenda signora ha certamente un segreto da rivelarci: perché non si generano senza un segreto due taumaturghi: uno biologo e uno santo » (pausa) Ecco la sua risposta: (scandendo) « La volontà ». E poiché lui sembrava incredulo, gli ha precisato: « Ogni donna può fab­bricarsi i figli come li vuole. E le do un consiglio, signor Presidente; ordini ai nostri scienziati dì fare questa rivelazione alle donne della repubblica ».

Oder                              - Che prepotenza d'ingegno!

Ippolita                         - E qui è scoppiato l'applauso, (simu­lando mortificazione) E la tua sposa, nonostante la sua stupenda toletta, è stata dimenticata. Dimentica­ta.

Oder                              - (sorride) Cara.

Ippolita                         - Nonostante avessero detto di lei quel­lo che avevano detto e la si fosse chiamata sul palco, tra gli scienziati.

Oder                              - Perché lo sei.

Ippolita                         - Io sono soltanto l'assistente del biolo­go. Io non sono la signora Curie.

Oder                              - Tu sei la mia collaboratrice. Quella che, in tale qualità, s'è meritata la dedica delle mie due ultime opere.

Ippolita                         - (lo abbraccia e Oder se la tiene così per qualche istante). A proposito... tu non hai sentito che è successo quando quel professore del quale non ricordo il nome, s'è levato a parlare dalla sala; e durante il suo discorso, molto importante del resto, ha chiamato il nostro palco l'Olimpo, e poi, ancora, con più gravità, ha detto quale sia l'Olimpo dei tem­pi moderni.

Oder                              - Era evidentemente uno scienziato secen­tista. Ma quello che è avvenuto in sala... non so...

Ippolita                         - Non l'hai sentito il mormorio del grup­po degli scienziati cattolici, e dei sacerdoti; e spe­cialmente della frateria domenicana che era laggiù in fondo, a destra?

Oder                              - Ho sentito ben poco di tutto, oggi.

Ippolita                         - Oder mio, lo so: non era il tuo luo­go. E nemmeno il mio. Non l'Accademia, dove tutti sono scienziati...

Oder                              - Ho capito.

Ippolita                         - E... nemmeno l'Olimpo...

Oder                              - (incuriosito) Cioè?...

Ippolita                         - Dico che se un Olimpo questo nostro tempo deve pure averlo... chi ci metteranno se non i matematici, i fisici, i chimici, i biologi, i naturali­sti...?

Oder                              - (con dolce gravità) Tu credi che sia pro­prio necessario ridare agli uomini degli dei?

Ippolita                         - Se non glieli diamo noi se li fanno loro. E... se li fanno... politici.

Oder                              - Meglio! Durano di meno!

Ippolita                         - (un silenzio e poi grave) Ma a pensar­la bene sono durati pochino anche gli altri.

Oder                              - È che gli uomini crescono e cambiano i loro giocattoli e attrezzi.

Ippolita                         - In specie quando hanno scoperto la stop­pa o la semola o hanno inventato una molla. Però...

Oder                              - Però?

Ippolita                         - Per tornare a quelli che hanno prote­stato contro... l'Olimpo, non sono stati proprio loro a raccontarci che Iddio ci aveva fatti a sua immagine e somiglianza? e ad esortarci ad essere perfetti, « co­me il Padre nostro che è nei cieli»? E ora si scan­dalizzano se gli somigliamo? E se vogliamo raggiun­gere la sua perfezione d'intelligenza e di potenza? (Ippolita si è illuminata e si direbbe che arda. Oder la contempla estasiato. Dopo un silenzio) Dimmi... (Oder la mira ancora) Che vuoi dirmi?

Oder                              - Che per inebriarmi non ti sarebbe nem­meno necessario essere tanto bella, dato che sei tan­to superba.

Ippolita                         - E allora... non mi abbracci? Che aspetti?

Oder                              - Che tu sia ancora più superba.

Ippolita                         - Di più?

Oder                              - Senza polemica.

Ippolita                         - Non capisco.

Oder                              - Non abbiamo da somigliare a nessuno, noi. Non c'è nessuno cui si debba gareggiare in sa­pienza e potenza.

Ippolita                         - Almeno su questo pianeta...

Oder                              - La nostra gara, seppure, sarà cogli uomini simili a noi. Coi pochi simili a noi. Ma io dico di più: che non abbiamo da gareggiare che con noi stessi: per superare noi stessi.

Ippolita                         - Sì: hai ragione.

Oder                              - (un silenzio) I greci, per poter rispettare gli dei, hanno dovuto farli simili a loro. E avevano ragione; tanto erano essi, i greci, perfetti. Ma poi si erano messi a polemizzare scordandosi che li a-vevano inventati essi stessi. Sarà che la tragedia non può farsi che così. E i greci volevano fare la trage­dia, (pausa) Ma l'onore vero doveva esser reso agli uomini dal dio degli ebrei. Non è stato lui a deci­dersi d'incarnarsi per fare la sua bella esperienza umana? Perché, certo, nessuna avventura, per dolo­rosa che possa riuscire, è più importante dì questa. Perché è soltanto da questo centro, e con queste mi­sure, che può essere conosciuto l'universo. L'aveva già detto Anassagora. E oggi siamo giunti a supe­rare i limiti spazio e tempo ; a infrangere l'involu­cro della materia; a impossessarci dell'energia. E ri­faremo con questa la materia e le forme e le crea­ture.

Ippolita                         - E speriamo di poterle rifare con un senso della bellezza diverso da quello degli artisti nostri contemporanei.

Oder                              - (tralasciando l'intenzione polemica) Vole­vo dire, Ippolita, che niente è da augurare agli uo­mini. Io, da parte mia, a Minerva e a Venere non potrei che fare l'augurio d'essere simili a te.

Ippolita                         - (abbracciandolo) Sposo mio!

Oder                              - La meraviglia sei tu.

Ippolita                         - Quanto te?

Oder                              - Quanto me.

Ippolita                         - E prima di noi la stupenda Teodora.

Oder                              - Certo!

Ippolita                         - E insieme a noi, don Olivo.

Oder                              - Sì; anche don Olivo.

Ippolita                         - (traendolo con sé al tavolo) E non an­che queste rose?

Oder                              - (tace).

Ippolita                         - E non anche questa farfalla? (un'esi­tazione e un grido) Oh! Morta! Morta! (silenzio. Co­me approfondendo il significato della parola) Morta!

Oder                              - (semplicemente: la nomina col nome latino) È una « papilio machaon ». Non vorrai mica scomodare don Olivo perché venga a resuscitarla.

Ippolita                         -  Peccato! (pausa) Era così bella! (un lungo silenzio) Non era bella?

Oder                              - Sì.

Ippolita                         - Bella quanto potrebbe essere una re­gina egiziana nei suoi piviali. Guarda. Anche miste­riosa, con questi disegni e colori, (la contempla in silenzio; poi più semplicemente) Porta sulle ali le fi­gure e i colorì di tutti i fiori su cui s'è posata.

Oder                              - E la sua bellezza possiamo spiegarla ap­punto così, (con altra voce) Perché io lo so qual'è quello in cui s'inciampa la tua ragione: è la bellez­za. La bellezza delle creature... la così detta bellez­za che a te pare...

Ippolita                         - Un superfluo.

Oder                              - Di cui la natura non possa curarsi.

Ippolita                         - (quasi timida) La natura sembra non provveda che al necessario. E secondo la legge del minimo mezzo. La natura è un economista non un poeta.

Oder                              - Per modo che quella bellezza superflua, secondo la tua riposta... certezza, non potrebbe esse­re che l'opera della libertà, dell'invenzione, del ca­priccio d'una intelligenza.

Ippolita                         - (grave) Così.

Oder                              - Ed ecco invece che la farfalla ti dimostra come cotesta bellezza sia il prodotto d'una esperien­za. Di mille esperienze, (un silenzio) "Uscita dall'evo­luzione delle forme con due semplici ali bianche... (pausa).

Ippolita                         - (vezzosa) Come le ali delle cornette delle suore di S. Vincenzo...

Oder                              - Come quelle, se vuoi...; in millenni di voli sui fiori ne ha assunto i colori e le forme, a solo fine mimetico... di difesa. Ed è diventata bella, (un si­lenzio) E che vorremmo dire delle originalissime e bizzarrissime e sempre nuove forme e colori che as­sumono le nubi secondo la luce e i venti e le altezze e le temperature e la densità...? Che sia uno spirito creatore a inventarle e foggiarle?

Ippolita                         - (tace).

Oder                              - E allora non diremo altrettanto della no­stra iniziale ignoranza che millenni d'esperienza han­no squarciata e fecondata come fanno delle rocce la luce, il calore, la pioggia, il gelo... sì che ne sono fio­rite le sensazioni, i sentimenti... le idee, le parole?... Tutto soffrire nostro... tutto nostro lungo soffrire... questo nostro ingentilirci e arricchirci fino alla bel­lezza, fino alla volontà, fino alla sapienza.

Ippolita                         - (china la testa sulla sua spalla. Un lun­go silenzio A un tratto dalla finestra aperta viene il suono d'un pianoforte. Si drizza ad ascoltare e poi, a bassa voce) È il pianista che è giunto ieri, a Villa Vega.

Oder                              - (che ha ascoltato) È Beethoven.

Ippolita                         - Sì... la sonata opera 109 (silenzio. Fe­lice) Oh! (silenzio) Pensa... quali notti di musica a-vremo! (pausa). E forse potremo capire qualche co­sa. E chissà che non capiremo l'essenziale di quello che deve dirci... Beethoven... Perché... anche lui... di­ce parole che vuole siano capite.

Oder                              - (con dolce ironia) Oh... mia bella... poe­tessa!

Ippolita                         - Non ti sembra che tutti diciamo sem­pre troppo poco in confronto al tanto che vorremmo dire? Non sembra anche a te che quello che sappia­mo sia molto di più di quello che riusciamo a dire? (con intenzione) E mica solo nell'amore.

Oder                              - Forse, (si contemplano per testimoniarsi tale verità).

Ippolita                         - Non pensi anche tu che sia proprio una carica di antichissimo amore e di gioia antichis­sima il nodo che ci portiamo dentro? E che il dolore che è nel nostro destino e nelle nostre parole... e in questa musica, sia per non sapere dire quello? (Un silenzio) Ma... ora tu non mi rispondi, (decisa) Vieni. Voglio sentirla da più vicino, (lo trae per mano alla finestra. Giuntavi dà in un grido) Dio! Le stelle! (e si ritrae e copre il viso con le mani come se avesse visto lo scocco d'un fulmine: poi si giustifica: a bas­sa voce) Mi fanno sempre paura le stelle. Lo sai. Sempre... Come se le vedessi per la prima volta.

Oder                              - (abbracciandola) Bambina!

Ippolita                         - (bisbiglia) L'infinito... (dopo un silen­zio e quasi tristemente) Io... sono abituata al micro­scopio.

Oder                              - Non credere che chi le guardi col tele­scopio le veda diversamente da come tu vedi una goccia di siero.

Ippolita                         - Lo so... (con forza) Ma... è così, come le guardiamo adesso, che vanno guardate... per... ca­pire.

Oder                              - (crudo) Per averne paura!

Ippolita                         - (bisbiglia) Sì... per averne... paura, (si rifugia tutta nel petto di lui. Ancora un minuto di musica).

* PRIMO TEMPO *

La sala di soggiorno d'una villa. Per la vetriata di fondo si scende al parco che la circonda e sul quale, oggi, passa il vento a turbini.

SCENA Ia

Teodora, una regale settantenne in abito di pizzo nero, mezzi guanti di pizzo e ventaglio neri, siede in un'alta poltrona a bracciuoli, a sinistra.

Oder                              - (fatta bianca l'arruffata chioma, sta in a-scolto presso la veranda, teso da un interno spasi­mo. A un più alto clamore del bosco nel vento, bi­sbiglia) Eccolo.

Teodora                         - (dopo aver ascoltato) No. È il vento. (Oder ha un moto d'angosciosa impazienza. Teodora lo fissa e con crudezza) Vuoi proprio farti trovare nelle smanie d'una femmina?

La voce di Ippolita       - (grida da dentro) No! No! No!

Teodora                         - Infatti, è il grido di un animale. E io e te siamo ancora due esseri ragionevoli.

Oder                              - Non siamo a quel punto, mamma. E non ci saremo più. Morire a trentacinque anni non è co­me morire a cinquanta.

Teodora                         - E a ottanta, vuoi dire.

Oder                              -  Avrei detto a settanta, mamma.

Teodora                         - E non vuoi farmene vivere almeno al­tri dieci?

Oder                              - Tu hai un cuore per giungere a cento.

Teodora                         - Spero che non sia stato il medico a fare la diagnosi.

Oder                              - Anche lo scherno sulla mia sconfitta!

Teodora                         - Lo getto dove mi capita. Ma volevo gettarlo soltanto sulla tua debolezza. È questa che m'offende. La tua sconfitta di scienziato può soltan­to deludermi. Mah! È il destino nostro. Sì: di noi donne, voglio dire: essere deluse. Dal marito, dall'amante, dai figli, dal padre, (e poi quasi tra sé) E forse anche da Dio. Almeno come Autore. Non li ha fatti Lui tutti questi inconsistenti personaggi? (pau­sa. Poi vento sul bosco).

La voce di Ippolita       - Aiuto! (silenzio).

Teodora                         - Però... Quanto a questi gridi e a quell'età... la tua scienza che tu dici sempre quanto è bambina e che sta ai primi passi... Diavolo! Sono se­coli che sta ai primi passi...

Oder                              - Così è, mamma.

Teodora                         - Cotesta bambina, che a stare alla tua teoria del morire giovani, avrebbe dovuto starnazza­re e strillare come una gallina, direi che s'è lascia­ta mettere in pentola viva e impennata, senza un coc­codè.

Oder                              - Mamma! (poi gravissimo e con preciso si­gnificato) La gloria della scienza è proprio l'uscire incessantemente vittoriosa dalle sue sconfitte. Cioè viva da cotesta pentola in cui tu la vedi intempesti­vamente e incautamente ficcata.

Teodora                         - Da te.

Oder                              - Seppure dal mio dolore di uomo che ha prevaricato sul mio dovere di scienziato. Ma non tut­ti possono essere disumani.

Teodora                         - Come me. (sorride) Certo. In specie gli innamorati... maschi. Perché le innamorate femmine non sanno che essere disumane.

La voce di Ippolita       - Aiuto!

Teodora                         - Non vorrai dirmi che questa innamo­rata è umana. Questa è disumanissima, (dal parco un nuovo suono che s'è unito a quello del vento).

Oder                              - (trasale) Questa volta è lui

Teodora                         - (che ha bene ascoltato) Sì. (Oder esce di corsa a destra). Incredibile! (si acconcia nella po­situra e nelle vesti come giudica più dignitoso. Una automobile giunge e s'arresta ai piedi della scalea).

SCENA IIa

L'Autista                       - (che è salito in corsa, entra) Du­chessa!...

Teodora                         - (con uno scatto) Non è arrivato?

Autista                          - Sì... duchessa... Ma...

Teodora                         - Ma?

Autista                          - Non è voluto salire in macchina.

Teodora                         - Non è voluto salire in macchina?!

Autista                          - Ha detto che col suo abito...

Teodora                         - C'era da aspettarsela. E volevo dirlo. Questo bisogna mandarlo a prendere con l'asino e la carretta del lattaio.

Autista                          - E poi ha detto...

Teodora                         - Ancora?

Autista                          - Sì... Che desiderava fare a piedi, anzi, rifare, ha detto, rifare a piedi la strada del bosco.

Teodora                         - (irata) E voi? Voi, non gli avete spie­gato che qui si tratta di minuti?

Autista                          - Credevo lo sapesse.

Teodora                         -  Al solito! Al solito! Fate tutto a metà.

Autista                          - E poi...

Teodora                         - C'è ancora un poi?

Autista                          - M'ha fatto soggezione. Non me lo im­maginavo cosi.

Teodora                         - Andate! Andate! (l'autista s'inchina ed esce. Teodora medita un attimo e poi si leva in no­vissima ira. E andando per la sala e percotendo l'aria col ventaglio, ringhia) Come se non fossi stata io, tua madre, a chiamarti. Perché sono stata io. Sì. Io. Per coprire tuo fratello. Io! E tu, e tu, insolente, ar­disci far aspettare tua madre per goderti una pas­seggiata! Tu hai il coraggio d'aggiungere quindici minuti a quindici anni di lontananza. Insolente! E in­dovino il perché. Sì... lo indovino. Per farmi misura­re meglio in questi ultimi quindici minuti l'abisso che ci separa. Per avvertirmi che non hai più niente a che fare nemmeno con tua madre. Perché a questo vi porta la vostra superbia. Demoni che altro non sie­te! Sia che vi infiliate nel camice bianco del medico, sia nel sacco del frate. Demoni! (lunga pausa consu­mata in gesti sbuffi e passeggiata) Anche quell'altro. Anche quell'altro, alle nozze di Cana « Che c'è tra me e te, donna? ». (grida) Glielo ha fatto vedere sua madre che c’era! Perché era stata lei a nutrirlo di tutte le sue potenze. E lo vedrai anche tu. Perché so­no stata io a nutrire te e quest'altro disgraziato! (pausa) Che però non sarebbe stato il disgraziato che è, e non l'avrei visto crollare come l'ho visto, se non ci fosse stata di mezzo una donna. Tu questa alme­no l'hai capita. Che chi vi fa crollare sono le donne! E hai detto quello che dovevi dire a questo satanas­so. Vade retro. E tu non mi deluderai. A meno che... anche sotto la faccia della madre (trae uno specchiet­to dalla borsa che le dondola dal braccio e vi si stu­dia) non si nasconda la faccia del diavolo. E tu sei capace di dire anche questo: pazzo che altro non sei! E di dire vade retro a me! Pazzo! Pazzo! Pazzo! (poi d'improvviso chiama) Oder! Oder! (e torna a sedersi per riprendere un contegno).

SCENA IIIa

Oder                              - (rientrando) Non è arrivato?

Teodora                         - Sì. È arrivato. Ma è voluto passare per il sentiero del bosco, a piedi.

Oder                              - Perdio! È una belva!

Teodora                         - È un uomo che non perde la calma, semplicemente. E farai bene a calmarti anche tu.

Oder                              - I più grandi clinici del mondo sono ve­nuti in aeroplano.

Teodora                         - Non certo per lei, ma semplicemente per fare un onore a uno più grande di loro.

Oder                              - (completando il suo pensiero) Ne ero cer­to. Si vendica. Vedrai a che cosa assisteremo. Vorrà centellinare il suo trionfo.

Teodora                         - Credo che sia più sciocco. E che ab­bia soltanto obbedito alla regola; la quale gli vieterà di salire in una automobile come la tua.

Oder                              - La regola! Farisei! In una circostanza co­me questa. Fariseo! Sono ancora quelli dell'asino ca­duto nel fosso in giorno di sabato.

Teodora                         - Non ti ricordi di quello che c'è voluto per strapparlo alla reclusione per dodici ore sole?

Oder                              - E delle poche che gli restano, una la spen­de in una passeggiata. Dovevo saperlo. Sarà spietato. Mentre la morte è là, ai piedi di quel letto.

Teodora                         - È che lui sa di non essere stato chia­mato per la salvezza d'un'anima.

Oder                              - Non è tanto sciocco per supporlo.

Teodora                         - E se ha indovinato che cosa aspettia­mo da lui... sa che dovrà disobbedire ad una assolu­ta proibizione del Papa. Deve pensarci come demoni alle sue poste. Come demoni che lo aspettano con la tentazione, (pausa) E tu non credere che sarà una battaglia facile.

Oder                              - Dovrò buttarmi in ginocchio ai suoi pie­di?

Teodora                         - Non dire bestialità. Nessuno si metterà ai suoi piedi. Né sarai tu a chiedere. Ma io, a co­mandare, (pausa) A meno che... non sia santo dav­vero... Che allora...

Oder                              - Allora?

 Teodora                        - Allora... sarà un giunco. Ma solo nel­le mani di Dio.

Oder                              - O del diavolo, (pausa) Mi hai fatto accet­tare un discorso con termini che per me non hanno senso.

Teodora                         - E allora ti dirò. Fa la strada a piedi perché è sicuro di giungere in tempo.

Oder                              - Ma se sta morendo.

Teodora                         - Secondo te. Secondo te sarebbe dovu­ta morire stamattina. E invece... da quando le hai detto che arriva... tiene il fiato. E ce ne ha perfino per gridare.

Oder                              - Sì... Il fattore nervoso... ha avuto la sua efficacia... ma cederà tra pochi istanti. Cederà. Sta per cedere.

Teodora                         - E allora... vorrà trovarla morta per re­suscitarla.

Oder                              - (scandalizzato) Mamma!

Teodora                         - (calma) Come! Non li avete resuscita­ti anche voi, dei morti?

La voce di

Ippolita                         - (altissima) No! No! No! Aiuto!

SCENA IVa

Maggiordoma               - (da destra affannata) Professore!

Oder                              - (alla madre) Ecco! Muore! (esce in cor­sa).

Maggiordoma               - (avanza. È una vecchia tra i settan­ta e gli ottanta, ma vigorosissima e molto dignitosa nel suo costume di raso nero a grande gonna pieghet­tata e cuffia nera) Non vuole morire.

Teodora                         - Lo sappiamo.

Maggiordoma               - E ha ragione. È troppo giovane. È troppo bella. Era troppo felice, (poi indispettita co­me una bambina fino alla lacrime) E uno sproposito come questo che vuol fare adesso la morte non lo avevo visto ancora.

Teodora                         - Sei molto più ignorante di quello che ho sempre saputo. La cuffia, anche a te, ha funziona­to da paraocchi.

Maggiordoma               - E invece capisco tutto. Capisco che anche un uomo come il professore debba avere perduto la testa.

Teodora                         - Tu non hai capito niente! Il professore non ha perduto niente. Soltanto... non gli ha funzio­nato, come doveva, la cura che ha scoperto lui. Né quella che hanno scoperto gli altri. È confuso e ar­rabbiato: ecco tutto. Come quando al cuoco il fuoco gli fa lo scherzo di non cuocergli una pietanza. E lui se la piglia col fuoco, e invece è colpa della car­ne.

Maggiordoma               - Io dico, signora, che qui son gri­di che non si sono mai sentiti. E se per noi questi gridi sono pugnalate agli orecchi, per lui sono squar­ci al cuore.

Teodora                         - (con somma energia) Anzitutto non si dice lui, ma si dice il professore. Perché nessuno può approfittare della sua sventura per mettersi alla pa­ri con lui. Nessuno; vecchia! Nemmeno io!

Maggiordoma               - (un silenzio e poi timidissima) Le chiedo perdono, signora Ma quando un uomo soffre non è più né un re, né un ministro, né un professore. È soltanto un uomo. Qui, anzi, non si tratta più nem­meno di un uomo, ma di un cuore.

Teodora                         - Non dire romanticherie, vecchia. Un uomo che si rispetta, a cinquant'anni, al cuore gli ha messo la corazza. Lo vedi quest'altro come s'è co­razzato? Viene a piedi dalla stazione; a passo di pas­seggiata.

Maggiordoma               - Non li ha uditi ancora, lui, que­sti gridi. Oppure... (Teodora la guarda per sollecitar­la a dire tutto il suo pensiero) Oppure... vorrà prepa­rarsi con una preghiera speciale a quello che deve fare. Sì, signora. È così. E proprio con una preghie­ra all'aperto; una di quelle preghiere che volano su svelte, cantando... come le allodole... Che queste pre­ghiere nostre son pipistrelli che si sbattono un'ora tra pareti e soffitto... e quando trovan la finestra van­no a cadere sulla strada.

Teodora                         - Hai ritrovato il tuo estro, vecchia mia. E tu sai quanto mi piace il tuo estro. Dopo mesi che le parole t'uscivan di bocca come sangue aggrumato.

Maggiordoma               - È che m'è rientrata la speranza, figlia mia. Sì, a saperlo per la strada. Che anche se la trova morta... io dico...

Teodora                         - Sentiamolo questo sproposito.

Maggiordoma               - Quello la risuscita.

Teodora                         - Coteste son cose che anche se si pen­sano non vanno dette. Non vanno dette. Non vanno dette. E ti spiego perché, dicervellata che altro non sei! Perché a chi ce la vuol fare, piace di più... farci l'improvvisata. Sia che si tratti d'un tradimento o d'un favore. Sia a farcela un tristo o un buono. Un angelo o un demonio, (pausa) Credo che anche a Dio piaccia farci regali che non ci aspettiamo. Allora bi­sogna far finta di non aspettarli; di non contarci; e tanto meno d'averci diritto, (recisa) Solo una madre le può pretendere queste cose: dai suoi figli. Ma tu non dire sciocchezze, vecchia svagata. Resuscitare un morto! Sproposito! Offesa alla natura! Che non do­vrebbe permetterselo nemmeno Iddio. Perché se l'ha fatta Lui, la natura, la deve pure rispettare.

Maggiordoma               - Quante volte ho sentito in que­sta casa che il professore, con le sue iniezioni, ha resuscitato topi, cavie, conigli...

Teodora                         - (con un urlo) Non topi e conigli sol­tanto, vecchia strega!

Maggiordoma               - Lo so... lo so...

Teodora                         - Tutto il mondo lo sa. Tutto il mondo!

Maggiordoma               - E allora... se tali cose può farle un professore... che potrà fare mai questo santo che hanno dovuto rinchiuderlo a trentacinque anni, pro­prio perché li faceva spropositati i miracoli?

Teodora                         - (finalmente compiaciuta e dopo un lungo silenzio) Hai visto, vecchia, se ho mantenuto il giuramento? Il giuramento che feci a mio padre che mi scacciava di casa? Hai visto? « Il figlio che porto qui dentro, signor duca, sarà un tale sole che diven­teranno una processione di moccoli i sei secoli di storia della nostra famiglia ». Parole testuali. E gliele ho scritte sulla fronte. Come su una lapide. Ti ri­cordi?

Maggiordoma               - Se mi ricordo!...

Teodora                         - No. Tu quel giorno non c'eri.

Maggiordoma               - Come non c'ero? Come non c'e­ro, figlia mia?! E chi fu a scoppiare in gridi davanti al duca? E chi fu a voler venire con te, per farti da madre, da sorella, da serva, da levatrice?

Teodora                         - (ostentando smemoratezza) Ah... sì... fosti tu.

Maggiordoma               - E i figli furono due.

Teodora                         - Sì. Due. Come deve fare ogni donna degna dell'utero che porta. Una sola volta sottomet­tersi al proprio signore e dargli due gemelli maschi. Uno che vada a conquistare l'oriente e uno l'occi­dente. Così ho fatto io. (pausa: poi quasi definendo una legge) E l'uno non dovrà essere mai meno dell'al­tro. In nessun momento, per nessuna ragione. In nes­suna congiuntura. E nessuno dei due potrà chiedere soccorso all'altro, (lunga pausa: poi quasi tra sé) E invece questa insensata... ne ha buttato uno in gi­nocchio alla porta d'un convento. Anche se sono sta­ta io ad andarci: con la mia lettera: scritta di mio pugno e controfirmata da me. Che quel mio nome laggiù sotto, per quanto grande, era come inginoc­chiato, (pausa) Lei: quella insensata!

Maggiordoma               - No. Non è stata lei. Non è stata la signora Ippolita.

Teodora                         - Non lei? E chi, allora (la maggiordo­ma si china a confessione, Teodora drizzandosi in reiterati gridi) Tu?! Tu?! Tu?!

Maggiordoma               - Io, signora.

Teodora                         - (urla) Oh vecchia mentecatta! Chi mi trattiene dallo schiacciarti col piede come uno scara­faggio? (un silenzio più minaccioso del grido).

Maggiordoma               - E io invece, mi meravigliavo che non fosse stata lei a pensarlo.

Teodora                         - Io?!

Maggiordoma               - Sì, lei. Perché stava a lei salvare il suo onore...

Teodora                         - Il mio onore?!

 Maggiordoma              - ...quando sapeva che se uno dei suoi figli era sconfìtto, l'altro poteva subito stravin­cere.

Teodora                         - (si scuote, ma poi s'impietra fissandola: una pausa) Sarà che le nostre facce invecchiate scoprono l'ordito, ma in questo momento m'è sem­brato d'intravedere sotto la tua buccia crespa il mu­so del diavolo. Però... mi sei stata simpatica lo stes­so; se non più. (un lungo silenzio) E allora ti dirò che io aspettavo la facesse lei la pazzia. Non ero io, sua madre, che potevo umiliare fino a questo punto lo scienziato.

Maggiordoma               - E invece... lei non ci pensava nem­meno. Sono stata io. Io. Dopo l'ultimo consulto. Che sembravano tanti formiconi attorno a una farfalla senza un'ala. E tutte quelle lingue! Sembrava un malebolge. Giusto ci mancava che ci avessero chia­mato Belzebù. E questa era la mia paura. Allora mi sono fatta coraggio. « Ippolita, figlia di Dio, le ho detto. E lei vorrà morire per una ripicca? Per non chiedere aiuto a Dio? Per seguitare a credere che suo marito sia Iddio? E quegli altri pure? Tutti Iddìi? Troppi, figlia mia. Troppi sarebbero. E invece Dio è uno solo. E quello ci scenderà dal trono con tutti i Serafini e i Cherubini per salvare una creatura come lei ». (pausa) E adesso, sono sicura che anche il pro­fessore c'era arrivato a questo pensiero.

Teodora                         - (scatta furibonda) Vecchia... vecchia imbecille! Vecchia strega! Perfida vecchia! Tu sei una sciocca... Una forsennata... Un collo da forca! Come fai a dire una simile enormità?

Maggiordoma               - Enormità? E le pare un'enormi­tà che un uomo voglia tentarle tutte per salvare la donna sua?

Teodora                         - (balbettando dall'ira) Un uomo... come quelli che avresti potuto sposare tu.

Maggiordoma               - Bisogna averlo sentito cammina­re innanzi e indietro per la stanza tutte le notti, co­me l'ho sentito io... per capire in quale disperazione era caduto.

Teodora                         - Non certo in quella che credi tu.

Maggiordoma               - Ma sì... anche in quella che dice lei.

Teodora                         - Che vuoi capire tu quello che dico io?

Maggiordoma               - E proprio per questo la signora Ippolita m'ha scacciato come un demonio che la vo­lesse tentare.

Teodora                         - Allora... non è stata nemmeno lei a dirglielo?

Maggiordoma               - No... signora... Lei mi ha dato fi­nalmente il permesso... (Teodora si agita). Ma non che me l'abbia dato a parole. Quando una notte ho visto che non mi rispondeva più e che non faceva più di no nemmeno con la testa sul cuscino, allora ho detto: chi tace acconsente. E sono corsa dal pro­fessore, in punta di piedi. E ammetto, sì, che lui, che il professore, sì... la mattina... quando uscì dalla stan­za per venire... a dirlo a lei, avesse tutti i capelli bianchi, che credetti che mi si fossero appannati gli occhi... ma poi... da quando è stato deciso, m'è sem­brato più tranquillo; proprio come uno che ha fatto il suo dovere fino al sacrificio. E poi, signora mia, bella signora mia, dico a te, Teodora, figlia mia, è sempre una fortuna... trovare un gatto... che... come si dice... levi colla sua zampa la castagna dal fuoco. E questa volta, il fuoco è nientemeno la morte... E la castagna è nientemeno la signora Ippolita, (un lungo silenzio d'entrambe) Tanto più che mi pare che qui sia necessario, e dico qui, per dire sulla terra, rivedere Iddio a fare le cose. (Volgendosi verso la ve­randa dove è apparso nel suo bianco saio don Olivo, dà un grido) Gesù! (e fugge facendosi il segno della croce come se avesse visto il diavolo).

SCENA Va

Don Olivo                     - (è grigio di capelli e di barba, consu­mato dalla penitenza, reso quasi selvaggio dalla soli­tudine. Cade in ginocchio appena entrato e come in­vocando pietà e soccorso grida) Madre!

Teodora                         - (che s'è impietrita al suo apparire, dopo un lungo silenzio in cui ha consumato emozione e delusione) Tu! Tu! Tu!

Don Olivo                     - (con angoscia) Mamma, mi benedi­ca!

Teodora                         - (dopo una esitazione, più curiosa che an­siosa) Mi dai del lei?

Don Olivo                     - (più angoscioso) Mamma, mi bene­dica!

Teodora                         - (una meditazione) E me lo chiedi con questa voce?

Don Olivo                     - (disperato) Mi benedica!

Teodora                         - Eh! Ci vuol tanto a benedirti? Sì che ti benedico, (gli mette una mano sul capo).

Don Olivo                     - (supplicante) In nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.

Teodora                         - Perché?... Credi che se ti benedico in nome mio non sia lo stesso?

La Maggiordoma          - (s'affaccia raggiante sulla soglia donde era uscita) Duchessa! (una pausa per stu­diare Don Olivo) S'è assopita! (e levando le braccia, rientra).

Teodora                         - (sembra mediti sulla novella recata dalla maggiordoma e voglia poi accertarsene tendendo l'o­recchio e dando sguardi alla porta e a Don Olivo) Meglio. Cosi avremo tempo di dirci due parole.

Don Olivo                     - (leua a lei la faccia) Mamma!

Teodora                         - Oh meno male! Almeno m'avrai guar­dato in viso. E m'avrai visto che sto meglio di te. Occorre dirlo? Perfino più giovane, (pausa) Invec­chiato. Sciupato. Avvilito. Impaurito. Adesso capisco perché l'autista non ha avuto il coraggio di fiatarti. Gli hai messo paura. E la vecchia è fuggita come se avesse visto il demonio.

Don Olivo                     - (grida) Mamma! (e si copre il viso con le mani).

Teodora                         - Certo... che come la pensavo io, la san­tità, era tutt'altra cosa: tutta allegrezza, tutta salute, (pausa) E che posso aspettarmi da questo ecce ho­mo? Figlio mio! Povero figlio mio, come ti hanno ri­dotto! (violenta) Ma... alzati, (lo solleva) Tra le mie braccia! (lo afferra e lo trae a sé) E se non ti faccio ringiovanire, se non ti guarisco, se non ti rido la tua faccia, la tua giovinezza e la tua forza, cancellami dal numero delle madri! A costo di ripartorirtì. Tan­to l'ho capita come finirà. E chi sarà a fare il mi­racolo, (lo abbraccia e lo bacia forsennatamente) Sei mio figlio. Sei mio figlio. Sono tua madre, vivaddio! E dove c'è una madre, non c'è Dio che tenga! Deve ritirarsi e lasciarla fare. Prendi quella sedia. Siediti. Qui. Vicino a me. (Don Olivo obbedisce) Scommetto che già ti senti meglio. (Don Olivo sorride mesta­mente) Finirò per credere che una donna sia neces­saria anche nella vita d'un santo. E non pensare di no. I santi che si sono voluti tenere in piedi, hanno dovuto mettersi nelle braccia della Madonna. E se te lo dico io che sono una mezza eretica... (Don Olivo annuisce debolmente) Si vede che tu non ti ci sei messo, (pausa. Lo studia) Troppa castità!

Don Olivo                     - (balbetta) Mamma.

Teodora                         - (un lungo silenzio) Però... c'è voluta la mia forza per non sentirmi un'ottantenne quando t'ho riconosciuto. M'hai buttato addosso mezzo se­colo. Ma anche tuo fratello non fa che menarmi col­pi di maglio sulla testa. Ma io... dura. E più dura adesso che la morte sta nel parco, (un grande sof­fio di vento) Senti? E non vorrei che si sbagliasse. E credesse fossi io la moribonda.

Don Olivo                     - (con inatteso amore) Lei... Mamma! Non lei, non lei!

Teodora                         - Grazie, caro. L'hai detto con l'anima: l'ho sentito, (pausa) E sai che ti dico? Che questo lei non mi dispiace del tutto. No. E più ci penserò e più mi piacerà. E più mi convincerò che sarebbe stato be­ne anche per tuo fratello darmi del lei. Sicuro! Ci avrebbe pensato, prima di comportarsi davanti a me senza più orgoglio e senza più pudore, (pausa) Anche alle mogli dovreste dare del lei. Sicuro. Perché a voi uomini l'intimità serve solo come autorizzazione a de­gradarvi davanti a noi donne, (pausa. Studia don Oli­vo) A meno che... a meno che... questo lei non sia una preparazione diplomatica alla... disobbedienza. Perché siete capaci anche di questo voi santi che avete rin­negato il sangue. E ci pensavo prima. Ma ti avverto... che se tu ti porti in petto il nuovo testamento, io t'ho preparato la risposta pigliandola dall'antico. E al mio comando dovrai rispondere come risposero a Dio le stelle quando le chiamò: « Eccomi ». Non c'è niente di meglio che questa risposta nella Bibbia: « E le stelle dissero, eccoci! ».

Don Olivo                     - Eccomi, Mamma.

Teodora                         - L'hai detto col cuore. Bravo! E allora veniamo a noi perché qui non c'è tempo da perdere. Né per te, né per questi disgraziati, (con altra voce} Lo sai tu che ha fatto tuo fratello nei quindici anni in cui tu hai cessato perfino... di mangiare... si direbbe? Ma... un passo indietro. Lo sai che io in questa tua reclusione non ci ho visto mai chiaro?

Don Olivo                     - Che vuol dire, mamma?

Teodora                         - Voglio dire che non mi sono mai saputa capacitare come la Congregazione, la Compagnia, l'Or­dine, la Chiesa, il Papa o che so io, abbiano voluto rinunciare a un'opera come la tua; proprio in un tem­po che ci vorrebbe un miracolo al giorno, anzi uno all'ora, se Iddio vuole persuaderci che c'è, e se vuole riacchiapparci per la coda prima che la disperazione ce le abbia fatte fare tutte. Io mi domando ; chi può avergli soffiato al Papa, se è stato il Papa, una risolu­zione così pazza? Di ordinarti di non fare più mira­coli? E di farti mettere in carcere? Perché è una car­cere vera e propria, a pane e acqua, a quanto vedo.

Don Olivo                     - La Sapienza, mamma.

Teodora                         - Le vostre solite parole: che per voler dire tutto non dicono niente.

Don Olivo                     - Lo Spirito Santo, mamma.

Teodora                         - Lo Spirito Santo?! E io... a dubitare che gliel'avesse soffiato il diavolo.

Don Olivo                     - (solenne) Lo Spirito Santo.

Teodora                         - Peggio allora! Peggio! Perché se una donna del mio cervello può scambiare un consiglio dello Spirito Santo per un consiglio del diavolo, questo significa che il vostro combattere, di voi sacerdoti, di­co, dall'ultimo parroco al Papa, è proprio un brutto combattere. Da perderci la ragione e la salute. E ades­so capisco com'è che sei ridotto così, (pausa) E penso che tuo fratello abbia scelto una strada meno dubbia. Oh, eccolo, tuo fratello.

SCENA VIa

Oder                              - (entrato, viene ad abbracciare don Olivo che ricambia con fraternità l'abbraccio. Poi si guardano. Un attimo di silenzio) Guardi i miei capelli bian­chi? Oh... niente... In una notte, (pausa) Mamma ti ha detto?

Teodora                         - Mi accingevo.

Oder                              - Farò prima io. Olivo... di fronte a te sta uno sconfitto.

Teodora                         - Non ti consento di dire sciocchezze, Oder. Sta semplicemente un momento di debolezza e di smarrimento.

Oder                              - (a don Olivo senza curarsi della madre) Un vinto: come scienziato e come uomo.

Teodora                         - Seppure... come uomo.

Oder                              - La mia scienza ha perduto gli occhi.

Don Olivo                     - (con intenzione) Capita anche alla Fede. (Teodora si agita).

Oder                              - Ha perduto ogni potenza.

Don Olivo                     - Succede anche alla Fede.

Oder                              - Sarei tentato di dirti che ho perduto la fede nella scienza.

Don Olivo                     - E si può perdere anche la fede nella Fede.

Oder                              - (deciso e solenne) Non sono per questo sul­la strada di acquistare la Fede.

Don Olivo                     - (accorato) Chi può sapere se e quando Iddio vorrà farci questo dono?

Oder                              - Olivo, tu sai che io ho da molto tempo ces­sato di credere in Dio.

Don Olivo                     - Lo so.

Oder                              - Dirò che non ci ho mai creduto se, per cre­dere, è necessario l'impiego della ragione. Tu sai quin­di che non potevo credere tu fossi un testimonio di verità quando ti chiamavano, come ti chiamano, testi­monio di Dio.

Don Olivo                     - E più ragione di non crederlo avresti avuto se tu avessi creduto in Dio.

Oder                              - Olivo... come dici questo?

Teodora                         - Per stupida modestia.

Don Olivo                     - Mamma!

Teodora                         - Che tra l'altro m'è antipatica.

Oder                              - Mamma... tu non hai sentito il tono delle parole di Olivo.

Don Olivo                     - (alla madre) Io non sono un testi­monio di Dio. (a Oder) Forse lo sei più tu. Anzi lo sei più tu.

Teodora                         - Che schermaglia è questa?

Oder                              - Olivo... io spero che tu...

Don Olivo                     - (con crescente fermezza) Lo sei più tu. Ne vuoi una prova? Nei giorni della mia maggio­re desolazione...

Oder                              - Desolazione?

Teodora                         - (a Oder) Non lo vedi?

Don Olivo                     - ... l'opera tua mi consolava; perché io leggevo i tuoi libri e ti dicevo: te fortunato, fratello. Sì, te fortunato. Tu puoi vederli sotto il tuo micro­scopio i miracoli di Dio. Mentre io non li vedo più. (la voce gli si è spezzata in un singhiozzo).

Teodora                         - E che ha da vedere un segregato che non parla nemmeno più col fratello che lo serve?

Oder                              - Olivo, ti prego... Io non afferro l'intenzione delle tue parole; e questo mi getta in una confusione più grande. Olivo, ti prego. Tutta la tua lealtà. Qua­lunque cose tu voglia dirmi. Soprattutto se credi di non poter prestare a chi non crede in Dio la tua po­tenza. Come io con tutta lealtà ti dico che né io né Ippolita aspettiamo da te la conversione. Io ti dico che nemmeno il tuo miracolo riuscirà a convertire né me né mia moglie.

Teodora                         - Questa è una sciocca insolenza.

Don Olivo                     - (a Oder) Guai a me e a voi se la vo­stra fede nascesse da questo.

Oder                              - (con uno sforzo supremo) E tuttavia io ti chiedo ugualmente di fare quello che potrai per mia moglie. Muore. Una leucemia l'ha distrutta. Si tratte­rà anche per te, come per noi medici, di guadagnare tempo. Non altro. Protrarre le sue resistenze. Quello che noi abbiamo tentato con l'aminopterina, col corti­sone, con le trasfusioni, tu potrai tentarlo con le tue potenze nervose o elettromagnetiche o suggestive o quel che saranno. Il sangue resta un mistero in balia del mistero. L'impotenza della mia scienza lascia il passo alle potenze tue. Si tratta della donna che amo. E d'una donna preziosa.

Teodora                         - (a Olivo) Non credere che siano state tutte sconfitte le sue. Vi sono stati dei veri trionfi.

Don Olivo                     - Li ho seguiti. L'ho detto. E so della sua fama mondiale. E dei suoi prodigi.

Oder                              - E che ne hai pensato?

Don Olivo                     - Li ho creduti.

Oder                              - E non te ne sei scandalizzato?

Don Olivo                     - No.

Oder                              - Eppure... avresti dovuto scandalizzartene.

Don Olivo                     - E perché?

Oder                              - Perché questo significa che noi strapperemo di mano al tuo Dio la morte come gli abbiamo strap­pato di mano le malattie. Non dicevano che della mor­te è lui il signore? E che le malattie erano i flagelli con cui castigava il peccato?

Don Olivo                     - Io sarò felice se la scienza riuscirà a dimostrare che non è Iddio a dare la morte e le ma­lattie. Mi fa spavento che Iddio possa dare la morte ad anime in peccato.

Oder                              - E se la scienza riuscirà a dare anche la vita?

Don Olivo                     - Sarò ancora più felice pensando che l'opera di Dio consiste nell'alitare lo Spirito sulla vita e sulla morte. Così sarà finalmente di Dio soltanto tut­to ciò che è bene ed eterno. Niente che sia effimero, che sia errore, che sia male, può infatti venire da Dio.

Oder                              - Vuoi salvarlo ad ogni costo il tuo Dio!

Don Olivo                     - Siete voi scienziati che lo state sal­vando da tanti uffici ed omertà. Se fosse per le religioni Egli sarebbe ancora complice di quasi tutte le nostre sciocchezze e prevaricazioni e taumaturgie.

Oder                              - Io non ho mai dubitato che fosse il com­plice delle tue.

Teodora                         - Oh... povero mio cervello.

Don Olivo                     - Il terribile è che tutte le nostre azioni tendono a diventare taumaturgiche. Non soltanto quel­le liturgiche. E ce ne siamo accorti. .E basta a noi agi­re perché coloro che hanno una fede religiosa si senta­no tramutati in sacerdoti e gli atei in dei. Libertà e superbia s'innestano a renderci inebriante l'azione. E il quotidiano, dato che l'azione è quotidiana, ha assunto il significato dell'eterno, (pausa) Così se vo­gliamo salvare l'assoluto, non abbiamo più che un mez­zo: rinunciare alla taumaturgia dell'azione. A questa dobbiamo dire «basta » se vogliamo sapere se c'è un al di là alla nostra potenza, (deciso e solenne) E que­sto è da sapere. Io ho fatto questo. Contro la stessa pietà che mi portava ad operare. Contro la stessa sem­plice simpatia. Perché è questa naturale simpatia che ha collegato l'uomo alle altre creature e alle cose che s'è tramutata in una alleanza delle creature e delle cose contro Dio.

Oder                              - A parte la disumanità di coteste idee, che non esiterei a definire corrotte da una forma di paz­zia... che cosa vuoi dirmi con questo discorso?

Teodora                         - (scoppiando, violentissima) Che è uno sconfìtto anche lui! Che è uno sconfìtto anche lui! Del resto basta guardarlo, (a Olivo) Basta guardarti! Da gridare per lo spavento di averti generato! Ma no! No! No! Non può essere! Non può essere! (dopo un at­timo di tragica sospensione) Fammi vedere le mani Fammi vedere le mani! Ti si sono guastate anche le mani? Voglio vederle! Obbedisci! (Don Olivo trae umilmente le mani dalle grandi maniche e le mostra a sua madre. Teodora dapprima sbigottita e poi esal­tata) No! Sono sane! Sono belle! Sono sempre belle! È l'unica cosa che t'è rimasta bella nella devastazione di tutto il resto! Sono le mani tue miracolose! (le afferra).

Don Olivo                     - (fa per ritrarle, ma inutilmente) Mamma!

Teodora                         - Sono le mani del bambino che risanava i fiori e le farfalle. Le mani dell'uomo che riapriva le labbra ai muti e gli occhi ai ciechi...

Don Olivo                     - (grida) Mamma!

SCENA VII

(Il suono dei pini nel vento che è stato un crescendo durante quest'ultima parte del colloquio, si scinde e rivela. Sotto il vento è infatti un vasto brusio e vocio di folla. I tre tacciono sorpresi. Per le stanze si ode un correre di donne).

Oder                              - (rantola) È morta! (e s'impietra).

Maggiordoma               - (entra in uno stato di piena esaltazio­ne, gridando) Duchessa! Duchessa! Il parco si è riempito di contadini!

La Folla                         - (dal parco) Il Santo! Il Santo!

Don Olivo                     - (piegandosi su se stesso) No! No!

Teodora                         - (ad Olivo) Anche per questo sarebbe sta­to opportuno che tu avessi preso l'automobile. Qual­cuno ti ha visto. Ed ecco che succede. Son tutti qua.

Don Olivo                     - (impaurito) No! No! (Oder dà segni d'impazienza).

Teodora                         - (alla maggiordoma) Il fattore! Il fatto­re! Che i guardiani facciano sgombrare. Lo sanno tut­ti che la moglie del professore sta morendo. Che cac­cino via questa marmaglia.

La Folla                         - (in un crescente clamore sul quale gal­leggia il ritornello) Il miracolo! Il miracolo!

Oder                              - (a Olivo) Senti? Bando agli scrupoli! Non sono più io. È la folla che reclama il miracolo.

Teodora                         - (a Olivo) Figlio!

Don Olivo                     - Mamma! Fratello mio! Vi scongiuro! Abbiate pietà di me!

SCENA VIII

L'autista                        - (entra trafelato) Duchessa! Professore! "Il Santo ha fatto un miracolo!

Don Olivo                     - Pazzi! Pazzi! Sono tutti pazzi!

L'autista                        - (volgendosi dal sommo della scala verso il parco) Vieni, pastore; vieni.

Teodora                         - (all'autista) Siete impazzito anche voi? Chi vi autorizza?

L'autista                        - (senza ascoltarla) Vieni, pastore. La Duchessa ti chiama.

Teodora                         - (grida) Io non chiamo nessuno. Io non voglio nessuno. Il fattore. Io voglio il fattore. Coi guardacaccia armati!

La Folla                         - (a una sola voce) Il miracolo! Il mira­colo! Il Santo! Il Santo!

SCENA IXa

(Un pastorello d'una quindicina d'anni è alla ve­randa).

L'autista                        - (lo afferra e lo trae dentro) Lo ascol­ti, Duchessa. Lo ascolti. Eccolo. Eccolo. E tu racconta. (La folla si è taciuta).

Pastore                          - (additando don Olivo dopo averlo guarda­to) Sì. È lui. E' lui, lo riconosco. Lo riconosco, (si mette in ginocchio, si china a baciare la terra, si fa il segno della croce, si risolleva).

L'autista                        - E giura che quello che hai detto e ri­peterai è la verità.

Pastore                          - (ribacia la terra, si rifa il segno della cro­ce) Giuro. Davanti alla Madonna, (una cameriera e una infermiera appaiono nel vano della porta di de­stra). Sì. L'ho incontrato nel bosco. Avevo in braccio un agnellino. E correvo. E piangevo. Perché gli avevo rot­to una gamba con una sassata tirata a una pecora (additando don Olivo) Lui mi ha fermato. Perché piangi? Che t'è successo? Dove corri? Corro da Elia. Dal pastore che incanna le zampe rotte alle pecore. Perché ho rotto una zampetta a questo. Con una sas­sata. L'avevo tirata a una pecoraccia disobbediente. Lui fa... Oh poverino... E accarezza l'agnello. E poi ha guardato la zampa che ciondolava. E l'ha toccata. E ha detto: Oh poverino! Corri. Corri. Fa' presto. Ma non piangere. Portalo da Elia. E io mi sono messo a correre. Quand'ecco che l'agnello mi salta via dalle braccia, Oddio, grido. E fo per raccoglierlo. Sicuro che se ne fosse rotta magari un'altra. E invece quello sì mette a correre e a saltare e rivola belando verso la madre. E quando sono arrivato io, le stava sotto a scodinzolare in ginocchio.

Don Olivo                     - Non è vero!

Teodora                         - (grida) Sì... sì. È il modo del figlio mio! (quasi in preda ad un delirio) Lo riconosco! Figlio! Fi­glio mio! (a Oder) Oder, è sempre lui!

Pastore                          - E quando l'ho tirato fuori e gli ho ta­stato la gamba... mi pareva che mi fosse andato via il cervello. E mi sono messo a gridare. Ma quelli che ar­rivavano dicevano: Sì vede che è passato il Santo, don Olivo. Faceva sempre così. E allora sono arrivate le donne e si sono messe a strillare anche loro. E al­lora sono venuti tutti... (poi trasecolato e quasi recu­perando la coscienza della cosa) Io non lo sapevo... che lui faceva i miracoli.

(La maggior doma con un lungo grido e agitando brac­cia e mani attraversa in corsa la sala fìno alla porta dove sono la cameriera e l'infermiera che trae con sé nel suo abbraccio).

Don Olivo                     - (geme) No! No!

Teodora                         - Figlio mio, non è disobbedienza. Non c'è peccato. L'hai fatto senza volerlo.

Don Olivo                     - No! No!

Pastore                          - Non dite di no. Siete stato voi. Non mi fate passare da bugiardo. Lo sanno tutti.

L'autista                        - (a Teodora) E lo vogliono vedere. Se no non se ne vanno.

La Folla                         - (grida) Il Santo! Il Santo!

Teodora                         - Figlio mio, ti vogliono. Bisogna obbe­dire.

La Folla                         - Il Santo! Il Santo!

Teodora                         - Figlio, obbedisci. Sono io che te lo chie­do. Tua madre.

Don Olivo                     - (cade in ginocchio) Dio mio! Perché mi hai abbandonato?

La Folla                         - Il Santo! Il Santo!

Teodora                         - (a Oder: rantola) Che ha detto?! (Oder fa cenno di non sapere).

La Folla                         - Il Santo! Il Santo!

(Don Olivo si è chinato fino a terra con la faccia nelle mani).

* SECONDO TEMPO *

ha camera da letto d'Ippolita. La porta d'ingresso a sinistra, sulla direttrice del letto che appoggia con la testata alla parete di destra.

SCENA Ia

(Ippolita è in una vestaglia di trine bianche. Gli oc­chi socchiusi, il pallore cereo, il respiro lievissimo. L'infermiera che l'assiste a un tratto si curva timo­rosa su lei).

Ippolita                         - (restando ad occhi chiusi) Non avere paura.

L'infermiera                  - (confusa) Signora...

Ippolita                         - Ho gli occhi chiusi, ma non sono morta.

L'infermiera                  - Lei sta tanto meglio che ha dormi­to.

Ippolita                         - Li tengo chiusi... perché è inutile segui­tare a vedere... se tutto quello che hanno visto... do­vrà essere dimenticato.

L'infermiera                  - Ma che dice, signora... (pausa).

Ippolita                         - E poi i morti... li aprono gli occhi. Che ne dici tu di questo aprirsi degli occhi dei morti. Che vuole significare? Che si comincia a vedere allora?

L'infermiera                  - Ma queste sono cose...

Ippolita                         - O che sì aprono quando non c'è più nulla da vedere?

L'infermiera                  - Signora mia!

Ippolita                         - Che inganno... comunque. Ci sono ser­viti a vedere quello che dovremo dimenticare, (pausa) Che inganno, (pausa) E anche tutto il goduto, il sof­ferto, il capito, sarà dimenticato. Che inganno! Che of­fesa! Che furto! (pausa) Ladro!

L'infermiera                  - Non si agiti, signora.

Ippolita                         - È come un ladro che viene di notte. Sta scritto sul Vangelo, (lunga pausa. Poi seguitando a parlare con se stessa) Tu eri contadina...

L'infermiera                  - Io?! Sì... sì... signora.

Ippolita                         - Ecco. Tu sei stata china tutto il giorno sotto il sole di luglio a spigolare.

L'infermiera                  - Sì, signora.

Ippolita                         - La sera:., le tue mani stanche... lasce­ranno sciogliersi il mannello delle spighe. Non farai pane con la tua raccolta. Il tuo domani non avrà il pane della tua fatica. E... pensa... se dovrai cammi­nare... se sarà un nuovo cammino il tuo domani, (lun­go silenzio) Tu eri una mendicante...

L'infermiera                  - (accettando oramai le proposte di quel­lo che lei considera un delirio) Sì, signora.

Ippolita                         - Sai che ti dico? Getta il piccolo sacco che hai riempito,

L'infermiera                  - Sì, signora.

Ippolita                         - Peso inutile. Non avrai più mani per cercarvi dentro. Non avrai più mani per portare nulla alla bocca. Non avrai nemmeno più bocca, domani. (pausa: e poi concludendo un'altra serie di pensieri) E se non sarà un viaggio... sarà ancora più orrendo. La caduta in una buca di buio, (quasi grida) E gli oc­chi ti si apriranno perché li colmi il buio.

L'infermiera                  - Signora!

Ippolita                         - E la bocca che inventò le parole... col­mata di terra. Che orrore! Che delitto! (irata e cruda) Se un Dio esistesse... rispetterebbe la bocca che inven­tò la parola, (lungo silenzio. L'infermiera le accarezza delicatamente la fronte quasi a cancellarne tanti vani pensieri).

Ippolita                         - (scatta) Ma io ho le braccia colme! In­setti vivi e stelle vìve sono impigliati in questo fascio di dolori e di gioie... E se dolori e gioie sono morti-salvate quello che è vivo della mia raccolta, (grida) Salvatelo! Salvatelo! Salvatelo!

L'infermiera                  - Gesù!

Ippolita                         - Tieni! Prendi tutto tu. Te lo lascio. Te lo regalo.

L'infermiera                  - Grazie, signora.

Ippolita                         - A te?! E perché a te? Non morirai an­che tu?

L'infermiera                  - Sì, anche io, signora.

Ippolita                         - E allora... a chi? (lunga pausa) Millenni di raccolta! A chi? (si tace e s'accascia in un grande silenzio. L'infermiera è già sulle mosse per andare a chiamare qualcuno quando Ippolita si ridesta. E questa volta apre gli occhi). No. Non avere paura... Non sono morta. E però... potrei anche essere morta.

L'infermiera                  - (spaventata) Che dice, signora?

Ippolita                         - Morta. E subito ritornata... per consola­re Oder. Non lo sai tu che i morti possono ritornare? E parlare ancora... e piangere... e ridere e gridare?

L'infermiera                  - Lo so, signora.

Ippolita                         - E allora se è vero che i morti possono tornare... anzi se è vero che seguitano a vivere nell'ai di là... nell'inferno o in paradiso... e che possono an­cora... spropositare... bestemmiare... pregare... canta­re... infinitamente soffrire... e infinitamente godere... allora... io dico... che il sangue... sì, il sangue, Oder, non è necessario per vivere. E allora ti meravigli che io viva senza sangue? Ma allora che mi tiene in vita? Che vive ancora in me? (pausa) Che hai detto?

L'infermiera                  - Io?!

Ippolita                         - Hai detto... l'anima?

L'infermiera                  - Sì, signora: l'anima.

Ippolita                         - E che aspetta l'anima... per morire? Che aspetta? (si smarrisce in un grande sospiro e si placa. Lungo silenzio).

SCENA II

(La Maggiordoma entra con un frullo d'ali a mezz'aria ed è su lei. L'infermiera le fa qualche cenno che ella non intende. Ippolita apre gli occhi e accenna un sorriso).

La Maggiordoma          - (in una vera esaltazione di gioia) Figlia mia benedetta! Dio sia ringraziato! E mi di­ca una parola! Una sola!

L'Infermiera                  - Ne ha dette tante... Parla così be­ne.

La Maggiordoma          - Dio sia ringraziato. Ma la dica anche a me.

Ippolita                         - Vecchia mia.

La Maggiordoma          - (con un grido) Lo vede?! (all'infermiera) Lo vedi? Sta meglio. Sta già meglio, (a Ippolita) Non è vero che si sente meglio? (all'infermiera) E sai da quando sta meglio? (a Ippolita) Lo sa, lei, figlia benedetta? Da quando lui ha rimesso il pie­de su questa terra sua. E dopo... man mano che veni­va avanti pel bosco. È stata sempre meglio. Sì, sem­pre meglio, figlia benedetta. A un certo punto... non hai nemmeno gridato più. E quando lui... il professo­re... si voltava spaventato a cercare quel grido che gli mancava, io avrei voluto dirgli: ma sì; non grida più; già non grida più. Signore di misericordia! Perché a non sentirlo... lui credeva... E invece... Figlia mia! Fi­glia mia! Ma dimmelo ancora tu con le tue parole, che stai meglio.

Ippolita                         - (pietosa) Sì, sto meglio.

La Maggiordoma          - Signore! Non farmi morire pri­ma del tempo! Ma sa che le dico, figlia benedetta? Sa che le dico? Che comunque si sentisse oramai... anche se si sentisse... svenire... oramai è fatta. Lui è là. In ginocchio. In mezzo alla sala. E prega. Prega. Quasi avesse bisogno di pregare, lui, per fare i miracoli. Ha dovuto forse pregare per questo spropositato miracolo dell'agnellino? E per quest'altro vuole pure pregare. E tutti. Tutti. Voglio dire anche quelli che erano ve­nuti per vederlo e per toccarlo, adesso non pensano che a pregare. Fuori del parco: dietro la rete: tutti. In ginocchio. A pregare, tutti. E quello che si vedrà... oggi... Signore... misericordia! Che le avevo detto, fi­glia mia bella? È il signore di questo mondo. Non ha che da comandare: con gli occhi; con la voce, col pen­siero. E succede tutto quello che vuole. Ippolita.. Ip­polita... figlia benedetta... mi sorrida. Sorrida. Ci fac­cia vedere che è contenta. In fondo anche questa po­verina... (entra un'altra infermiera). E anche quest'al­tra... e poi tutti, se lo meritano per quanto hanno avu­to paura: se lo meritano di vederla sorridere. Ci dica che è contenta. Che ringrazia Iddio, (riprendendosi) No! No! No! No! Non dica niente. Stia zitta. Anzi... anzi... lei non ha che da tenere il fiato. In specie al momento che entrerà. Perché... sì, devo dirglielo         - (qua­si vezzosa) mette paura. E io, al primo vederlo, sono fuggita. Che Dio mi perdoni. Ma tu, figlia mia, non ti spaventerai adesso che sai chi è. Non hai che da te­nere il fiato. E cercare di non ridere... se dovesse farti ridere, poverino. Non sforzarti nemmeno a dargli il benvenuto. Tanto lui lo sa come stai. Anzi... ti direi perfino... fa' finta di stare peggio. Sì. Fa' fìnta. Perché, per lui, più la cosa è difficile e più la vuol fare. E meglio la fa. Non ti sforzare nemmeno a tendergli una mano. Non importa. Sarà lui... sarà lui., a sfiorarti la fronte. Lo sa che sei sua cognata, (alle donne) Non può essere mica un agnellino, la cognata. Vorrei ve­dere che avesse di questi scrupoli, (a Ippolita) Sarà lui a sfiorarti la fronte con la sua carezza. E sarà un'altra volta primavera per te, figlia mia benedetta. E dopo visto questo, non ho da vedere altro! E mi pa­re        - (alle donne) che non ci dovrebbe essere da veder altro per nessuno, (a Ippolita) Perché sarà come aver visto il Signore. E sai che farò? Sapete che farò? Perché quella- (si volge verso la porta) non se ne vada a mani vuote, le dirò: eccomi qua. Anzi- (sempre par­lando all'invisibile in attesa) Anzi. Va' ad aspettarmi fuori Sì, sulla strada della pieve, (poi tornando a par­lare alle infermiere) Non voglio che per me si sciupi la gioia di questa casa. Ma tu, Ippolita, figlia mia bel­la, sorridimi: per amor di Dio. (Ippolita accenna un altro sorriso. La maggiordoma al colmo della gioia) Iddio ti benedica! (si bacia la punta delle dita e le tocca la fronte. Poi vedendo entrare Oder gli corre in­contro) Professore! Professore! Ha perfino sorriso, (fa un cenno alle infermiere che rapide e tacite la pre­cedono, uscendo poi dietro a loro, con un nuovo gran­de frullo della veste).

SCENA IIIa

(Oder viene a Ippolita e si china a baciarla sulla fronte. Poi, involontariamente, guarda accigliato ver­so la porta).

Ippolita                         - (con un fil di voce) Oder.

Oder                              - Cara! (la stringe a sé. Un silenzio).

Ippolita                         - Oder.

Oder                              - Amore!

Ippolita                         - Non mi chiedi come mi sento?

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - Non mi cerchi il polso? Sai anche tu che non è più questione di sangue?

Oder                              - Stai meglio. Stai meglio. Non è necessa­rio essere un medico per vederlo.

Ippolita                         - No. Non sto meglio.

Oder                              - No?!

Ippolita                         - No.

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - E se sto meglio... non è pel miracolo operato dal santo a distanza... È il miglioramento della fine.

Oder                              - Ma lui è là! Non abbiamo che da chia­marlo. E lo chiamerò... appena vorrai.

Ippolita                         - (dopo averlo fissato e con intenzione) Quando vorrò io?

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - Non quando capirai tu che è necessa­rio?

Oder                              - (confuso) Certo. Certo. Ippolita...

Ippolita                         - Non è ancora necessario?

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - (solenne) Ascoltami. Anche se fosse ne­cessario, io non vorrò.

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - (con estrema forza) No. Non voglio. Ricordati. Non voglio. A qualunque invocazione pos­sa spingermi ancora la viltà. Oder, ascoltami, non voglio. Intendi? Non voglio! E voglio aspettarla con te. Non mi mette più paura.

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - Non la voglio... quella vita. Ne avrei una vergogna che la oscurerebbe per sempre. Come d'una vincita. Non d'un guadagno.

Oder                              - (con involontario entusiasmo) Ippolita mia!

Ippolita                         - Andrei vestita di vergogna. Quanto te, mio... povero... caro.

Oder                              - Ippolita! Pagherò la tua vita a qualunque prezzo.

Ippolita                         - Grazie. Ma così... la pagheresti troppo cara.

Oder                              - No! No!

Ippolita                         - E anche io... la pagherei troppo cara.

Oder                              - Io voglio soltanto che tu viva. Non ho vo­luto che questo.

Ippolita                         - Lo so. Grazie. E lo hai cercato con ogni mezzo onesto, legittimo, chiaro. Coi mezzi della tua scienza. Con la scienza dei tuoi colleghi. E questo ave­vi il dovere di fare. Non altro. Non oltre. No!

Oder                              - Erano le mie forze quelle...

Ippolita                         - E ti ho amato per quelle... ti ho sposato in quelle. Né posso pretendere... senza tradirti... che tu ne cerchi altre fuori di te.

Oder                              - Ippolita!

Ippolita                         - E senza tradirmi. Perché anche io, co­me te, ho creduto e credo in quelle sole.

Oder                              - (con impeto) Credi?! Hai detto... credo? Ippolita! Sposa mia!

Ippolita                         - Sì. Ho detto credo.

Oder                              - Credi ancora? Credi ugualmente? Credi sempre?

Ippolita                         - (solenne) Credo.

Oder                              - Grazie, (e scoppia in singhiozzi. Un silen­zio, da poter misurare la nobiltà di questo pianto).

Ippolita                         - Piangi... sì, piangi, bambino mio. Gran­de bambino. Questo era necessario. Che tu piangessi. Se tu avessi potuto piangere prima... non saremmo ar­rivati a tanto confusione e debolezza... Se ti avessi visto piangere... avrei capito... che accettavi... la scon­fìtta. Perché... bisogna accettarle... le nostre sconfìtte. Quelle che sono veramente nostre. È questa accetta­zione che ci fa forti ed invincibili.

Oder                              - Sposa! Sposa! Sposa mia! Fedele mia! Le ho accettate tutte: e tu lo sai. Le ho prese tutte su me, tutte, le sconfitte che la scienza ha patito in tanti secoli, da quando è nata. E non essere caduti dopo tan­te sconfìtte è quello che ci ha fatto guadagnare tante vittorie.

Ippolita                         - Sì, caro; sì, caro. E allora... sorridi... Che domani... sulla mia tomba... il vittorioso sarai an­cora tu.

Oder                              - Non io... non io... lei.

Ippolita                         - Lei. (restano abbracciati e piangenti).

Oder                              - (ripreso il dominio di sé, si giustifica) Smarrito... smarrito. M'ero smarrito.

Ippolita                         - Il mio insensato terrore.

Oder                              - Non questo; non questo soltanto, Ippolita. Ben altro, Ippolita. E ti dirò. Devo dirtelo. Ho bisogno di dirtelo. Sì, Ippolita, (pausa). È come se avessi visto per la prima volta la morte. E infatti... l'ho contem­plata. In te, amata mia. Contemplata. Sì, contemplata. Quale strana parola sulle mie labbra, è vero? Eppu­re è questa la parola: contemplata. Oh... l'immensità! Non vederla, non studiarla, non sezionarla. Contem­plarla bisogna. E allora finalmente si può capire perché gli uomini si ribellino, perché gridino no, come te. Perché vogliano l'immortalità, (un silenzio) Io, scienziato, non avevo tenuto sufficiente conto di que­sto spavento, di questo pianto, di questa ribellione. Non sono elementi, questi, che possiamo mettere sotto i nostri microscopi e dentro le nostre provette, (un si­lenzio) Grande è stato il mio smarrimento, (un altro silenzio. Poi mirando Ippolita coi suoi occhi da inna­morato) Bella quasi quanto te. Misteriosa quanto te. E la mia ragione s'è perduta. A un tratto m'è sem­brato di non averti dato nulla in questi dieci anni di intimissima vita. Di non averti dato l'essenziale. E mi sono stupito che tu non me lo avessi chiesto. Ho per­fino sospettato che tu, l'essenziale, lo possedessi in se­greto. E ho temuto di non averti mai conosciuta. Che il più grande di te, il più prezioso di te... mi sfuggisse. E forse, solo per afferrare questo tuo mistero intra­visto mentre tu mi sfuggivi, ho gridato al soccorso. Vo­levo fermarti perché tu mi dicessi quello che non ave­vi potuto o saputo ancora dirmi. Quello che non ave­vi avuto l'occasione di dirmi... Perché è l'occasione uni­ca... l'occasione ultima, (un silenzio. Con invocazione) Ippolita! (un altro silenzio).

Ippolita                         - Che vuoi che ti dica che non ti impie­tosisca? Non sono tutti vaneggiamenti quelli intorno alla morte? E sia delle menti malate... come la mia... sia di quelle sane. Non basta la sola parola morte a fare ammalare anche le menti sane?

Oder                              - Sono nate le religioni da questo spavento.

Ippolita                         - E allora... tu ora... non sorriderai di me...

Oder                              - Sposa mirabile!

Ippolita                         - Stanotte... e certo a causa della notte... mi sembrava di stare sulla soglia tra due stanze. Una oscura, dove soffocavo, e dove eri anche tu... E una aperta, senza pareti, tutta aria, da poterci entrare in un gran volo. Ma allora... m'accorgevo di non avere le ali per quel volo. E le chiedevo a te. Ma tu non le avevi... e io volevo che tu me le procurassi...

Oder                              - Dolce, cara, soave... non di ali hai bisogno, ma di sangue. Di sangue nuovo, fervido, vivo. E quello che non ha saputo darti la scienza saprà dartelo l'uo­mo che è là. Questo credo e questo voglio. Ascolta. È mio fratello. Ma mi sarebbe fratello ugualmente qualunque donna l'avesse partorito. Sarebbe stata una altra Eva anche lei, come nostra madre. Quella che ci comandò la conoscenza. Quella che ce ne ha fatto un destino. Sarete simili a Dio! (esaltandosi) È là. Ed è scienza e potenza anche la sua. Conquistata a frusto a frusto, in millenni di vita e di lotta. Elaborata nei millenni in cui tutte le creature terrestri conquistava­no istinto di conservazione e di difesa e mezzi di do­minio. È là: in ginocchio in mezzo alla sala. Credono che preghi. Ma non prega. È un dio anche lui. Beve. Beve a una sorgente di fuoco le forze che gli sono ne­cessarie. Potrebbe anche trarle dal sole caricandosi le mani di raggi cosmici come facevano i sacerdoti anti­chi levando le braccia. Ma è potenza e scienza anche la sua, come la mia. Tu non tradirai né me né la tua intelligenza accettando che egli reinfonda il sole nel tuo sangue. Ippolita! Tu vivrai!

Ippolita                         - (che si è illuminata della gioia di Oder e splende anche di gratitudine, bisbiglia) Come è bello! Come è bello! E come è tuo tutto questo. E quan­ta... la tua generosità. Ma...

Oder                              - Ma?! Di'... parla, amata mia.

Ippolita                         - Ma se... poi...

Oder                              - Se poi?

Ippolita                         - ...nascesse in me un dubbio?

Oder                              - Quale? Quale? Ippolita! Parla, ti scongiuro.

Ippolita                         - Che non fosse stata la potenza d'una scienza come dici tu... ma...

Oder                              - Ma?!...

Ippolita                         - Una forza d'altra natura... d'altra ori­gine...

Oder                              - Diabolica o divina vuoi dire?

Ippolita                         - Sì.

Oder                              - Infatti... prima di chiamarle divine, l'uomo le chiamò diaboliche. Ma io e te sappiamo la genesi di queste... irrazionali definizioni.

Ippolita                         - Sì... però... nemmeno per noi... tutto è chiaro... Devi ammetterlo. Nemmeno in noi cessa di fermentare... il dubbio. E se un avvenimento... così eccezionale... facesse... esplodere in me questo dubbio?

Oder                              - Vuoi dire se l'operatore apparisse anche a te come appare alla maggiordoma e ai pastori?

Ippolita                         - (solenne) Ed è il pericolo che non vo­glio correre.

Oder -                           - Ippolita!

Ippolita                         - Preferisco perderti per colpa della morte che a causa della vita ci separerebbe come la morte questa nuova vita. E io non voglio separare la mia intelligenza dalla tua. Non voglio, (pausa) Tu non hai sposato una spigolatrice.

Oder                              - Ippolita! Tu sei la mia sposa! E lo sarai anche...

Ippolita                         - Morta. Questo voglio. Perché se mi col­masse una nuova certezza... da dover pensare e giudicare diversamente da te... tu mi appariresti il morto. E peggio: cieco, insensibile, intelligente. Una pietra. Un simulacro. Non più il dio vivo che mi ap­parisci. E io non voglio e non posso sopravvivere al mio dio.

Oder                              - Ippolita! Mia fedele!

Ippolita                         - Perché... l'abbiamo tolto di mezzo Id­dio... Sì... ma non per restare senza. Anzi per metter­cene un altro che ci rispondesse come quello non ci rispondeva... che ci amasse come quello non ci ama­va... Perché... certo... se quel Dio c'era ci aveva ab­bandonati.

Oder                              - Ippolita! Ippolita! Ippolita! Mia gioia. La tua intelligenza e la tua forza splendono più di sem­pre. E anche il tuo viso. Ippolita! La vita torna in te con tutta la sua pienezza e felicità.

Ippolita                         - Oh... caro... è soltanto la felicità della fine.

Oder                              - (spaventato) Ippolita!

Ippolita                         - Sto morendo.

Oder                              - No... No... Ippolita. Non è vero!

Ippolita                         - Oh come vorrei... È così bello vivere. È così bello pensare... parlare... cercare... con te. Do­po non cercheremo più. Che orrore! (grida) Oder! Io non voglio morire!

Oder                              - (si spicca da lei ed esce in corsa chiamando) Olivo! Olivo!

Ippolita                         - (terrificata di quanto ha chiesto grida) Oder! No! (e tendendo verso lui le braccia s'abbatte bocconi sul letto fuori delle coperte).

SCENA IVa

(Don Olivo appare sulla soglia).

Ippolita                         - (si solleva lentamente come una belva che si disponga all'attacco. I suoi occhi ardono di terro­re e di sdegno. Alfine rantola) Non io ho chiesto di voi. Io non voglio nulla da voi. Io non vi conosco. Né voglio conoscervi. E anzi... per quello che so di voi,., vi detesto.

Don Olivo                     - (umilissimo) Iddio ve ne renda me­rito, signora.

Ippolita                         - (con sommo dispetto) Non credo che il vostro Dio sappia che esisto. Certo, io non so se esi­ste lui. Non è stato quindi per ingraziarmelo... che vi ho detto quello che dovevo dirvi. E vi consiglio di an­darvene. Subito. Perché... se resterete... le mie parole... vi peseranno di più. (pausa) Mi spaventa perfino il vostro aspetto. Mettete paura, (con voce di pieno do­minio) Però... tra i cammellieri del deserto... una fac­cia come la vostra... potrebbe fare fortuna, (pausa) No... no... Non più. È finito anche sui deserti il tempo dei profeti... e dei miracoli. I miracoli, oggi, si fanno nei gabinetti degli scienziati e nelle officine, (con al­tra voce) Né voi potete sperare di giocare un altro gioco con me. È tardi per convertirmi. Lasciatemi dunque morire in pace. Perché io sto per morire.

Don Olivo                     - (tristemente) Lo so.

Ippolito                         - (sdegnata) Lo sapete? E come fate a saperlo?!

Don Olivo                     - Me lo hanno detto.

Ippolita                         - (angosciata e ribelle) Ve lo hanno det­to?! Allora... sono sicuri... che morirò. Sono sicuri. (Don Olivo china il capo. Con nuova voce) E per voi... che la dite... in mano di Dio,., la morte... non è un'insolenza questa certezza?

Don Olivo                     - (con gravità) È quanto assicura ad essi la loro scienza.

Ippolita                         - (che ha sospettato una ironia nella rispo­sta, violenta) La loro scienza è la Scienza!

Don Olivo                     - Lo so, signora.

Ippolita                         - E solo perché la scienza... li assicura della mia morte... (con tragica ironia) mi hanno mes­so nelle mani del taumaturgo, (pausa) E sì. Le vo­stre ore... di voi... manipolatori d'imbrogli... corrispondono sempre alle ore di stanchezza dell'uomo. Perché non sono sconfìtte: sono soltanto stanchezze.., le nostre. Dura da millenni la nostra fatica, (un si­lenzio) Così... oggi... è tornata l'ora vostra. E che ora! (con un supremo sforzo si drizza e tenta staccarsi dal letto) La guarigione della moglie d'uno dei più grandi biologi del mondo. D'una malata che è stata abbandonata dalla scienza. Un miracolo... non da mandare in visibilio pastori... ma da ammutolire scienziati. Ci credo che non abbiate esitato ad accet­tare.

Don Olivo                     - (sempre umilissimo) Eppure, signo­ra, se poteste credermi... io vi direi... Non è nelle mie povere mani la vostra salute. Come non è nel mio de­solato destino la gioia della salvezza dell'anima vo­stra.

Ippolita                         - Quanto alla salvezza dell'anima mia... non credo vi sia stata chiesta, (con un nuovo sforzo si stacca dal letto e avanza barcollando per la ca­mera) Quanto alla mia salute... è incredibile... tanta vostra umiltà. Mio marito ha fatto alle vostre mani... (quasi le cerca con le sue mani, ma don Olivo le na­sconde come sempre nelle grandi maniche) Ha fatto alle vostre mani... l'onore di metterle alla pari con le sue.

Don Olivo                     - Non ho fatto nulla, signora, per trar­lo a tanto inganno.

Ippolita                         - (ha un moto di sdegno) Oh mentitore! E questa ultima? Manipolata sotto i suoi occhi? Al­lora... una frode anche questa? (un silenzio) Ma è da domandarselo? Vi si vede dalla faccia, (con estremo disprezzo) Voi siete la faccia della frode (un lungo silenzio).

Don Olivo                     - (con grande dolcezza) Signora, vOi non siete né un fiore, né un cristallo, né un agnello. Voi siete una creatura umana per la quale la morte ha più significato della vita. E soltanto per questo io posso dirvi            - (solenne) che se la salvezza dell'anima vostra è nei disegni di Dio, e questa salvezza chie­derà più tempo del poco che v'è rimasto, Iddio stesso comanderà alla morte di sostare a quella soglia. (Ip­polita involontariamente trasalisce) E condurrà lui stesso per mano, fino a voi, l'umile sacerdote dal quale riceverete la Grazia che Egli serba agli eletti.

Ippolita                         - (stupefatta e colpita) Quale improvvi­so cipiglio sotto tanta unzione. E quale... profezia! E quale... segreto! Avete detto, nientemeno... se la sal­vezza dell'anima mia...

Don Olivo                     - (ripete) È nei disegni di DIo-

Ippolita                         - (violentissima) E potrebbe non esser­vi?!

Don Olivo                     - (dopo una esitazione e con grande me­stizia) Potrebbe non esservi.

Ippolita                         - (rantola) E perché mai?!

Don Olivo                     - Per uno di quei misteri che fanno fer­mare la sapienza dei Santi.

Ippolita                         - (grida) Che offendono la carità! Don Olivo        - (quasi barcolla) Dio! (e si copre la faccia con le mani: lungo silenzio) Quale parola! Quale parola! (si scopre per guardare Ippolita e re­sta a fissarla sbigottito) Quale parola sulla vostra bocca di atea! Carità. Il mistero di Dio. (si copre nuo­vamente il volto mormorando incomprensibili pa­role).

Ippolita                         - (Io studia e poi quasi ansiosa di polemiz­zare con lui) Era vietata alle mie labbra? C'è dun­que qualche parola di verità e di giustizia che sia vie­tata a qualche creatura? (cruda) E anche questo per uno di quei misteri...

Don Olivo                     - (impetuoso) Signora, perdonatemi. E con voi mi perdoni Iddio. Ma io m'aspettavo di udire che... il mistero offendeva la vostra intelligenza. Perché quella che si sente sempre offesa in noi, dal mi­stero, è la nostra intelligenza. Quasi ella avesse la ca­pacità di riceverlo e la forza per sostenerlo, come ne ha la presunzione. Ma voi avete detto... carità. E que­sta è cosa di Dio. È sostanza di Dio. Essenza di Dìo. Luce di Dio! E a questa parola io vorrei poter coman­dare, fermati, come Giosuè lo comandò al sole. Perché' fermare la parola di Dio è come fermare Iddio. Come vedere Iddio. E l'anima mia non vuole, non spasima, non cerca che questo: Iddio! (in preda ad un dolore e a una speranza che assumono le forme del delirio, tende le braccia verso Ippolita e singhiozza) Dio! Dio! Fermati! (un grande impeto di vento nel bosco. Resta a contemplare Ippolita come abbacinato).

Ippolita                         - (sbigottita e quasi impaurita dopo qualche istante rantola) Smettete di guardarmi così! Smet­tete! (grida) E' pazzo! E' pazzo! (Don Olivo si copre il volto con le mani. Un lunghissimo silenzio. Ipolita si è ripresa; con nuovo disprezzo e ironia) A meno che... A meno che... non siano... battute della parte che do­vete recitare con me.

Don Olivo                     - (si getta in ginocchio accanto a lei) Perdonami, Signore! Io non posso recitare la parte del tuo apostolo, (tende le braccia e le mani verso le gi­nocchia di Ippolita) Perdono, Signore!

Ippolita                         - (inorridita, grida) Non mi toccate! (le braccia di don Olivo ricadono) Non mi toccate. Non mi toccate. Non voglio, (un lungo silenzio. Un nuovo sof­fio di vento sul bosco. Ippolita ansima come in una imminente soffocazione. Don Olivo che resta in ginoc­chio, si china sempre più verso terra e, si può dire, si sottrae alla vista di Ippolita che quasi fosse rimasta sola e quasi a un risveglio si muove come una son­nambula) Però... se m'avesse toccata... sarei guari­ta? (con lo smarrimento e le lacrime soffocate d'una bimba) Sarei già guarita? (sbigottita) Oder... sarei già guarita? (pausa) Così?! (in un supremo sforzo) Gua­rita! Guarita! Oh... le mie vene! Oh... il caldo! Oh... il fuoco! Il fuoco del sole nelle mie vene (ride). Sì... bella... sana... felice... Oh... le mie labbra! Oh... le mie gote... i miei capelli... Oder... come ti piacqui? Oder... ancora... ancora... (va nel suo sogno verso la finestra. Un silenzio Con assoluta certezza) Guarita. E senza la mia volontà. Senza mia colpa. Da non doverti chie­dere perdono, (pausa) E tu... potresti prendermi per mano - (tende le mani a Oder assente) e trarmi alla finestra e dirmi: vieni... guarda... guarda come è bel­lo! Ed è ancora nostro! (ride, vaneggia). Oh la feli­cità! (pausa) Tanta... sarebbe la felicità... da non farmi nemmeno volgere a lui per dirgli grazie. Da farmi scordare di lui. Da farmi scordare perfino di ringraziare Iddio... se la nuova vita... mi fosse venu­ta da Dio.

Don Olivo                     - (sorge gridando) No! No! No! Non da Dio! Non da Dio! In verità ti dico. Non da Dio!

Ippolita                         - (terrificata, s'abbatte su una poltroncina e con un soffio di voce) E' un folle. E' un folle. To­glietemi dai piedi questo folle.

Don Olivo                     - Ti giuro. Non da Dio, ma dal suo nemico: da Satana.

Ippolita                         - (risolleva il viso lo fissa e rantola) Ma sì... avevi anche la faccia di Satana... quando sei en­trato. L'ho vista.

Don Olivo                     - E infatti tutto l'errare e il soffrire del mondo è in questa gara di Satana contro Dio. E l'uomo è la posta della partita. Tu come me. E su me è arrivato primo il nemico, (pausa) Arriva su tut­ti, primo. Ci coglie nei deliri del concepimento. E il diffìcile e che Iddio possa riconquistarci. Anche ora che ci ha pagato col sangue di Cristo (Ippolita lo guarda con crescente intensità). E se mio fratello non s'avvede di chi sono la curiosità la concupiscenza la superbia che lo sollecitano, io ho capito a chi apparte­neva la magia delle mie mani.

Ippolita                         - (dopo una meditazione, quasi tra sé) Oder... è questo che volevi dire tu... di lui e di te? È questo?

Don Olivo                     - Ma nel mio cuore non v'era super­bia. Credimi, sorella. Non v'era che pietà nel mio cuo­re. E a questa pietà s'afferrò il nemico di Dio. E que­sta pietà corruppe.

Ippolita                         - Che dice?... Che dici?

Don Olivo                     - Al punto da farmi giudicare che le creature terrestri fossero state create soltanto al ma­le e alla morte. Una pietà che mi fece credere im­pietoso il Creatore. Una pietà che fece sentire me più pietoso del Creatore. E furono gli anni dì gloria per quella pietà e per queste mani. Il Santo! il Santo! il Santo! gridavano le folle, (lungo silenzio) Finché non temetti. E venne allora per me il tempo del terrore. Fu allora che cercai scampo nella segregazione. E da allora non fu che un'offerta: le mie mani. E una richiesta. Che un fulmine le incenerisse. Che le stem­perasse come cera il sole. Che scendesse a mozzarle con la spada l'Arcangelo.

Ippolita                         - (con un filo di voce) La tua follia fa tremare l'anima mia come non la fa più tremare la morte.

Don Olivo                     - Credimi, sorella, perché da questo dipenderà il tuo pieno intendere: quello cui ti ha sol­lecitato incessantemente la nobiltà del tuo pensiero. Credimi. Ti ho svelato il segreto della mia perdizione.

Ippolita                         - Della tua perdizione?

Don Olivo                     - Volevo essere punito da un miracolo. A questo può arrivare la nostra insolenza quando il demonio s'impossessa anche della nostra contrizione. Nemmeno le virtù sono al sicuro dalla sua presa.

Ippolita                         - Che dici! Che dici! (lunga pausa).

Don Olivo                     - Tentare Iddio. È allora che Iddio ci volge le spalle. Così gli ultimi anni della mia segre­gazione hanno conosciuto il silenzio dell'abisso, (pau­sa) Tacque per me anche la bocca del fratello che mi portava la ciotola, (pausa). Quando pel mio lungo pianto speravo meritato un segno dì Dio... vennero a portarmi l'invito di mia madre. Si trattava della sal­vezza d'un'anima, mi dissero. E mi comandarono l'ob­bedienza.

Ippolita                         - (sbigottita) La mia? Dell'anima mia?!

Don Olivo                     - La tua.

Ippolita                         - (tra incredula e sgomenta) La salvezza dell'anima mia? Che ne sapevano loro dell'anima mia? Che ne sanno loro quale salvezza vuole l'ani­ma mia? (un silenzio).

Don Olivo                     - Mi comandarono l'obbedienza. Vidi la nuova tentazione. E mi decisi alla difesa. La mia difesa! Non è stato necessario che giungessi a questa casa perché il nemico di Dio si riafferrasse alla mia pietà e alle mie mani taumaturgiche. Sul sentiero di quel bosco che vide i miei primi miracoli di fanciul­lo, il pianto di un pastore e la zampa ciondolante d'un agnello. Ed ora... eccomi ancora una volta im­pietosito davanti a te.

Ippolita                         - (terrificata e decisa) Ma io non te l’ho chiesto il miracolo della mia guarigione. Io l'ho ri­cusato. Io lo ricuso.

Don Olivo                     - E per questo, fin dalle tue prime pa­role, io non ho fatto che benedirti. Te benedetta, ti dicevo. Te benedetta che non tenti il tuo Dio nella persona del fratello tuo. Te benedetta io non ho ces­sato di ripetere.

Ippolita                         - (sbigottita) Mentre io ti oltraggiavo? (contrita) Mentre io ti schernivo?

Don Olivo                     - Benedetta. Benedetta. Benedetta, mormoravo nel mio cuore.

Ippolita                         - Dio!

Don Olivo                     - Finché dietro il tuo sdegnoso pallo­re non ho a. un tratto intravisto il mirabile volto di Dio.

Ippolita                         - (sgomenta) Che dici?

Don Olivo                     - Ed è stata come l'alba por la mia notte.

Ippolita                         - Che dici?

Don Olivo                     - Fa' che le segua l'aurora e il giorno. Da te dipende se oggi io ritroverò Iddio.

Ippolita                         - Che dici?

Don Olivo                     - Da te. Io l'ho perduto! (si piega e rompe in un pianto che crescerà di attimo in attimo fino a farsi smisurato).

Ippolita                         - (dopo averlo ascoltato con crescente sgo­mento, in un moto di novissima pietà, levandosi an­cora, prorompe). E così piangi tu? E può così piangere un uomo? No! No! No! Chi piange così sul­la terra? Dove si piange così? (con crescente emo­zione e quasi con violenza) E non ne sarà la terra sommersa? Non ne sarà colmato il cielo? Non treme­ranno le stelle? (lungo silenzio. In un grido) E Iddio non l'udrà? (Silenzio) E non s'impietosirà se l'ode? (un più lungo silenzio in cui sembra raccolga la fiamma più alta del pianto di don Olivo. Grida) Non ti impietosisci, Iddio? (smarrita) Iddio... Ti ho nomi­nato Io... che non so chi tu sia... ne dove sia... Io che non ti ho mai cercato. Io che non so niente di te. (pausa) Non so niente di te. E come posso sapere se puoi udire questo pianto? (con foga) Ma se per u-dirlo ti sono necessari i miei orecchi... prenditi i miei orecchi. E se il tuo cuore non trema, prenditi il mio cuore perché tu possa tremare a questo pianto. E se non hai mani per asciugarlo, prenditi le mie mani e asciuga questo pianto. Perché tu solo puoi misurare e asciugare questo pianto, (pausa) E se la tua voce non è voce che questo infelicissimo possa udire, pren­diti la mia voce. E se questo infelicissimo non può intendere le tue parole, prenditi anche le mie paro­le. E con le mie parole consolalo. E digli che lo ami. Perché egli non cerca che il tuo amore. Digli: « Io ti amo ». (con voce sublime, su don Olivo) Io ti amo. (Don Olivo restando tuttavia in ginocchio si è eretto e, trasfigurato la guarda trasfigurarsi. Ippolita temen­do di non essere creduta, soavissima) Non hai udito? Non hai udito? Ti ha detto che ti ama. Ti ha detto: « Io ti amo ».

Don Olivo                     - (s'aberra alle mani di lei e bisbiglia) Ho udito... Ho udito.

Ippolita                         - Perché anche se sono stata io a dirlo... Lui mi ha dettato. Che volevi, che ti parlasse con la sua voce? Non sai che saresti morto di spavento? È questa la ragione per cui non ci parla... e ci fa par­lare dagli altri... E noi non capiamo... e non credia­mo che è Lui.

Don Olivo                     - (rapito) Signore!

Ippolita                         - Sì: anche io qualche volta gli ho det­to; mandami un angelo... Ma poi avremmo seguitato a credere ai nostri occhi e ai nostri orecchi quando l'angelo fosse rivolato? Non avremmo detto che fu un'illusione. Così, invece... io sono ancora qui per ritestimoniarti che fu proprio Lui. Credi?... credi!... credi!...

Don Olivo                     - (c. s.) Signore!

Ippolita                         - E non te ne stupire. Non sta scritto che per testimoniare di Lui riacquistano la favella i muti? E resuscitano i morti? E che sono io? Non una che era già morta?

Don Olivo                     - Signore!

Ippolita                         - Da stamattina dovevo essere morta. Lo sapevano tutti. Anche tu lo sapevi. Te l'avevano det­to. E invece... ho aspettato. Ti ho aspettato perché Lui lo ha voluto. Sì. Ho aspettato te. E non per ri­cevere, come tutti credevano, la vita da te, ma per dare a te la vita che ha voluto Iddio, (torna al letto, sopra il quale si distende).

Don Olivo                     - (c. s.) Signore!

Ippolita                         - Com'è bello!... Il segreto delle cose del mondo è solo nelle Sue mani.

Don Olivo                     - (c. s.) Signore!

Ippolita                         - E vedrai... che ora che l'ho obbedito Lui mi farà pure tornare Oder... se Oder lo cercherà. Perché... tra poco... morirò. Senza più gridi... felice... Basterà che Lui mi chiami, (si raccoglie in un gemito di umiltà e di gioia nel quale sembra estenuarsi).

Don Olivo                     - (china il capo e si raccoglie in lunga preghiera. A un tratto se ne riscuote e guarda Ippo­lita. Nel timore che sia morta. Si china sul suo viso cercandone il respiro. Non lo sente. Si ritrae sgomen­to. Si china ancora e finalmente si decide a chiamar­la con ineffabile soavità, quasi temesse di svegliarla) Ippolita, figlia!

Ippolita                         - (riapre gli occhi, s'illumina, tende le brac­cia innanzi a sé e nuovamente trasfigurata dalla gio­ia mormora) Eccomi Signore! (e reclina morta).

(Un coro celestiale).

 

FINE