SOLO RITORNO
Una giovane vita bruciata dalla droga. Un racconto di rimpianto e pentimento per il coraggio e la volontà che sono mancati per mettersi in salvo.
(ESTER ANNETTA
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SOLO RITORNO
Ladri, banditi, reietti, diseredati: tutti raccolti qui, in questa latrina dell’umanità dove le nostre esistenze inutili vengono scaricate e lasciate a decomporsi…
Ma nemmeno è certo che diventino humus, concime, terra fertile per condotte pulite e dignitose. Sarebbe così se della nostra vita sprecata restasse almeno un esempio o, meglio, un monito per altri: per tutti quegli esseri fragili, deboli, corruttibili che, al difetto di forza e volontà, hanno creduto di rimediare col perdersi nell’euforia momentanea di una reazione chimica, in quell’esplosione di percezioni alterate che, alla lunga, devastano mente e sensi.
Ne abbiamo avuto di opportunità; di mani tese a offrire aiuto; di sostegni e di traini.
Ma ostinatamente abbiamo opposto un rifiuto o abbiamo rinunciato dopo poco, per arrenderci ancora alla tentazione perversa di quel male, alla malìa di quell’universo fittizio, illusorio e momentaneo, dove all’estasi di un istante segue l’inferno di una vita.
Solitudine. Fame. Bisogno: martelli che polverizzano la dignità sull’incudine dell’incuranza; lenti alterate che rendono credibile il miraggio, giustificando l’ossessionante e incontrollata ricerca di mezzi che reiterino l’illusione.
A costo di tutto.
Rubare, tradire, parare calci e pugni senza difesa, solo contraendo i muscoli… disposti a pagare così, col prezzo amaro e ferroso del sangue in bocca, l’attimo di beatitudine di un fragile volo oltre la realtà lercia ed indignitosa in cui ci siamo perduti.
Stolidamente e ignobilmente abbiamo reso un tributo di sofferenza e dolore a chi, un tempo, intorno ad un germoglio di vita aveva progettato un disegno d’amore.
Ne abbiamo ucciso i sogni e le attese.
Senza mai un grido o una lacrima, mia madre ha trattenuto i pugni e i calci che le sferravo durante le crisi; mobili e porte mostravano i segni della mia furia devastatrice, mentre la sua anima raccoglieva e curava in silenzio ferite invisibili.
Mi ha creduto al sicuro nel tempo in cui sono stato recluso in casa, con la pattuglia che tornava a controllarmi ogni giorno.
Ma anche lì la roba arrivava; spesso l’ambulanza si fermava in cortile, e gli angeli soccorritori venivano a riacciuffarmi per la cima di quei cortissimi capelli che continuavo a rasare.
Le madri sono forti. Più dei padri.
Il mio è morto in un pomeriggio d’autunno, mentre correva sotto la pioggia, in quell’ora in cui, ogni giorno, infilava gambe ai suoi pensieri e li lasciava andare…
Un infarto, è stato il referto dei medici; crepacuore, il verdetto affilato e inequivoco della giuria popolare: la sua mole possente non era bastata a sopportare un peso troppo più grande...
Mia madre in questi anni è sempre venuta a cercarmi, ovunque fossi fuggito.
Con i soldi presi in prestito dai vicini, ha affrontato viaggi e impiegato persone che si prendessero cura di me. Mi ha affidato a comunità, a uomini di Dio, a chiunque per denaro o misericordia si sia offerto di darmi aiuto o abbia tentato di recuperarmi.
Sono sparito per mesi interi, rintanato in angoli bui di pensioni malfamate a combattere l’astinenza, sporco e malnutrito; o, più spesso, in celle puzzolenti di infime prigioni, in luoghi dimenticati come avamposti di frontiera.
Fino ad arrivare qui; in questo paese fantasma dove si radunano a (soprav)vivere tutti i falliti come me, gli scarti, quelli che di sé non lasceranno impronte precise, intere e definite, ma solo frammenti slabrati, brandelli di un vissuto minimo appartenuto ad un tempo di verità: bambini col fiocco inamidato tra i banchi di scuola, intelligenze ardite, potenzialità inesplose, individui autentici e diversi. Mai stati.
Ma questa è l’ultima volta, lo giuro.
Voglio uscirne, liberarmi.
E non sarà uno di quei tanti ritorni che mai mi ha condotto troppo lontano dall’argine di un altro crepaccio, in equilibrio così instabile da precipitare al solo leggero soffio di un vento incantato…
Questo è il Ritorno, l’ultimo, quello definitivo.
Ho i documenti in tasca, così potranno facilmente identificarmi e riconoscermi.
Domani o dopo ancora qualcuno mi troverà su questa spiaggia, che ho scelto come luogo simbolico: il molo per salpare verso un altrove qualunque, che abbia almeno il colore di questo mare.
Le autorità avviseranno il Consolato; che invierà un fonogramma alla stazione di polizia, laggiù, nel mio paese; dove un poliziotto tanto giovane da svolgere ancora solo servizi d’ufficio (forse mio antico compagno di giochi!) mi riconoscerà dalla foto; allora avviserà qualcuno dei miei parenti, senza schemi e senza rigore… perché la pietà umana ha ampia licenza su ogni rigido protocollo!
E poi, con l’eco che si rincorrerà tra i vicoli del paese, le urla di mia madre squarceranno il silenzio di un pomeriggio di quiete.
Urla di liberazione.
Urla di dolore: perché per quante volte mi avrà augurato di trovare questa salvazione, il suo sarà lo strazio di una madre per un figlio due volte perduto.
E la gente del paese: la lunga e continua processione di saluto e omaggio ad una salma che non ci sarà, in una stanza che raccoglierà fiori, lumini, pianti e parole di consolazione. Che non basteranno.
Il mio ultimo viaggio sarà su un volo cargo.
Nel silenzio irreale, sulla pista d’atterraggio, mestamente scenderà una sobria bara: solo quattro assi inchiodate, dimora e bagaglio di un diseredato.
Ci sarà una folla immensa al mio funerale; e non saranno curiosi, ma gente che davvero mi ha conosciuto e voluto bene; che è sempre rimasta stretta attorno alla sofferenza di mia madre, pur non avendo risposte per i suoi perché.
E che non mi ha dimenticato.
Se solo l’avessi capito che erano così tanti…!
Tante belle parole nei ricordi che ognuno vorrà lasciare di me, accanto a quella foto che ha fermato un tempo migliore, in cui sorrido, forse davvero felice, e che rende giustizia a quella bellezza che, nonostante tutto, ancora oggi marca questo mio viso contraffatto. Come un rimpianto.
Don Giulio pronuncerà un’accorata omelia, commosso al pensiero di aver concluso in un tempo troppo breve il ciclo dei miei sacramenti.
Ma non un matrimonio, per fortuna…!
Si, davvero una fortuna: non lascio un amore, un legame né soprattutto figli, cui un giorno una madre coraggiosa dovrebbe raccontare una storia più amara e vera di quella di un padre che era “un angelo che Dio ha voluto troppo presto accanto a sé”.
Un silenzioso corteo mi farà da scorta fino al cancello del piccolo cimitero del paese, ormai popolato da molte più anime di quante non ne siano rimaste nelle case.
Una volta da sola, nell’abbraccio della sua assoluta solitudine, mia madre chiederà di vedere ancora il mio volto, prima di restituirlo al buio.
Mi guarderà a lungo, seguendo con le dita il mio profilo, che al suo tocco sembrerà tornare alle linee morbide e distese di quand’ero bambino.
Vorrà ricordarmi così, innocente e sano come allora, quando infine mi consegnerà a quell’ultima dimora, con la sola consolazione di una pace raggiunta.
Per entrambi.
E da cui non fuggirò. Più.