Solo per due

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SOLE PER DUE

Commedia in tre atti

di ENRICO BASSANO

PERSONAGGI

MAX (27 anni)

ZITA (18 anni)

FEDERICO MAB, giudice a riposo

CLOTILDE, sua moglie

LIU',

FRANCO, loro figli

Dottor ZELLER

FRANZ,

ROBERT,

KARL, in­servienti dello Zoo

FANNY

BOGKY.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Lo studio di Fede­rico Mah. Aria pa­triarcale, grossa stu­fa alta e quadra a si­nistra, qualche qua­dro alle pareti. Li­bri, un tavolo da lavoro, sedie, pol­trone. Qua e là ma­ioliche a fiorami.

Interno severo, con qualche tocco riden­te: un fascio di fiori rossi, di campo, in un grosso vaso, e cortinaggi chiari.

 (Federico Mab [sessanta anni], con una lunga pipa tra i denti, indossa un abito scuro di velluto: qual­che cosa di mezzo tra il possidente di campagna e l’artista. Cravatta sciolta, colletto candido rovesciato. E’ affondato in una poltrona, ha accanto una sedia con una scatola di pastelli, aperta. Disegna su di un grosso cartone tenuto sulle ginocchia. È soddisfatto del lavoro.

Il dottor Zeller [cinquantacinque anni] gli è di fronte, entro un'altra poltrona. Grassone, tondo, capelli bianchi, baffi a spazzola, pure bianchi. E' in nero, cravatta bian­ca: l'uniforme dei vecchi dottori. Fuma una pipetta corta, all'inglese. Si capisce che il dottor Zeller è di casa).

Zeller                          - (dopo un silenzio, occupato osservando Fede­rico) Contento, eh?

Federico                      - (indicando la fronte) Qui.

Zeller                          - E non escono?

Federico                      - (indicando il disegno) Eccone una.

Zeller                          - (alzandosi, con un po' di sforzo) Vediamo. (Va a collocarsi dietro lo schienale della poltrona di Federico) Bello. Bellissimo. Un meta...

Federico                      - Ti ho detto che non conta. Guardalo. Go­ditelo senza fiatare.

Zeller                          - Scusa. (Indicando) Quella è una probo­scide?

Federico                      - Quasi. Un prolungamento del labbro su­periore, divenuto prensile. Ma senza eccessivo sviluppo. Non una deformazione: una caratterizzazione.

Zeller                          - Ah! E... sul capo?

Federico                      - Un casco di piume: rosso giallo verde.

Zeller                          - (senza convinzione) Magnifico. E... striscia?

Federico                      - Striscia. Ma può anche camminare: è munito di cinque paia di zampe retrattili. E nuotare: quattro pinne, dentro o fuori, a volontà.

Zeller                          - (e. s.) Magnifico.

Federico                      - L'hai già detto. Ma, siccome lo dici male, ti prego di tenerti il tuo giudizio.

Zeller                          - Hai torto. (Ritorna a sedersi sulla poltro­na). Ti ammiro moltissimo. Non come uomo di scienza, natura unente.

Federico                      - La scienza.»

Zeller                          - Già. Roba da binari. (Facendo finta di al­lungare un calcio) Via. Ammiro la tua fantasia.

Federico                      - Quella sì. L'unica cosa che è rimasta gio­vane, in me. Un capitale intatto.

Zeller                          - Fantasia... costruttiva.

Federico                      - Anche questo lo dici male. Tu non credi alle qualità concrete della fantasia?

Zeller                          - Credo a ciò che vedo.

Federico                      - (mostrandogli il disegno) Credi?

Zeller                          - Oh, quello...

Federico                      - Devi credere: almeno fin entro i limiti di questo cartone.

Zeller                          - Diremo: fantasia grafica.

Federico                      - No, caro. Qualche migliaio di anni fa, press'a poco così era la fauna che popolava la crosta del mondo. Oggi comincio a rifarla a modo mio. Con un po' di inventiva in più. Preparo i figurini per la moda animale, di qui a due o tremila anni. Zampe re­trattili, come le ruote degli aeroplani anfibi. Pinne uti­litarie. Labbra prensili. La materia vivente piegata al bisogno e al caso. Sul capo e sul dorso grandi ciuffi di penne multicolori, mobili, morbide, plastiche. Fantasia!

Zeller                          - Chiodo!

Federico                      - (conte ragionando tra se) Non si può farne a meno. E' come non vivere. (A Zeller) Togli il colore alle piante e ai fiori, alle albe, ai tramonti... Che resta?

Zeller                          - (stringendosi nelle spalle) Mah! Il sole che nasce e che muore, un albero, uno stelo...

Federico                      - Vedi? Non dici: un tramonto. Dici: il sole che muore. Non mi presenti « un fiore », ma « uno «telo »... E' tutt'altra cosa. (Piano) E' triste. Anch'io, sai, ho vissuto senza fantasia. Per tanti anni: tutta la vita.

Zeller                          - (sorridendo) Sui binari».

Federico                      - Sui binari, sì. Per quarant'anni. Ogni gior­no, ogni pensiero: sui binari. Ho giudicato       - per tutta la vita - gli uomini e le loro azioni - le loro cattive azioni: le più sincere - senza scartare di un sol milli­metro dai binari del Codice. Senza pesare un milli­grammo con altre bilance che quelle della Legge. (Pausa). E per me, che cosa è rimasto? Non un pensiero, non un'azione mia. Niente. Non ho vissuto: né per me, né per gli altri.

Zeller                          - Adesso, te ne accorgi?

Federico                      - Tardi, lo so. Tardissimo. (Pensa). Mi ven­dico, a modo mio. E ricreo il mondo. Preparo la fauna nuova.

Zeller                          - E l'uomo? Hai pensato...

Federico                      - Quello no. Vedi. Oggi ho dato vita al metaprotosauro.

Zeller                          - Un caro animaletto.

Federico                      - Grazie. Ma senza ironia, ti prego. Per do­mani penso ad un siluripposauro, con il corpo a siluro, di pelle tesa, lucidissima, come il duralluminio. La testa di cavallo, eretta, fierissima. E le ali seriche, tutte rosse, leggerissime, immense, tese controvento, gonfie... (Soc­chiude gli occhi, getta il capo indietro) Bellissimo!

Zeller                          - Oh! Addirittura spettacolare.

Federico                      - (riaprendo gli occhi) Ma l'uomo no, non mi riesce d'immaginarne uno nuovo: l'ho già troppo visto e conosciuto. Non mi riesce.

Zeller                          - Meno male.

Federico                      - E' lì, fermo, macignoso, incrollabile, Non lo si rimuove più, dalla sua fissità secolare. E' divenuto la statua di se stesso. Ha il tuo corpo...

Zeller                          - Poveretto.

Federico                      - ...la testa di mia moglie, lo sguardo dei miei figli...

Zeller                          - E... di tuo, scusa?

Federico                      - L'immobilità. Coagulato, come me. Nello stampo. Giudice, per quarant'anni. Per quarant'anni: giuro di dire la verità, tutta la verità... L'accusa, la di­fesa, le lacrime, i testimoni. E il Codice, la Legge: alti, immensi, i grattacieli dell'umanità. (Pensa, poi, quasi con ira) Che cosa ho costruito io, nella vita? Che ho costruito?

Zeller                          - Mah! Una figlia, un figlio.»

Federico                      - Come tutti gli altri, o peggio,

Zeller                          - Ah, bè! li avresti voluti in duralluminio, con le labbra prensili, le gambe retrattili, i ciuffi di piume?

 

Federico                      - Come gli altri. Aridi, freddi, egoisti...

Zeller                          - Sicché, la tua famiglia...

Federico                      - Meglio non parlarne. (Smettendo di dise­gnare, togliendosi la pipa dai denti) Lo sai che cosa è mancato alla mia vita? Il colore, caro, e il calore. Freddo e buio: sempre. Dentro e fuori. (Guardando il disegno) Mai un bel colore acceso come questo arancione, nella nostra casa. Mai un bel ciuffo di piume vive come queste, issate sul nostro tetto».

Zeller                          - (dopo averlo squadrato) Come medico, vedi, mi desti qualche preoccupazione. Eh, sì, credi, alla tua età, un uomo serio e posato, che è giunto     - scusa, sai - quasi al termine della vita, e ad un tratto si abbandona a questi estri, a queste pazzie colorate), non può non sol­levare apprensioni. Ma come uomo, e come amico, mi pare di capirti un po'. (Abbandonandosi ancora più sulla poltrona e seguendo le volute di fumo) Eh, bella vita. Tu, giudice; io, dottore. Tu... che so, poeta mancato. Io... (volgendosi a guardare Federico che ha ripreso a dipingere) Lo sai, tu, che cosa avrei voluto1 fare? a vent'anni?

Federico                      - E chi se ne ricorda più...

Zeller                          - Sfido, non ci conoscevamo ancora. Bè! Avrei voluto cantare.

Federico                      - (con un sorriso di stupore) No! Tu?

Zeller                          - Cantare. Avevo una bellissima voce tenorile.

Federico                      - E perché non l'hai fatto?

Zeller                          - Questo (indica il ventre). Già grasso, grosso così. Ero lo zimbello di tutti i miei compagni. Mi chia­mavano « tutta-sugna ». E tutta sugna sono rimasto... L'a­nima magrissima, e il corpo... Ho avuto pietà di me stesso. Ho rinunciato alla voce, alla carriera, e sono di­ventato dottore.

Federico                      - Anche tu senza fantasia.

Zeller                          - Ma con molta comprensione. Un cliente magro, vedi, (sbirciandolo) come te non mi interessa. Non lo tengo in considerazione.

Federico                      - Alla larga. E soltanto adesso aspetti a dir­melo?

Zeller                          - Lo curo con tutta coscienza, intendiamoci,..

Federico                      - (con sollievo) Ah!

Zeller                          - Ma senza passione. Diciamo: non mi imme­desimo delle sue sofferenze morali e fisiche. Ma i grassi, quelli sopra il quintale... Ah, quelli sì, sono clienti, caro mio. Combattere il male che si annida entro montagne di adipe, inseguire un dolore intercostale da una valle di grasso all'altra, individuare un agguato entro uno strato alto così di pannicolo adiposo... Queste sono sod­disfazioni.

Clotilde                       - (irrompendo affannata) Federico, Federico, quella cretina ne ha fatto un'altra delle sue. E' una di­sperazione! (A Zeller) Ah! Zeller, siete qui? Giusto voi: ditemi un po' «e è possibile, per la cocciutaggine di quest'uomo (indicando Federico), permettere che una ra­gazza, una sconosciuta, una sciattona di prima forza, devasti, distrugga, annienti, giorno per giorno, una casa in­tera, una famiglia!

Federico                      - (fa cenno di voler parlale).

Clotilde                       - Zitto, tu. Diresti una sciocchezza.

Federico                      - Ma se non ho parlato.

Clotilde                       - Appunto. (A Zeller) Sentite, Zeller. Voi siete amico nostro (Zeller s'inchina), ci siete tra i piedi dalla mattina alla sera (Zeller e. s.), sapete tutto e cono­scete tutto: di lui, di me, dei miei figli. Vi pare che la nostra sia una famiglia da distruggere?

Zeller                          - (accenna a voler parlare).

Clotilde                       - No, ecco.

Federico                      - (pronto) Non ha parlato. Non si è ancora pronunciato.

Clotilde                       - Ha detto certamente: no. Ed è quello che penso io. Ma andate a farlo capire a lui. Macigno. (A Federico, furente) E' partita la brocca del servizio fore­stieri, quella azzurra a fiorellini rosa: un pezzo di va­lore. Capito?

Federico                      - (calmo) Capito.

Clotilde                       - E che ne dici?

Federico                      - Io? Nulla.

Clotilde                       - Nulla. Avete sentito? (A Zeller) E sapete perché? Perché ha preso a proteggere, quella scimunita di Zita, una buona a nulla che il mediatore mi ha messo in casa con il preciso intento di farmi dispetto. E c'è riuscito. Il signore la protegge. Quella dove tocca rompe. Piatti, bicchieri, il vaso di Boemia, un vetro della cri­stalliera, la cocoma del caffè... Ha perfino forato il sa­movar, a forza di lustrarlo.

Federico                      - Buona volontà.

Clotilde                       - (a Zeller) Sentite? Guai a toccargliela. Se avessi rotto io tutta quella roba...

Federico                      - Sarebbe un'altra cosa. Potresti averlo fatto apposta.

Clotilde                       - Ma sentite, dottore! Io non resisto più, I miei nervi non resistono. Mi ammalo.

Federico                      - C'è qui il nostro caro Zeller.

Clotilde                       - Ma no, non te la voglio dare vinta.

Federico                      - E allora non ti ammalare.

Clotilde                       - Zeller, voi siete testimone.

Zeller                          - (con l'aria di scusarsi) Signora Clotilde...

Clotilde                       - Un testimone ci dev'essere. Ascoltatemi, perché poi non voglio che qualcuno mi smentisca. Av­verto. O via quella ragazza...

Federico                      - (tranquillo) ... o via tu. Fatto.

Clotilde                       - Come sarebbe a dire?

Federico                      - Ho completato il tuo pensiero.

Clotilde                       - Dottore, ditemi. E' possibile che un uomo di quella età, che ha fatto un vita morigerata (con inten­zione) anche troppo... adesso, sulla sessantina e più, si senta attratto verso... sì, insomma, verso appetiti insani?...

Federico                      - (ride di sottecchi).

Zeller                          - Ma che domanda... Qui il dottore non c'en­tra. L'amico piuttosto. E quello può garantirvi...

Clotilde                       - Non serve; dell'amico non so che far­mene. L'amico di un uomo ammogliato può diventare, troppo comodamente, un complice. (A Federico) Ma ba­da, sai. Bada, tu che ridi come di chi l'ha fatta franca­lo, quella ragazza di là, te la spedisco fuori a calci...

Federico                      - (alzandosi di scatto) Questo non lo farai.

Clotilde                       - Vedremo.

Federico                      - (mettendosi a passeggiare) Non lo farai. Zita è una povera creatura che si è ambientata in casa nostra, e, bontà sua, ci sta bene. Si è affezionata. Più a me che a te...

Clotilde                       - Lo confessi?

Federico                      - Con orgoglio. Ma non come credi tu. Af­fetto buono, cara, di quello che non saresti capace; di provare tu, e nemmeno i tuoi figlioli. Un sentimento pa­terno, il mio. E filiale, il suo. Mi piace di pensarla sotto il mio tetto, al riparo, come un uccellino intirizzito che si è messo al riparo sotto la gronda, durante il temporale. E così? Lo sai che cosa succede alle servette la­sciate sole, in questa nostra città. Quante ho dovuto giudicarne? Per furto, per adescamento e... peggio? Qui è, qui rimane.

Clotilde                       - Avete sentito, Zeller, che avvocato difen­sore?

Zeller                          - (cercando sorridere) La professione, cara amica...

Clotilde                       - Di giudice, semmai. Ma lui l’ha dimenticata, la odia, adesso. Protezione della giovane. Arie pa­terne. A dargli retta, mi dovrò prendere in casa tutte le servette, dai quattordici ai diciott'anni, della città, (alzando le braccia) Ah, chi me l'ha appiccicata questa...

Federico                      - Il mediatore: l'hai detto tu.

Clotilde                       - Imbroglione. La vedrà.

Federico                      - (andando alla porta) Zita!

Clotilde                       - La vuol consolare. (A Zeller) Vedrete la scena. (Piano, andando accanto a Federico) Dovresti avere un po' di ritegno, almeno quando c'è gente estranea.

Federico                      - (a voce alta) Zeller è un amico. Eppoi io sono uno svergognato. Comparirò presto davanti al correzionale: a porte chiuse. (Chiamando) Zita!

Clotilde                       - (con Te mani nei capelli, si lascia cadere sulla poltrona già occupata da Federico. Vede il disegno, lo afferra con ira. A Zeller) E questi? Li vedete, questi orribili sgorbi? Che ne dite? Ma già, non siete uno specialista per le malattie mentali.

Zita                             - (appare sulla soglia. E' una servetta di diciotto anni, biondina, magra, dal viso affilato, con due grandi occhi sbarrati. Porta i capelli annodati « a tuppo » sul sommo del capo, ha un grembiule da fatica, rialzato da un lato. Due ciabatte ai piedi. Voce dolce, delicata. Un'a­ria tenera e timida, da cane che teme le pedate) Non avevo sentito...

Clotilde                       - (ridacchiando) Già!

Federico                      - Entra, cara. Che facevi, adesso?

Zita                             - (facendo l'atto) I pavimenti. Su e giù.

Federico                      - (con intenzione) E poco fa?

Zita                             - La camera dei forestieri.

Federico                      - - Ho sentito un certo rumore...

Zita                             - (incominciando a piangere) Sì, signore, ma non l'ho fatto apposta... Sono stata una sbadata: ho rotto la brocca rosa.

Clotilde                       - (scattando) Azzurra!

Zita                             - (aumentando il pianto) Sì, azzurra.

Federico                      - Bene...

Clotilde                       - (gli dà un'occhiataccia).

Federico                      - Cioè, male. Ma non finirà il mondo per questo. Vieni qui. Senti.

Zita                             - (sempre tra i singhiozzi e le lacrime, in cre­scendo) So già quello che il signore mi vuol dire. Anche la signora me l'ha detto. Sono una disattenta, una stordita, se continuerò così mi dovranno mandare via, Voi avete ragione. Ma io... Ma io non lo faccio apposta. Quando ho un oggetto tra le mani, lo stringo forte, così, ma lui scappa, scappa via, cade, si rompe... Sono tanto disgraziata. E ci sto così bene, qui, da voi. La signora è così buona...

Federico                      - (a Clotilde) Capisci?

Clotilde                       - Tutte bugie!

Federico                      - Eh! lo so.

Zita                             - (c. s.) I signorini».

Federico                      - Lascia andare.

Zita                             - (c. s., quasi gettandosi nelle braccia di Federico) E voi, mio buon padrone...

Clotilde                       - Vediamo: anche l'abbraccio!

Zita                             - (con un singulto sempre crescente) No, per ca­rità, non mi mandate via! Pagherò: mi tratterrete tutta la mesata. Lasciatemi qui, ancora per un po'. Sono tanto sola. No, non mi mandate via... (fa qualche passo, come per aggrapparsi p qualcuno, e poi cade a terra svenuta).

Federico                      - (ricevendola tra le braccia) E' svenuta!

Zeller                          - (aiutando Federico a sollevarla) Di là, nella sua camera.

Clotilde                       - Sciocchezze. Finge. Lo fa per impietosirci.

                                    - (Federico e Zeller escono, portando sulle braccia Zita.

Entrano Liù e Franco, giovani, eleganti, in abiti sportivi).

Liù                              - Che cosa succede? Svenimenti?

Franco                         - Chissà a che ora il tè, adesso.

Clotilde                       - E? quella stupida oca. Ha rotto la brocca della camera dei forestieri. E per impietosire vostro padre...

Liù                              - Bisognerebbe farla rinvenire a schiaffi, quella unirli osa.

Franco                         - Figuratevi, c'è Zeller, cuore tenero anche lui.

Clotilde                       - Le belle amicizie di vostro padre.

Franco                         - Già, come se Zeller fosse uomo da rendersi utile. Un padre dovrebbe coltivare soltanto delle cono­scenze capaci di poter servire alla carriera dei figli, no? Fosse diplomatico, politico, consigliere di ambasciata... Al domani della laurea potrebbe essermi utile. Ma un dottore...

Liù                              - E di quel calibro.

Clotilde                       - Vostro padre! è senza testa. In tanti anni, dico, gli sarà capitata l'occasione propizia per migliorare le sue condizioni? Ma lui, niente. Tutti i suoi colleghi, senza compiere atti disonesti, si sono messi a posto per la vecchiaia. Proprietari di case e di terreni, buoni matrimoni per i figli, un posto rilevante in società. Lui, niente. Disegna queste stupide bestie. (Tra i denti) E peggio...

Liù                              - Per fortuna che ci pensiamo da noi a farci strada. Sai? (A Clotilde) Sono stata invitata al ballo dei Consolati. La più importante festa dell'anno. Verrà anche Franco.

Franco i                       - Con lo smoking vecchio? Non Io sognare.

Clotilde                       - E' dell'anno scorso.

Franco                         - Taglio antiquato.

Liù                              - Oh, non cominciare a piantar grane.

Clotilde                       - Che modo di esprimerti, Liù? Non mi piace. Piantar grane...

Liù                              - Non sei al corrente, povera mamma. Ma è così che si dice. E' una frase di moda. L'ho sentita dire tante volte al tennis. E da che fior di gente.

Federico                      - (entrando preoccupato e dispiaciuto dal con' legno dei familiari) Non vi siete fatti vivi. Bravi. (A Clotilde) Da te, un bell'esempio.

Clotilde                       - Oh, poi...

Federico                      - E’ ancora svenuta. Ho dovuto cercare l'aceto. Ce n'era soltanto un goccio.

Liù                              - Così a tavola saremo senza.

Federico                      - E adesso Zeller la visita. Ancora non è rinvenuta.

Clotilde                       - Sciocchezze.

Federico                      - Questo ce lo dirà Zeller. Per ora è sve­nuta. (Guardando Clotilde con intenzione) E non come usavano farsi venire gli svenimenti certe donne, quando le discussioni col marito prendevano una brutta piega.

Clotilde                       - Oh, poveretto; adesso te ne sei accorto?

Federico                      - Ti sbagli. Anche allora me ne accorgevo, ma mi faceva comodo, il tuo finto svenimento, per filar­mela in punta di piedi.

Clotilde                       - (sottovoce, afferrandogli un braccio) Queste cose, davanti ai ragazzi... Vergogna.

 

Federico                      - Imparano. Esperienze per l'avvenire.

Clotilde                       - (ironica) Bell'avvenire.

Liù                              - (interrompendo) Papà, sabato vado al ballo dei Consolati. Mi ci vorrà un vestito adatto.

Franco                         - E a me lo smoking.

Federico                      - Tutto per il ballo?

Liù                              - Per il ballo: così debbo andare?

Federico                      - E nessuno, qua dentro, si vuol piantare in testa che io sono un funzionario a riposo, e non un pos­sidente!

Liù                              - Hai ragione. Ho fatto male ad accettare. Andrò al ballo delle sartine e dattilografe.

Federico                      - Brava. Forse imparerai qualche cosa di più utile.

Liù                              - (bizzosa) E invece no.

Federico                      - Tutta tua madre. Bravissima. E intanto, di là, quella piccola™

Clotilde                       - (ironica) Vuoi andarla a visitare anche tu?

Federico                      - Ci sarei rimasto, in questo caso. Non sono tranquillo. Era bianca come la cera.

Clotilde                       - La madonnina.

Federico                      - Puoi dirlo.

Clotilde                       - Una sciattona simile.

Franco                         - Per questo... è fine: non sembra nemmeno una servetta.

Federico                      - Toh! E le tue contesse e marchese?

Franco                         - Si fa così per dire. Un giudizio.

Clotilde                       - (a Franco) Ho capito: e tu andrai al ballo della servitù. Bei gusti.

Federico                      - Quando c'è sangue azzurro nelle vene».

Clotilde                       - Non me ne vergogno: mio nonno era duca. Se io non sono duchessa, è perché mia madre non ha saputo conservarsi il titolo. Ma è sempre) preferibile un duca, anche se i tempi cambiano, ad un usciere di tribunale.

Federico                      - Fortuna che ti sei fermata al primo gradino.

Clotilde                       - Ma potrei salire gli altri.

Federico                      - Fai pure. Arriverai col soffio cardiaco.

Liù                              - (abbandonata su una poltrona) Chissà che al ballo dei Consolati non incontri qualcuno...

Franco                         - Il figlio del re.

Liù                              - Stupido. E tu, chi vorresti?

Franco                         - L'erede del re dei prosciutti.

Liù                              - Untume.

Franco                         - Bigliettoni. Unti, ma bigliettoni. E l'unto preserva dalla ruggine e da tanti altri guai.

Liù                              - Io vorrei un conte. Che sapesse il baciamano alla perfezione. Non come i rimpannucciati d'oggi, che fanno finta di baciarla, oppure c'incollano le labbra su, come se la mano fosse una caramella.

Federico                      - E che ne sai, tu? Baciano la mano anche a te, al tennis?

Franco                         - (con superiorità) Ma sì, papà, oggi si bacia la mano anche alle ragazze... quando piacciono.

Clotilde                       - Tempi nuovi. Ai miei...

Federico                      - (baia gesto, come dire: lascia correre. E va alla porta in ascolto) Niente. (A Clotilde) Sarebbe bene che tu andassi a vedere di che si tratta. Zeller è ancora là.

Clotilde                       - Ci si trova bene, il tuo amicone; ne avrà per un pezzo. A una certa età...

Federico                      - Ma è un'idea fissa.

Clotilde                       - Oh, li conosco gli uomini, adesso, io. Sono più pericolosi nella parabola discendente...

Federico                      - (s'inchina) Grazie, anche a nome dei coe­tanei.

Clotilde                       - (scattando) E finiscila, con la tua aria di prendere in giro tutto e tutti. Dovresti vergognarti. In fondo, sei stato qualcuno. E adesso? Riempi di stupidi mostri quei tuoi inutili cartoni, passi le tue giornate al Giardino zoologico.

Federico                      - Si sta meglio allo Zoo che a casa. Bestie divine. Bambini incantevoli. Soldati allegrissimi...

Clotilde                       - (con intenzione) E servette, balie, fan­tesche...

Federico                      - Anche. Tutta brava gente. E sono grande amico del fotografo e del venditore di noccioline. Mi sa­lutano con ossequio, mi parlano con un rispetto...

Clotilde                       - Sei un rimbambito! E buon per te che questo maledettissimo Zoo è qui a due passi, se no...

Federico                      - Prenderei il tramvai.

Clotilde                       - Sì, con i margini di cui disponiamo...

Zeller                          - (entra. Ha una strana aria sorridente; riempie la pipa di tabacco) Eccomi qui.

Federico                      - Dunque?

Zeller                          - Niente di grave.

Clotilde                       - Una finta, siate sincero.

Zeller                          - Tutt'altro. W roba che non si può fingere.

Federico                      - Ma che cos'ha?

Zeller                          - (togliendosi la pipa di bocca, e facendo cenno ai due ragazzi).

Federico                      - Di' pure. Sono emancipati: vanno al tennis.

Zeller                          - (sedendosi, tranquillo) E' incinta.

Federico                      - Eh?

Clotilde                       - Che cosa dite?

Zeller                          - (calmo, quasi sorridente) E' in-cin-ta. Chiaro?

Clotilde >                   - Ma no!

Zeller                          - Ma sì, signora. Quarto mese iniziato.

Federico                      - Questo, poi!

Clotilde                       - (a Federico) Tu, tu...

Federico                      - Io? Sei matta.

Clotilde                       - Macché! Dico, tu, tu, vedi, la tua protetta, che roba, che vergogna, che scandalo? Uno scandalo!

Federico                      - E non urlare!

Zeller                          -(sorridendo bonariamente, togliendosi la pipa di bocca) Quale scandalo, signora? Tutto naturalissimo. Il resto non conta.

Clotilde                       - Ma guardate con quanta calma...

Zeller                          - E quale differenza volete ch'io faccia tra una giovane sposa che ha il primo bambino, e una ragazza della stessa età che sviene perché sente i primi... (fa un cenno, come per dire: primi sobbalzi). Due giovani mamme: Dio le protegga.

Federico                      -Bravo, Zeller!

Clotilde                       - Ma che bravo! Qui non siamo all'ospedale, né alla maternità! Qui siamo in una casa onorata, e sotto il nostro tetto certe porcherie... (Risoluta) Fuori di qui, e subito.

Federico                      - Un momento. Prima di pensare a metterla fuori, bisogna pur sapere chi è stato, com'è andata...

Clotilde                       - E che vuoi fartene?

Federico                      - Ma è il nostro dovere. A me lo dirà.

Liù                              - La distrazione di qualche fornitore di casa. Il garzone panettiere.

Franco                         - Ma seha l'aria da scimunito.

Liù                              - Appunto. Uno scimunito e una deficiente. Bella razza. Per me, la caccerei corner una ladra.

Franco                         - Quando si saprà, saremo sulla bocca di tutti.

Clotilde                       - E che c'entriamo, noi?

Federico                      - Scusa, per questo, siamo i suoi padroni in un certo senso, i suoi tutori.

 

Clotilde                       - Bravo. Avrei dovuto accompagnarla, tutte le domeniche, al parco, ai giardini, al cinema?

Zeller                          - Inutile, signora. Quando debbono arrivare, i figli, arrivano lo stesso. Anche se Zita non fosse mal uscita di casa.

Clotilde                       - (con un grido) Ho capito. (Guarda prima il marito, poi il figlio) Sapete qualche cosa, e adesso non volete parlare. Ah, questa è una congiura.

Zeller                          - (semplice) Ma no, cara amica. Non mi avete capito. Io penso che quando un bimbo deve nascere, è scritto lassù. Come la morte. Per questo na­scono tanti bimbi anche senza il matrimonio. E' scritto. Mentre non è scritto, invece, la data del matrimoni. Non conta, non ha importanza. Nascere e morire.

Clotilde                       - (esplodendo) E dire bestialità. Ed è un dottore, che parla. Vergognatevi. Vuol dire che se mia figlia, mettiamo».

Zeller                          - Eh, sì. Se è scritto lassù».

Liù                              - (ironica) Non temere, mamma. Non è scritto, per me.

Zeller                          - Sicura?

Liù                              - Sicurissima. Avete della fantasia.

Zeller                          - (a Federico) Senti? Sarai contento.

Federico                      - Io vado ad interrogare Zita. Dovrà dirmi il nome di quel mascalzone. (Rimane un istante per­plesso; poi a Zeller) Che dici, l'affaticherà un inter­rogatorio?

Zeller                          - Bisogna vedere di quale grado...

Federico                      - Non scherzare. Non vorrei dovesse sve­nire una seconda volta.

Zeller                          - Ma va, vai pure. E cerca di farla parlare: i segreti sono sempre pesanti a portarli da soli.

Clotilde                       - E' inutile: se ha deciso di non parlare, non parlerà. E' testarda: io la conosco bene.

Federico                      - Bisogna provare.

Clotilde                       - E tu prova: ma t'avverto, qualunque cosa accada, ch'io in casa non ce la voglio più. Ci penserà il dottor Zeller a farla ricoverare alla maternità. E poi, scusa, ci sono i suoi di casa.

Federico                      - E' orfana, gli unici parenti sono quegli zii dai quali è stata quattro o cinque mesi fa...

Clotilde                       - (colpita) Di quanti mesi avete detto, dottore?

Zeller                          - Quattro, o poco meno.

Clotilde                       - (trionfante) Trovato! In campagna. E? avvenuto in campagna. Qualche contadinaccio. (Decisa) A casa, bisogna rimandarla, a casa. Subito. Le faccio fare fagotto. (S'avvia).

Federico                      - (fermandola) Prima deve parlare con me. Aspettate. (Esce).

Clotilde                       - E voi due, ragazzi, non avete nulla da fare?

Liù                              - Niente di meglio, mamma. Adesso stiamo a vedere come continua questo intreccio giallo-demo­grafico.

Franco                         - Ho un'idea: io punto sul figlio del por­tinaio. E tu?

Liù                              - Sul gobbino? Ma va. Piuttosto il garzone del fornaio.

Franco                         - Il gobbo, ti dico. O non hanno potentis­sime qualità... come dire... radioattive? Vero, dottore?

Zeller                          - (pacato) Non me ne intendo giovanotto. So soltanto che sono degli infelici. Come me. Per que­sto li compiango.

Liù                              - Siete infelice?

Zeller                          - Fisicamente, sì, cara Liù, e mi par chiaro. Ma non me ne dolgo eccessivamente. Resto in angolo morto, ad osservare. Ed osservando, imparo.

Franco                         - Sempre?

Zeller                          - Dipende da chi ascolto. Ma anche da una conversazione eciocca c'è sempre qualche cosa da im­parare.

Clotilde                       - Sapete che ci vorrebbe per mettervi a posto?

Zeller                          - Lo so. Una brava mogliettina, saggia, eco­noma, ottima donna di cucina... Me l'hanno già detto in cento, in mille, cara amica. Ma non posso accettare. Prima perché credo d'essere già abbastanza saggio io: e due saggi, sotto lo «tesso tetto, non possono vivere: la casa diverrebbe un manicomio. E poi perché una brava massaina mi preparerebbe degli ottimi pranzetti: ed io vivo a regime stretto. Come vedete...

Clotilde                       - Senza speranza.

Zeller                          - Spero per gli altri.

Liù                              - E’ accomodante.

Zeller                          - Questo no. E' tutt'altro che facile, e non concilia, di solito, che con una minima parte di uma­nità. Basta accontentarsi. (Seguendo il fumo detta pipa, quasi astraendosi dall’ambiente) In fondo ha ragione Federico. Bisogna ritornare a credere alle favole. (A Lia) Credete alle favole, piccola Liù?

Liù                              - (ridendo) Non le ho mai potute soffrire. Quan­do me le raccontavano, mi turavo le orecchie. Vero, mamma?

Clotilde                       - Io non te ne ho raccontate mai. Sarà stata la bambinaia.

Zeller                          - Male. Federico, se fosse re o ministro, im­porrebbe nelle scuole una nuova materia: favolistica. Costringere a credere. Cappuccetto rosso? Esistito. Il gatto dagli stivali? Autentico. La bella addormentata? Nome, cognome, paternità, data e luogo di nascita.

Liù                              - Caro Zeller, dimenticate l'epoca in cui viviamo.

Franco                         - Pieno novecento, dottore.

Zeller                          - Appunto: troppo pieno. Di tutto. Di mac­chine, dì rumori, di gente disincantata. Lo svuotiamo, per farci, noi vecchi, un po' di posto intorno.

Clotilde                       - E proteggere le servette, per divago.

Zeller                          - Anche. Se fossi ricco, vorrei mantenere a mie spese un pensionato, per raccoglierle, istruirle, e cercar loro marito, da allettare con una buona dote.

Clotilde                       - Già. Il lupo, quando invecchia...

Federico                      - (irrompe: ha uno strano viso attonito e rag­giante. Parlerà concitato, con tono forzatamente esaltato). Clotilde, Liù,

Franco                         - Ebbene? Ha parlato? Sen­tiamo.

Federico                      - Ha parlato.

Clotilde                       - Sentiamo: chi è stato?

Federico                      - Una cosa... una cosa da non credere. Da strabiliare.

Clotilde                       - (involontariamente interessata) E parla. Non sarà un segreto.

Federico                      - Quasi. Sentite. Bisogna che Zita non sap­pia che io vi ho detto tutto. Mi ha fatto giurare. Se no, non avrebbe parlato. Ha paura.

Clotilde                       - Paura dì che?

Federico                      - Di lui. Del responsabile.

Clotilde                       - Ah, c'è, un responsabile.

Zeller                          - (sorridendo) Era la cosa più certa, signora.

Liù                              - Insomma, chi è?

Federico                      - (con aria di mistero) Un alto, altissimo personaggio. (Stupore, curiosità si dipingono sul volto di tutti. Zeller dalla sua poltrona non smette di fumare. E guarda Federico con uno strano sguardo, attonito).

Clotilde                       - Ma va! Ti ha raccontato un mucchio di bugie.

Federico                      - Non ne è capace. Ci vuol altro, per in­ventare una storia come questa. E poi, con quale scopo? Com'è rimane.

Franco                         - Ma che cosa si sa dì preciso?

Clotilde                       - E dove, quando?

Federico                      - In campagna. Quattro mesi fa.

Clotilde                       - Ah, meno male» L'avevo detto, io, che quando è tornata da quella settimana di permesso era mutata?

Liù                              - Io non me ne sono accorta. Anzi, se dovessi dire, mi è sembrata più sciocca del solito.

Clotilde                       - Ma, insomma, che ti ha detto?

Federico                      - Ecco. (Raccoglie le forze ed inizia il rac­conto. Non dovrebbe essere difficile sorprendere un fa­ticoso senso di incertezza, in questo inizio, come di chi inventa li per lì. Ma nessuno lo avverte. Tranne Zeller, che guarda incuriosito e divertito il novellatore). Nella casa di campagna, appena giunta, la zia le aveva as­segnato una cameretta a pianterreno, accanto al pollaio. La finestra porgeva sulla sponda erbosa del fiume, tutta fiorita di ginestre. Fin dal primo giorno incominciò la battitura del grano, lavoro pel quale avevamo (a Clo­tilde) se ben ricordi             - concesso il permesso a Zita. Sul far della sera, come d'uso, i contadini e i battitori si radunarono a cena comune, festeggiando poi, con il solito ballo a suon di fisarmonica e di violini, la mie­titura. Giungevano ragazze e giovanotti dai casolari vi­cini, con fiori tra i capelli e fastelli in mano. Un giorno arriva sull'aia una comitiva di signori, a cavallo, capi­tanata da un bellissimo giovane. (Prendono parte, ri­dendo e scherzando, alla battitura, e poi si fanno in­vitare, tra la ridente confusione dei contadini, al ban­chetto e alle danze serali. Il giovane capo della co­mitiva mette gli occhi su Zita, lavora accanto a lei, le è vicino di tavola, le mesce da bere, apre con lei il ballo, non la lascia un minuto tutta la sera. Zita - è facile intuirlo, no? è stordita da tutto ciò. A ballo finito, la comitiva parte, lasciando - badate - una borsa piena di danaro allo zio di Zita. La ragazza va a dormire, mezzo frastornata dal vino, dal ballo e dallo straordinario incontro. Ed ecco che ad un tratto, nella notte, un uomo salta nella sua camera, si ap­pressa al suo letto, la bacia. Zita vorrebbe gridare, quello le mette una mano sulla bocca, e la ragazza riconosce, tra lo spavento e lo stupore, il giovane si­gnore della comitiva. E' facile intuire il resto, no? (Federico si asciuga il sudore, guarda intorno gli ascol­tatori). Prima dell'alba il giovane parte, dopo aver giu­rato a Zita - e lei, nel ripetermelo, giura di dire tutta la verità, come davanti alla Madonna - di non dimenticarla, e di pensare a qualunque conseguenza del suo gesto da gentiluomo, largamente, come può esserlo un principe. E un principe è infatti: un mezzadro l'a­veva riconosciuto fin dal suo primo apparire: Gualtiero Ruprecht, principe di Kowenstein!

Liù                              - Un Ruprecht!

Clotilde                       - (dopo un istante di perplessità) Ma via! Questo è un monte di fandonie! Le ha inventate quella sciocca per darle da bere a te, perché ha capito che qui sei l'unico a crederci.

Federico                      - Lo dici tu. Ma se avessi ascoltato il suo racconto!

Clotilde                       - (facendo l'atta idi avviarsi) Voglio un po' sentire io...

Federico                      - (trattenendola) Guasteresti tutto. Ho pro­messo che non vi avrei detto una parola. Non vuole si sappia. Ma, scusate, non è buon per noi stare zitti e trattare bene la ragazza? Sapete che cosa è toccato ad altre figliole messe in queste condizioni da qualche signorone appunto come i Ruprecht? Quattrini a pa­late. E gioielli. E favoritismi d'ogni genere. Dunque: noi teniamo Zita in casa, la trattiamo umanamente, come se fosse una figliola nostra. Poi... Sarà ricca, un giorno, no?

Franco                         - Si stenta a credere.

Liù                              - Un uomo come quello, con una servetta...

Federico                      - (sorridendo) Capricci: la storia ne è piena.

Clotilde                       - (ribellandosi) Non è possibile. E' tutta una bugia. E i fatti? Non c'è un fatto reale, tangibile, una prova!

Federico                      - (smarrendosi) Ma quale fatto, quale pro­va? Ce n'è una di là... (A Zeller) Vero, Zeller?

Zeller                          - (annuisce, con la mano).

Clotilde                       - Ma sì, quella si. Sono tutte le storie del principe, che non posso credere. Una colossale fantasia.

Liù                              - Tutte invenzioni di cervelli esaltati. Adesso le serve vogliono sposare i principi.

Franco                         - Ai nostri giorni! Ci vuol altro.

Federico                      - (smarrito) Eppure...

Zeller                          - (si alza in piedi: ha l'aria risoluta di chi ha preso una solenne decisione. Mentre parla, Federico lo guarda prima con aria allibita, poi con sorridente sere­nità) Allora parlerò anch'io, visto che qui i vincoli del giuramento sono soppressi. Ecco una prova (trae di tasca un anello). Quando ho visitato Zita, le ho trovato al collo, sospeso ad una cordicella, questo anello. Me lo ha affidato nel timore di essere inviata subito all'ospe­dale. Glielo ha lasciato il principe, prima di uscire dal­la sua camera...

Federico                      - ... per la finestra...

Zeller                          - (sorridendo) ...si capisce: per la finestra.

Clotilde                       - (ha preso l'anello, lo osserva) Un rubino! E' magnifico!

Liù                              - Un gioiello superbo! Che luce! Che grossezza!

Franco                         - Un capitale.

Federico                      - (senza fiato) Avete visto? Adesso non du­biterete più.

Clotilde                       - Lo conserveremo noi, questo...

Zeller                          - Certamente.

Liù                              - Un gioiello così, ad una serva!

Zeller                          - Ad una mamma. Non è più la stessa cosa.

Clotilde                       - Questo è giusto, caro dottore. Le mamme non sono più ne serve né signore: sono soltanto mamme.

Federico                      - (guarda Clotilde, stupito) Tu...

Clotilde                       - (scattando) E che c'è da guardarmi? Ti ho forse mai dimostrato' di avere dei sentimenti da can­nibale?

Federico                      - Mai, cara. Un angelo.

Clotilde                       - Vado a riporre l'anello. Non si sa mai.

Federico                      - E silenzio con Zita. Non vorrei ci scap­passe, proprio adesso.

Clotilde                       - Andrò a vedere se si è rimessa. E stasera sarà bene mandarla a letto presto. (Esce).

Franco                         - (avviandosi, a Lia) Che somma credi po­trà valere quel rubino?

 Liù                             - Non saprei: non ne ho mai veduto, dei cori grossi, io... (Escono).

Federico                      - (di scatto, a Zeller) Ma tu, dimmi un po',

Zeller                          - (sorridendo) Zitto. Possono udire. C'è tem­po. (Siedono sulle due poltrone, come all'inizio             - (Tatti)).

Federico                      - (dopo una pausa, passata nel guardare in­nanzi a sé, riprende il disegno, ricomincia a lavorarlo).

Zeller                          - (accende ancora una volta la pipa e poi, spor­gendosi verso Federico, sottovoce, con sorridente aria furbesca) Sicché, un principe?

Federico                      - (a voce bassa, guardando ancora innanzi a se) Un principe.

Zeller                          - (c. s.) Come nelle favole?

Federico                      - (c. s.) Come nelle favole.

Fine del primo tempo

ATTO SECONDO

La stessa scena del primo atto.

(E' mattino. La scena è vuota. Poi, dalla comune, en­tra Max seguito da Zita. Max è pallido, ha il viso del l'uomo che ha passato una notte insonne. Veste la di­visa di bassa forza di capo guardiano dello Zoo: giacca e pantaloni kaki, berretto di eguale colore, con visiera, e galloni rossi. Zita non ha mutato l’abito del primo atto).

Zita                             - (timorosa, affannata) Max, che grossa pazzia è questa! Tu mi farai cacciar via di qui.

Max                            - Smettila. Voglio parlare al tuo padrone.

Zita                             - E' sotto la doccia.

Max                            - Fa l'orso bianco. Bene. Poi la smetterà.

ZrTA                           - Gli altri sono usciti: sono andati alle nozze di un'amica della signorina.

Max                            - Non me ne importa, degli altri. Voglio par­lare con il consigliere.

Zita                             - (timida) Giudice.

Max                            - Sciocca. Anche consigliere. Lo conosco: è sempre davanti alle gabbie, con il dottor Pancione.

Zita                             - (c. s.) Dottor Zeller.

Max                            - E' un pancione, e basta. (Sbirciandola) Ti ha visitata?

Zita                             - Sì.

Max                            - Ti ha veduta tutta...

Zita                             - (coprendosi il viso) E' un dottore.

Max                            - Quando mi capiterà a tiro, gli ficcherò la te­sta nella gabbia delle iene. Rideremo. Il pancione!

Zita                             - Max! E' tanto buono, il dottore. (Con tene­rezza) E' lui che mi ha detto...

Max                            - Proprio per questo. Ti ha raccontato una storia.

Zita                             - (con un grido) No! Non è vero.

Max                            - Avrei voluto dirtelo subito, stanotte, quando sei corsa a svegliarmi, per dirmi... Bè! Sarebbe stato meglio che tu avessi taciuto.

Zita                             - Non potevo, Max. Era un segreto troppo grosso. Tenerlo tutta sola, per me, fino a stamane.

Max                            - Le donne. Non possono far nulla, sole. Hanno sempre bisogno di noi. Così, quando credono di essere nei pasticci, ne scaricano una parte sulle nostre groppe. Scimmie.

Zita                             - (carezzevole) Non essere cattivo, Max. Sta­notte mi hai trattata male... Credo anche che tu mi ab­bili battuta.

Max                            - Non è vero.

Zita                             - Sì. Ma non importa. Sono cosi felice, quando ti son vicina. Adesso, poi... Mi dai una forza. Sei così

forte, tu...

Max                            - (con ingenua fierezza) Lo credo bene. Potrei essere il capo dei guardiani dello Zoo, se avessi le brac­cia come stecchi e il petto da uccellino? Ci vogliono pugni duri, per tenere a posto tutti, là dentro: bestie e uomini. (Gonfiando il petto, ergendo il capo) Dome­nica poi avrò la divisa nuova: - (pavoneggiandosi) az­zurra, con due bande gialle sui calzoni, e gli alamari, gli stivaloni lucidi, e il berretto con un palmo di cordoncino d'oro.

Zita                             - (sinceramente ammirata, giungendo le mani)

Gesù!

Max                            - (c. s.) E quando suonerà la banda, passeg­gerò davanti alle gabbie dei leoni e delle tigri. (Dura­mente, cambiando tono) E tu mi farai il regalo di non fermarmi. Intesi?

Zita                             - (timida) Certo. Ma potrò guardarti, almeno?

Max                            - (c. s.) Un po'! Ma voglio essere libero di an­dare e venire, senza trovarmi sempre te appiccicata alle costole. Se no ti faccio filare.

Zita                             - Sarò buona. Non ti accorgerai neppure di me. Un salutino, appena. Un salutino si, vero?

Max                            - Sciocchezze. Che vuoi fartene di un saluto?

Zita                             - Fa bene al cuore. Poter pensare: ecco, quell'uomo là, che comanda a tutto lo Zoo, che tutti guar­dano e ammirano... (Con un soffio) Quell'uomo là con le bande gialle, gli stivaloni e tutto quell'oro sul ber­retto, che comanda alle tigri e ai leoni... E' Max, il mio Max...

Max                            - (duro) Che « tuo » Max. Non sono idi nessuno. Si compra un uomo, di', mi hai comprato?

Zita                             - Scusa. (Quasi piangendo) Si dice così, quando ad una persona si vuole...

Max                            - E tu dici di volermene?

Zita                             - (pronta, ardente, gettandogli le braccia al collo) Sì, tanto.

Max                            - Non me ne importa niente. Non so che far­mene, del tuo bene.

Zita                             - Perché dici questo? Lo so, lo fai per farmi piangere. Ma non devi: è da cattivi.

Max                            - Non ho mai detto a nessuno di essere buono, io. Sono pessimo, io, e non posso soffrire i buoni. I buo­ni sono deboli, con le ossicino tenere, e il cuore col fiato corto. Tutti paurosi e senza muscoli.

Zita                             - Questo credo non sia vero, Max. Si può essere forti e buoni insieme.

Max                            - Storie. Guarda il leone. Soltanto se lo fissi ti salta addosso.

Zita                             - Ma non è cattivo. E' fatto così.

Max                            - E' forte.

Zita                             - Si capisce. Bisogna essere forti, hai ragione tu. Anche per poter difendere le proprie creature... No?

Max                            - Credo di sì.

Zita                             - (stringendogli un braccio, baciandogli una ma­no, timorosa ed incerta) Max, Max... Noi ne avremo

una.

Max                            - (ribellandosi) Ti ho detto che non può essere vero. E' un'invenzione del dottor Pancione.

 

Zita                             - Non dire questo, Max.

Max                            - (serio) Hai visto la Madonna, in sogno? Hai sentito suonare le trombe degli angeli?

Zita                             - Io no. Mai.

Max                            - E allora lo vedi che non può essere? E' la prova più sicura.

Zita                             - La Madonna? Le trombe?... Io...

Max                            - (con aria di superiorità) Non sapevi neppure questo. E come vuoi fare, allora, a combinare un figlio? Sciocca. Il Pancione si è burlato di te. E' chiaro.

Zita                             - (cominciando a piangere) No, non può essere, è stato così bravo con me, il dottor Zeller. Non può essere. E poi io voglio...

Max                            - (con ira) Che cosa vuoi, tu? Sentiamo.

Zita                             - Io voglio... Io voglio... avere un bambino, adesso. E' tutta la notte che ci penso.

Max                            - Ma non con me, sciocca. Io non ci voglio entrare in questa stupida faccenda, hai capito? Non vo­glio nessuno tra i piedi. Basta.

Zita                             - Come vuoi. Non ti cercherò mai più.

Max                            - Non ci spero.

Zita                             - Ma dimmi che avrò un bambino anche se non ho veduto la Madonna, e se non ho sentito le trombe...

Max                            - Impossibile. Senti. La moglie di un mio amico guardiamo dello Zoo, la notizia di essere mamma l'ha avuta così. E non è nemmeno andata dal dottore. E la sorella di un altro mio amico, pure. Tutte. Dunque.

Zita                             - (con tono aggressivo, ribellandosi) Se questo che mi dici è falso, guai a te. Guai se ti burli di me, adesso. Non voglio più.

Max                            - (minaccioso) Se non fossimo qui dentro...

Zita                             - (remissiva) Lo so. Ma non m'importa. In fondo, tu non puoi dimenticarmi.

Max                            - E chi te l'ha detto? Storie.

Zita                             - Sei venuto fin qui.

Max                            - Ma non per cercare te. Voglio parlare col tuo padrone. Per affari miei. Presto. Non ho tempo da per­dere.

Zita                             - Vuoi sapere se è proprio vero che sei un principe, eh?

Max                            - (afferrandole un braccio) Dimmi: ha detto così, il tuo padrone: un principe?

Zita                             - (semplice, quasi con malinconia) Ha detto così. Un principe.

Max                            - E gli altri? Hanno riso?

Zita                             - Perché? Io non li ho visti, in faccia. Ma subito hanno taciuto. Poi la padrona...

Max                            - La padrona?

Zita                             - Ha detto che non era possibile, che erano tutte storie..

Zita                             - E poi... basta. Sono scappata via, perché non mi sentissero piangere.

Max                            - Stupida! La solita stupida.

Zita                             - A me non avevi detto nulla. Ti avevo sempre creduto uno... uno come me., così... Se avessi saputo, non sarei stata tua. I principi non sposano le povere ragazze.

Max                            - (aprendo le braccia) Ha detto: un principe! Ah! Lo sapevo che sarebbe venuto il mio momento, lo sentivo! (Pausa. Passeggia fiero, battendosi i gambali con la scudiscio) Di', non hai sentito se ha parlato dì mio padre, di mia madre, della mia famiglia? Ne avrà par­lato, certo. Un nome... una parola...

Zita                             - Non so: sono scappata a piangere.

Max                            - (esaltato) Un principe! Lo sentivo, io. Qui, nel sangue: come un gran fuoco. (Quasi con un grido) Sangue di re!

Zita                             - (scoppia a piangere).

Max                            - Smettila, sciocca. Chiamami il tuo padrone. Non ho tempo da perdere.

Zita                             - Mi sgriderà.

Max                            - Non m'importa. Voglio parlargli. Va'.

                                    - (Zita esce. Max guarda intorno, curioso, si toglie il berretto, si ravvia i capelli).

Federico                      - (entra, è in accappatoio, con un asciugamani a turbante sui capelli) Chi c'è qui, che mi vuole? (Guardando fisso, trasalendo) Oh! Ma io vi conosco: siete un guardiano dello Zoo...

Max                            - (fiero) Il capo dello Zoo. Comando a tutti, là dentro.

Federico                      - Precisamente, Max. Vi ho veduto molte volte. Aspettate: un giorno siete entrato nella gabbia di un leone.

Max                            - (ridendo spavaldo) Entro sempre, da Mustafà. Siamo vecchi amici, io e lui. Giochiamo insieme. Poi, quando lui non ne ha più voglia, mi tira una zampata, io rispondo con una manata, e via. Amiconi          - (ride).

Federico                      - Siete un tipo. (Scorgendo sulla porta Zita, che osserva curiosa) E tu, che stai a fare, 11? (Di colpo, sovvenendosi della rivelazione) Che bestia! Ma già, io mi ero dimenticato... Con tutta quell'acqua sulla testa... (A Zita) Vieni avanti, signorina. (A Max) E voi, brav'uomo? Co-me la mettiamo questa faccenda, eh? (Sobbalzando) E se i miei vi trovan qui!

Zita                             - (pronta) Sono usciti tutti.

Federico                      - Meno male. Insomma, giovanotto, adesso parleremo di una cosa molto seria. (A Zita) Vai in cucina, tu, e fai qualche lavoro leggero. E se ritornano, vieni ad avvertirmi. Ah, verrà il dottor Zeller: fallo passare.

                                    - (Zita scompare. Max rimane fermo in mezzo alla scena).

Federico                      - (asciugandosi ancora la testa) Diavolo di una doccia. Fate il bagno ogni giorno, voi, signor Max?

Max                            - (ridendo) Nell'acqua fredda, anche d'inverno. Con Caterina.

Federico                      - Caterina?

Max                            - (c. s.) La foca. E' un gran divertimento. Ci vogliamo bene: ci diamo il bacio, sott'acqua.

Federico                      - (curioso) Ma guarda. Verrò a vedervi, una di queste mattine.

Max                            - Alle sette. Presso la grande vasca.

Federico                      - Farò uno sforzo. (Fissando Max) Dunque? Sedete.

Max                            - Veramente... Io ho bisogno di stare in piedi. Non mi riesce di parlare, quando sono seduto.

Federico                      - Fate pure. Siedo io. Dite.

Max                            - (grattandosi il capo) ET difficile cominciare.

Federico                      - Eh, lo credo bene. Ma vedrete che met­teremo a posto tutto. Vediamo. Zita?...

Max                            - Non si tratta di lei.

Federico                      - (stupito) Non si tratta di lei? Ma è questo, dev'essere questo, no?, lo scopo della vostra visita.

Max                            - (pausa, poi, risoluto) Ho bisogno di sapere di me, signor consigliere. Di me.

Federico                      - Di voi? (Pausa). Vediamo, signor Max. Credete ch'io possa...

Max                            - (interrompendo) Voi potete.

Federico                      - Io non vedo proprio in quale modo

Max                            - (risoluto) E' inutile giocare agli indovinelli, signor consigliere. Ecco qui. Zita ha parlato. Mi ha riferito quello che le è giunto alle orecchie, ieri, dopo quella stupida faccenda dello svenimento.

Federico                      - (che ancora non ha capito) Signor Max, che pasticcio è mai questo?... Siate chiaro. Dio, quella doccia...

Max                            - (prorompendo) Adesso so «oh certezza di essere un principe.

Federico                      - (sobbalzando) Eh? Che cosa? Un prin­cipe? Voi?

Max                            - (quasi minaccioso) Voi avete detto questo. Adesso voglio le prove. Voglio sapere.

Federico                      - Un momento, signor Max... (concendrandosi) Zita, ha detto. Zita ha parlato. Il suo principe.,, (Con un grido) Ah, voi siete il principe.

Max                            - (quasi urlando) Ah, lo sapevo, lo sentivo! Da tanto tempo! Finalmente! (Scudiscia Varia, vee­mente).

Federico                      - Fantastico!

Max                            - (imperioso, agitando sempre lo scudiscio, e ar­rivando a farlo fischiare fin sotto il naso di Federico) Adesso dovete parlare, voi. Dovete, capite? Ho at­teso per anni, questo momento. Guai a chi mi taglia la strada. (Minaccioso) Sappiate che sono deciso a tutto. A tutto!

Federico                      - (chiudendosi la testa fra le mani) Che pasticcio, mio Dio! Un colossale pasticcio. (A Max) Sentite, signor Max. Voi dovete essere un uomo ragio­nevole. C'è qualche cosa, in questo momento, che può, che deve interessarvi più d'ogni altra cosa. C'è Zita, e ci sono le conseguenze di quello che sapete, caro il mio giovanotto.

Max                            - (sbuffando) Non m'importa di tutto questo. Non voglio sapere nulla di quella scimunita. Una serva. Ce ne sono mille, allo Zoo, come lei, pronte a fare con me quello che ha fatto lei. Tutte eguali. Se volessi, signor consigliere, per tutta la durata dell'anno, io po­trei dormire, ogni notte, con una donna diversa.

Federico                      - (sincero) Beato voi! (Riprendendosi) Capisco, giovanotto. Quando si ha la vostra età, il vo­stro fisico, il vostro temperamento.

Max                            - E non soltanto con le servette, sapete. Anche le dame di compagnia e, qualche volta, anche le pa­drone. Ma dopo una notte - o un'ora - io ne sono stanco. E le metto fuori così, con due dita. (Piano, golosamente) Se avessi voluto... Sapeste che bocconi...

Federico                      - (candido) ...da re!

Max                            - Ecco. Vedete? Siete voi che lo dite, che insistete...

Federico                      - Ma questo è un modo di dire: bocconi...

Max                            - (frustando Varia) Animo, sciogliete la lingua. (Con sospetto) O forse siete stato pagato per tacere? Dite: vi hanno pagato?

Federico                      - (con aria offesa) Che cosa dite, giova­notto? Io sono un funzionario integerrimo. Non mi ha mai comprato nessuno. Per questo sono rimasto allo scalino di consigliere. Se no, chissà dove avrei potuto terminare la carriera...

Max                            - (caparbio) E allora, se non vi hanno pagato, cantate.

Federico                      - (sincero) Ma gli è che io non ho nulla, proprio nulla da dire!

Max                            - (minaccioso) Pagherete cara la vostra testar­daggine, se continuate ad esasperarmi.

Federico                      - Ma che cosa vi posso dire, io? Debbo in­ventare, per accontentarvi?

Max                            - Basta. Sentite. (Risoluto, minaccioso) Io sono all'estremo limite della pazienza. E' da anni, sapete, che aspetto. Anni. Fin da ragazzo, quando entrai per la prima volta allo Zoo, come aiuto stalliere. Da al­lora, quasi senza mai varcare i confini del grande giar­dino, io ho vissuto con una sola speranza, con un solo    - (topo: sapere di me, sapere della mia vita. Prima del mio ingresso allo Zoo, non ricordo nulla: come se non nessi vissuto. Sono stato accattone, da bambino; mi mandava per le strade una zia - diceva lei; nessuno, credo io - che mi aveva raccolto; e mi picchiava, a sangue. La storia di tanti altri. Senza saper niente di mio padre, niente di mia madre. Ed ho vissuto per anni così, al buio. Come non vivere. (Piano) Si diventa rullivi, quasi una voce, dentro, istigasse a fare il male, rosi, senza scopo, per vendetta contro chissà chi, per vendicarsi della sorte. Al buio, capito? Ma con una luce lontana, un barlume: là devo arrivare» Là è il mio posto. Là - capite? - là mi chiama il mio sangue. Che non è sangue di tutti: sangue che batte forte, qui, nei polsi; sangue di «gente avvezza al co­niando, e spinge avanti il corpo con un pulsare ar­dente... Lo sento, lo vedo, quello che mi attende. E sono pronto a lottare, contro chiunque. (Esaltato) Ho con me cento guardiani dello Zoo: un piccolo eser­cito. Se dovrò marciare alla conquista di un posto che mi spetta, li avrò tutti dalla mia parte, anima e corpo. E se occorresse dar fuoco alla città, lo Zoo è al centro, e la prima scintilla partirebbe di' là. (Gridando) E aprirci tutte le gabbie, per accrescere la confusione. Finche non avrò messo il piede su quei gradini dai quali io so, capite?, so dì essere disceso. (Travolto dalla foga del suo dire, agisce, come ispirato, bran­dendo il frustino come una spada, come uno scettro; sotto gli occhi attoniti di Mab, che non fiata, ed ha il cuore in gola, e segue prima trasognato, poi afferrato dalla finzione, poi visibilmente soggiogato, a sua totale insaputa, dal clima ardente creato dal dire di Max) Cosi, dovrò arrivare così a riavere, in pugno il co­mando della mia gente! (rimane fermo estatico, tutto vibrante, col frustino impugnato e alzato verso il cielo).

Federico                      - (battendo le mani, trascinato) Bravo! Bravo! Rimanete fermo cosi! Bellissimo! Vi ho visto cosi! Un vero re!

                                    - (Immobilità di entrambi per qualche secondo; poi il clima paradossale ed esaltato è d'un subito rotto dall’apparire di Zeller; e i due si ricompongono; l’uno, Mab, quasi pentito di quanto ha detto; l’altro Max, torvo e accigliato),

Zeller                          - (entrando) Ciao, Federico. Sono passato dal giardino; via libera.

Federico                      - Mio caro: questo è Max.

Max                            - (lo guarda torvo).

Zeller                          - (guardandolo) Bravo, Max.

Federico                      - (piano, concitato) Max, l'uomo di Zita, quello del... (accenna un rigonfio al ventre). Bè! : un pa­sticcio enorme...

Zeller                          - (interrompendo) So tutto: mi ha informato Zita, adesso, in cucina. Un fatto curiosissimo. Unico.

Federico                      - Ma tu non sai il resto: vuole marciare alla testa dei guardiani dello Zoo, incendiare la città, liberare le belve... Il trono, vuole riconquistare il suo trono...

Zeuer                          - (guardando Max, pacato) Bravo, giova­notto. Vi ho già veduto, allo Zoo

Max                            - (duramente) Anch'io ho già veduto voi.

Zeller                          - Già. Ma non dimostrate soverchia simpatia, per me, non è vero? Eppure avete torto, gio­vanotto. Qui    (accenna a sé e a Federico) si lavora molto per la vostra felicità.

Max                            - Oh, la mia felicità...

Zeller                          - Esiste, giovanotto. Ma, vedete, la felicità è come il 6ole. Bisogna cercarlo dov'è, il sole. Se vi addentrate nella terra, se v'imbucate nelle gallerie, per scovare l'oro o i brillanti, scendete al buio. Credetemi, giovanotto. Abbiamo tutti la nostra porzione di sole: basta cercarla dov'è, per trovarla. E invece...

Max                            - (spazientito) Non so nulla di tutto questo imbroglio di parole. Io ho già parlato al signor con­sigliere.

Zeller                          - E io so benissimo che cosa volete da lui. Potrei dirvelo io stesso.

Max                            - (stupito) Anche voi sapete  

Zeller                          - Certo. (Accenna a Federico) Siamo in due, a sapere. Ma che importa?

Federico                      - E quanto gli ho detto. Dovete pensare prima a quella ragazza. Senza di voi sarà rovinata per sempre. E il piccolo? E la vostra creatura? Sapete che cosa vuol dire venire ai mondo e non trovare un uomo, non trovare un padre?

Max                            - So. Per questo io voglio sapere di me, di me soltanto

Federico                      - E intanto non pensate che state prepa­rando, ad una vostra creatura, eguale sorte alla vostra? Un giorno vostro figlio si torcerà le mani, come state facendo voi in questo momento, perché il padre suo non gli ha dato nulla, neppure un nome. E che ne sarà di lui? Con un nome, sapete, si può diventare tutto, nella vita: finanzieri, artisti, uomini di Stato... E lecito pensare a tutto. Ma senza un nome, senza una mano che guidi, che si fa?

Max                            - I guardiani dello Zoo, vero? Mezzi uomini e mezze bestie; camerieri e stallieri. Ah, ma voi non im­maginate di che cosa sarò capace io. Non volete par­lare? parlerà qualcun altro. Oh, se parlerà! (Ossessio­nato) Io rivoglio il mio posto nel mondo. Se ho sangue di re, nelle vene, qualcuno ce l'ha buttato. E bolle più dell'altro, più del vostro. (Torvo) Mi giocherò la li­bertà, la vita, tutto - tanto, non m'importa di nulla - ma se un posto mi aspetta, debbo riaverlo. Presto o tardi. Qui non ho più nulla da fare. Me ne vado. E in quanto a quella stupida di là, sorvegliatela, tenetela nella bambagia voi, signor consigliere. Io non so di che farmene... (fa Fatto di andarsene, ma Zeller gli taglia la strada).

Zeller                          - (pacato, sereno) Andrete, certo, signor Max. Nessuno vi trattiene. Ma sentite. Oggi avrei dovuto ve­nire allo Zoo, a cercarvi, poiché ho una commissione per voi; risparmiatemi i passi. Sono vecchio, e la mar­cia non è il mio forte. Sentite. Ricordate il piccolo Giorgio, Giorgio Folda? Biondo, tutto ricci, un diavo­letto?

Max                            - Non so nulla.

Zeller                          - Quello che un giorno trovaste con la testa ficcata tra le sbarre della gabbia del vecchio leone...

Max                            - Sì! E Mustafà gli leccava il ciuffo.

Zeller                          - Quello.

Max                            - Un diavolo. Dice sempre che da grande farà il padrone dello Zoo, e mi darà doppia paga.

Zeller                          - Più nulla. Il piccolo Giorgio non c'è più.

Max                            - (stupito) Più?

Zeller ........................ - Se n'è andato: stanotte. Difterite.

Max                            - Perdio. Così, tutt'ad un tratto. (Pausa) Non par vero.

Zeller                          - Stanotte gli ero accanto.

Max                            - (quasi con ironia) Lo curavate voi?

Zeller                          - (sereno) No. Sono amico di suo padre, ma il piccolo era in cura da uno specialista dei bambini. Stanotte, quando le cose si sono messe male, mi hanno mandato a chiamare, ma non c'era più niente da fare. Dicevo. Poco prima di andarsene per sempre, Giorgio ha pensato a voi.

Max                            - A me?

Zeller                          - A voi, vi stupisce? Non eravate suo grande amico?

Max                            - Lo ero.

Zeller                          - Dunque. Ha chiesto un -sigaro a suo pa­dre. E noi si credeva che già fosse fuori di senno. Poi, avutolo, me l'ha dato, e ha detto : « A Max, dello Zoo, piacciono tanto i sigari di papà... ».

Max                            - Perdio.

Zeller                          - (porgendo un involtino). Eccovelo.

Max                            - (prendendolo con delicatezza, e cominciando a svolgere la carta) E poi...

Zeller                          - Poi, niente. Se n'è andato come un uccel­lino.

Max                            - (rigira il sigaro fra le mani, fa Fatto di cacciar­selo in bocca, poi lo rimette nella carta, lo ficca in tasca) Perdio.

Zeller                          - Vedete come fanno presto ad andarsene, da questo mondo, i bambini. (Pausa). Ed anche a ve­nire. (Pausa). Tutta la contabilità della vita è qui. Bam­bini che arrivano, bambini che partono. Gli uomini non fanno altro che segnare questi arrivi e queste partenze.

Federico                      - (come destandosi da un lungo torpore) Non ho mai visto morire un bambino. Dev'essere ter­ribile.

Zeller                          - Ci si lascia il cuore.

Max                            - (come assorto) Io ho veduto la fine di uno dei piccoli di Mustafà. Erano tre, i cuccioli. Un giorno li feci mettere al sole, in una cesta. Si vede che uno ne prese troppo. Quando arrivai io, boccheggiava. Al­lora lo rimisi nella gabbia, e la madre, non par vero!, con le zampe prese a comprimergli il petto, quasi a vo­lergli fare la respirazione artificiale. E a leccarlo tutto, coprendolo di umore caldo. Ma era tardi, ormai. Urlò tutta la notte, la madre, come un'ossessa. Balzando di qua, di là nella gabbia.

Zeller                          - Eh!... i figli... Bisogna essere belve, per capirli.

Max                            - I figli sono un imbroglio. Per questo è me­glio disfarsene prima ancora che nascano.

Federico                      - Bravo. Come vorreste fare voi.

Max                            - (con ira) Io... Io debbo pensare a me, prima. Ve l'ho pur detto. Voglio sapere di me.

Zeller                          - Un giorno saprete. Non vi si nasconderà nulla.

Max                            - Perché: un giorno? Che ho fatto per non sapere tutto, subito, come Ogni creatura?

Zeller                          - Destino degli uomini, caro amico. E i gran­di destini tardano a compiersi. Voi dovete attendere. Ma la vostra attesa dev'essere onesta, pulita. Più in alto mirate, più chiara e sgombra d'inciampi dev'essere la vostra strada, no?

Federico                      - (con intenzione) Un puntolino nero, nella vita di un uomo qualunque, può essere un semplice neo. Ma nella vita di « qualcuno » diventa una grossa mac­chia. Visibilissima. Incancellabile.

Max                            - (con disprezzo) Tutti gli uomini sono pieni di macchie.

Federico                      - Giusto. Ma dal momento che voi non siete un uomo come tutti gli altri...

Max                            - (orgoglioso) Ah, lo ammettete...

Federico                      - E perché no? Lo avete detto voi stesso: nello Zoo tutti vi obbediscono, uomini e belve. Dunque.,

Max                            - Mi obbediscono perché mi temono.

Zeixer                         - Male. Questo vuol dire preparare il terreno alla rivolta. Bisogna farsi amare, invece.

Max                            - (semplice) Lo so. Ma è difficile.

Zeixer                         - Cercate di essere giusto: prima con voi stesso, poi con gli altri.

Max                            - (con forza indicibile, ergendo il petto) Ma come posso essere giusto, se io soffro tanto appunto per mancanza di giustizia? Sapete che cosa vuol dire passare notti e notti insonni, cercando di raffigurarsi innanzi agli occhi un volto, una figura alla quale dare un nome che non si è mai pronunciato? Sapete che cosa vuol dire aver la certezza di essere di continuo giocati da una sorte maligna che vi impedisce di occupare, nel­la vita, il posto che vi spetta? C'è da impazzire.

Zeller                          - Ma tutti, mio caro, sia pure per una sola volta, nella vita, ci siamo sentiti figli di re...

Federico                      - (reciso) Io, mai.

Zeller                          - Perché non hai provato a guardare un po' addentro ad un tuo atto, ad una parola, ad una rea­zione istintiva. Ma credi, tutti abbiamo compiuto, al­meno una volta, un gesto regale: di ira, di pietà, di gioia, di disperazione... Un piccolo atto da dèspoti as­soluti, incontrollato ed incontrollabile, sfuggito per er­rore, rientrato dopo un istante di libertà, cancellato da un subito rimorso o da una irresistibile paura...

Max                            - Insomma. Non volete parlare? Peggio per voi: sarete i primi a subire le conseguenze del vostro si­lenzio e della mia volontà. (Sottovoce, come allucinato) Sapete, nello Zoo ho degli amici che si faranno ucci­dere, per me. Basterà una mia parola, un grido, un fischio. Se io salgo sulla groppa di Kabù, l'elefante, e lo faccio uscire dal suo recinto a proboscide alzata, così, nessuna forza umana potrà fermarci. Tutti gli uomini dello Zoo mi seguiranno, e ognuno mi è de­voto fino alla morte. E dietro di noi scateneremo le belve, i bufali, gli zebù, tutti i rettili della «casa dei serpenti », e fino l'aquila mi seguirà, roteando alta. pronta ad abbassarsi per colpire agli occhi chi si met­terà sulla mia strada. Lo sapete questo, voi? Volete che accada questo, da un istante all'altro, ad un mio sem­plice cenno, ad una mia sola parola?... Ah, vedrete se avrò il mio posto nel mondo! Vedrete! (fa per uscire, ma Zita, che al clamore delle ultime parole si è fatta sulla porta, entra improvvisa, gli si getta ai piedi, lo abbraccia alle ginocchia).

Zita                             - No, no, Max, non farai questo!

Max                            - Lasciami, tu.

Zita                             - Per me, per me!

Max                            - Ti ho detto che non ti voglio, che non so che farmene, di te. Debbo essere solo, libero. Io solo, ca­pisci? Da solo.

Zita                             - (alzandosi, con un tono improvvisamente reciso, nella voce) Ascoltami. Non ti parlo più di me. E' per lui, capisci? Per lui. Adesso, sai, proprio adesco, mentre tu, qui, parlavi di non so quali fantasticherie, di sa­ lire in groppa al tuo elefante, di andare alla conquista di non so quali beni, qui, dentro, nella mia carne, sai, prima volta, la priva volta, capisci?, l'ho sentito re. Muovere, capisci? Vivo. Un essere vivo, in me. Tuo...

Max                            - (fa l’atto di crollare le spalle). (veemente) Bada, sai. Tuo, ho detto. E mio. E nostro. Non ti chiedo nulla, per me. Ma per lui, tutto. Per me, puoi anche uccidermi. Ma dopo. Adesso non mi tocchi. Guai a te. E mentre tu parli di pazzie, e farnetichi di fare la guerra a chissà chi, l'unica cosa insta, viva (accennando) è questa. La porta in me, capisci? Viva. (Pausa). E adesso vai pure. Posso fare anche a meno di te. (S'accoscia. Max esce rapidamente).

Federico e Zeller         - (accorrono presso Zita, la sollevano, Federico la trasporta via).

Zeller                          - (perplesso, passeggia un istante per la camera, poi Me, incomincia a caricarsi la pipa).

Federico                      - (rientrando) Pensa, se i miei rientravano in quel momento.

Zeller                          - Eh, siamo veramente a mal partito. E quell'energumeno:

Federico                      - Se ne prepara qualcuna grossa, la colpa uri mia.

Zeller                          - Nostra. Voglio dividere la responsabilità con te, esattamente.

Federico                      - E i miei, mia moglie, i figli, quando ver­ranno a sapere...

Zeller                          - Non disegni sempre la fauna del Duemila?

Federico                      - Ebbene?

Zeller                          - Ebbene, prepara i cartoni per il nuovo di­luvio. Quel giorno crollerà il vecchio mondo- il nostro e un altro ne sorgerà. Vedrai. (Voci, tramestìo nell'anticamera).

Clotilde                       - (entra, seguita da Liù, Franco e da Fanny e Viky, due amici dei figli. Sono visibilmente reduci dalla festa per le nozze di Mary: vestono abiti eleganti, pieni dì pretesa; salutando Zeller, con la solita aria indaffarata e la solita parlantina inquieta) Ben tro­valo, dottore. Immaginavo che sareste venuto a tenere un po' di compagnia a Federico. Ciao, Federico. (Saluto). Dottore, ecco due amici dei miei figli...

Zeller                          - Conosco già. (Saluti).

Clotilde                       - Conoscete tutti, voi. Impossibile farvi una ripresa, presentarvi qualche cosa di nuovo...

Zeller                          - Privilegio dei vecchi. Conosco tutto.

Federico                      - Bella festa?

Clotilde                       - Un orrore.

Liù                              - Roba da provincia.

Fanny                          - Figuratevi: la sposa in bianco!

Franco                         - E lo sposo tutto in nero, come un cala­brone. (A Miky) Hai visto che scarpe?

Mikv                           - Semplicemente stupide!

Zeller                          - Non usa più, il bianco, alle spose?

Liù                              - Ma via, dottore!

Clotilde                       - Mi meraviglio. Un uomo di mondo, che conosce tutto, e non sa queste cose. Siete in arretrato ili almeno cinque anni.

Federico                      - Un lustro intero. Sei arretratissimo.

Clotilde                       - (a Federico) C'è poco da fare lo spiritoso. (A Zeller) Non vi siete ancora accorto che le spose non vanno più alla « lieta » (con inflessione di voce) cerimonia vestite di bianco?

Zeller                          - Veramente, sì. In un'occasione, abbastanza recente, ho visto questo. Ma...

Clotilde                       - ...Che cosa?

 

Zeller                          - Ecco, credevo si trattasse di un caso par­ticolare. Poiché era notorio il, diciamo, brillante pas­sato della sposa...

Liù                              - (ridendo) Oh, solo per questo?

Zeller                          - M'è sembrato sufficiente...!

Fanny                          - Povero dottore! Se tutte le ragazze che hanno avuto un... come dite voi, brillante passato, do­vessero preoccuparsi tanto dell'estetica delle nozze...

Zeller                          - No, vero?

Fanny                          - Eh, proprio no.

Zeller                          - Capito. (A Federico) Vedi? Arretro sem­pre più.

Clotilde                       - (sottovoce, a Federico) Ho da parlarti, c'è qualche novità per aria.

Federico                      - (con aria ostentata). Non preoccuparti.

Clotilde                       - Mi preoccupo, invece, eccome. Tu non sai mai nulla, perché te ne resti sempre tappato qui, nel tuo buco. Ma noi si va, si esce, si vede... Non hai letto nemmeno i giornali d'oggi?

Federico                      - Dio me ne guardi.

Clotilde                       - Ecco. Per questo non sai.

Federico                      - E non voglio saper nulla.

Clotilde i                     - Vieni di là.

Federico                      - Sto benissimo qui.

Clotilde                       - (frenandosi a stento) Liù, Franco, por­tate i vostri amici sul terrazzo: avete visto il fiume dal nostro terrazzo? Una meraviglia. (I ragazzi escono; Clo­tilde, dando un’occhiata a Zeller, mormora) Sempre tra i piedi...

Zeller                          - Debbo andare anch'io a vedere il fiume dal terrazzo?

Clotilde                       - No, restate. Tanto la conoscete, a memo­ria, la vista che c'è di qui. (Gettando un'occhiata intorno, sottovoce) Arriva. Domenica mattina.

Federico e

Zeller                          - Chi?

Clotilde                       - (c. s.) Lui. Il principe. Gualtiero di Ruprecht.

Federico e

Zeller                          - Eh!

Clotilde                       - E' tutto quello che sapete dirmi?

Federico                      - Mah!

Clotilde                       - . Caro, tu non intravvedi niente dietro questo arrivo, qui, nella nostra città?

Federico                      - Non saprei...

Clotilde                       - (imitandolo) Non saprei... Sei sempre stato scarsissimo di immaginazione, ma stavolta…..

Federico                      - (pronto) Già. Asciutto, completamente.

Clotilde                       - Eh, direi. Ma come non capisci che se lui viene qui, sia pure in visita ufficiale, vorrà rivedere la ragazza?

Federico                      - Ma no!

Zeller                          - Figuratevi!

Clotilde                       - Non li conoscete, i Ruprecht!

Federico                      - Tu, sì?

Clotilde                       - Io... Ma già, che cosa conta parlare con te. Tu non sai mai nulla. Farò da me, senza chiedere consiglio a nessuno.

Federico                      - (disperato) Che cosa vuoi fare, in quale pasticcio ti vuoi ficcare!

Clotilde                       - La ragazza. Bisogna avvertire la ragazza, prepararla...

Federico                      - Prepararla?... A che, scusa?

Clotilde                       - Ma anche ad una sua possibile visita! Può mandarla a prendere da un ufficiale di ordinanza, da una dama del seguito... Ma credi tu che voglia dor­mire solo, un uomo di quella pastai, qui, dove sa che abita la sua fiamma di una notte?... Ah, come conosci poco e male le cose del cuore, tu! Non le hai mai co­nosciute!

Federico                      - Eh! purtroppo...

Clotilde                       - Lascia dire a me: «purtroppo». Ma tu, tu, battiti il petto! (Piano, con una sorta di intonazione golosa) Lo sai di che cosa è capace un uomo come quello che ha nelle vene il fuoco atavico che ci ha lui, per una donna, per una femmina che gli si è fic­cata nel sangue? E' capace di rinunziare ad un trono, se occorre. Di fare una guerra, se vuole. Di gettare il suo popolo alla fame, se gli aggrada. E notte e giorno, di continuo, il nome della sua donna gli sta sulle lab­bra, il sapore dei suoi baci lo tormenta, il ricordo del suo corpo lo abbrucia. E non dorme, e non mangia, e cammina su e giù per le sale del trono, come gli sco­iattoli in gabbia. E dimentica ogni cosa, il mondo e il cielo, e gioca ogni reputazione e fin la vita, pur di rivederla, di starle accanto un solo minuto... E quando la può riavere vicino, allora, allora... E' come se un grande fiume uscisse di schianto dal suo letto, è come se un mare travolgesse ogni confine, è come se tutte le acque del globo sfuggissero alla legge di attrazione terrestre, e inondassero tutta la terra! Un maremoto, un cataclisma immane, la fine del mondo! Ah, vivaddio, quelli sono uomini, e così ne fosse toccato uno anche a me! (Esce).

Federico                      - (annientato dallo sfogo travolgente di Clo­tilde) Hai sentito che roba? La rivolta di tutta una vita, c'era in quelle parole, in quelle visioni...

Zeller                          - Fantasie...

Federico                      - (sorpreso) Già! (Tra sé) La macchina è in moto. Tutto travolge, nessuna forza l'arresta: nem­meno le menti più quadrate, più inclini al ragiona­mento - Mah! (Pausa). Vado a vestirmi. (A Zeller) Vuoi un caffè?

Zeller                          - Ma sì.

Federico                      - Aspetta... Senza chiamare Zita, vieni nella mia camera. Te lo preparo con la mia caffettiera elet­trica... Non dir nulla: è un mio segreto: mi faccio il caffè anche di notte, quando tutti dormono. E' eccel­lente. (Escono).

                                    - (Entrano Liù e Fanny).

Liù                              - (continuando) ...un rubino grosso così!

Fanny                          - Pensa! E lei?

Liù                              - Niente. Fredda, apatica, sempre più stordita.

Fanny                          - Una fortuna come quella non capita tutti i giorni.

Liù                              - - Certo. E guai a non saperla sfruttare subito!

Fanny                          - Io, a quest'ora, sarei già con la corona in testa.

Liù                              - Ma tu non sei una servetta.

Fanny                          - Che importa? Basta esser donna. E con un conto aperto come quello... E' bella, almeno?

Liù                              - Chi?

Fanny                          - La…. la vittima.

Liù                              - Ma no! Una cosa scialba, goffa, quasi senza seno...

Fanny                          - Con tante belle ragazze che ci sono in giro... A me non capiterà mai, una fortuna simile. Ma lo sai com'è, con questi uomini? Tutti capricci. Oh, non ho avuto un mezzo fidanzato, io, che per me aveva il più offensivo dei rispetti, e poi pizzicava la cameriera e le dava appuntamenti fuori porta? Con lei sì, e con me no. Eppure, ti assicuro, ce ne mettevo della buona vo­lontà per farlo…. impegnare! Nossignori. Andò a finire che mi piantò.

 Liù                             - Ed ha sposato la cameriera...

Fanny                          - Meglio. L'ha ritirata dalla circolazione, le ha messo su casa, pellicce, automobile, e quella, adesso, quando mi incontra mi dà certe occhiate di compas­sione™ Una rabbia, ti dico™

Liù                              - Lo vedi? E questo principe? Un principe del sangue, dico, che va a buttar via un anello di quella fatta per un capriccio di questo genere. Sai che voglia avrei? Se venendo qui, in città, gli saltasse la voglia di vedere la ragazza, e la mandasse a prendere, sai che farei? Sostituirmi a Zita. Mi vesto da servetta, mi copto la testa ed il volto con uno scialle, mi lascio mettere nella carrozza reale che attraverserà di gran corsa le strade della città, e poi, appena giunta nell'appartamento fissato, rimarrò col volto seminascosto fino al suo arrivo. S'apre una porta, è lui. Mi si avvicina, mi fa il bacia­mano come ad una gran dama, io m'inchino tremando.. Poi, rapido, Gualtiero mi toglie lo scialle... E io vedrò il suo stupore, udrò la sua voce che balbetterà qualche scusa….

Fanny                          - (presa nella finzione, ansiosa) E tu, e tu…..

Lrù                              - Io gli dirò: «Maestà, Altezza...».

Fanny                          - (convulsa) Ma no, no, no! In un caso come questo, gli si gettano le braccia al collo, senza una pa­rola! Con un uomo di quella pasta, tutto è fatto. Poi»

Liù                              - Poi vengono i bambini.

Fanny                          - Ma prima gli anelli di rubino. E la pre­messa di nozze. Se1 no, scandali. E oggi scandali a Corte non se ne vogliono più. Ah, fossi io, nei tuoi panni»

Liù                              - Che faresti?

Fanny                          - Esattamente quello che mi hai detto adesso. Là, giocare una bella carta, così. Se riesce, principessa e regina. Se non riesce, zingara. Andare a far la zin­gara, col violino e le carte della ventura nella sac­chetta.

Liù                              - Zitta. (Entrano Franco e Miky).

Franco                         - Brave. Ve ne siete andate così.

Fanny                          - l Si discorreva.

Franco                         - (a Lia) Le hai detto?...

Liù                              - Ho accennato...

Franco                         - (a Fanny) Mi raccomando.

Fanny                          - Stai certo.

Liù                              - E tu?

Franco                         - Sì, ho detto a Miky… E adesso lui vorrebbe vedere la ragazza. Gli fa gola, dice.

Fanny                          - Ecco, perché sapete che è stata di un prin­cipe. Prima, nemmeno un sguardo. Adesso...

Miky                           - Una curiosità. Qualche cosa di speciale do­vrà pure avere. Certe donne posseggono un fascino ad­dirittura invisibile alle altre donne. Ma a noi...

Franco                         - E’ verissimo. H richiamo recondito...

Liù                              - Ma va là. Se tu - prima della faccenda dell'anello - non la guardavi neppure, Zita. Dicevi che ti faceva rabbia, tant'era sciocca.

Franco                         - Non è vero: mi ero lasciato suggestionare da voi: da te, dalla mamma, che non facevate che dirne corna dalla mattina alla sera.

Liù                              - Sicché, adesso, piacerebbe anche a te la prin­cipessina del pisello?...

Franco                         - Sméttila. E' per invidia che parli così.

Miky                           - (guatando fuori) Io vorrei un po' vederla.

Liù                              - (spazientita) Si fa presto. (Suona il campa­nello).

                                    - (Un visibile impaccio è in tutti. Istintivamente le due ragazze cercano di darsi un tono disinvolto, sicuro, naturale e i due giovanotti danno un colpetto alla cravatta, una lisciatina ai capelli, uno sguardo allo specchio). Zita (entra, leggera, disinvolta) La signorina ha chiamato?

Llù                              - (con lieve tremito nella voce) Sì, Zita. Ecco. Vorrei... (Accennando Miky) Anzi, il signor Miky vor­rebbe...

Miky                           - (impacciatissimo, facendo un mezzo inchino buffo e timido) Oh! un bicchiere... un bicchier d'acqua ecco!

Zita                             - Subito, signore. (Esce).

Liù                              - Hai visto? Sei contento, adesso?

Miky                           - (cercando un contegno) Sì, in verità, nulla di eccezionale. Però, però... C'è della classe, in quella donna... Una linea. Avete osservato l'ovale del viso? Perfetto. Purissimo.

Fanny                          - Bellissimi gli occhi: fondi, espressivi...

Franco                         - E anche il corpo... Magro, ma nervoso...

Miky                           - Un corpo da sorprese... Lo si vede subito...

Liù                              - Il grande intenditore...

Zita                             - (entrando, va dai Miky, gli porge un vassoio con un bicchiere d'acqua) Ecco, signore.

Miky                           - Grazie.» signorina.

Liù                              - (fa una risatina, sommessa).

Miky                           - (tossisce, l’acqua gli va per traverso, vuol ri­mettere il bicchiere sul vassoio, sbaglia la portata, lo lascia cadere in terra) Oh, mi dispiace, scusate!

Zita                             - Non è nulla. (Si china a raccogliere i cocci e ad asciugare il pavimento con il grembiule).

Clotilde                       - (entra, si precipita verso Zita) Ma no, non ti affaticare, carina. Non chinarti, così: ti ritornerà il capogiro. Liù, aiutami. (Eseguisce). Svelta, che stai lì a fare? (A Fanny e Miky) E' un po' sofferente, la nostra Zita. (Zita esce). Bisogna aver cuore con gli umili, non vi pare? Fanny e

Miky                           - Certo. Si capisce. Poveretta.

Clotilde                       - Un fior di ragazza, sapete? Un modello. Fa piacere averla intorno. Attenta. Premurosa. Gentile. E istruita, anche. Un vero miracolo.

Liù                              - (che ha tutto il desiderio di tagliar1 corto il pa­negirico della madre) Allora ci sì vede oggi al tennis?

Fanny                          - Sta bene.

Miky                           - Io verrò un po' più tardi.

Liù                              - Una delle tue solite contesse?

Fanny                          - Niente più contesse, hai sentito? Cameriere, d'ora innanzi, servette.

Miky                           - Auff! Voialtre signorine siete insopportabili.

Fanny                          - (con un tono di amara serietà) Eh, inco­mincio a crederlo anch'io. (Saluti, Fanny e Miky escono).

Clotilde                       - Spero bene che non avrete detto nulla di Zita a quei due chiacchieroni, vero?

Liù                              - Oh, mamma. Stai sicura.

Franco                         - Quanto a me! Figurati se confido qualche cosa ad un pettegolone come quel Miky.

Clotilde                       - Adesso venite di là con me, ragazzi. Bi­sogna concretare un piano per domenica mattina. Ma silenzio. Vostro padre non deve saper nulla. Se no ad­dio. E' sempre stato un guastafeste emerito. (Escono).

Federico                      - (entra con Zeller; è in maniche di camicia) Lo vedi? Trent’anni di matrimonio, e ancora siamo all'inconveniente delle camicie mancanti di bottoni. Sem­pre così, con una regolarità perfetta. Ma io ho impa­ralo: metto la cravatta senza abbottonare il colletto.

Zeller                          - (sprofondandosi in una poltrona) Ti aspetto.

Federico                      - Di', si va allo Zoo?

Zeller                          - Naturalmente.

Federico                      - Oh, senti, credo di non poter prendere lo zucchero per i nostri amici: ce n'è poco, hai visto, nella zuccheriera...

Zeller                          - Non importa, ce l'ho io.

Federico                      - Bravo. Adesso metto la cravatta. Aspetta.

                                    - (Esce).

Zeller                          - (incomincia a caricarsi la pipa).

Zita                             - (entra in punta di piedi, si avvicina alla poltrona di Zeller; piano) Dottore...

Zeller                          - (con un sobbalzo) Eh! Che c'è?

Zita                             - (timida, cercando le parole) Dottore, scusa­temi... Volevo chiedere una cosa...

Zeller                          - Di' pure, cara.

Zita                             - Volevo sapere... Ecco: è certo, proprio certo che avrò un bambino?

Zeller                          - Niente di più certo, cara. E poi, l'hai sen­tito tu stessa, no? Prova più sicura...

Zita                             - Sì, capisco. (A bassa voce) Ma però... debbo confessarvi una cosa che forse ancora non sapete...

Zeller                          - Sentiamo...

Zita \                           - (come levandosi un gran peso dal cuore) Non ho visto la Madonna e non ho neppur sentito le trombe degli angeli suonare...

Zeller                          - (stupito) Che cosa?

Zita                             - Sì, non mi è apparsa la Madonna in sogno. E neppure gli angeli (fa cenno al suono delle trombe, portando la mano alla bocca).

Zeller                          - E così?

Zita                             - E così, se non ci sono; questi segni, non si hanno bambini. Me l'ha detto Max; e mi ha anche detto di essere sicuro, di quésto... Max sa tante cose...

Zeller                          - Più di me, cara. Però, tu puoi stare certa.

Te lo dico io.

Zita                             - Ma le trombe, la...

Zeller                          - Stanotte. Vedrai.

Zita                             - Stanotte?

Zeller                          - Certamente. Tu pensa fin d'ora, fortemente, sempre, che stanotte vedrai e udrai quanto hai detto.

Poi...

Zita                             - (battendo le mani) Che bellezza, dottore! Grazie, grazie... (fa Fatto di volergli baciare una mano, poi esce rapida e leggera).

Zeller                          - (rimane pensieroso).

Clotilde                       - (entrando) Solo? E Federico?

Zeller                          - Si mette la cravatta. Andiamo a fare due passi. Clotilde   - (ironica) Allo Zoo?

Zeller                          - Può darsi... (Ritornando col pensiero a quanto ha detto Zita) Sentite, Clotilde. Voi, quando eravate incinta di Franco o di Liù, sognavate spesso?

Clotilde                       - Che domanda! Sono passati tanti anni...

Zeller                          - Ma... Ecco: visioni celesti, sapete, come in quei quadri ex-voto, con la Vergine al centro, e gli an­geli trombettieri intorno, ne avete mai avute?...

Clotilde                       - Che idee, caro Zeller! Io ricordo solo... Ah, ecco, sì: quando aspettavo Franco, non pensavo che alle salsicce affumicate...

Zeller                          - Salsicce?

                                   

Clotilde                       - Notte e giorno: ne facevo scorpacciate enormi... E per Liù. Aspettate... Ah! Ricordo: for­maggio. Sapete, quel nostro formaggio forte, eccitante, che fa bruciare naso e gola?... Ne mangiavo un paio d'etti al giorno, sapete?

Federico                      - (entrando) Eccomi pronto. Si va?

Zeller                          - (alzandosi) Andiamo.

Clotilde                       - Ricordi, Federico, la voglia di salsicce affumicate per Franco, e quella di formaggio forte per Liù?

Federico                      - Che?

Clotilde                       - (o Zeller) Non ricorda più nulla. E' na­turale... si tratta di cose mie, di sua moglie...

Federico                      - Ma che dici?

Zeller                          - (prendendolo a braccetto) Niente: ti spie­gherò. (A Clotilde) Buongiorno, signora. (Escono, sem­pre a braccetto).

Clotilde                       - (seguendoli con uno sguardo di compas­sione) Poveretti! E quel dottore: la visione della Madonna, degli angeli... Io l'ho sempre detto: non mi farei curare il dito piccolo, da quel dottore lì...

Fine del secondo tempo

ATTO TERZO

Il tinello (o sala d'ingresso) dell'abitazione di Fede­rico Mab. Ambiente chiaro, festoso, con finestre late­rali che danno sul Corso principale. Comune al centro. Molti fiori vivaci. Maioliche e piatti alle pareti.

 (All'aprirsi del velario Zita è ritta al centro della scena, e Clotilde e Liù, inginocchiate presso di lei, le rassettano la gonna. Il vestito di Zita deve arieggiare ad un costume campagnolo, ma ricco e festoso: un abito di gala).

Clotilde                       - i Ragazza mia, il vestito è tutto una festa, e fruscia come le ali di un uccellino, ma tu devi anche combinarti un viso un po' meno spaurito, no?

Zita                             - Signora... (si nasconde il viso con un gomito).

Clotilde                       - Ma di che ti vergogni, cara? Non hai da temere nulla. Ecco. (La guarda) Sembri proprio una reginetta.

Liù                              - (con intenzione) Se qualcuno vorrà vederti, oggi...

Zita                             - (semplice) Ma chi mai vuole che si accorga di me...

Clotilde                       - Eh, via, non vorrai farci credere...

Zita                             - Io non so nulla, signora. E non so neppure perché loro proprio oggi hanno tante attenzioni per me...

Clotilde                       - Oh! Che bella riconoscenza... Oggi sol­tanto?...

Zita                             - No, anzi, dicevo...

Clotilde                       - Non ti tratto forse come una seconda figlia ?

Zita                             - Certo, non merito

Clotilde                       - E allora, vediamo. Ecco. Una reginetta. Che ne dici, Liù?

Liù                              - Puoi andare incontro a chiunque.

Clotilde                       - Muovi qualche passo...

                                    - (Zita accenna a muoversi, goffa, impacciata).

Zita                             - Mi vergogno... (Clotilde e Liù la prendono per mano. S'ode una forte scampanellata).

Clotilde                       - Chi sarà?

Liù                              - Non mandiamo Zita. Apro piuttosto io. (Va ad aprire. Clotilde esce a sinistra portando via Zita. Appare nel vano della porta un aitante giovanotto. Veste una divisa che potrebbe anche - grossolanamente - essere scambiata per una divisa militare, da ufficiale in tenuta di campagna. Ha un berretto militare con gai-Ioni rossi, e galloni porta pure alle maniche. Dietro dì lui s'intravvedono altri due compagni, in eguale divisa. Sono giovanottoni dal riso pronto, dai modi di zerbi­notti di campagna, avvezzi alle contadinotte, alle sen vette, alle ragazze di fabbrica).

Franz                           - (salutando militarmente) Scusate, bella si­gnorina: abita qui il signor consigliere Federico Mab?...

Liù                              - Ma certamente, certamente... Entrate...

Franz                           - Non sono solo, bella signorina: ho con me... (accenna ai due altri compari).

Liù                              - Ma prego, accomodatevi... siete in casa vostra...

Franz                           - (entrando, e salutando ancora, con la mano alla svisiera e forti colpi di tallone) Quanta degna­zione!

Lrù                              - La nostra casa è tutta per voi!

Franz                           - Oh, questo, poi... (Entrando Karl e Robert, che salutano c. s.; presentando) I miei colleghi... (i co­gnomi si perdono).

Liù                              - (inchinandosi) Onoratissima. Adesso vado a chia­mare la mamma... (E' impacciatissima, in evidente or­gasmo, e contrasta stranamente con il tipo presentato nei primi due atti) Prego, accomodatevi... Con per­messo. (Esce).

Franz                           - (ridendo grossolanamente) Ah! Ah! La poi-lastrina di penna bianca! Aveva ragione, quel diavolo di Max, a dirci che qui si sarebbe trovato qualche cosa da fare...

Karl                             - Oh, di', non credere di fare un buon boc­cone solo tu. Ci siamo anche noi, ci siamo.

Robert                         - E a bocca asciutta a casa non si torna, vero Karl?

Karl                             - (sempre piagnucoloso) Sicuro. Io voglio la mia parte,

Robert                         - E io la mia. Patti chiari.

Franz i                         - Sentite. Ognuno avrà la sua "parte, ma adesso non bisogna cominciare a bisticciare tra noi, se no ci cacciano via. (Con intenzione) Siamo o non siamo i... come si dice?... Ah, ecco: i rappresentanti di un principe del... del sangue? E allora, compari, dobbiamo essere degni di questa mansione.

Karl                             - Tu, Franz, ti senti molto sicuro. Io no. Io ho invece un brutto presentimento: si direbbe che un grosso dispiacere ci aspetta...

Robert                         - (a Franz) Te l'avevo detto di non scegliere questo piagnone di Karl? E' un guastafeste. Un vero guastafeste. Anche l'altra volta, quando andammo alla scampagnata al Bosco delle Fate, ebbene, trovò modo di farci scappare di sottomano tutte quelle ragazze che pescammo sul trenino... Già, si vede che sei addetto ai pennuti, tu... Peuh!

Karl                             - (sempre piagnucoloso) Ecco la solita storia: addetto ai pennuti. Bè? Con questo? C'è anche lo struzzo, tra i pennuti, e c'è l'aquila, no?

Franz                           - (con vero disprezzo) Taci! Ma ti pare la stessa cosa, di', portare il becchime a quelle grosse stu­pide galline che sono gli struzzi, o andare a pigliar per la coda Mustafà, come fa Max, o mettere mezzo braccio nella gabbia di Jogla, la pantera nera, come facciamo io e lui? (accenna a Robert). E' lo stesso affare, se­condo te?

Karl                             - Verrà anche per me il giorno...

Robert                         - Di passare ai nostri reparti? Non te lo so­gnare. Tu resterai sempre tra le anitre e i polli. Cortile. Ma non te ne accorgi che quando passi davanti alla gabbia delle scimmie ti fanno dei suoni sconci?...

Karl                             - (offeso) Sconci? A me?

Robert                         - A te, sì, proprio a te! (ride, con Franz).

Franz                           - Del resto, è Max che deciderà.

Robert                         - (con ammirazione) Guarda, Max: quello sì è un uomo.

Karl                             - (con il piacere della rivincita) Ma non cre­derete di potergli somigliare troppo da vicino, voi due, vero?

Franz                           - Intanto, per rappresentarlo, qui, e prepa­rargli la strada col vecchio, ha scelto noi.

Robert                         - Segno che ci stima. Se no, avrebbe chia­mato qualcun altro.

Karl                             - (remissivo) Questo sì... Ma quando ha saputo che sarei venuto anch'io, con voi, ha forse detto di no?

Franz                           - Basta, adesso. C'è altro da fare. Bisogna parlare al vecchio, E questo è un brutto affare... (Grat­tandosi la testa) Davvero che non ricordo più una pa­rola di quanto mi ha detto Max... Robe»! Diavolo, e come si fa?

Karl                             - Ve l'avevo detto io, che le cose sarebbero andate male?

Franz                           - Al diavolo. Io ho altro per le corna che prendermi di petto col vecchio. Con un consigliere, dico, E se quello che ho da dirgli non gli garba? ÌE se mi schiaffasse in una delle sue prigioni?

Clotilde                       - (entra: è curiosamente bardata a festa, e l'equivoco di trovarsi di fronte a tre brillanti ufficiali della Guardia del Principe la rende tutta inchini, moine, rezzi) Signori... (I tre si alzano, salutano con forti colpi di tallone).

Franz                           - Ai vostri ordini, madama...

Clotilde                       - Vi prego, accomodatevi. Mia figlia mi ha detto... Dovete parlare a mio marito, al signor con­sigliere Mab?...

Franz                           - Esattamente. Per conto di un nostro...

Clotilde                       - (con aria furbesca) Ho capito. (Sottovoce) Sono, in gran parte, al corrente...

Franz                           - Meglio così. Ma... (fa Patto di dire: «Zitti con tutti»).

Clotilde                       - , Mio padre era duca, signori: sono di una famiglia di soldati e di uomini di mondo... (/ tre scat­tano ancora in piedi).

Franz                           - (mormora) Duchessa...

Clotilde                       - (lusingatissima) Oh, prego, prego, non vi incomodate... E dal momento che mio marito non è in casa...

Franz                           - Allora...

Ciotilde                       - ...ma rientrerà tra pochi minuti. Posso offrire alle vostre signorie un piccolo rinfresco? Sci­roppi, rosoli, un goccio di vecchio Brandy?

Karl                             - Io direi... se ci fosse una buona bottiglia rossa... (Gli altri due lo guardano male, e Franz tenta pestargli un piede).

Clotilde                       - Ma certo : ho ancora qualche ricordo delle tenute di mio padre, il Duca... (Chiama) Zit... (ma la parola le muore sulle labbra. Si guarda intorno, fissa i tre, con aria di chiedere scusa) E’ l'abitudine: ma non crediate che noi ci si sia ancora valsi dei suoi servizi... L'abbiamo trattata proprio come una figlia... (/ tre non capiscono, ma annuiscono egualmente).

Franz                           - Già, già...

Clotilde                       - (chiamando) Liù, carina, vien qui... (Ai tre) E' mia figlia, un vero tesoro, non faccio per dire. Buona, servizievole, remissiva. Per la casa, poi, una vera manna.

Liù                              - (senza entrare, con voce tenerissima) Mammà, scusa, non posso... Un minuto ancora...

Clotilde                       - Che cara, non può... E' rimasta un po' in soggezione, forse cambia d'abito... Eh, la gioventù, la gioventù, per le divise...

Karl                             - (tonto) E questa che indossiamo è di bassa forza... Bisogna vedere quella di Max...

Clotilde                       - Max?

Franz                           - (sottovoce, con intenzione) ...il «principe». Noi lo chiamiamo così, semplicemente.

Clotilde                       - Ah! Nell’intimità tra gli amici...

Franz                           - Max, così.

Robert                         - In servizio, naturalmente, tutto cambia. Non guarda più in faccia a nessuno. Punirebbe un fratello senza batter ciglia.

Clotilde                       - Quelli sono uomini. Dio lo salvi, per la fortuna di tutti...

Franz                           - Oh, certo. Sotto di lui, quando sarà al co­mando assoluto, ci ingrandiremo anche di più. Ha idee grandiose. Io le conosco.

Clotilde                       - (che non sta più nella pelle) Signori, si­gnori, quale onore per me avervi miei ospiti in questo momento... Personaggi come voi, che godete della « sua » amicizia...

Franz                           - Se sapeste quanto è semplice!

Clotilde                       - La vera nobiltà!

Robert                         - (don aria furbesca) E la sua fortuna con le donne...

Clotilde                       - Fascino regale...

Karl                             - Le servette...

Clotilde                       - (fa un gesto eloquentissiino: «Eh! ho visto! »).

Franz                           - E le bestie? Sono tutte per lui!

Robert                         - E' sufficiente ch'egli rivolga loro la pa­rola, per fare ammansire di colpo anche le più indocili.

Clotilde                       - (giungendo le mani) Orfeo!

Franz                           - (con perplessità) Non lo conosciamo... (A Robert) Non è dei nostri, vero?

Robert                         - No, non credo...

Clotilde                       - (ridendo) Ah! Bella, bellissima! Che simpatici giovanotti... Sempre così allegri!

Karl                             - (sornione) Anche se non si beve...

Clotilde .                     - Avete ragione! Che smemorata sono! Ho dimenticato... Andrò a prendere io, qualche cosa adatta... Scusatemi, un solo minuto... (I tre saltano in piedi).

Franz                           - Non disturbatevi.

Robert                         - Proprio, ci spiace...

Clotilde                       - (civettando) Non sono certo i doveri della buona ospitalità i meno graditi da eseguirsi... Quando ero giovinetta, e si andava in campagna, in una vecchia nostra terra nei dintorni di Karkovina, ogni anno ospitavamo qualche ufficiale comandante le truppe desti­nate alle grandi manovre... Che bei giorni, che liete serate... Sempre così allegri, gli ufficialetti... Così sim­patici... (Piano, civetta) Ogni anno il mio cuore di gio­vinetta batteva, batteva... (Esce lieve) Con permesso... (/ tre sbottano in una gran risata).

Franz                           - O questa? Max ci aveva parlato di polla­strelle, ma qui si tratta di vecchie galline!

Karl                             - Purché ci porti da bere: io ho la gola secca.

Robert                         - Anch'io.

Franz                           - E intanto il consigliere non si vede.

Robert                         - Sarà andato a ricevere il principe Gualtiero.

Franz                           - Non credo. Non è più in servizio. E se lo vuol vedere, non avrà che da affacciarsi di qui: tra poco udremo le musiche, passerà il corteo...

Robert                         - E Max, con quell'idea di essere principe... Chi gliela leva più? E' fissato.

Karl                             - Io non capisco poi perché dovrebbe essere il consigliere a metterlo sulla buona strada.

Robert                         - Ma perché è lui che sa tutto. E non vuol parlare, a quanto pare. Ma noi gli metteremo la corda al collo: o dir tutto, o...

Franz                           - (trattenendolo) Zitto. Non ci roviniamo la posizione acquistata. Hai visto come ci tratta la vecchia?

Karl                             - (piagnucolando) Qui non si beve, e io ho una sete maledetta. (Picchiando col pugno) Ehi, di casa!

Franz                           - Smettila! Non te ne accorgi che ci trattano come se i principi fossimo noi? Dunque. Un po' di contegno.

Robert                         - E' così bello, una volta tanto, essere scam­biati per signoroni...

                                    - (Clotilde rientra seguita da Liù; quest'ultima ha in­dossato un abito da sera, scollato e sbracciato. Portano un vassoio con bicchieri d'alto calice, e tre vecchie pol­verose bottiglie).

Clotilde                       - Vedete: potrete testimoniare che quella tale persona, qui da noi, non è certo trattata come una servetta!

Franz                           - Oh, certamente. (Fa un gesto a Robert come dire: «Chissà di chi si tratta...»).

Clotilde                       - La vera nobiltà consiste nell'essere sem­plici, vero?

Robert                         - Parole sacrosante.

Clotilde                       - Ecco tre ricordi delle cantine paterne: non vedrei migliore occasione...

Karl                             - (che ne ha afferrata una) Caspita! E Valdenbourg del novecento! (Schioccando la lingua) Roba da re!

Clotilde                       - (vanitosa) Avevamo ben altro, nella te­nuta di mio padre... Mah!

Franz                           - Tempi andati!

Clotilde                       - Ma bellissimi, ve Io assicuro io. (Karl, intanto, stura le bottiglie, le passa a Liù che riempie i bicchieri e serve). Non per disprezzare quelli d'oggi, ma allora, eh!, ci si sapeva divertire davvero... Certi balli, certe feste...

Franz                           - (alzando il bicchiere) Evviva la padrona di casa, e la padroncina! (Ringraziamenti, bevute di un fiato dei tre uomini, che tornano a riempirsi i bicchieri. Bevono anche le due donne: e in tutti saranno presto visibili i segni di un'allegria chiassosa).

Clotilde                       - Oggi questi ragazzi fanno troppo sport, si stancano come facchini, e quando arriva il momento di qualche divertimento, come dire?, ecco, un po' più... consistente, sono ridotti in poltiglia dalla fatica. Invece, noi...

                                   

Liù                              - Mamma...

Clotilde                       - Eh, lasciami dire, una volta tanto che sono ascoltata da persone che possono capirmi... Il ballo, per esempio! Oggi, qui da noi, non si balla più. Quei bei balli...

Karl                             - La domenica, nel pomeriggio, quando sono libero dal servizio, io vado sempre alla « Casina di Campagna »... Che fior di ragazze!

Clotilde                       - Ecco, vedete? Al diavolo lo sport! (Alla figlia) Tu, con tutto quel tennis...

Franz                           - Non la rimproverate. Anche lo sport è ne­cessario. Crea la linea.

 Liù                             - (civettando) Sono lieta di aver trovato un difensore!

Franz                           - (galante) Sedetevi qui: ci faremo compagnia

Karl                             - (sempre piagnucoloso) Ecco, lo dicevo io che si finiva così. A me toccherà far ballare la vecchia...

Robert                         - Taci, se non vuoi che ti rompa sul capo una di queste sedie.

Clotilde                       - I nostri vecchi valzer, signori! Li ricordate voi? Li ballavamo per notti intere, e non eravamo1 mai stanche! Il bel «Danubio blu»! Quanti ricordi! (Si commuove).

Franz                           - (a Liù) Vorreste ballare con me?

Liù                              - Ma certo, signor...

Franz                           - Franz.

Liù                              - Signor Franz.

Karl                             - (cercando il motivo del valzer) Ta ta, ta ta ta...

Robert                         - (dandogli uno scapaccione) Sei stonato co­me una vecchia campana...

Franz                           - Se ci fosse un pianoforte, un grammofono...

Liù                              - L'abbiamo, un vecchio grammofono!

Clotilde                       - E' in solaio: e deve pur esserci il disco dal valzer...

Franz                           - Andiamo a prenderlo, signorina...

Liù                              - Liù.

Franz                           - ... signorina Liù?

Liù                              - Andiamo pure! (Escono).

Clotilde                       - (a Karl) Anche voi siete della Guardia, vero?

Karl                             - Questa settimana mi è toccato il turno di notte. Oh! Sono sicuro che hanno fatto camorra, ma stavolta è l'ultima. Sapeste che fatica, di notte, con tutte quelle bestie...

Clotilde                       - 1 cavalli...

Karl                             - Ma che cavalli! I leoni, le tigri, le jene... Avete mai sentito urlare le jene, di notte?

Clotilde                       - Ah! Ah! Che bel mattacchione! (A Ro­bert) Dev'essere il più allegro della brigata!

Robert                         - (con convinzione) E' il più fesso.

Karl                             - Questo lo dici tu. Ma adesso è finita. Adesso dovrete imparare a rispettarmi. Sono un uomo come voi, no?

Robert                         - (c. s.) Sì, ma sei il più fesso.

Karl                             - E dai. Ti dico che adesso cambio.

Robert i                       - Non puoi. Dove ci. sono due uomini che lavorano, un fesso ci vuole. Se no, come si farebbe ad andare avanti?

Karl                             - Lo dirò a Max.

Robert                         - Starai fresco. Se tu non Io conoscessi an­cora, il bel caratterino...

Karl                             - Oh, caro mio, deve rigar dritto anche lui.

Robert                         - Nessuno lo comanda.

Karl                             - Lo comanderò io, un giorno!

Robert                         - Tu! Ah! Ah!

Karl                             - C'è poco da ridere. Un giorno vi comanderò tutti. Con lo staffile. (Come preso da una visione) Una notte entrerò nella casa di Max e gli dirò : « Ehi, tu, alzati, esci di qui, e dammi il tuo posto! ». Lui dirà: «Zitto, io sono un principe! ». E io gli dirò: «Tu un principe? Tu sei soltanto uno stalliere che puzza di bestia grossa! ». E gli sputerò addosso!

Clotilde                       - (allarmatissima) Signori, signori... che cosa sono questi discorsi? Qui, nella mia casa, nella casa di un funzionario del Governo... Per carità..

Robert                         - Lasciatelo dire. Quando beve, è così. Se continua, lo farò smettere: ho un sistema, io...

Karl                             - E anche te, farò filare dritto. E' inutile, sai, che tu mi guardi storto! Un giorno vi metterò tutti a posto. Vi farò fucilare. Tutti contro il muro, come scimmie. Pum! Pum! Pum!

Robert                         - (andandogli incontro) Basta!

Karl                             - Pum!

Robert                         - Basta, ho detto (gli dà uno schiaffo).

Karl                             - (si accascia, subitamente, e si mette a piangere, bambinescamente).

Clotilde                       - Poveretto!

Robert                         - C'è abituato. Succede sempre così. Quando beve, da timido che è, diventa una bestia, e parla sem­pre di fucilare qualcuno, far piazza pulita, balzare lui al comando... Peuh! Basta uno schiaffo al momento giusto e tutto torna a posto.

                                    - (Entrano Franz e Lia. con un vecchio grammofono a tromba: sono allegrissimi, e Liù è visibilmente scarmi­gliata ed eccitata).

Franz                           - Abbiamo gettato all'aria tutto il solaio: si era nascosto sotto un vecchio letto, come un gatto scor­butico!

Liù                              - Quanta polvere, quanti ragni abbiamo visto!

                                    - (Caricano il grammofono, mettono il disco : vien fuori, debitamente gracidata, la vecchia aria del «Bei Danubio azzurro ». Liù e Franz si mettono a ballare).

Clotilde                       - Ah! Quanti ricordi, quanti ricordi!...

Robert                         - (a Karl) Fai ballare, madama.

Karl                             - Ecco: lo avevo detto, io...

Robert                         - Svelto, se no ti suono un'altra svèntola...

                                    - (Karl va innanzi a Clotilde, si inchina goffamente, quella accetta e si slanciano nel ballo. Robert, invece, si mesce un altro bicchiere, poi si stravacca sul divano, e batte il tempo con due bicchieri. È una tipica scena da vecchia stampa. Suona il campanello di casa, ma nessuno lo sente. Solo Zita, passando dal fondo, ha udito, e va ad aprire. La porta si spalanca d'impeto, ed appare Max: è in grande divisa, una specie di costume operet­tistico, con bottoniera dorata, alti stivaloni lucidi, ber­retto gallonato d'oro, frustino in mano. E' eccitato. Avrà un tono spavaldo, di comando; e tutta la scena seguente dev'essere giocata in tono operettistico, con una leggera intonazione parodistica).

Max                            - (si ferma sulla porta, colpito dalla scena; e su tutti, la sua apparizione produce un grande effetto. I ballerini si fermano di botto, i tre giovanotti s'impa­lano in un esagerato « attenti » ; solo il grammofono' continua a gracidare il suo valzer) Bravissimi! E' cosi che avete eseguito i miei ordini?...

Clotilde e Liù             - (le due donne, è chiaro, hanno preso un abbaglio, e credono che Max sia il tanto atteso principe Ruprecht; compiono entrambe un grande in­chino, degno di una sala di Corte).

Zita                             - (all'entrata di Max, si è stretta le mani al petto, per l'emozione e la gioia di vederlo così vestito. Ri­marrà in muta adorazione).

Max                            - (inoltrandosi: ai compagni) Siete i soliti be­stioni: sono stato uno sciocco a fidarmi di voi. (Si trova innanzi alle due donne ancora in atto di ossequio: resta un istante, meravigliato).

Clotilde                       - (chinandosi ancor più, mormora) Al­tezza!

Max                            - (con un sorriso di trionfo, quasi il titolo gli desse la completa investitura) Ah! Finalmente mi si riconosce! (Ai compagni) Avete visto? E voi tre, mar­motte...

 

Franz                           - Ma io ho chiesto del signor consigliere, per parlargli da parte tua. Ma queste...

Clotilde                       - (con ossequio) Il consigliere mio marito non è in casa, Altezza. Ma verrà, verrà prestissimo... Ai vostri ordini...

Max                            - (trionfale) Bene, benissimo... (Avanza).

Clotilde                       - Se possiamo avere l'onore di offrirvi la nostra poverissima ospitalità... Liù, una sedia...

Liù                              - (precipitandosi) Altezza... (offre una sedia).

Karl                             - (grattandosi la testa) Dio mi fulmini se ci capisco più un'acca, di tutto questo imbroglio...

Max                            - (sedendo) Attendiamo questo consigliere...

Clotilde                       - Un brav'uomo, devotissimo alla Casa-Ligio al dovere, attaccatissimo... Ma un po'... Come dire? Ecco: adesso è un po' svampito. Tanti anni di lavoro, sempre dedicato alla giusta causa...

Max                            - Bene, bene...

Clotilde                       - E senz'aver mai chiesto alcuna ricompensa: né per sé, né per i figli: questa          - (indicando Liù) e un maschio... Mai sollecitato un premio, un riconoscimento... Una sola debolezza... lo Zoo...

Max                            - Sappiamo, sappiamo...

Clotilde                       - (stupita) Vostra Altezza sa?...

Max                            - (ridendo) E chi non lo sa, vero? (ammicca coi tre compagni). Il consigliere e il dottor Pancione: i due più grandi amici dello Zoo...

Clotilde i                     - Inaudito! E anche Zeller...

Max                            - Sappiamo tutto.

Clotilde                       - (che si è accorta adesso di Zita, varrebbe mostrare segni di attenzione verso la ragazza, per ingra­ziarsi Max) La piccola Zita.

Max                            - (con aria di superiorità) Che cosa fai, scim-mietta?

Zita                             - (dà in uno scoppio di pianto dirotto).

Clotilde                       - (accorrendo) Ma no, piccola, non fare così... Asciugati le lacrime... Vieni avanti... (A Max) Una figlia, per me. L'ho sempre tenuta alla pari con i miei figlioli... (A Zita) Vieni qui, siedi... (la fa sedere accanto a Max). Queste ragazze benedette...

Max                            - Mi danno una noia tremenda, le lacrime delle donne. Non mi commuovono, mi fanno rabbia.

Zita                             - (singhiozza ancora) Non... non... lo... farò più!...

Clotilde i                     - Ecco, da brava.

Franz                           - (che è sempre stato accanto a Liù, e con la quale, è evidente, ha «attaccato ») Bè, non si potrebbe ri­mettere in moto questa baracca di valzer?

Clotilde                       - (confusa, a Max) Se vi degnate...

Max                            - Come no. Attacca, Franz! (Franz rimette in moto il grammofono, ma nessuno balla).

Clotilde                       - (con sussiego, come se si trattasse di una festa a Corte, a Max) Se Vostra Altezza vuole de­gnarsi di aprire il ballo con... (accenna a Zita)

Max                            - Con questa? Bè. Sai ballare?

Zita                             - (subito raggiante) Oh, sì!

Max                            - Andiamo. (S'alza, l’afferra rusticamente).

Clotilde \                     - (che intuisce la situazione di Zita) At­tento, Altezza!

Max                            - Che?

Clotilde                       - (accennando a Zita) La piccola... può sof­frire...

Max                            - Tutte storie! Meno svenevolezze, ci vogliono! (e incomincia a danzare; lo imitano Franz e Liù. Karl tenta squagliarsela).

Robert                         - (implacabile, a Kofi) La vecchia!

Karl                             - (piagnucoloso, al solito) Sempre a me, sem­pre a me! (Senza chiedere permesso, afferra Clotilde e la fa ballare. Quadro. Ad un tratto si spalanca la porta di casa ed appaiono, nel vano, Federico e il dottor Zeller. Nello stesso istante, dalla strada, scoppia una marcia militare, allegra e fragorosa. Alto clamore di popolo fa da contrappunto, e giungono chiare le acclamazioni della folla : « Viva », « Evviva » ; e i battimani. E' il corteo del principe Gualtiero di Ruprecht che transita. Di botto cessano le danze. Karl, Robert, Franz si slanciano alla finestra, esclamando: «Il Principe, il Principe! »),

Clotilde                       - (rimane un istante perplessa, accanto a Liù; poi, come trasognata, destantesi da uno strano torpore) Il principe? Quale principe!

Max                            - (con una strana voce triste, come se il dire gli costasse fatica) il nostro principe, Gualtiero di Ru­precht. E' giunto adesso. La folla lo acclama. Egli passa a cavallo, salutando. Lo accompagnano a Palazzo Reale.

Karl                             - (a Max, beffardo) Vieni a vedere, tu, come vestono i veri principi!

Max                            - (senza reagire, si appressa alla finestra, guarda in basso. Un'ombra dì invincibile malinconia gli si di­stende sul volto).

Clotilde                       - (è come se le parole di Karl e la supina re­missività di Max le togliessero una benda dagli occhi; va accanto a Max, lo squadra, poi, prendendolo per un braccio) Ma voi, chi siete?

Max                            - Sono Max, signora, Ai vostri ordini.

Clotilde i                     - Ma che Max, che razza di Max...

Karl                             - (che ritrova l'astio della scena con Franz) Max dei leoni, signora. Un principe, dice lui. Il principe dello Zoo. Il principe delle operette... (A Max) Ah! L'hai visto il principe vero, no? Tu, tu sei soltanto il capo degli stallieri dello Zoo. Là dentro, comandi. Ma fuori... Provati un po' a comandarmi, adesso... Provati!

Clotilde                       - (al colmo della confusione) Ma voi... (si guarda intorno, smarrita, e vede, sempre accanto alla] porta d'ingresso, Federico e Zeller. Corre incontro a Federico) E tu, tu, vuoi dirmi?...

Federico                      - (con voce buona, quasi parlasse ad una bam­bina capricciosa) i Che cosa ti debbo dire? Hai capito tutto da te, ormai...

Clotilde                       - (furente). i Tutta un'invenzione tua              (e a Zeller) ... e vostra! E' lui, non è vero, quello del pa­sticcio di Zita? Lui, vero?

Federico                      - (allargando le braccia) E' così semplice.

Clotilde                       - Semplice, tu dici? Semplice? Ma lo sai la figura che mi hai fatto fare, lo sai? Con questa gen­taglia... (sovvenendosi dei tre... ufficiali, ancora alla fi­nestra, e andando loro incontro, trascinata da un'ira irre­frenabile) E voi, voi tre, ditemi un po', chi siete?

Karl                             - Tutti dello Zoo, signora! Ai vostri servigi!

Clotilde                       - Ma che servigi volete farmi, voi! (A Liù) Ed è tutta la mattinata ch'io sento puzza di bestia, qui dentro, e non sapevo rendermene ragione! Sono loro, che puzzano di stalla e di gabbia! Credevo fossero le loro divise, le onorate divise dei soldati al campo... Sic­ché, non siete ufficiali, voi?

Franz                           - Noi, ufficiali? (scoppia in una gran risata, alla quale fanno eco quelle di Karl e di Robert),

Karl                             - (piantandosi sull'attenti) Soldato semplice, madama, ma in cavalleria. E adesso borghese, e speriamo per un pezzo!

Clotilde                       - Ed io ho ballato con questo...

Karl                             - Se vi fa piacere, madama, io sono libero, do­menica... Si va alla «Casina di Campagna »... C'è un vinetto...

Clotilde                       - (ha un moto d'ira; ma d'improvviso scorge Zita, che se ne sta silenziosa accanto a Max; le va in-contro, e la sua voce piglia toni cattivi) Eccola qui, la responsabile di tutto questo monte di sciocchezze! Tu, tu sei la colpa di tutto! Per colpa tua qui siamo ca­duti tutti nel ridicolo! Per colpa tua noi saremo, do­mani, sulla bocca di tutta la città! E ne parleranno i giornali, e verrà fuori la solita vignetta illustrata! Ah! ma tu ce la devi pagare... Sai che cosa sei tu? Una in­fingarda che è riuscita ad intenerire quei due... quei due disgraziati là!... (accenna a Federico e a Zeller). Ma per me, sai, l'imbroglio è durato poco. E mi è servito anche di lezione: mi ero lasciata intenerire anch'io, come quei due... (Alzando la voce, come di chi riprende il comando) Basta, adesso. Tu (a Zita), tu, buona a nulla, raccogli i tuoi stracci e fila! Vai a raccontarla a qualcun altro, la storia del tuo bambino,... figlio di re!

Zita                             - (insorgendo) Io non ho detto nulla di tutto questo...

Clotilde                       - Tu sei stata la causa di tutto. E fila. Vai a raccontarla ai signori della maternità, la tua stupida storia. Ma già, io non credo più a niente. Tu sei un'in­fingarda...

Zeller                          - (facendosi avanti) In quanto a questo...

Clotilde                       - Zitto, voi. Sono in casa mia. Ho; il diritto di fare il comodo mio, no?

Zeller                          - (allargando le braccia) Tanto, ormai...

Clotilde                       - (a Zita) E se avrai un figlio davvero, bel padre gli hai scelto! Non lo vuole neppure, e ti co­stringe a raccontare un sacco di storie... Col padre qui presente, metterai al mondo un bastardo! Bel risul­tato, va'!

Zita                             - (si mette a piangere).

Max                            - (le portole di Clotilde lo hanno scosso. Muove un passo, s'interpone tra Zita e Clotilde. Poi, con voce ferma, quasi minacciosa, soffocata) Basta! Chi cre­dete di essere, voi? Una vecchia bertuccia. Che non sapete quello che vi dite.

Clotilde                       - (furiosa) Vecchia bertuccia a me? (^i Fe­derico) Hai sentito?

Federico                      - (spalanca le braccia).

Clotilde                       - (a Max) Ve la farò pagare cara!

Max                            - (c. s.) Basta! Avete già parlato troppo. Tacete!

Karl                             - Quando una donna parla...

Max                            - Taci anche tu. Anzi, filate via, tutti e tre. (Alzando il frustino) Faremo i conti stasera. (I tre escono, mogi mogi. A Clotilde) Ho voluto evitarvi una figuraccia di fronte a tre stallieri...

Clotilde                       - Già, perché voi siete... un principe!

Max                            - (calmo, con voce ferma) Io non so se sono un principe. Forse non lo saprò mai. Ma se l'essere diffe­rente da quello che sono, mi facesse simile a voi e alla vostra gente, preferisco) rimanere all'oscuro del mio stato. Da quando ho messo piede qui dentro la prima volta...

Clotilde                       - (interrompendo) Siete già stato qui, in casa mia?

Max                            - Sì, e senza chiedervene il permesso. Ho par­lato con lui     - (indicando Federico con il frustino). Bene, da allora, dicevo, ho sentito un grave malessere scendere in me. Ed ho sentito, proprio qui dentro, che se qualche cosa di buono, di grande era in me, soltanto laggiù, in mezzo alla mia gente e alle mie bestie, avrei potuto ri­trovarlo. Non qui tra voi. Vedete: questa è la seconda volta che entro in una casa di... signori: e mi ci trovo male. Non ci si respira, qui dentro. L'aria ve la respirate tutta voi. E io ne ho bisogno di tanta, per riem­pire questo serbatoio. (A Federico) E voi, se davvero sapete qualche cosa di me, state zitto. Anche se domani tornerò qui a pregarvi di parlare, a scongiurarvi, non parlate. Per il bene vostro, e mio. Oggi, capite, i miei occhi hanno visto chiaro, le mie orecchie hanno udito. Ho visto - capite - ho visto un vero principe, laggiù       (accenna alla strada). Era lontanissimo da me. Tutto un mondo. Ed ho capito dov'è il mio posto, dov'è la mia vita. Io torno là. Ma se di notte mi assaliranno i pen­sieri che voi sapete, e se tornerò qui a pregarvi... Eb­bene, cacciatemi. Cacciatemi come un cane. Senza pietà. (1 suoi occhi si fermano adesso su Zita, immobile, statuaria) E tu?

Zita                             - (senza parola, abbandona le braccia lungo il corpo).

Max                            - (con, amarezza) Non puoi più stare qui: ti ha cacciata via, anche te. Tutti via. Su. Andiamo.

Zita                             - (con un lampo di gioia) Con te?

Max                            - Se credi sia una cosa molto bella...

Zita                             - (afferrandogli una mano) Con te, con te... (gliela bacia).

Max                            - Se il dottor Pancione non ti ha ingannata...

Zita                             - (con un grido) Ho visto, ho visto la Madonna, stanotte! Ed ho udito le trombe suonare...

Max                            - Allora possiamo andare.

Clotilde                       - Finalmente! (A Zita) Vai a fare il tuo fagotto...

Max                            - (trattenendo Zita) Non occorre! Saprò vestirti io, davvero, come una regina! (Escono).

Clotilde                       - (lasciandosi cadere su di una seggiola) Ah, ce n'è voluto, per indurlo a portarsela via, e a fare il dovere suo, quel ragazzaccio! Federico e

Zeller                          - (la guardano, meravigliatissimi).

Clotilde                       - Eh, già, che avete da guardarmi così, voi? Ma che cosa credete dunque, ch'io mi sia lasciata abbin­dolare da tutta questa montagna di menzogne? Ho in­tuito tutto! Ma c'era quella benedetta creatura da met­tere a posto. E sapete, far sposare una ragazza, oggi, non è mica una faccenda da poco! Se io non l'avessi messa fuori così, su due piedi, credete che quel... quella specie di saltimbanco lì ci sarebbe cascato, a fare il dover suo? Macché! L'avrebbe piantata qui, nelle co­stole a noi, per sempre.

Federico                      - (alzando le braccia al cielo) Inaudito!

Clotilde                       - Per te, che non mi hai mai compresa a fondo! (A Zeller) Voi, però, con la faccenda dell'anello... (si fruga in seno, trae fuori il famoso anello). Questa è una vostra invenzione, vero? Siete voi che l'avete ti­rato fuori, il gioiello regale... Anche voi avete voluto prendervi gioco di me, vero?

Zeller                          - (sereno) Meno di quanto credete.

Clotilde                       - (ironica) Non vorrete ch'io continui a cre­dere che questo non è nulla di più di un volgarissimo coccio colorato!

Zeller                          - Come volete voi. Finché avete creduto all'e­sistenza del principe, questo è stato un gioiello di ine­stimabile valore...

Clotilde                       - (facendo l'atto di gettarlo dalla finestra) Ecco a che cosa credo, adesso.

Zeller                          - (fermandola) Attenta! La strada è dei prin­cipi autentici, oggi, non avete visto? E se un vero prin­cipe lo raccatta, questo diventa un vero gioiello da re! (Glielo toglie).

Clotilde                       - Siete un vecchio pazzo. Suo degno com­pare.

Zeller                          - Dovrò ricordarvi la parabola dei pazzi e dei savi?

Clotilde                       - Non è necessario. (A Lia) Andiamo. (A Zeller) Ci spiace, dottore, ma non potremo trattenervi a penitenza oggi. Avete visto: la domestica se ne è an­data, finalmente, e in cucina dovremo metterci noi...

Federico                      - (allegro) Andremo a mangiare fuori, Zeller ed io...

Clotilde                       - Ecco, approfittate dell'occasione per fare un pò di festa assieme, voi due! Io rimarrò a casa, come sempre. A custodire il focolare. Vero, Federico? (Esce, con Lìù).

Federico                      - (breve pausa a Zeller) Tu credi che la terrà con sé, la ragazza?

Zeller                          - Ma certo. Si sposeranno. (Mostrando l'a­nello) E qui c'è il mio regalo di nozze.

Federico                      - Un coccio...

Zeller                          -Sbagli. E' l'unica cosa vera di tutta la fa­vola. E' un gioiello che mi ha lasciato mia madre, auten­tico. L'ho sempre portato con me. Te ne racconterò la storia, cammin facendo. (Si apprestano ad uscire) Devi dunque sapere che c'era una volta... (Escono).

FINE