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A mia figlia, Piccy.

di Nicola Manzari

Serarcangeli Editore – Roma

Personaggi:

LUI

LEI

Arredamento:un tavolo rozzo e due sedie impagliate.

Oggi in una qualsiasi città anonima e, dunque, non identificabile


Attenzione: il protagonista non cambierà mai voce né into­nazione nei vari ruoli che interpreterà. La diversità delle parti che sosterrà sarà resa evidente solo nel contrasto delle rispetti­ve argomentazioni.

Scena nuda, vuota, anonima.

Solo un tavolo rozzo e due sedie comuni.

LUI: (entra dal fondo. E' in toga tocco e soggolo, bianco da magistrato. Viene alla ribalta e sta un po' in silenzio a os­servare la platea. Poi:)

LUI: (al pubblico) Signore e signori, state per assistere a un processo. Un processo anomalo perché giudice e imputa­to sono la stessa persona: io. Nella vita sono un magistra­to come potete vedere dai simboli del mio status. (Indica la toga, il tocco, il soggolo) Così bardato ho distribuito se­coli di galera. Ma è venuto il momento che, dopo tanti processi pubblici, io ne celebri uno mio privato. Lo farò con lo stesso rigore che mi guida in udienza e voi sarete testimoni che rispetterò tutte le garanzie sancite dalle leg­gi. Naturalmente farò salvi anche i diritti della difesa e dell'accusa che saranno impersonate sempre da me. E alla fine io stesso pronuncerò la sentenza che eseguirò, qua­lunque essa sia. Per ora la ignoro. Come la ignoro all'ini­zio di ogni processo che presiedo in Tribunale. Saranno i fatti a determinare la sentenza. Solo i fatti. Come la legge vuole. E dall'esposizione dei fatti, cioè, da quella che, in termini burocratici, noi giudici chiamiamo la relazione introduttiva io ora comincerò. Ma prima via questi ag­geggi (si toglie toga, tocco, soggolo) ...che mi inchiodano a un unico ruolo mentre qui di ruoli dovrò interpretarne almeno quattro come vi ho spiegato. (con voce solenne) «Entra la Corte!» (con tono di nuovo normale). Queste pa­role fatidiche le dice naturalmente l'usciere... ma dato che qui procediamo a ranghi ridotti... (va a sedere al tavolo e sfoglia un voluminoso fascicolo che vi è sopra). Ecco, que­sto è il fascicolo di causa, il cosiddetto dossier. Ed ecco l'imputazione: procedimento contro il giudice «X» (indi­ca se stesso) per corruzione di minorenne, atti di libidine, violenza, stupro. Mica male, vero? Ce n'è per una con­danna da otto a dodici anni di reclusione a seconda degli umori del collegio giudicante. Beh, staremo a vedere... (Si alza). Ed ecco subito il primo incidente di procedura. A sollevarlo è naturalmente il Pubblico Ministero. (Viene alla ribalta). Chiedo che il processo sia celebrato a porte chiuse stante la scabrosità dell'imputazione e per salvare l'onorabilità della minore nonché evitare alla stessa il trauma di un pubblico interrogatorio. Non dimentichia­mo, signori della Corte, che la parte lesa ha soltanto tredi­ci anni. (Lieve pausa). Noi difensori ci opponiamo e fac­ciamo istanza che il processo sia invece pubblico perché non riteniamo provati né la corruzione né lo stupro e so­sterremo che l'esatta rubrica del processo deve essere un'altra: plagio. (Breve pausa). E chi sarebbe il plagiato, secondo la difesa? (Pausa) L'attuale imputato ad opera della minore. E' quanto appunto ci riserviamo di provare in corso di causa ribaltando l'assurda accusa. (Pausa) Si­gnori, vi prego, rimandate le conclusioni alle vostre arrin­ghe. (Pausa) D'accordo signor Presidente, ma per noi Pubblico Ministero, c'è un altro motivo che opta perché il processo sia svolto a porte chiuse. Qui noi processiamo un magistrato e dunque dobbiamo considerare le possibi­li reazioni della pubblica opinione. La magistratura è già molto esposta in questi tempi calamitosi e non è il caso che una benché minima ombra si addensi sul capo di un suo esponente finché l'accusa non sarà obiettivamente provata. (Pausa) Signor Presidente, come imputato io chiedo che la mia qualifica professionale non si traduca in una discriminante in mio favore: pertanto faccio istan­za che si proceda pubblicamente contro di me. O dovrem­mo forse dare l'impressione che i panni sporchi, noi giu­dici, preferiamo lavarceli in famiglia? (Pausa) La Corte si riserva di decidere e ordina che si dia inizio al dibattito con l'audizione dell'imputato. (Pausa) Signori tutto eb­be inizio tre mesi fa in un mattino di primavera. Erano esattamente le tredici e dieci di un lunedì. Io ero appena uscito dal Tribunale e mi trovavo alla guida della mia uti­litaria quando dovetti fermarmi a un semaforo che segna­va rosso. Fu in quel momento che una ragazzina si affac­cio al finestrino del mio abitacolo. Aveva una cartella di libri a tracolla ed era chiaramente una studentessa. Infatti indossava l'uniforme di una scuola molto chic che trova­si nelle vicinanze del palazzo di giustizia. Ma che avesse tredici anni non lo sospettavo minimamente. Eccola!

LEI: (Entra è un'attrice sui diciotto - vent'anni. Indossa una uniforme da collegio femminile e ha una cartella di libri a tracolla. Si ferma e resta immobile in attesa mentre lui si rivolge al pubblico)

LUI: Come vedete, non ha tredici anni. Infatti non è lei ma soltanto un'attrice che gentilmente si presta a raffigurarla. Vi chiedo dunque un piccolo sforzo di fantasia. Ma vi garantisco che tutto quello che dirà e farà è assoluta­mente vero e corrisponde a quello che disse e fece l'altra, la minorenne. Infatti le prime parole che mi disse mentre io ero fermo al semaforo, furono... Un momento dimenti­cavo l'automobile... (Prende una sedia e vi si siede a caval­lo, le mani alla spalliera simulando di averle sul volante di un'auto) Ecco... (rivolto ora all'attrice) Allora le parole esatte che mi dicesti?

LEI: (Si avvicina a lui e gli si china verso il volto) Signore, c'è uno sciopero improvviso degli autobus e non so come rientrarea casa. Mi darebbe un passaggio?

LUI: No. Non dò passaggi a sconosciuti.

LEI: Io sono una studentessa del ginnasio Kennedy qui vicino. Ad un altro non lo chiederei ma lei ha l'aria così per bene.

LUI: Mi spiace ma la mia risposta è sempre no.

LUI: (Al pubblico) Intanto era scattato il verde al semaforo, e dietro la mia s'era formata una fila di macchine che co­minciarono a suonare il clacson. Un vigile prese a farmi segno di muovermi.

LEI: (A Lui) Vede? Il vigile le fischia di andare. Sia gentile: mi faccia salire.

LUI: E va bene: monta. Ma sul sedile posteriore.

LEI: Come vuole. Grazie. (Va a prendere una sedia, la posa dietro la sedia di lui e si siede)

LUI: Perché l'imputato fece salire la bambina dietro e non accanto a sé? Forse per precostituirsi un alibi sapendo di commettere un illecito? (Pausa) No, fu un'istintiva cautela. Eravamo ancora vicini al Tribunale e i miei colleghi sanno che sono celibe e senza figli. Comunque per un po' il viaggio si svolse in silenzio. Io ero a disagio e non vede­vo il momento che lei scendesse: perciò non le parlai di proposito. Ma trasalii quando mi accorsi che alcuni auto­mobilisti che incrociavamo mi sorridevano ammiccando maliziosamente. Fu allora, guardando nello specchietto retrovisore che notai come la ragazzina avesse accavalla­to le gambe scoprendole fino all'inguine, fino a lasciare intravedere gli slip.

LEI: (Si tira su la gonna sempre restando seduta)

LUI: Mi assalì una rabbia improvvisa, quasi le gridai: «non puoi stare più composta?»

LEI: (Si abbassa la gonna) Mi scusi non l'ho fatto apposta.

LUI: Non ne fui convinto. Perciò insistetti: «Insomma dove scendi?»

LEI: Da lei.

LUI: Non capisco.

LEI: La mia tariffa è cinquantamila. (Si tira su di nuovo la gonna)

LUI: (Esterrefatto) Cos'hai detto? Credo di non aver sentito bene.

LEI: (Calma) Ho detto che prendo cinquantamila. Non li valgo forse?

LUI: Ero senza fiato. Lo choc mi aveva bloccato. Quando riuscii ad emergere dal trauma, non trovai che una frase banale! «Vuoi dire che fai la prostituta?»

LEI: No. Sono una studentessa che qualche volta si concede dei «doposcuola». Per gli «extra»... Tutto qui.

(Una pausa).

LUI: Signori della Corte, a questo punto scatta già la prima incriminazione poiché l'imputato come magistrato sape­va bene di essere colpevole già per connivenza all'offerta di prostituirsi della minore. (Pausa) Mi oppongo. L'ac­cusatore non può ignorare che la minore che accetta de­naro in cambio di una prestazione sessuale si presume già corrotta per il codice e quindi rende «ipso facto» non pu­nibile il presunto corruttore. (Pausa) Dissento dalla dife­sa: quella norma non si applica se il minore ha meno di quattordici anni. Nel qual caso la corruzione è sempre presunta. (Pausa) Come poteva l'imputato sapere che a-veva meno di quattordici anni? Avrebbe dovuto forse chiederle la carta d'identità, così, per strada? (Pausa) Si­gnori, per favore, vogliamo procedere nell'esposizione dei fatti? (Pausa) Grazie, signor Presidente. Ecco i fatti: da quel momento tutto precipitò. Io continuai a guidare dirigendomi verso casa. Potevo ancora tirarmene fuori ma non ne ebbi la forza.

LUI: Ero come annichilito. La visione di quelle gambe che lei insisteva a mostrarmi, mi ossessionava. (Pausa) Fu la ragazza a prendere in mano la situazione, perché senza alcuna emozione mi disse:

LEI: E adesso che abbiamo chiarita la situazione posso sedere accanto a lei?

LUI: No. Resta dove sei.

LEI: Come vuole. Lo facevo perché lei non sembri il mio autista.

LUI: Non me ne importa. Tanto siamo quasi arrivati a casa. Dietro quell'angolo abito io.

LEI: Ah, quartiere elegante!

LUI: «Dopo» dimenticalo.

LEI: Naturalmente.

LUI: Ecco, siamo arrivati. Adesso vado avanti io perché il portiere non ci veda insieme. Poi vieni su.

LEI: A che piano?

LUI: Al quarto, interno tredici. Ma tu al portiere di' che vai al terzo, dal dentista. (Si alza) Lascerò l'uscio socchiuso.

LEI: O.K. Interno tredici. (Si alza ed esce di scena)

LUI: (Al pubblico) Appena in casa, preparai sul tavolo una bottiglia e due bicchieri. Speravo forse inconsciamente che la «cosa» si risolvesse in un semplice drink? Non lo so. Ricordo che sostituii la bottiglia di wisky, che avevo intuitivamente tirata fuori, con una di Coca-Cola. In fon­do era pur sempre una bambina quella che aspettavo... (Ha mimato i gesti della bottiglia e dei bicchieri).

LUI: Puntualissima, allo scadere dei tre minuti lei apparve sulla porta.

LEI: Il portiere non mi ha chiesto niente.

LUI: Meglio così.

LEI: Sulla porta d'ingresso c'è scritto «dott.». Lei è forse un medico?

LUI: No. Dottore in giurisprudenza. Come tutti i magistrati.

LEI: Vedo. (Si guarda intorno) Quanti libri! (Si diverte a leggerne i titoli) Il processo penale. Il delitto di bancarot­ta. La circonvenzione d'incapace. Cosa sono?

LUI: Sono i ferri del mestiere.

LEI: Ma romanzi non ne ha?

LUI: Certo. Sono di là.

LEI: Anche i gialli?

LUI: Anche i gialli. Bevi qualcosa?

LEI: No. Grazie.

LUI: Una sigaretta?

LEI: Non fumo. E lei, la pipa come Maigret?

LUI: No. Sigarette. (Se ne accende una)

LEI: Lei fa il giudice penale o civile?

LUI: Penale. Altre domande?

LEI: Mi scusi.

LUI: Date le circostanze, non credi che dovremmo darci del tu?

LEI: Come vuoi. A proposito, perché nei processi io non posso assistere? Dicono che non ho l'età.

LUI: Infatti. Ci vogliono almeno sedici anni per entrare in un aula.

LEI: Non è giusto. Certi miei compagni che hanno meno di sedici anni li hanno portati in aula.

LUI: Come imputati?

LEI: Sì.

LUI: E cosa avevano fatto?

LEI: Al solito: adunata sediziosa e oltraggio a pubblico ufficiale.

LUI: (Subito guardingo) Capisco.

LEI: Sei tu che li condanni?

LUI: No. Il Tribunale dei minori. Io giudico soltanto imputati maggiorenni.

LEI: Sei tu che proibisci i film che io non posso vedere?

LUI: Senti, deve durare ancora molto questo interrogatorio?

LEI: Lo faccio per avviare un dialogo.

LUI: Ora che il dialogo è avviato che aspetti a spogliarti?

LEI: Spogliarmi? e perché?

LUI: Come: «perché»? Non sei qui per fare l'amore?

LEI: (Semplicemente) No.

LUI: Ma se tu stessa mi hai detto «cinquantamila».

LEI: Sì. L'ho detto.

LUI: E ora ci hai ripensato. Ne vuoi forse di più? Che fai, alzi la tariffa? Tenti il ricatto?

LEI: Guarda che sei fuori strada: io di soldi, non ne voglio né cinquantamila né centomila.

LUI: No? Cosa vuoi?

LEI: Niente.

LUI: (Assalito da un dubbio) Un momento: non dirmi che lo fai gratis.

LEI: Né gratis né a pagamento. Io con gli uomini non ci vado.

LUI: Cerchiamo di capirci: non sei qui per fare l'amore?

LEI: Mai fatto l'amore.

LUI: Nemmeno con i ragazzi?

LEI: Coi ragazzi solo bacetti.

LUI: Ma allora perché sei venuta?

LEI: Se te lo dico, non ci credi.

LUI: Prova a dirlo.

LEI: Somigli a mio padre. Perciò ti ho fermato.

LUI: E lo sciopero degli autobus?

LEI: Una scusa. Appena ti ho visto mi è venuto un colpo: tu sei tutto il ritratto di mio padre. Stessi lineamenti, stes­si occhi, stesso sorriso... tutto, tutto lui, ti dico: spiccica­to, identico! Ne sono rimasta sconvolta e ho subito pensato-a come poterti bloccare. Così m'è venuta in mente la storiella dello sciopero... Fra noi ragazzi usa chiedere un passaggio a chi è in macchina, in casi d'emergenza...

LUI: (Ormai diffidente) Ma una volta in macchina hai mu­tato atteggiamento. Hai tirato su la gonna e mi hai fatto una richiesta precisa. Perché?

LEI: Ho recitato la commedia della prostituta per venire a casa tua, scoprire chi sei, come vivi: insomma volevo completare il tuo identikit. E non avevo altro mezzo che sedurti. Infatti ci sei cascato.

LUI: (Sempre più in guardia) No. Questa non la bevo. Sotto c'è qualcosa. Vuoi forse raccomandarmi uno dei tuoi amici arrestati?

LEI: Non ci penso nemmeno. E poi se ho saputo solo ades­so che sei un magistrato. No, te lo ripeto: l'unico vero motivo per cui t'no chiesto il passaggio è perché sei il ritratto fisico di mio padre. Papà era tutto per me. Mi manca moltissimo, con lui ho perduto tutto.

LUI:    Tuo padre è morto?

LEI: Sì. Sei mesi fa in un incidente di macchina. E da allora io lo cerco.

LUI: Lo cerchi?

LEI: Sì. Non accetto la sua morte. La mia vita senza di lui non ha più senso. Ma ora finalmente l'ho ritrovato: sei tu.

LUI: (Studiandola) Forse sei una mitomane. O forse qualcos'altro. Comunque io rinuncio a capirti. Per me quest'avventura finisce qui.

LEI: Per me no.

LUI:    Che intendi dire?

LEI: Non ho intenzione di mollarti.

LUI:    (Uno scatto) Ragazzina, che gioco conduci? Bada che non è facile mettermi nel sacco. E ho i mezzi per smascherarti.

LEI:  (Apre la cartella ne prende un quaderno che gli porge) Ecco qui c'è il mio nome, cognome, l'indirizzo, tutto... Informati pure, vedrai che non ti ho mentito in nulla...

LUI: (Rifiutando il quaderno) Puoi tenertelo. Non voglio saper niente di te. E non voglio vederti più.

LEI:  (Con un piccolo grido) Mio Dio! (E resta a guardarlo intensamente come folgorata)

LUI: (Perplesso) Beh, e adesso che ti prende? Perché te ne stai lì a fissarmi come imbambolata?

LEI: Perché hai avuto un gesto tipico di mio padre. Hai fatto così. (Mima il gesto) Come lui quando io lo facevo inquietare. E anche la tua voce s'è incrinata come la sua. (Esaltandosi) Sì, sì, non ho sbagliato: hai anche i gesti di lui e hai tutte le stesse inflessioni di voce... Lui, sei lui in tutto... meno i capelli che papà aveva più lunghi perché era un musicista... ma puoi farteli crescere...

LUI:    (Tentando dì ridere senza riuscirci) Non ci penso nemmeno!

LEI: Vedrai che ti convincerò. Più lunghi. Sì. Come papà.

LUI: (Alla platea) Ecco, signori, che in queste parole della ragazza si concretizzano già gli elementi del plagio. Spet­ta a noi difensori ricordare che per il nostro codice il pla­gio consiste nel sottoporre taluno al proprio potere, in modo da ridurlo in tale stato di soggezione da sopprime­re totalmente la sua libertà individuale. Lo stato di sog­gezione qui è uno stato di fatto. Lo «status libertatis», come stato di diritto rimane inalterato, ma la libertà del­la vittima è soppressa. Tra il colpevole e la vittima si sta­bilisce, in sostanza, un rapporto tale che il primo acqui­sta sulla seconda completa padronanza e dominio, an-nientandone la libertà del suo contenuto integrale, impa-dronendosi completamente della sua personalità. E' ov­vio che il consenso della vittima non può escludere il rea­to essendo la libertà individuale, nel suo complesso rife­ribile alla personalità umana, un diritto indisponibile. (Una pausa) Noi accusatori dissentiamo da tale imposta­zione della difesa. Vittima del presunto plagio sarebbe un magistrato non uno sprovveduto qualsiasi. Egli pote­va respingere l'aggressione della ragazza evitando di in­contrarsi con lei. Non lo fece. Mai. Perché? Semplicissimo. Gli conveniva fingere di farsi plagiare perché lo rite­neva il mezzo più idoneo per approfittare di lei e piegarla poi alla propria libidine. Fu solo un suo turpe espedien­te: rinviare solo nel tempo il proprio disegno criminoso; scegliere il momento più adatto per violentarla.

LEI: Signori, adesso che avete dato sfogo ai vostri arzigogoli, vorrei ricordarvi l'episodio del medaglione. E' importante.

LUI:    Ah, sì: il medaglione. L'avevo dimenticato. Fu lei a dirmi...

LEI:  (Completando) Vuoi convincerti che somigli a mio padre? Ebbene ti mostrerò il suo ritratto. Lo porto sempre con me.             

(Si slaccia la camicetta e indica un medaglione che le pende nella scollatura) Guarda. Non sei proprio lui?

LUI:    (Allungando la mano con un gesto ambiguo sino a sfiorarle il petto)

LEI: Devi osservare il ritratto non toccarmi il petto.

LUI:    (Confuso ma già un po' succube) Scusami. (Prende il medaglione senza staccarglielo dal collo e resta a contemplarlo come affascinato)

LEI: Allora? Non ho ragione io? Gli somigli o no?

LUI:    (Scosso) Effettivamente la somiglianza c'è e mi fa una certa impressione sapere che mi tieni sempre fra i tuoi seni che, fra l'altro, sono belli sodi.

LEI: Ahi, ahi! Ecco che rispunta in te l'uomo. Vuoi capirlo che sei mio padre e non uno sporcaccione qualunque?

LUI:    (Confuso) Va bene, gli somiglio. Sei contenta ora? E adesso mettiamo fine al colloquio. Torna a casa da tua madre, perché avrai pure una casa e una madre che ti aspetta, o no?

LEI: La mamma ce l'ho. Solo che se ne frega di me. E' tutta per il suo amante, lei.

LUI:    Non m'interessa. Comunque non deve fregarsene poi tanto se ti manda a una scuola così sofisticata come il «Kennedy».

LEI: Lo fa perché è una snob. Per prestigio sociale. E poi siamo ricchi. Cioè, ricca è mia madre. Papà non aveva una lira. Mamma lo sposò perché colta da un raptus mu­sicale come ama ripetere. Poi rinsavì e prese ad odiare papà e la sua musica. Povero papà, si era ridotto a dare lezioni private per rendersi indipendente.

LUI: La storia della tua famiglia non m'interessa. Da questo momento dimentica chi sono e dove abito. Noi due non ci vedremo più.

LEI: (Con fredda determinazione) Sbagli. Ci vedremo ancora.

LUI:    (Ironico) Davvero?

LEI: (c.s.) Certo. Non ho trovato finalmente mio padre per perderlo di nuovo.

LUI:    (Assecondandola come fosse una pazza) D'accordo, d'accordo ma adesso vattene! Ho da fare.

LEI: Vado, vado... ma non trattarmi come una pazza. Non lo sono.

LUI:    (c.s.) Sì, sì... non sei una pazza. Ma sparisci lo stesso.

LEI: Certo che me ne vado. Ma non riuscirai a liberarti di me.

(Si avvia per uscire ma sulla soglia si ferma); Ti lascio il quaderno, così puoi informarti. (Lo depone sul tavolo ed esce)

LUI:    (Prende il quaderno e fa per inseguirla gridando) No, aspetta... (Si ferma. Al pubblico) La mia deformazione professionale mi bloccò. Quel quaderno era l'unico ele­mento per sapere chi era veramente quella ragazzina e difendermi contro un eventuale ricatto... Così usai il mio potere ordinando alla polizia giudiziaria di prendere in­formazioni su di lei e sulla sua famiglia. Tutto si rivelò esatto. Non aveva mentito in nulla: morte del padre in un incidente d'auto, dissapori fra i coniugi, la madre a-mante di un giovane pseudo architetto, tutto vero... la ragazza figlia unica, era legatissima al padre e dopo la morte di lui si era ammalata di un forte esaurimento ner­voso che l'aveva tenuta assente da scuola per un mese... poi si era ripresa ed era tornata al Kennedy... ma era cambiata nel carattere e nel comportamento. L'indagine mi tranquillizzò un po'... Mi sforzai di non pensarci più e sperai persino di dimenticarla... Ma una mattina mi fu recapitato un pacco... (Prende un pacco da un cassetto) Questo. L'accompagnava una lettera che diceva (Legge una lettera) «Caro papà, eccoti le lettere che ti ho scritto giorno dopo giorno in questi mesi dacché te ne sei anda­to. Ora che ti ho ritrovato non ho più bisogno di scriverti perché il dialogo fra noi continuerà a voce...» (Apre il pacco che contiene un mucchio di lettere) Le lettere sono esattamente 182. Come 182 erano i giorni trascorsi dalla morte del musicista. Una al giorno, in ordine cronologi­co, ognuna nella sua busta incollata ma senza affranca­tura. E tutte le buste avevano la stessa intestazione. «Al mio caro papà, dovunque si trovi... Non potei fare a me­no di leggerle. Erano la cronaca fedele e dettagliata di quanto la ragazza aveva fatto quotidianamente e tutte traboccavano di un amore filiale eccessivamente morbo­so con particolari persino imbarazzanti. Ascoltate que­sta, ad esempio: «Caro Papà da oggi sono una donna... stamattina infatti mi sono svegliata in un lago di san­gue... da mesi me l'aspettavo ma ne sono rimasta ugualmente sconvolta... ma non l'ho detto alla mamma... non merita di saperlo... mi sono arrangiata da me... e lei non ha nemmeno sospettato... e così non mi ha fatto domande... ho subito pensato che a te invece non avrei po­tuto nasconderlo perché me l'avresti letto negli occhi, come sempre ti accade per tutto quello che mi riguarda­va... mi avresti abbracciata in silenzio per farmi sentire che da oggi mi vuoi ancora più bene...» (Deponendo la lettera) Ecco che la storia tornava a turbarmi... E mi tur­bò ancora di più a uno squillo del telefono... (Squilla il telefono)

LUI:    (Al telefono) Pronto...

LEI: (Appare sulla soglia dove si ferma. E' in jeans e ma­glietta sportiva, regge in una mano un apparecchio telefo­nico al quale simula di parlare) Ciao, papà. In quessti due giorni non ti ho telefonato per lasciarti il tempo di legge­re le mie lettere. Sono qui al bar sotto casa tua. Posso salire?

LUI:    No.

LEI: Al portiere dirò al solito che vado dal dentista.

LUI:    Guardati bene dal salire!

LEI: E io vengo lo stesso. (Depone il telefono a terra in un angolo della scena e avanza verso di lui)

LUI:    (Riabbassa il microfono, poi a lei.) T'avevo proibito di venire.

LEI: Non puoi impedire a una figlia di vedere suo padre. (Lo abbraccia con fuga e lo bacia sulle gote)

LUI:    (Sconcertato) Ricominci?

LEI: Devo pur rifarmi dei sei mesi che non ti vedo! (Gli scompiglia i capelli.)

LUI:    (Sorpreso) Che fai?

LEI: Era un mio gesto che intrigava tanto papà perché lui teneva molto ai suoi capelli sempre ben pettinati... Fingeva anche di arrabbiarsi.

LUI:    Ma io mi arrabbio sul serio!

LEI: (Gli porge un pacchetto) Prendi. E' per te.

LUI:  Cos'è?

LEI: Un piccolo pensiero.

LUI:    (Apre il pacchetto. Un accendino) Un accendino.

LEI: Sì. Era di papà. Ho visto che adoperi i fiammiferi.

LUI:    Non accetto doni.

LEI: Ma questo non è un dono. E' roba tua. Ti porterò anche qualcuna delle cravatte. Ce n'è di bellissime. Glie­le sceglievo io perché lui si fidava solo del mio gusto. Di quelle che gli regalava mamma non ne ha mai messa nes­suna

LEI: (Guardando le lettere sparse sul tavolo) Vedo che le hai aperte. Così ora sai tutto di me... Sei convinto che sono una brava ragazza e che a mio padre non ho mai nasco­sto nulla? nemmeno i «filarini» con i compagni di scuola?

LUI:    (Acre, la prima volta con una punta di gelosia) Ho ammirato la tua spregiudicatezza: parli persino di un amichetto che t'ha infilato le mani sotto la gonna.

LEI: (Correggendolo) Al tempo! «Ha tentato» di infilarle. Tentato. Ma s'è preso una bella sberla. C'è scritto chia­ro nella lettera... e scrivo anche che da quel giorno con lui feci croce.

LUI:    A tuo padre dicevi queste cose?

LEI: Perché no? Avevamo un rapporto molto aperto. E pulito. Come spero sarà con te.

LUI:    Io sono fuori causa.

LEI: Non credo. (Un tempo) Comunque parliamo d'altro. M'interessa sapere cosa pensi come magistrato della morte di papà. Nelle lettere ne parlo.

LUI:    Sì. Accusi tua madre della sua morte.

LEI: E' la verità.

LUI: Ma tuo padre non si fracassò correndo a velocità eccessiva con la macchina come ho letto sul rapporto della polizia stradale?

LEI: Ma perché quel giorno correva, lui che era sempre co­sì prudente alla guida? Te lo dico io: perché mamma gli aveva urlato un'ora prima che voleva piantarlo perché amava un altro ed era pronta a liquidarlo con una grossa somma per ottenere il divorzio. Papà, da quell'ingenuo che era, non aveva mai sospettato che mamma lo tradiva. Mia madre gli gridò in faccia la sua tresca con quel magnaccia del suo architetto e papà ne fu così sconvolto, che montò in macchina e corse via per farla finita. Infatti andò a fracassarsi contro un albero in pieno giorno. E non si trovarono tracce di frenata. Questo il verbale della tua polizia stradale non lo dice?

LUI:    No.

LEI: Ma io vidi bene papà all'obitorio: nei suoi occhi c'era disperazione e anche odio. Sì. Odio, per quella donna che l'aveva sempre umiliato col peso dei suoi quattrini e il disprezzo per la sua musica. Era giunto a odiare mia ma­dre, lui, un uomo mite, incapace di voler male a qualcuno. E tu come magistrato devi aiutarmi a rendergli giu­stizia. Io voglio denunciare quella donna.

LUI:    Purtroppo non ricorrono gli estremi per una incriminazione.

LEI: (Ostinata) Ma se è stata lei a volerlo morto! Altrimen­ti perché gli avrebbe spifferato tutto quello che lui mai avrebbe scoperto? C'è una sola spiegazione: voleva pro­vocarne la reazione fino a un gesto inconsulto. Si dice «inconsulto?».

LUI:    Sì. Esatto.

LEI: Un gesto non certo verso di lei di cui era succube ma verso se stesso.

LUI:    Nessun giudice potrebbe procedere contro tua madre.

LEI: No? E allora se non possiamo trascinarla in Tribunale, dimostriamole che papà lei non è riuscita ad ucciderlo e lui è più vivo che mai. E sei tu.

LUI:    Io?! Pensi addirittura di strumentalizzarmi?

LEI: Io penso alla faccia che farà mamma quando un gior­no o l'altro ti condurrò da lei. Naturalmente dovremo aspettare che la tua identificazione con papà sia comple­ta anche nei minimi particolari. La voce, i gesti, ci siamo. Manca solo qualche dettaglio. Aspettiamo che ti crescano i capelli.

LUI:    Insomma è la vendetta che ti muove? Perciò ti aggrappi a me?

LEI: No. Io penso solo a riprenderti come padre. Per il resto voglio mettere solo un po' di paura a mamma con la tua apparizione, così dopo ci lascia in pace a vivere la nostra vita.

LUI:    Dì, per caso non hai forse l'intenzione di trasferirti qui?

LEI: Perché no? Hai forse una moglie a cui devi rendere conto?

LUI:    Sono celibe.

LEI: Hai altri figli oltre me?

LUI:    Non ho figli.

LEI: (Allegra batte le mani) Perfetto. Situazione ideale.

LUI:    E se avessi qualcuno cui la tua presenza qui dispiacesse?

LEI: Una donna, vero? Hai un'amante?

LUI:    E se anche fosse?

LEI: Pazienza. Importante è che non vi facciate vedere da me quando fate l'amore. Anche se io ne soffrirò lo stes­so. Come soffrivo quando papà aveva un'avventura. Ma ne accorgevo sempre dal modo imbarazzato con cui mi guardava l'indomani.

LUI:    Tuo padre tradiva tua madre?

LEI: Solo raramente. Come poteva non farlo, poverino, se mia madre da anni rifiutava di dormire con lui? Ma era­no solo donne di strada. Me la presi solo quella volta che andò con una sua allieva del Conservatorio. Una sgual­drinella che aveva poco più della mia età. Ma l'iniziativa non fu di papà. Fu lei che lo circuì finché lui non ci ca­scò... Del resto, lui aveva molto successo con le sue allieve. Tutte lo adoravano... E come non ci si poteva inna­morare di lui, un uomo così pieno di fascino? Quando suonava poi diventava addirittura irresistibile. «La mu­sica è una gran ruffiana» mi diceva lui.

LUI:    Meno male che io non so suonare!

LEI: Ma ai concerti almeno ci vai?

LUI:    Non ho tempo.

LEI: Beh, ci andremo insieme come facevo con papà.

LUI:    (Ironico) Quante altre cose, secondo te, dovrei fare per identificarmi in lui?

LEI: Oh, un bel po'! Ma avremo tempo... e te lo dirò di volta in volta.

LUI:    (Accentuando l'ironia) Insomma ti proponi d'essere la mia Pigmalione?

LEI: Sì. Ma sempre con la tua collaborazione.

LUI:    Scordatelo.

LEI: (Non badandogli) Io adoro il circo: i clowns mi fanno impazzire. Con papà andavamo alle pomeridiane quan­do la platea è piena di bambini e c'è più animazione. An­che lo zoo e il Luna-Park ci piacevano. Compravamo sempre le noccioline per le scimmiette e andavamo sulle automobiline delle giostre.

LUI:    (Involontariamente divertito) Ci starei proprio bene io su un'automobilina elettrica!

LEI: Perché, che ci sarebbe di strano?

LUI:    Ma io sono un magistrato.

LEI: I magistrati non sono uomini come gli altri?

LUI:    Purtroppo dobbiamo avere nella vita di relazioni un certo contegno, altrimenti la nostra immagine pubblica si deteriora e risulta meno credibile.

LEI: Insomma tu devi far paura alla gente?

LUI:    Per quanto può far paura la legge a chi la viola.

LEI: E quando condanni uno, dormi la notte?

LUI:    Prima di condannarlo non sempre: dubbi esitazioni mi tormentano, mi tengono sveglio. Ma una volta emes­sa la sentenza riposo tranquillo perché sono convinto che era giusta.

LEI: Non hai mai pensato di smettere di fare il giudice?

LUI:    Tante volte! Ma poi penso che ci sarebbe sempre qualcuno altro a farlo al posto mio. E forse lo farebbe peggio di me. Così vado avanti.

LEI: (Un tempo) Non mi piace la tua professione.

LUI:    Purtroppo non so fare altro.

LEI: Ma ti appassiona almeno?

LUI: Quando cominciai, sì. Ma con l'andare degli anni sempre meno. La giustizia è un'astrazione, un mito irrangiungibile. In pratica non esiste, per il solo fatto che siamo uomini che giudichiamo.

LEI: Papà non giudicava mai nessuno.

LUI:    Beato lui che era al di fuori della mischia.

LEI: (Si guarda intorno! Ma qui non c'è nemmeno un giradischi.

LUI:    Non dirmi che vuoi regalarmene uno.

LEI: Ne ho tre.

LUI:    Tienteli.

LEI: E se vogliamo ascoltare qualche disco?

LUI:    (Sta per rispondere ma viene impedito dallo squillo del telefono. Va a rispondere) Ah, sei tu. Ciao. Scusami ma sono stato impegnato nello studio di un processo. Non ho avuto un attimo di tempo. Sì, ne avrò ancora per qualche giorno. Appena mi sbrigo ti chiamo io. Sì. Contaci. (Richiude)

LEI: Era lei. la tua amante, vero?

LUI:    Non ti riguarda.

LEI: Sono contenta che hai guadagnato tempo e rimandato l'incontro. Grazie.

LUI:    Tu non c'entri.

LEI: Ma sì. l'hai fatto per me. Ora che ci sono io, lei ti interessa meno. Ammettilo.

LUI:    Al solito fai tutto da sola.

LEI: Ma io non sono gelosa, stai quanquillo. Capisco be­nissimo che lei può darti solo il suo corpo. Piuttosto non vorrei fosse gelosa lei quando ci vedrà insieme. Perciò devi spiegarle che sono tua figlia... Inventa qualche bal­la, non so. che io ero all'estero, che mi hai avuta da una donna poi scomparsa e come magistrato non potevi farlo sapere... Trova tu insomma qualcosa di plausibile.

LEI: Certo l'ideale sarebbe che tu non la frequentassi più. Ma so di non poterti chiedere tanto, vero?

LUI:    Direi proprio di sì.

LEI: Pazienza, troveremo un «modus vivendi». Vuol dire che la vedrai di mattina quando io sono a scuola. (Fa un passo verso di lui ma lui la blocca con un gesto. Lei resterà immobile)

LUI:    No. Resta lì. Ora tocca a me. (Viene alla ribalta) Si­gnori, finora vi è stata prospettata solo un'alternativa: corruzione di minore o plagio. Ma c'è un terzo elemento di giudizio che io solo posso conoscere: la pietà. Sì, capi­sco che può apparire abnorme l'espressione «pietà» in un'aula di giustizia. Ma quando io dico «pietà», non al­ludo alla pietà ispiratami dalla ragazza, dalla sua condi­zione di figlia alla disperata ricerca del padre. Ma inten­do parlare di pietà verso me stesso, cioè di un padre in cerca di una figlia. Sì. fu un sentimento per me fino allora sconosciuto che mi aggredì in tutta la sua violenza: il de­siderio di paternità. Si vede che covava in me come forse in ognuno di voi. Heine disse: «non è uomo chi non è pa­dre». Mai frase di poeta fu per me da quel momento più vera. Un'intuizione lancinante mi folgorò: ero vissuto come un mutilato. Sì, un uomo privo di un bene essenzia­le di cui tanti più fortunati godono: un figlio. Di colpo la mia vita mi parve vuota, triste, inutile. Ero stato come un cieco, pago dell'ossequio formale della legge scritta ignorando l'unica vera legge che tutti portiamo dentro; quella del sangue. Ed ecco che il sangue ora esplodeva irrefutabile irrecusabile in me e reclamava i suoi diritti negletti. Sì, so bene che la mia era solo una paternità fitti-zia, ma cosa contava questo di fronte alta violenza di quel sentimento che ora si era impadronito di me? Era stata mia figlia a generare me. E non io lei. Tutto qui. Ma il rapporto non cambiava, mi stava bene lo stesso e quella mia figlia sorta dal nulla io l'accettavo così com' era, le volevo già bene e non intendevo a mia volta perderla. Voi dite: e lo scandalo? Quale scandalo di grazia? Forse per quei quattro codini, loro sì pieni di magagne, dovevo privarmi della gioia di sentirmi padre? Una gioia semmai arrivata troppo tardi ma di cui ora intendevo go­dere a pieno, fino in tondo, indifferente all'opinione del­la gente. Fu per questo che accettai la situazione e non esitai a farmi vedere in giro con lei.

LUI:    Ho letto che in città è arrivato un circo. Vogliamo andarci?

LEI: (Quasi incredula) Tu e io?

LUI:    Sì: padre e figlia.

LEI: (Allegra, felice) Grazie, grazie. (L'abbraccia con violenza e lo trattiene a lungo fra le braccia)

LUI:    (Sciogliendosi con garbo ma decisamente) Lo spettacolo inizia fra non molto: dobbiamo sbrigarci.

LEI: Sono pronta.

LUI:    Devi rassettarti?

LEI: Faccio solo pipì. Dov'è il bagno?

LUI:    In fondo al corridoio.

LEI: Volo. (Si avvia)

LUI:    Ti aspetto.

BUIO IN SCENA

(Stessa scena. Stesso arredamento)

LUI: (Entra dal fondo è vestito quasi da hippy e ha i capelli lunghi, chiaramente una parrucca da teatro)

LUI: Come vedete, vinse lei. Cambiai pelle. Ma la meta­morfosi non avvenne senza conseguenze. Fui convocato dal Procuratore Capo che m'intimò di riprendere un a-spetto più consono alle mie funzioni. Gli obiettai che non ritenevo la mia nuova «mise» in contrasto con il pre­stigio delle istituzioni poiché nella mia coscienza di giu­dice io non ero cambiato. Questa risposta provocò l'in­tervento del Procuratore Generale in persona che minac­ciò di aprire un procedimento disciplinare contro di me. Mi diede tre giorni di tempo per tagliarmi i capelli e in­dossare cravatte meno vistose. Cercai di spiegargli che il nostro soggolo...  (Toglie di tasca il soggolo da magistra­to e se lo mette al collo)... Questa specie di bavagliolino da infante, copre la cravatta. E in quanto ai capelli, se ci teneva proprio, potevo coprirmeli con la parrucca bianca dei giudici inglesi. Non parve gradire molto la battuta, forse per via della sua zucca pelata. Da allora la situazione si aggravò e crebbe il mugugno dei miei colleghi. Ma io sapevo che il mio aspetto esteriore era solo un pretesto. Ciò che in realtà dava scandalo era il mio rapporto con mia figlia. Non tolleravano che mi facessi vedere in giro con lei e la ricevessi in casa mia. Non l'ac­cettavano come mia figlia. Infatti...

LEI: (Entra di corsa agitando un giornale) Papà, è vero quello che c'è scritto qui: che ti mandano via dalla magistratura?

LUI: Non ancora. Sono solo sotto inchiesta. La condanna è lontana e io sono deciso a difendermi.

LEI: (Con dolore) E' colpa mia.

LUI:    No. Sono io che dò fastidio a certe mummie.

LEI: Il giornale dice che anche come giudice... (Legge il giornale)... Non sei più attendibile perché basta vedere come vesti per capire come la pensi e da che parte sei.

LUI: Lasciali dire: noi magistrati siamo sempre nell'occhio del ciclone. Per espellermi ci vogliono ben altri motivi che un paio di cravatte.

LEI: Ma il motivo ora ce l'hanno ed è stata mamma a darglielo.

LUI:    Tua madre?

LEI: Sì, lei. Quando ha scoperto, o, magari le hanno «soffiato» di noi due mi ha fatto una gran scenata e mi ha ingiunto di non vederti più.

LUI:    (Ansioso per la prima volta) E tu?

LEI: Le ho risposto che di padri mi aveva già tolto il primo ma col secondo non le sarebbe riuscito. Apriti cielo! Ha preso a strillare: «Ma quale padre? Quello è un vecchio porco che vuole solo portarti a letto» e siccome io le ho riso in faccia, lei ha preso carta e penna e ti ha denunciato.

LUI:    (Calmo) L'hai vista tu?

LEI: Sì. E ha aggiunto: vedremo adesso se il signor giudice la smette di insidiare le ragazzine. (Sempre più ansiosa). Ed ora che succederà? Ti arrestano? Ci dividono? Stanotte io non ho dormito.

LUI: Calma, calma, non succede niente. (L'abbraccia) E smettila di tremare, passerotto. Un'accusa va provata e noi non abbiamo fatto niente per meritarla una condanna, vero?

LEI: No. Niente.

LUI:    E allora non ci pensare. Come io non penso all'aut-aut che mi hanno dato ieri: «Devi scegliere: o lei o me. O smetti di vedere la tua Lolita o non vedi più me».

LEI: E' stata lei a dirti così la  tua... (Non riesce a pronunciare la parola «amante»)

LUI:    Sì.

LEI: (Ansiosa) E tu che le hai risposto?

LUI:    Che sceglievo te, naturalmente.

LEI: (Quasi incredula per la gioia) E' la verità? Guardami negli occhi.

LUI:    E' l'assoluta verità. Ti guardo finché vuoi. (Le prende il volto e lo tiene fra le mani guardandola fissa negli occhi. Una pausa) Convinta ora?

LEI: Sì. Ti credo. (L'abbraccia. Un tempo) Ma lei come l'ha presa? Non ha fatto scene, minacce, ha urlato? Ha pianto o rotto nulla?

LUI:    Beh, non si può dire che abbia fatto salti di gioia. C'è rimasta di stucco. E per dirla tutta, credo che s'è subito pentita d'avermi offerto un'alternativa così drastica. Non sospettava minimamente che tenessi più a te che a lei dopo tanti anni vissuti insieme. Sono certo che se a-vesse potuto rimangiarsi l'ultimatum l'avrebbe fatto di corsa. Ma io non le ho dato il tempo di ripensarci. Ho messo le ali e via!

LEI: E ora ne sei pentito?

LUI:    (Sincero) Io? No. Mi sento leggero — una piuma — liberato da un incubo. Sì, perché da quando lei ha saputo di te, fra noi ogni giorno erano discussioni. Mi rimprove­rava non solo come mi vesto ma anche come parlo.

LEI: Come parli?

LUI:    Sì. Se per caso mi sfuggiva una frase del vostro gergo di giovani, subito attaccava: ecco, l'hai vista ancora. Parli addirittura come lei. Non ti vergogni alla tua età? «Alla tua età». Un ritornello. Mi ero ridotto a stare at­tento ad ogni mia parola. Finalmente ora sono libero di esprimermi come mi va. Solo in Tribunale devo sorve­gliarmi nel linguaggio. L'altro giorno: in camera di con­siglio i colleghi mi hanno guardato storto nel sentirmi di­re «questo processo s'è talmente incasinato in istruttoria che è diventato una menata e non ci si capisce più un tu­bo!» (Scoppia in una gran risata)

LEI: (Ridendo all'unisono) Ma questo lo dico io!

LUI:    (Sempre ridendo) Sì. Tu. Certe tue frasi mi restano ap­piccicate addosso. Avessi visto le facce degli illustri colle­ghi! Capirai: avevo offeso la Maestà della legge inqui­nandone l'aulico e sacrale linguaggio. E' stato a quel punto, nel vedere quelle facce ottuse e indignate, che un demone s'è impadronito di me: la voglia irrefrenabile di offendere ancor di più quei pupazzi togati che mi sedeva­no di fronte come insulsi spaventapasseri. E, di rincalzo, ho aggiunta qualcuna delle tue frasi allucinanti. (Non può continuare perché quasi si strozza dal ridere)

LEI: (Divertita come a un gioco infantile) Dimmi, dimmi: cosa è successo?

LUI:    (Forzandosi di dominare il riso) Il Presidente non ha trovato di meglio che sospendere la seduta. Per fortuna, eravamo in Camera di Consiglio e il dramma o la farsa, come preferisci, si è conclusa fra di noi senza testimoni imbarazzanti. Naturalmente mi hanno tolto il saluto!

LEI: (Dispiaciuta) Ce l'hanno con te ora. E non ti dà fastidio?

LUI: Sapessi che piacere mi fanno quando fingono di esse­re presi dalle loro scartoffie, per non accorgersi della mia presenza!

LEI: Insomma il mondo è contro di noi! (Ha parlato con enfasi da fumetto)

LUI:    Era inevitabile. Per i più la norma è legge. E noi siamo due irregolari.

LEI: Riusciranno a dividerci?

LUI:    Dipende solo da noi.

LEI: Io ho tanta paura!

LUI:    Non dimenticare che sono un tecnico del diritto e conosco tutti i trucchi della legge. Non sarà facile intrappolarmi.

LEI: Mamma è un osso duro.

LUI:    Ha le sue magagne anche lei. Non le conviene esporsi troppo contro di me.

LEI:  (Decisa) Piuttosto di lasciarti, io mi uccido!

LUI:    Che paroloni! Dovremo vivere a lungo per sbaragliarti tutti.

LEI: (Ripresa dal dubbio) E se lei, la tua... donna ti rivolesse?

LUI:    Io nonci starei, sta' tranquilla. Ma non lo farà. Ha una dignità borghese da difendere.

LEI: Ma allora non ti amava!

LUI:    Penso proprio di no. Era solo un'abitudine. Si troverà un uomo più giovane.

LEI: (Una punta di gelosia) Perché, era molto giovane lei?

LUI:    Il doppio dei tuoi anni.

LEI: (Colpita) Ventisei! La immaginavo più vecchia.

LUI:    Giovane? Vecchia? Che importanza ha? Ormai non esiste più.

LEI: (Con foga) E tu le volevi bene? Ti mancherà molto? Ti pentirai? Non te la prenderai poi con me?

LUI:    Ehi, piano, piano... calma. Perché angustiarti, se ti dico che tutto è finito?

LEI: (Riflettendo) Ma resta sempre un punto che non quadra.

LUI:    Quale?

LEI: (Con lieve esitazione) Tu... come farai ora?

LUI:    (Fingendo di non capire) Fare... che?

LEI: Hai capito benissimo. Voglio dire... senza donna?

LUI:    (Deviante) E' un problema così importante?

LEI: E lo domandi a me? Lo saprai tu se è importante o no. Io ho sentito dire che voi uomini non potete farne a meno.

LUI:    Ma ti paiono discorsi da fare questi?

LEI: Perché no? Tanto anche se non ne parliamo, io ci penso lo stesso.

LUI:    (Turbato) Anche con tuo padre ci... «pensavi»?

LEI: Sempre. La notte ero con l'orecchio teso a sentire caso mai andasse a bussare alla camera della mamma. Ma da due anni non accadeva più ormai.

LUI:    (Sempre più turbato) Capisco.  (Tace)

(Un silenzio gravido di foschi presagi scende sui due che ora evitano di guardarsi)

LEI: (Con voce sommessa) Devo confessarti una cosa...

LUI:    (Preoccupato per quello che potrà udire) Una cosa spiacevole naturalmente...

LEI: Dipende... Ma io non voglio che ci siano segreti fra noi due... perciò devo dirti tutto... anche quello che penso...

LUI:    (Ormai rassegnato al peggio) Sentiamo.

LEI: Ricordi il giorno che tu ti fermasti in auto?

LUI:    Se lo ricordo! Fu allora che tu entrasti di prepotenza nella mia vita.

LEI: Ricordi che durante il tragitto tirai su la gonna?

LUI:    Sì. Fu il pretesto che escogitasti per venire qui.

LEI: Non fu solo per quello.

LUI:    No? E per cos'altro?

LEI: Appena mi accertai che eri proprio in tutto simile a mio padre mi prese fortissima la voglia di venire con te.

LUI:    (Fingendo di equivocare) Da me. L'hai già detto.

LEI: (Inalberandosi) Non «da te» ma «con te». Di sedurti non per gioco ma davvero!

LUI:    Ma poi giunta qui, ti comportasti benissimo: rifiutasti i soldi e te ne andasti.

LEI: D'accordo. Ma il fatto è che quella voglia ogni tanto mi torna e mi sconvolge. Ho letto che si chiama  «complesso di Edipo»!

LUI:    (Assume di proposito un tono didascalico) Esatto. Tutte le figlie vorrebbero giacere col padre. Come i figli con la madre. Beninteso a livello inconscio. Nella realtà non accade mai.

LEI: (Inquisitiva) Proprio mai?

LUI:    Oh, Dio, a volte accade. Specie nelle campagne.

LEI: (Sempre più incalzante)i Tu personalmente nonhai mai processato un padre che è andato con la figlia perché sedotto da lei?

LUI:    (Tentando di sfuggire alla trappola in cui lei vuol chiuderlo) Certo, in tanti anni di carriera m'è capitato qualche processo d'incesto.

LEI: (c.s.) E tu chi hai condannato: il padre o la figlia?

LUI:    Il padre, naturalmente.

LEI: Perché non la figlia?

LUI:    Perché la legge punisce il padre.

LEI: E perché?

LUI: Per almeno due motivi: primo perché si presume il padre «compos sui» cioè responsabile in quanto maggiorenne; secondo, perché egli in certo senso già dispone della figlia in forza della patria potestà.

LEI: E se è la figlia a prendere l'iniziativa, se è lei a volere andare col padre?

LUI:    Per la legge colpevole è sempre il padre.

LEI: Non è giusto.

LUI:    Le leggi non sempre sono giuste. E poi le intenzioni non costituiscono reato. Dunque non sono punibili. La legge esamina i fatti, solo i fatti, non fruga nelle coscienze.

LEI: Per me la figlia è colpevole quanto il padre.

LUI:    Può darsi ma sta di fatto che la figlia è punibile solo in un caso: se è maggiorenne. Allora diventa correa nel reato d'incesto.

LEI: Non è il nostro caso. Io sono ancora minorenne.

LUI:    Ma noi non siamo padre e figlia.

LEI: E' come se lo fossimo.

(Una pausa, lei riflette intensamente. Poi, decisa, comincia in silenzio a spogliarsi)

LUI:    (Basito, la osserva senza capire quello che lei si propone. Ma è turbato ed eccitato da quella nudità che man mano gli si rivela) Ehi, che fai? Sei impazzita?

LEI: (Non gli bada e continua a denudarsi)

LUI:    Non mi hai sentito? Ricopriti immediatamente.

LEI: (Continua nello spogliarello) Lasciami fare: è solo un esperimento.

LUI:    (Cercando di scherzare per allentare la tensione) E la cavia sarei io?

LEI: Sì. Voglio verificare la tua teoria. Tu dici che la sedu­zione non conta... Ebbene se tu, mio padre, mi vedi nuda, che fai? (Continua a denudarsi)

LUI:    Ma con tuo padre non ti spoglieresti.

LEI: Di proposito, no. Ma una volta entrò nel bagno mentre facevo la doccia e mi vide tutta nuda. (Non smette di spogliarsi)

LUI:    (Ansioso) E lui come reagì?

LEI: Disse solo: «Scusami, non credevo che ci fossi tu».

(Ormai è nuda o quasi a seconda della volontà o del pudore dell'attrice che impersona lei)

LUI:    (Ormai affascinato, resta a guardare immobile quel corpo ostentatamente nudo)

LEI: (A sua volta immobile lo spia mentre un sorriso non sai più se di malizia o di scherno le increspa il volto)

(Sui due,immobili, distanti, l'uno dall'altra...)

BUIO IN SCENA

(La scena torna subito a illuminarsi, lui sempre vestito co­me nel quadro precedente, è solo, seduto al tavolo sta consul­tando in silenzio un grosso fascicolo)

LUI:    (dopo un po' leva il capo a guardare la platea, poi sem­pre seduto, indica il fascicolo) Vedete? Non sono più solo sotto inchiesta. Adesso sono riusciti a montare un rego­lare processo giudiziario contro di me. Le accuse? Tante. (Sfoglia il fascicolo) Seduzione di minorenne, circonven­zione d'incapace, ratto a fine di libidine, sequestro di persona, stupro, e chi più ne ha ne metta. Tutto natural­mente è nato dalla denuncia della madre di Lei. Le pro­ve? Ridicole: c'è chi dichiara (Legge)... «di averci visti insieme in manifesti atteggiamenti di intimità...» (Sfo­gliando ancora il fascicolo) Il mio portiere al quale con­dannai tre anni fa il cognato per furto, depone... (Leg­ge)... «che lei saliva ogni giorno a casa mia e vi restava per ore e ore...» (Sfoglia ancora il fascicolo) Il generale del­l'appartamento accanto al mio, con il quale ebbi uno screzio in condominio testimonia... «che udiva un persi­stente silenzio molto eloquente sulla durata dei nostri amplessi...!» (Sfoglia ancora) C'è chi giura di avere udito sospiri e lamenti indubbiamente erotici... E così via... (Chiude il fascicolo e si alza lasciandolo sul tavolo) Insomma lo scandalo è ormai montato e i benpensanti ci guaz­zano dentro. Non gli par vero di colpire in me un magi­strato che non si è mai lasciato corrompere: né soldi, né bustarelle, né pressioni politiche hanno mai avuto acces­so al mio ufficio. Una roccia, una diga ero io contro i loro maneggi, le lusinghe, le offerte. E tutto questo prima o poi si paga. E io lo sto pagando, lo pagherò. Ma Lei io ho fatto l'impossibile per tenerla fuori da tanta mel­ma... Invece è stata fatalmente coinvolta nel più ignobile dei modi. Infatti...

LEI: (entra. Ha un foglio in mano) Papà, ho ricevuto questa carta. Mamma me l'ha fatta trovare bene in vista sul tavolo da pranzo. La gioia le sprizzava dagli occhi.

LUI:    ( senza prendere il foglio). E' una comunicazione giudiziaria. Canaglie.

LEI: (con noncuranza). Vuoi sentire cose c'è scritto?

LUI:    No. L'immagino. Quei cialtroni cercano d'insozzare anche te.

LEI: (c.s.). Non prendertela... A me non fa né caldo né freddo.

LUI:    Ma non capisci che non potrai evitare la loro sudicia indagine?

LEI: Ma io non penso assolutamente di evitarla.

LUI:    Intendi dire che non ti disgusta?

LEI: Certo che mi vergogno. E tanto! Ma se tu dici che non posso fare altrimenti...

LUI:    Purtroppo non puoi. E' la legge che lo prevede.

LEI:  (in tono di sfida). E io ci vado.  (Trepidante perché assalita dal dubbio) Credi che mi faranno molte domande scabrose?

LUI:    Fossero solo domande! Ma c'è ben altro.

LEI: (sinceramente ingenua). Cos'altro possono farmi?

LUI: (esplodendo). Ma ti visitano! Capisci? Una visita ginecologica. Una cosa laida.

LEI: (Colpita). Qui non c'è scritto.

LUI:    Ma è sottinteso.

LEI: (sforzandosi di superare il disgusto che le monta den­tro). Ah, è così? Ebbene facciamo pure... Io sono a posto: non ho nulla da temere. Lo sai che quel giorno non ac­cadde nulla fra noi due. Io cercavo solo una prova, la prova definitiva che ero riuscita finalmente a farti diven­tare del tutto mio padre. Perciò mi spogliai. E tu quando mi vedesti nuda, non avesti né un gesto né un atteggiamento ambiguo. Ti comportasti da padre. Se non fossi stato mio padre — ma solo un uomo di fronte a una don­na — mi avresti aggredita. Se non ti muovesti fu perché mi vedesti unicamente come una figlia. E' vero?

LUI:    (di slancio). E' così. Così.

LEI: E ora mi visitino pure. Così potrò scagionare te. Ti toglierò tutte quelle brutte accuse che ti hanno buttato addosso. Qui su questa carta c'è scritto che io sarei «la parte lesa» e tu l'imputato. Ma se io non sono «lesa» in niente, tu imputato non sei più!

LUI:    Magari fosse così semplice. Questo è un processo in­diziario. (Va a prendere il fascicolo dal tavolo e lo apre). E qui dentro ci sono turpi insinuazioni, sconce fantasie che possono trovare credito presso un tribunale maldisposto.

LEI: Fammi un esempio.

LUI: Eccotene uno: ( Legge dal fascicolo). ...«Introdotta la teste e interrogata, a domanda risponde: «Posso sul mio onore asserire che durante un amplesso con l'imputato, questi, al momento dell'orgasmo ebbe a pronunciare il nome della sua giovane concubina invece del mio. Alle mie giuste rimostranze egli ebbe a chiarire che s'era trattato di un lapsus e non di un raptus. Naturalmente non gli credetti conoscendo i rapporti che correvano fra i due».

LEI: (Con rabbia improvvisa). Questa è lei, la tua amante!

LUI:    Sì, è lei.

LEI: (Con astio crescente) «Sul mio onore!» Che impudenza!

LUI:    (Dribblando). Ognuno ha il «suo» onore.

LEI: (aggressiva). E' vero che in... «quel momento» pronunciasti il mio nome?

LUI:    (evasivo). Non ricordo.

LEI:  Ma lei lo dice. Anzi lo giura perché tu mi hai spiegato che il teste giura quando depone. E' così?

LUI:    (con riluttanza E' così.

LEI: Dunque è vero. Tanto che lei reagì con una scenata. ( Un tempo. Poi riflessiva, quasi fra sé). Maledizione, questa è una catastrofe!

LUI:    Catastrofe, addirittura.                                   

LEI: Sì, perché lei è riuscita a buttare all'aria tutta la mia costruzione. Se mentre facevi l'amore con lei, immagi­navi di avere me fra le braccia è segno che non mi vedevi più come figlia.

LUI:    (Tentando di districarsi). Via, non puoi inchiodarmi a una parola e su quella farmi il processo.

LEI: Ma io il processo non lo faccio a te. Ma a me.

LUI:    A te?

LEI: Sì. Sono io che ho voluto fare di te mio padre e crede­vo proprio di esserci arrivata. Ma ecco che d'improvviso tu gridi il mio nome, che ami me mentre fai l'amore con lei e tutto crolla, i dubbi tornano ad assalirmi...

(Sempre più disperata). Dunque non ci sarà mai certezza per me? Non saprò mai con che occhi mi guardi? Di pa­dre o di uomo?         

(E' alle soglie della crisi. Poi come in una invocazione in cui esplode irrefrenabile la sua angoscia). E ora come farò a vivere? Come farò? Oh, papà, papà, perché non vuoi essere mio padre?

(Scoppia in un pianto convulso, irrefrenabile, di bambina).

LUI: (E' sconvolto, basito, tenta di accarezzarle la testa re­clina, mentre lei se ne sta rannicchiata in sé e i singhiozzi continuano a squassarla tutta).                                     

LEI:  (con un grido respingendo il gesto di lui, scatta in piedi)

No, non toccarmi, non voglio.

(In piedi lo guarda per un attimo come se le lacrime che le bagnano gli occhi le impe­dissero di vedere chi veramente è lui. Poi si volta e in fretta, quasi di corsa, esce di scena).

LUI: (rimasto solo resta immobile come folgorato da quella fuga improvvisa. Poi si scuote, muove due-tre passi in fretta verso la porta da cui lei è uscita ma vi rinuncia e torna in­dietro risalendo la scena per rivolgersi al pubblico)

LUI: La inseguii per le scale ma non riuscii a raggiungerla. Mi fermai anche perché gli inquilini affacciatisi sulle porte presero ad insultarmi: «Bruto! Vergogna! Un ma­gistrato. Abusare di una bambina!» Tutto questo si tra­dusse nell'ennesima denuncia contro di me, sottoscritta da tutti gli inquilini del caseggiato, il portiere in testa... ( Va a prendere un foglio dal fascicolo che è rimasto sul ta­volo e legge:). «Certifichiamo di aver assistito alla fuga in lacrime della minore per sottrarsi alle insane voglie del turpe individuo che la teneva prigioniera. Chiediamo pubblici poteri che intervengano a mettere fine a uno sconcio che offende il decoro delle nostre famiglie». E i pubblici poteri intervennero con l'abituale ambiguità di chi cerca sempre di salvare capra e cavoli. Fui sollecitato a dimettermi dall'Ordine Giudiziario prima del proces­so, per far sì che sullo scranno d'imputato sedesse solo un «ex-magistrato». E siccome io rifiutati di diventare un «ex», prima di una regolare condanna, scattò un'altra incriminazione: sequestro di persona. Ma a me tutto questo ormai non interessava. Quello che volevo, era so­lo ritrovare Lei che da tre giorni non si faceva più viva né di persona né per telefono. La cercai in tutti i luoghi che frequentava abitualmente, prima di tutto la scuola. Ma non la trovai. Finalmente fu il portiere a dirmi che da tre giorni era tappata in casa, non sapeva se per volon­tà propria o perché la madre non la lasciava uscire. Tor­nai a casa come vuotato di ogni voglia di vivere e me ne stetti qui accasciato. (Siede su di una sedia curvo, come distrutto) Restai così ore e ore finché il telefono squillò...

(Squilla il telefono)

LUI:    (Preso da un'agitazione febbrile) E' lei... è lei... lo sa­pevo... (corre al telefono) Pronto?... (subito mutando Chi parla?... Ospedale?... Ricoverata?... Ma quando?... Sì, sì. vengo... Vengo immediatamente. (Chiude il telefono (Poi al pubblico) Aveva tentato il suicidio. L'avevano salvata per miracolo. La madre, tornata a casa per ri­prendere qualcosa che aveva dimenticato, l'aveva trova­ta riversa nella cucina invasa dal gas. Era stata a lungo in camera di rianimazione fra la vita e la morte... Ma ap­pena riaperti gli occhi, aveva chiesto di me, suo padre. Invano le avevano spiegato che suo padre era morto. Non aveva voluto vedere nessuno altro; così i medici, contro il parere della madre, insistettero per farmi chia­mare. E io andai e rimasi al suo fianco tutto il tempo che stette all'ospedale. La  madre, ogni volta che si affaccia­va alla porta, mi guardava con odio ma Lei continuava a sorridermi e a chiamarmi papà di fronte a tutti. Fu la consacrazione ufficiale di una paternità putativa. E da allora tutto è diventato più facile. Ora ci vediamo libera­mente.

LEI: (Entra. E' allegra, disinvolta, elegante in un fresco abitino estivo. Ha un involto sotto il braccio) Ciao, paparino.

LUI:    Ciao, figliola.

LEI: (Disfa l'involto che contiene una foto in cornice e va a deporta sul tavolo)

LUI:    (Un'occhiata alla foto) Sei tu.

LEI: Sì. Mancava qui.

LUI:    (Legge la dedica) «A papà, con tutto il mio amore». (Un tempo) Forse sarebbe stato meglio scriverci: «Con tutto il mio affetto».

LEI   (Candida) Perché?

LUI:    (Riflessivo) Già, perché?

LEI: E poi la dedica non l'ho scritta ora. Quella foto la diedi a papà un anno fa.

LUI:    (Silenzioso) Ora dovrei darti la mia.

LEI: Ce l'ho già.

LUI:    Davvero? E quando te l'ho data?

LEI: Me la diede papà. E poiché lui ora sei tu...

LUI:    C'è anche lì una dedica?

LEI: Certo: «A mia figlia con tutto il mio amore».

LUI:    Amore?

LEI: Amore.

LUI:    (Perplesso) Sintonia perfetta.

LEI: Sempre fra papà e me... A proposito cos'è l'affiliazione?

LUI:    Affiliazione è adottare uno come figlio proprio.

LEI: Il nostro caso.

LUI:    No. Non ci sono i presupposti. Occorre l'assenso di tua madre. Lo darebbe?

LEI: Lei? Mai. (Un tempo) e l'adozione?

LUI:    L'adottante deve avere più di cinquant'anni. E l'adottando più di diciotto.

LEI: E l'agnizione?

LUI: (Ridendo) Ma l'agnizione è il riconoscimento inaspettato di persone: s'incontra nei drammi. (Un tempo) Ma tu non pensi ad altro che a noi due?

LEI: A cos'altro dovrei pensare?

LUI:    (Esplorando il terreno) Non so... i ragazzi...

LEI: Per carità, quei mocciosi!... Li ho seminati tutti. Ho detto loro che ho un padre severissimo che non tollera nessun bamboccio accanto a me.

LUI:    Il padre severissimo sarei io.

LEI: Sì. Tu.

LUI:    (Fra il serio e il faceto) Così non ti accontenti più di «costruirmi» nell'aspetto e nei modi. Adesso mi attribuisci anche i sentimenti. Insomma non solo «fuori» ma «dentro» mi vuoi come piace a te.

LEI: (Convinta) Sì, voglio un padre tutto per me. Come io sono tutta per lui. Per questo il padre che io mi figuro — e che tu sei per me — mi deve voler bene di un amore esclusivo e non può accettare che io abbia un affetto — ma che dico? — una simpatia per altri che non sia lui. Così ho fatto intorno a me il vuoto, ragazzi compresi, e in questo vuoto sei rimasto soltanto tu.

LUI: (Perplesso)  Sai, che, a volte, la violenza di codesto tuo sentimento mi spaventa?

LEI: (Candida)  Perché? Piacere dovrebbe farti come piacere fa a me sapere che nella tua vita adesso ci sono soltanto io.  (Scrutandolo) Perché ci sono solo io, vero?

LUI:    (Sincero) Solo tu.

LEI: (Batte le mani allegra come una bambina) Che bello! Ce l'ho fatta. (L'abbraccia)

LUI:    (Scostandosi un po')  I fatto è che se sta bene a noi due, non va giù agli altri.

LEI: (Con noncuranza) Che t'hanno fatto ancora?

LUI: Sono giunti a presentare un'interpellanza parlamen­tare: «Interroghiamo il signor ministro della Giustizia se non ha nulla da dire sulla chiacchierata love-story di un noto magistrato».

LEI: (Con orgoglio) Love-story? Dicono proprio così?

LUI:    Testuale.

LEI: (Con entusiasmo) Meraviglioso. Meglio non avrebbero potuto dire!

LUI:    Manca solo che ci facciano su un fumetto! Titolo: «La figlia di due padri!».

LEI: (Con forza) No. Di «un» padre. Tu.

LUI:    (Turbato) Già: io.

LEI: Cos'hai? Mi sembri preoccupato. Non hai detto sempre che nessuno riuscirà a divertirci? E ora che hai? Dubiti? Esiti?

LUI: Io?! Al contrario: ho deciso di reagire non più solo difendendomi ma attaccando. Vogliono la guerra? E guerra sarà. Tanto per cominciare, ho accettato di tenere una conferenza che un circolo giuridico mi ha chiesto tempo fa. Mi hanno lasciato la scelta del tema. Bene, ne ho trovato uno che sarà una bomba: la paternità putativa. Sosterrò che la paternità non è un vincolo di sangue ma spirituale. Ognuno deve potersi scegliere il padre che preferisce.

LEI: (Guardandolo ammirata) Meraviglioso!

LUI: E' un concetto che giuridicamente non sta in piedi. Ma io voglio solo provocarli. Naturalmente, per non consentire loro che mi facciano passare per matto, io av­vertirò all'inizio che la mia sarà una conferenza sul filo del paradosso. Così sarò libero di proclamare le teorie più rivoluzionarie. Come quest'altra: che un figlio deve avere il diritto di rifiutare un genitore che reputa inde­gno. Nella chiesa non c'è la Cresima che è la conferma della Fede? Bene, alla pubertà ti domandano: «Ti sta bene tua madre?».

LEI: (Pronta) No.

LUI: E un Tribunale inizia un processo per «disconosci­mento». Intanto come misura cautelativa interdicono tua madre e le tolgono ogni potere su di te. Naturalmente poi tu devi portare in giudizio le prove della sua indegnità di madre.

LEI: Mantiene un giovane che è il suo amante. Ha spinto mio padre al suicidio.

LUI:    Attenzione! Io parlerò della famiglia in genere non di noi due. Altrimenti mi linciano.

LEI: (Divertita) Capiranno lo stesso.

LUI:    E' quello che spero.

(Squilla il telefono)

LUI:    (Al telefono) Sì, sono io... no, mi spiace, ma mia figlia ed io non concediamo intervista alla stampa... come di­ce? se lei è qui con me?... certo che è qui. E dove dovrebbe stare una figlia se non casa di suo padre?... il processo contro di me?... ma è soltanto un episodio d'intolleran­za, una caccia alle streghe... La verità trionferà contro le menzogne dell'accusa... Ah, vorrebbe sentirselo con­fermare da mia figlia?... non ho difficoltà... prego, atten­da un attimo... (Senza parole porge il telefono a lei che si affretta a prenderlo)

LEI:  (Al telefono) Buongiorno, signor giornalista... ho sen­tito quello che mio padre le ha detto... naturalmente so­no d'accordo con lui perché è il migliore dei padri e io gli voglio tanto bene... dopo il processo, se papà vorrà, sarò lieta di conoscerla... grazie, comunque... e buon­giorno... (Passa il telefono a lui)

LUI:    (Al telefono) Soddisfatto? Cosa dice?... Il mio è un at­tentato all'istituzione familiare?... Ma la famiglia, caro signore, è una costruzione campata in aria se non poggia sull'affetto e la stima reciproche... e la paternità, o ma­ternità non sono un diritto di nascita ma una conquista quotidiana... sì; sì, pubblichi pure... me ne assumo la re­sponsabilità. Arrivederci... (Chiude la comunicazione)

LEI: Bravo papà.

LUI: Bravo? Non lo so. Di certo so che ho innescato un'al­tra bomba che avrà un effetto dirompente perché quel giornale ha una diffusione enorme. Così ho tagliato tutti i ponti. Ora indietro non posso più tornare.

LEI: Perché, lo vorresti?

LUI: (Deciso) No. Voglio godermi come va a finire.  (Ridacchiando cinico) Vedi, il vantaggio di noi magistrati sui co­muni mortali è che godiamo di un potere sancito dalla costituzione che ci rende indipendenti dalle altre istitu­zioni. Nessuno può interferire nei nostri atti. Siamo uno stato nello stato. E io intendo approfittarne per farmi beffe di loro, i benpensanti.

LEI: (Ammirata e al tempo stesso divertita come a un gioco) Tu ci sai fare. Chissà cosa gli combini!

LUI:    (Riflessivo) Ancora non ho chiaro il mio piano in tutti i dettagli ma per cominciare solleverò incidente di suspicione.

LEI: Suspi...

LUI:    ...cione.

LEI: E cos'è?

LUI:    Quando si chiede che il processo non sia celebrato in un luogo perché l'ambiente intorno è prevenuto contro l'imputato.

LEI: Hai ragione: tutti ce l'hanno con te.

LUI:    Esatto. Poi ricuserò i giudici.

LEI: Li butti via?

LUI:    Più o meno. Rifiuterò il collegio giudicante.

LEI: Con che scusa?

LUI:    Che hanno espresso un giudizio contro di me quando hanno chiesto che mi dimettessi: segno che già mi ritengono colpevole.

LEI: (Sempre più divertita) Bellissimo. E gli combini altri scherzetti?

LUI:    Certo: non ho finito.

LEI: Dimmi, dimmi.

LUI:    Intanto dò querela per calunnia a tua madre.

LEI: Magnifico!

LUI:    Così si incardina — si dice così — un processo nel processo, che deve avere il suo corso: prove, controprove, ordinanze, eccetera: un guazzabuglio.

LEI: E al suo amante non gli fai nulla?

LUI:    Sì. Anche a lui ho pensato. Lo denuncio per circon­venzione d'incapace e per plagio. Tua madre non è un' incapace? Non me ne importa niente. Quello che m'inte­ressa è che ogni denuncia provoca un'istruttoria. Un giudice deve occuparsene, testimoni vanno ascoltati, gli accusati devono difendersi, avvocati devono intervenire, le carte si accumulano «l'affaire» — come si dice per no­bilitare le sozzure — diventa un groviglio sempre più complesso.

LEI: (Allegra) Di bene in meglio.

LUI:    Aspetta: non è finita.

LEI: No?!

LUI:    Denuncio anche quelli che hanno deposto contro di me dicendo che ti ho violentata.

LEI: (Sempre più partecipe) E di che li accusi?

LUI:    Vilipendio della magistratura. Non sono forse ancora un magistrato anche se sospeso? Bene: un altro processo, un altro ingranaggio che si mette in moto e tutti insieme diventano una piovra dai cento tentacoli che finisce col coinvolgere un mucchio di gente. E al centro di tutto questo enorme pastrocchio io, il burattinaio, a goderme­la nel vedere questi omuncoli presi al laccio della loro stessa perfidia. Ah, come voglio ridere!

LEI: (Allegra) Con te non mi annoio mai. Ne sai una più del diavolo!

LUI:    (Già pregustando la beffa che vuoi ordire) E poi da cosa nasce cosa. Un processo in genere prolifera spontanea­mente tanti gruppuscoli giudiziari. Figurati quando a manovrarlo è poi uno come me che conosce tutti i trucchi del mestiere! Andremo avanti per mesi. Ma che dico me­si? anni ci vorranno perché la macchina della giustizia è lentissima. Intanto a tua madre verranno i capelli bian­chi e al generale mio coinquilino che ha già la pressione alta spero gli venga un colpo.

LEI: Amen.

LUI:    Sì. Amen. E requiescat il conformismo borghese!

LEI: Viva noi. Papà. (L'abbraccia)

(A un cenno convenzionale di lui, lei docilmente si stacca dall'abbraccio, si fa da parte come se si spogliasse del ruo­lo del personaggio di «lei» per restare immobile semplice spettatrice mentre lui viene alla ribalta a parlare al pubblico)

LUI:    Signore e signori, come avete udito, ci sono due ma­niere di vedere questa storia: una più banale è quella di interpretarla come una vicenda scabrosa e volgare in cui un uomo della mia età si lascia sedurre da un'adolescen­te per fini che è facile immaginare: l'altra più sommessa e sommersa è quella di un incubo popolato di poesia, di amore e di fantasia nel quale io — adulto — affascinato dal richiamo infantile, mi lascio andare fino quasi a per­derci la ragione... E' questo ruolo di padre che, in realtà mi coinvolge e seduce e conquista. Un ruolo meraviglio­so inusuale, coraggioso e così poco conformista in cui ho ritrovato, ormai anziano, gli incanti dell'adolescenza. Ma andateglielo a spiegare a quelli che indagano su di me. Ormai la battaglia fra me e loro s"è fatta feroce e senza esclusione di colpi. A lei, poverina  (indica lei sem­pre immobile in disparte) ...non no potato evitare la igno­bile tortura della ispezione ginecologica che la legge pre­scrive quando c'è una accusa di stupro Ne è ancora traumatizzata. Osservatela.

LEI: (In disparte abbassa il capo in atteggiamento di doloro­sa vergogna mentre trae di tasca un fazzolettino con cui si asciuga gli occhi)

LUI:    Lei non ha previsto la crudezza delle domande, la in­quisitoria insistenza sui particolari più intimi e scabrosi. Sono riusciti così a farle conoscere cose laide che ignora­va: la sua innocenza mentale è ormai incrinata anche se quella fisica ne è uscita indenne. Perché l'imputazione della violenza subita è caduta, come prevedevo. Sono certo che attraverso lei hanno voluto colpire me il collega irriducibile che essi giudicano una vergogna per tutta la nostra corporazione. E un risultato ancora più turpe hanno ottenuto: mia figlia non mi guarda più come prima. Ai suoi occhi la mia immagine si è un po' offuscata perché tutte le sozzure che minuziosamente le hanno de­scritte col pretesto di interrogarla, gli inquisitori le han­no inevitabilmente collegate a me perché l'indiziato di stupro ero io: «Ti ha fatto questo? Ti ha fatto quest'al­tro? E come te l'ha fatto? Fin dove s'è spinto? Eccetera, eccetera...». Infatti quando è tornata a casa quel giorno dopo la visita lei era talmente sconvolta che non riusciva quasi più a parlare e mi rispondeva solo a monosillabi. Ascoltatela.

LUI:    (A lei) Allora ci sei stata?

LEI: (Gli occhi bassi, stenta a rispondere) Sì.

LUI:    Com'è andata?

LEI: (c.s.) Così.

LUI:    Ti hanno fatto tante brutte domande, vero?

LEI: Sì.

LUI:    Beh, non ci pensare più. Ormai hai superato la prova. Ne sei uscita bene. Questo solo importa.

LEI: Sì.

LUI:    Non te la prendere perché non è con te che ce l'hanno ma con me.

LEI: Sì.

LUI:    Quando si riferivano a me come mi chiamavano?

LEI: Imputato.

LUI:    E tu?

LEI: Padre.

LUI:    Questo li irritava ancora di più, immagino.

LEI: Sì.

LUI:    E ti spiegavano che io non sono tuo padre ma uno che finge di esserlo per abusare di te?

LEI: Sì.

LUI:    Canaglie! (Fa per abbracciarla ma lei lo respinge. Lui la guarda perplesso) Capisco: sei ancora sotto choc. Ma devi sforzarti di dimenticare. Altrimenti loro riescono a dividerci. E questo tu non lo vuoi, vero?

LEI: No.

LUI:    Io sono sempre il tuo papà e tu mia figlia.

LEI: Sì.

LUI:    Dunque il resto non conta. Pensa solo che è caduta la più grave delle imputazioni: quella di «stupro» e che questa è la prima sconfitta di tua madre. Le altre verranno non temere.

LEI: (Un po' rischiarandosi) Sì... (Un tempo); Ma...

LUI: Ma?... Continua. Non vergognarti.

LEI: (Animandosi di rabbia) Ma loro con tutte quelle brutte cose che dicevano che noi facciamo quando siamo soli — questo, quello, così, colà — mi hanno fatto tornare dentro la paura... (Non riesce a proseguire)

LUI:    La paura di che? Parla, ti supplico.

LEI: (Sbloccandosi) ... del complesso di Edipo.

LUI:    (Sconvolto) Di nuovo?

LEI: Sì. Mi pareva di essere riuscita a liberarmene. E adesso invece...

LUI:    (Inalberandosi) Ma è assurdo! Ne abbiamo discusso tanto insieme... Sei giunta perfino a spogliarti nuda per mettermi alla prova... e non ti ho toccata nemmeno con un dito... Dunque non devi più aver paura.

LEI: ...Ma io non ho paura di te...

LUI:    ... E allora?!...

LEI: (Imprevedibilmente) E' di me che ho paura.

LUI: (Sgomento) Di te? E come?

LEI: Rispondi, ti prego, a questa mia domanda: mi possono fare un'altra visita?

LUI:    No. Quella che hai subito fa testo nel processo.

LEI: E con l'ispezione che mi hanno fatto tu vieni assolto, l'hai detto poco fa.

LUI:    E' così.

LEI: Ora, se accadesse qualcosa fra noi due, dato che la visita non possono più ripeterla, a te non possono fare più niente. Ci pensi?

LUI:    (Sincero) Io, no.

LEI: E io invece, sì.

LUI:    (E' rimasto senza fiato, la guarda sbalordito)

LEI: (Lo osserva come un entomologo studia un insetto)

LUI:    (Infastidito da quello sguardo che lo scruta e turbato dal pensiero che dietro di esso vi legge) Non puoi scacciare certi pensieri?

LEI: Ci provo. Ma tornano.

LUI:    (Esplodendo) Non vorrai darla vinta a tutti quelli che ci vogliono male!

LEI: (Con insolita malizia) Al contrario: me ne faccio beffa.

LUI:    (Sempre più in difficoltà nel seguirla nel suo contorto ragionare) Beffa? Ma quale beffa?

LEI: (Pacata come esponesse un teorema) Vedi, loro t'accusano di avermi stuprata. Ma la visita ha provato che non è vero: dunque l'accusa è caduta. Così se adesso tu mi violenti davvero loro non ti possono più fare nulla e noi li abbiamo giocati.

LUI:    (Indignato) Ma, dico, parli sul serio? Ti rendi conto della enormità che dici? Così secondo te, dovrei violentarti?

LEI: (Stesso tono dimostrativo) Non ho detto che «devi» farlo. T'ho semplicemente esposta una ipotesi. Tu devi solo dirmi se come ragionamento funziona o no. Bada, solo come ragionamento.

LUI: (Nella speranza di liberarsene) E va bene, ammettia­mo, pure per assurdo, che l'equazione sia esatta: delitto senza castigo. E con questo? Dato che, in realtà, non può accadere perché né io né tu lo vogliamo, ecco che tutto si riduce a niente.

LUI:    (Correggendolo) Non a niente. Ma a un pensiero.

LUI:    (Minimizzando) D'accordo, un pensiero.

LEI: (Precisando) Un pensiero molesto.

LUI:    (Saggiando la via della persuasione) Ascoltami, da brava. Sei riuscita faticosamente in quello che ti propo­nevi: farmi diventare tuo padre. E ora che finalmente lo siamo, padre e figlia, noi mandiamo all'aria tutto?

LEI: Ma non capisci? E' proprio perché ormai per me sei mio padre definitivamente — ripeto: definitivamente — che quel pensiero mi torna. Se io ti vedessi come uomo non potrei certo immaginare un rapporto sessuale fra noi due. Scusami, ma come potrei pensare di venire a let­to con un uomo della tua età, io, della mia? E' perché ormai ti vedo come padre che l'idea dell'incesto mi turba. (Un tempo) E mi rallegra.

LUI:    Ti rallegra?

LEI: Sì. E' la prova che ho ritrovato papà.

LUI: (Si prende sfiduciato la testa fra le mani, poi quasi a se stesso) E' un circolo vizioso, un vortice... quando cre­di di esserne fuori, ecco che ne vieni ripreso... Dove ci porterà tutto questo? Come andrà a finire?

LEI: Hai detto sempre che vinceremo, che li sconfiggeremo.

LUI:    Ma io non intendo: come finirà con gli altri? ma «come finirà fra noi due?».

LEI: Cioè?

LUI:    Non riuscirai alla lunga a contagiare anche me?

LEI: In che senso?

LUI:    Vedi, finora, questo incubo dell'incesto ha giocato — per così dire — a senso unico. Sei tu ad esserne osses­sionata. E se la situazione si ribaltasse? Se finissi coll'esserne preso anch'io? In fondo il complesso d'Edipo è ambivalente, non coinvolge solo la figlia verso il padre, ma anche il padre verso la figlia. Ti sei mai chiesta perché tutti i padri sono gelosi della figlia e guardano spesso con acredine all'uomo che la sposa? E' il desiderio inconscio di possedere — come unico maschio — la figlia che pri­ma li eccita e poi li mette in crisi quando subentra un al­tro uomo a spodestarli.

LEI: Ma io non ho nessun altro uomo...

LUI:    Non importa. La mia paura adesso è che, a furia di evocare lo spettro di quel tabù, tu non finisca col comunicarlo anche a me...

LEI: (Avida e al tempo stesso trepida) Hai voglia di me?

LUI:    No. E te ne ho dato la prova. Ma tu non devi conti­nuamente provocarmi. Perché alla fine anch'io potrei essere preso nel tuo stesso capzioso ragionare: tutti i pa­dri desiderano giacere con la figlia, dunque se io ti desi­dero, è segno che mi sento proprio tuo padre. Mentre io devo star fermo all'altra faccia del dilemma: appunto perché sono tuo padre devo scacciare ogni torbido pensiero verso di te.

LEI: (Quasi con trionfo) Allora ti vengono?

LUI:    (Interdetto) Cosa?

LEI: I pensieri... «torbidi».

LUI:    (Troncando) Non so. E non voglio saperlo.

LEI: (Soddisfatta) A me basta sapere che ti vengono. (Di scatto come ubbidendo a un richiamo comincia a miniare dei passi di danza con trasporto, gli occhi chiusi) (Ma non si ode nessuna musica).

LUI: (Per un po’ sta ad osservarla perplesso, poi): Che balli? Un rock?

LEI: (Sempre ballando) Ma no, è la rapsodia di Gershwin. Non la senti?

LUI:    (Come vergognandosi, senza ironia) No, io non sento niente! (Effettivamente non si ode nessuna musica).

LEI: (Sempre ballando) Concentrati e la sentirai anche tu.

LUI:    (Ormai coinvolto nella magica evocazione) Vuoi dire che la musica ce la portiamo dentro e non c'è bisogno che qualcuno la suoni?

LEI: Bravo. Ci sei! La musica, tutta la musica, diceva papà, è nell'aria. Noi qui non la sentiamo perché distratti dalle chiacchiere della gente, dai rumori della vita, ma basta che mentalmente ti isoli, e — tac! — le note di quelle musiche che ami, ti assalgono da ogni parte. Senti. Ger­shwin?

LEI: (Intanto non ha mai smesso di mimare la danza) (D'im­provviso si odono gli accordi della «Rapsodia in bleu» suo­nata a piena orchestra ma come in sottofondo).

LUI:    (Illuminandosi) Sì. adesso la sento, la sento benissimo. (Accenna qualche nota della rapsodia in sintonia con la musica che ascoltiamo).

LEI: (Senza smettere di ballare) Io adoro Gershwin. E tu?

LUI:    Anche a me piace.

(La musica d'improvviso muta e diventa chiaramente un brano classico).

LEI: (Smette di mimare la danza) Questa non si può ballare.

LUI:    Cos'è?

LEI: Il primo concerto brandeburghese di Bach. Papà lo suonava spesso. L'aveva anche «arrangiato» per violoncello.

LUI:    Suonava il violoncello?

(La musica di Bach continua in sottofondo).

LEI: Sì. Non senti?  (Viene in p.p. il suono del violoncello).

LUI:    Sì. Il violoncello. Lo sento.

LEI: E' di papà. (Resta tutta raccolta in sé, come ispirata dall'apparizione di qualcosa che lei sola vede).

LUI:    (La ossena in silenzio come timoroso di distoglierla dal sogno sonoro in cui è immersa)

(La musica di Bach conti­nua per un po' col violoncello in p.p. poi d'improvviso si spezza come in un singhiozzo. Subentra un silenzio teso, quasi drammatico).

LUI: (Sorpreso) Finisce così?

LEI: No. E' mamma che con la sua voce sgradevole ha chiamato papà e ha rotto l'incantesimo.

LUI:    (Tono comprensivo) Capisco.

LEI: Papà si chiudeva in soffitta a suonare per sfuggire a mamma. Ma lei trovava sempre il modo di disturbarlo.

LUI:    Tua madre odiava tanto la musica?

LEI: No, Odiava papà. Infatti accettava tutti gli strumen­ti meno, naturalmente, il violoncello. Per ferire papà pa­ragonava il suono del violoncello a un muggito. Se papà avesse suonato il clarinetto, lei avrebbe trovato insopportabile il clarinetto. Ho visto piangere papà abbraccia­to al suo violoncello, come a difenderlo. Naturalmente, in soffitta ci andavo io a rincuorarlo mentre suonava.

LUI:    (Distaccato, al solito, da Lei che resta immobile, si ri­volge al pubblico) Mi ero ridotto come un acrobata sul filo, sospeso su un abisso in cui rischiavo ogni momento di precipitare. Il mio equilibrio diventava sempre più in­stabile e precario ora che si era aggiunta quella compo­nente irrazionale che è la musica. Con conseguenze piut­tosto grottesche. Infatti convocato dal nostro consiglio di disciplina a discolparmi degli addebiti mossimi prima del processo, invece di rispondere esattamente, sapete che feci? Mi misi a zufolare Rossini: «La calunnia e un venticello» del Barbiere. Apriti cielo! Avevo commesso a dir poco, un sacrilegio. Può infatti un magistrato in pie­no possesso delle sue facoltà mentali comportarsi in mo­do così sprezzante e beffardo verso l'istituzione con la I maiuscola? Evidentemente no. Infatti hanno subito proposto una perizia psichiatrica nei miei confronti. Co­sì pensano di risolvere furbescamente tutta la questione: non è un magistrato che ha fischiato Rossini dinanzi a così alto consenso ma un malato non del tutto capace d' intendere e di volere. E se è malato, come si fa a trascinar­lo in giudizio? Tutti i fatti di cui l'accusiamo sono ricon-ducibili alla nevrosi di cui soffre chissà da quanto tempo e che l'ha spinto a molte stranezze, come quella di attri­buirsi una figlia mai vista prima e alle tante denunzie che ha sporto contro Tizio e Caio. E siccome è risultato che la ragazza non ha subito nessun stupro, diamogli un bel periodo di riposo in modo che poi, guarito, possa torna­re nell'ordine Giudiziario che non ha mai «scientemen­te» offeso. Capito il trucco? Così più nessun procedimen­to, le istruttorie annullate e, soprattutto, niente scanda­lo: i panni sporchi noi ce li laviamo in famiglia.

LEI: (Scuotendosi dall'immobilità) papà, vogliono farti passare per matto?

LUI:    Ci provano.

LEI: Visitano anche te?

LUI:    Sì. Ma al cervello.

LEI: (Ride) E tu che fai?

LUI:    Gli dò del filo da torcere.

LEI: E come?

LUI:    Contesto il collegio dei periti.

LEI: (Sorpresa e preoccupata) Il collegio?! Dunque non sarà un solo medico ad esaminarti?

LUI:    No. La posta in gioco è troppo importante per loro: hanno bisogno di un'intera equipe per dividersi la responsabilità.

LEI: Ti faranno molte domande?

LUI:    Tutte.

LEI: E tu?

LUI:    Contrattacco. Affermerò che sono assertore di una psichiatria alternativa e dunque non accetto a priori e per principio la loro diagnosi, qualunque essa sia. Così ti metto in crisi come medici.

LEI: Spiegati meglio.

LUI:    Quando gli psichiatri che contestano la scienza uffi­ciali dei «baroni», leggeranno la mia dichiarazione, si schiereranno tutti dalla mia parte. E poiché, per legge, io ho diritto a una controperizia medica, avrò un muc­chio di medici pronti a difendermi. Così il mio caso invece di soffocarlo come si propongono, esploderà ancora di più.

LEI: Anche a papà, davano del matto: perciò mi piaceva.

LUI:    Sono contento di assomigliargli anche in questo.

LEI: A me la gente troppo saggia non va giù. Perciò ti dissi che il tuo mestiere di giudice non mi piace

LUI:    Ricordo.

LEI: Beh, se ti scoprono matto, a me sta bene perché sono un po' matta anch'io. Te ne sei accorto?

LUI:    Altro che!

LEI: E come matti, potremo fare quello che ci pare.

LUI:    Fino a un certo punto. Io devo salvare la faccia. Se mi danno la patente di matto, tutto quello che farò viene screditato. E invece io ho una battaglia da condurre con­tro i falsi moralisti. E intendo condurla fino in fondo.

(Squilla il telefono)

LUI:    (Va a rispondere) Sì. Sono io. Ah, non vuole me ma mia figlia... Ma chi parla? (Resta interdetto) Ripeta per favore... Lei afferma che è stata mia figlia a chiamarla?... Attenda un attimo, verifico... (Si rivolge a lei) Tu hai...

LEI: (L'interrompe) Sì, papà... è per me... Poi ti spiego. (Prende il telefono e risponde) Sì... confermo tutto... cer­to, sono pronta a ripeterlo in pubblico... sì, a sua disposizione... domani alle sedici?... Benissimo, alle sedici... ci sarò... arrivederci a domani. (Chiude la comunicazione)

LUI:    (A lei) Adesso mi dirai...

LEI: Tutto ti dico. Ecco, ho deciso di ripagare mia madre con la stessa moneta.

LUI:    Lascia le premesse e vieni al dunque.

LEI: Ci sono. Mamma ha accusato te per ferire me. Io accuso il suo ganzo per colpire lei. Pari e patta.

LUI:    (Stupito) Ma di che lo accusi?

LEI: Di insidiarmi, di circuirmi, di aver tentato di violentarmi.

LUI:    Ma è falso. Altrimenti me l'avresti detto.

LEI: (Ridendo) Certo che è falso. (Un tempo) E non è finita.

LUI:    No?!

LEI: No. Accuso anche mia madre di tenergli mano. Per non perdere l'amore di un uomo tanto più giovane di lei, ha cercato di convincermi ad andare a letto con lui. Per sottrarmi a questa situazione che si era fatta sempre più difficile per me, io mi sono rifugiata da te.

LUI: (E' rimasto sbalordito a fissarla senza riuscire ad articolare parola)

LEI: (Soddisfatta) Che ne dici?

LUI:    (Finalmente scuotendosi) Ma è diabolico!

LEI: Appunto: diabolico!

LUI:    E' una macchinazione mostruosa. Non ti crederanno.

LEI: Se hanno telefonato è segno che hanno dato peso alla mia denuncia.

LUI:    Ha telefonato una donna. Non ho capito bene chi fosse.

LEI: La rappresentante di un collettivo femminista.

LUI:    Hai messo di mezzo le femministe? Figurati adesso che casino faranno!

LEI: E' quello su cui io conto.

LUI:    Prima mi hai detto che sei un pò matta. Io dico che sei tutta matta.

LEI: (Quasi divertita) Matta o no, importante è vendicar­mi. Le femministe si sono già mobilitate. Per domani alle sedici hanno indetto un dibattito, hai sentito.

LUI:    (Preoccupato) E tu hai promesso che ci vai.

LEI: Certo, perché dopo ci sarà una conferenza-stampa.

LUI:    (Ironico) Di bene in meglio.

LEI: Dovresti venirci anche tu.

LUI:    Brava: così la patente di matto me la danno subito.

LEI: Se non vuoi venirci, puoi sentire il dibattito alla radio.

LUI:    (Sorpreso) Ci sarà anche la radio?

LEI: Solo le reti private. Quella di Stato ha rifiutato.

LUI:    (Con sollievo) Meno male.

LEI: (Monta su una sedia, trae di tasca un foglietto e attacca a leggere con foga di un avvocato che tiene un'arringa)

Compagne, affido a voi la difesa dei miei diritti di fi­glia: mi vogliono impedire di vivere col mio padre adotti­vo che amo e mi ama. Per riuscire nel loro vile intento, sono giunti a infangarne la figura, montando contro di lui un assurdo processo per stupro dal quale giustamente è uscito assolto ma che non ha risparmiato a me nessuna delle turpi indagini cui i maschi sogliono sottoporre noi donne. Sostenetemi in questa lotta che è anche la vostra lotta, la battaglia di tutte le donne contro il prepotere co­dificato degli uomini. Grazie. (Rimette in tasca il fogliet­to e scende dalla sedia)

LUI:    (E' rimasto immobile ad ascoltarla fra ammirato e sgomento)

LEI: Che te ne pare?

LUI:    Vuoi veramente dire tutto quello?

LEI: Certo, sono giorni che mi preparo. L'ho scritta per non dimenticare niente. Ma per domani l'imparo a memoria.

LUI:    Incredibile! Del nostro caso fai una battaglia civile.

LEI: Perché, non si può?

LUI:    Ma sì che puoi. Tu puoi tutto. Guarda che hai fatto di me! (Indica se stesso dai capelli lunghi all'abito hippy)

LEI: Non sei contento? Sembri un altro.

LUI:    (Senza ironia) Appunto: un altro. Ma chi?

LEI: (Decisa) Mio padre.

LUI:    E' vero. Manca solo il violoncello.

LEI: Avevo già pensato di portartelo domani. Nulla in contrario?

LUI:    Nulla figurati! Porta anche gli spartiti.

LEI: (Spiacevolmente sorpresa) Non mi piace questo tuo tono ironico. Non ci sono abituata.

LUI:    Scusami. Forse è la tensione di questi ultimi giorni.

LEI: (Convinta) No, non è la tensione. C'è dell'altro. Per caso ce l'hai con me? Ti ho deluso in qualche cosa? Se fosse così, devi dirmelo subito. Con papà ci parlavamo sempre a cuore aperto.

LUI:    No. Tu non c'entri.

LEI: (Perplessa) E allora... (Di colpo gli prende la testa fra le mani e lo fissa in volto) Guardami negli occhi.

LUI:    (Tenta di distogliere il volto)

LEI; Ho detto: «negli occhi». (Continua a scrutarlo, trattenendogli il volto) Ti leggo dentro d'improvviso una gran stanchezza E' così?

LUI:    (Esitante) Un po’.

LEI: (Sempre fissandolo) Sei pentito d'avermi incontrata?

LUI:    (Sincero) Mai!

LEI: (Premurosa) E allora cos'è? Non ce lo fai più a lottare contro tutti?

LUI:    (Sincero) Al contrario. La lotta mi è congeniale.

LEI: (Ha continuato a fissarlo con insistenza indagatrice) Che hai? E' chiaro che c'è qualcosa che ti angustia. E io voglio venirne a capo. (Di colpo dà un grido doloroso e si distacca da lui) Ci sono. E' lei, la tua «ex». L'hai rivista.

LUI:    No.

LEI: Comunque è lei la causa del tuo malumore.

LUI:    (Tace abbassando il capo)

LEI: Bene, non lo neghi. Ma ora devi dirmi tutto. Perché sei tornato a pensarci? Cos'è accaduto?

LUI:    M'ha telefonato.

LEI: E tu?

LUI:    Io. niente. Voleva vedermi. Ma io ho lasciato cadere la cosa.

LEI: (Conclusiva) E ora ne sei pentito?

LUI:    Non lo so.

LEI: Sì che lo sei. Ma non devi fartene un cruccio per me. Tanto prima o poi doveva accadere. Figurati se «quella» rinuncia a te. Ti sei illuso. Ma io, no. Dimmi solo: ti ri­metti con lei o ci vai... tanto per andarci... senza impegnarti?

LUI:    Ma che domande fai? E poi io non voglio discutere di certo cose con te.

LEI: E con chi vuoi parlarne? La nostra famiglia è tutta qui: tu ed io.

LUI:    Intanto non t'ho detto che ci vado. E poi, se per una semplice telefonata, fai tante storie, figurati se ci vado - cosa farai!

LEI: Niente farò. Posso forse impedirti di rimetterti con lei?

LUI:    Ma chi ti ha detto che torno a vivere con lei?

LEI: Forse ora l'intenzione non ce l'hai e magari pensi di andarci una volta e basta... Ma quando sei lì...(Fissa con orrore il vuoto come se già li vedesse insieme)... fra le sue braccia, vedrai che riesce a strapparti la promessa di tor­nare a vivere con lei. E per me è finita!

LUI:    Finita perché? Anche tuo padre, mi dicesti, si concedeva delle scappatelle qualche volta.

LEI: E' vero. Ma erano appunto «scappatelle». Mai una relazione. (D'improvviso con tono leggero, quasi coquette) Se proprio non puoi farne a meno, perché purtroppo voi uomini siete fatti così, hai visto chi c'è giù in strada quasi  all'angolo?

LUI:    No chi c'è?

LEI: «Quelle»!

LUI:    Ah; sì? Non ci ho fatto mai caso.

LEI: Perché pensi troppo ai tuoi processi. Ma loro sono sempre lì. Ogni mattina mentre vado a scuola, le vedo. E anche all'uscita di scuola. Ma quando riposano?

LUI: (Quasi divertito) E' un problema che non mi sono mai posto.

LEI: I miei orari di scuola li conosci. Ma dopo rimetti tutto in ordine.

LUI:    (E rimasto a fissarla come imbambolato) Sei, proprio imprevedibile! (Siede come per riflettere meglio)

LEI: (D'improvviso implorante) Ti supplico: con lei, no. Ne soffrirei troppo. (Siede sulle ginocchio di lui in atteggia­mento filiale ma birichino, e prende a scompigliargli i capelli con fare fra il tenero e lo sbarazzino) Me lo prometti, vero, paparino? Dimmi che me lo prometti. Anzi ripeti: lo giuro! 

(Di colpo scatta in piedi e prende a indietreggiare come sconvolta per lo choc di un evento imprevisto, grave e rivelatore dello stato fisico di lui)

LUI:    (Si alza sgomento e quasi tremante di vergogna, ma non riesce ad articolare parola per giustificarsi)

LEI: (Con una disperata invocazione che sembra lacerarla tutta dentro) Va, va subito giù in strada! (Ed esce di corsa coprendosi il volto con le mani)

LUI:    (Rimane muto in piedi, come incerto se inseguirla. Poi cade a sedere di schianto sulla sedia levando, a sua volta, le mani a nascondersi il viso)

BUIO IN SCENA

La stessa scena dei quadri precedenti. In più c'è un violon­cello ritto, appoggiato al tavolo. Innanzi al violoncello un leg­gio da musica su un trespolo ma senza spartiti.

LUI:    (Entra. E' in veste da camera. Al Pubblico): Hanno vinto loro: mi hanno espulso dalla Magistratura e Lei 1' hanno cacciata di scuola. Così ora siamo due disoccupati e abbiamo tutte le giornate per noi. Le impieghiamo a-scoltando la musica e andando a zonzo per la città. (Con­sulta l'orologio da polso, poi chiama rivolto all'interno) Dove sei?

LEI: (d.d.) Sono in cucina, papà.

LUI:    (Sempre a lei) Fra un minuto comincia il concerto.

LEI: (d.d.) Lo so. Vengo subito.

LUI:    (Al pubblico) Non ci perdiamo mai il concerto delle cinque. E' diventato un rito per noi. Altri hanno il tè. Noi, lui. ( Indica il violoncello — poi come alla risposta di un immaginario spettatore) Cosa suona oggi? Non lo so. Il programma lo decide mia figlia. Per me è sempre un po' una sorpresa. A me va bene tutto perché si tratta sempre di musica classica, e per di più, suonata egregia­mente. Ma eccola: lei può informarvi meglio.

LEI: (Entra. E' anche lei in vestaglia. Rivolta a lui). Scusami, stavo pulendo la gabbietta dei criceti.

LUI:    (Indicando la platea). Mi chiedevano cosa suona oggi.

LEI: La... (Titolo della composizione)... E' un «arrangiamento» che papà non è riuscito a far ascoltare a nessun editore. Anche lì c'è la mafia, diceva.

LUI:    Lo immagino.

LEI: Comunque ora può rifarsi con noi, poverino!

LUI:    Certo.

(Lui e lei seggono, ognuno su una sedia che dispongono a fian­co come in un immaginario teatro)

LEI: (A lui, con tono professionale ma senza saccenteria) Questo concerto di...(Dice il nome dell'autore)... lo scris­se nell'anno... (dice l'anno della composizione)... ed era inizialmente ideata per piano. Papà l'ha adattata al vio­loncello. Segovia l'ha trascritta per chitarra.

LUI:    Allora è bella.

LEI: Molto. Ora sentirai.

(I due chiudono gli occhi, distendendosi un po' come per meglio gustare la musica del violoncello che infatti inizia prima in sordina, poi diviene man mano più forte!)

LUI:    (Indicando l'orologio da polso, sottovoce a lei) Le cinque. Puntualissimo.

LEI: (Soddisfatta) Sempre, papà.

(La musica viene sempre più in primo piano, eventualmen­te con sottofondo di orchestra e continua per un po' mentre lui e lei ascoltano il silenzio, estasiati).

LUI:    (Sempre seduto, ora si volta a parlare al pubblico. Il suono del violoncello si attenua fino a diventare un «pianis-simo» consentendo così di udire la voce di lui) Ecco i nostri pomeriggi. Niente di peccaminoso, come vedete. Anche se la gente pensa il contrario. Ma contro la gente noi non lottiamo più. Gli altri invece non ci lasciano in pace. Ac­creditata ormai la leggenda che siamo matti, ci conside­rano forse due macchiette. Infatti per strada molti ci ri­dono dietro. In faccia, no. Perché sono anche vigliacchi. Ma devo ammettere che, per parte nostra, non abbiamo fatto molto per fugare la taccia da matti. Figuratevi che... (S'interrompe)... ma questo ve lo dico dopo, per­ché il concerto sta per finire... (Torna a voltarsi verso il violoncello e riprende l'atteggiamento rilassato di poc'an­zi, richiudendo gli occhi con lei.)

(Il suono del violoncello tor­na in p.p. dopo un po', in un «crescendo» sostenuto, il pez­zo termina. Lei e Lui si scuotono e battono all'unisono le mano con fervore verso il violoncello come se ne vedessero il suonatore).

LUI:    Avevi ragione tu: è bellissimo.

LEI: Sono contenta che ti è piaciuto. Vero che papà è un asso?

LUI:    Puoi dirlo forte.

LEI: Domani lo sentirai in uno dei suoi cavalli di battaglia. Il... (Titolo dell'opera)

LUI:    Sempre alle cinque?

LEI: Sempre.

LUI:    Ci sarò. E tu?

LEI:  (Seria) Anch'io. (Un tempo) Con chi parlavi poco fa?

LUI:    (Indicando la platea) Con i nostri amici. Gli raccontavo delle nostre iniziative un po' bislacche... Continua tu, se vuoi.

LEI: (Divertita, a lui) Volentieri. (Poi rivolta al pubblico) Tanto per dirne una, abbiamo messo sui giornali un an­nuncio così concepito: «Giudice Tal dei Tali... (Indica lui)... e la studentessa..., e qui il nome e cognome mio... sono lieti di annunciare le loro rispettive nascite avvenu­te contemporaneamente il giorno diciotto marzo alle ore 13 e 15 con reciproca soddisfazione. Niente fiori ma eventuali elargizioni al Patrocinio per l'Infanzia Abbandonata presso il locale Palazzo di Giustizia.

LUI:    (Al pubblico) L'idea è stata di mia figlia. Ha avuto un'eco clamorosa. Naturalmente in negativo. Intorno a noi si è fatto definitivamente il vuoto. (Ride. Poi a lei): Perché non gli dici della diffida?

LEI: (Aderendo) Subito.

LUI:    Anche questa è un'idea sua. Io le ho dato solo forma legale. (A lei) Racconta pure.

LEI: (Al pubblico) Ecco, si tratta di questo. Ma è meglio che ve la legga, perché ci sono parole un po' difficili.

LUI:    (Correggendola) Tecniche.

LEI: Sì. Tecniche. ( Trae di tasca un foglio) Questa è la copia in carta semplice. L'originale è in carta bollata e papà... (Indica lui) ...l'ha fatta notificare a mezzo ufficiale giudi­ziario. Mi ha spiegato che si fa così.

LUI:    Certo. Per avere effetto giuridico e costituire una pro­va certa e pubblica. Ora leggi pure.

LEI: (Leggendo il foglio al pubblico) Io sottoscritto messo giudiziario del Tribunale di... ove per ragione della mia carica risiede, su esplicita richiesta della minore... e qui c'è il mio nome e cognome, ho notificato a tutti gli effetti di legge, alla madre della richiedente, vedova ma conni­vente con il sedicente architetto Tiziocaio, di astenersi da ogni e qualsiasi atto pregiudizievole per la potestà filiale della suddetta minore che la disconosce come madre, stante la di lei riprovevole condotta e si affida in tutela al magistrato signor... e qui segue nome e cognome di Lui... (Indica lui)... riconoscendolo come padre putativo e conferendogli all'uopo ogni diritto di patria potestà, compreso quello di convivere sotto il di lui tetto. Notifi­cato il giorno, eccetera, eccetera, al portiere dello stabile della suddetta vedova, oltre che con affissione in copia all'albo pretorio della città, per pubblica conoscenza, in fede, io sottoscritto, eccetera». (Al pubblico) Fa impressione, vero?

LUI: (Al pubblico ridendo) Di impressione deve averne fat­ta parecchio, dato che la sua signora madre è svenuta quando ha saputo che il portiere aveva di nascosto fatto leggere la diffida a tutti gli inquilini del palazzo.

LEI: (Al pubblico ridendo) E il suo convivente, il sedicente architetto, come è scritto qui, non ha trovato di meglio che sparire subito dalla circolazione.

LUI:    (Al pubblico) Insomma, visto che siamo disoccupati, ci divertiamo così. Che ne dite?

LEI: (A lui con aria birichina) Papà, avrei un'altra idea.

LUI: (Fingendosi spaventato) Per carità, no. Concediamoci una pausa. E' più prudente. (Cambiano) Cosa facciamo oggi? Film?

LEI: Sì. Film.

LUI:    (Prendendo un giornale dal tavolo) Allora vediamo un po': (Consultando il giornale)... Vietato... vietato... vieta­to... Accidenti sono tutti vietati ai minori di anni diciotto.

LEI: E tu cerca fra quelli «non vietati». Ce ne saranno, no?

LUI: (Sempre consultando il giornale) Vietato ai minori di quattordici anni... vietato ai minori di quattordici anni...

LEI: Dimentichi che ho tredici anni. Guarda fra quelli «ammessi a tutti». Non ce n'è proprio nessuno?

LUI:    Solo due: un western e un musical.

LEI: Preferisco il musical.

LUI:    Ma è un cinemino di terza visione.

LEI: Che importa? A me sta bene. E tu, ora che non sei più magistrato, mi hai spiegato che puoi andare dove ti pare. Non hai più un decoro da difendere.

LUI:    E' così.

LEI: E allora andiamoci. Mi dai solo cinque minuti per la doccia? ho rassettato la cucina e mi sento un po' sporca.

LUI:    Tutto il tempo che vuoi.

LEI   Faccio in un attimo. (Esce in fretta)

LUI:    (Al pubblico) Avete sentito, si occupa anche della cu­cina perché qui non deve entrare nessuna donna. Ha li­cenziato anche la donna a ore delle pulizie... (Simulando di avere raccolto il commento di qualcuno in platea)... Co­sa ha detto? Se vado a donne? No. Nemmeno con «quel­le» che sostano giù all'angolo. Niente. Più di una volta ho tentato. Arrivo lì; mi faccio avvicinare, ma quando è il momento di concludere, le saluto e vengo via. E' più forte di me. Proprio non ce la faccio. Ormai esse mi co­noscono, siamo diventati quasi amici. Per loro sono il «signore delle chiacchiere». Veramente la loro espressio­ne è più brutale. Mi chiamano «quello che gode parlan­do»! Poverine, non hanno fantasia e devono pur dare una motivazione al loro lavoro. Io le lascio e le pago an­che. Perché no? Il loro tempo deve rendergli, mica posso­no perderlo con me. Del resto, a me esse offrono una ve­rifica importante: che non riesco più ad «andare a don­ne». E così, ogni volta, soddisfatto, rientro qui e metto un po' di disordine, quel tanto che basta a far capire a mia figlia che in casa e venuta una donna. Perché lo fac­cio? io stesso non lo so; forse per lasciarla tranquilla e farle capire che non penso a lei, come donna. Ripeto: non lo so. La natura umana è così complessa e tortuosa. Nes­suno meglio di un magistrato può saperlo.

LEI: (Entra. E' vestita con sobrietà ma con molto gusto) Ho fatto presto?

LUI:    Prestissimo. Ti sei fatta troppo elegante per un cinemino.

LEI: Ma io non mi vesto per il cinema ma perché vengo a spasso con te. A proposito, prima che mi dimentichi, c'è una cosa che volevo dirti da alcuni giorni e non ne ho mai trovato il coraggio.

LUI:    (Subito in apprensione) Oh, Dio, quale altra trappola hai montato? Per carità, se c'è qualcosa di spiacevole, lascia prima che mi segga. (Siede)

LEI: Non so se per te è piacevole o no. Per me, no di sicuro.

LUI:    Parla, ti prego, non tenermi in ansia.

LEI: (Trovando il coraggio di rivelarglielo) Ecco, papà, non continuare a mettere disordine in camera da letto certe mattine per farmi credere che qui è venuta una donna. Tanto lo so che non è vero. Ecco, te l'ho detto.

LUI:    (E' rimasto senza parole. Poi, a stento, riesce a dire balbettando)  Sì. scusami... forse non sono stato attento e ho laciato troppo disordine.

LEI:  (Ridendo) Sì. Un disordine eccessivo. Ho capito fin dalla prima volta che era un disordine «finto». Se fosse stato vero, dovevi almeno avere addosso un po' di pro­fano di «quelle, lì»... E poi, i tuoi occhi... hai dimentica­to che ti dissi che al mio primo padre gli leggevo subito negli occhi quando «andava a donne»? Non sbagliavo mai. Bene, i tuoi occhi sono... «limpidi». Da quando so­no qui, io non ho più visto dietro di essi nessuna donna. Dunque risparmiati la messinscena che poi a me secca di rimettere tutto a posto per niente. E ora vestiti che il  film voglio vederlo dall'inizio.

LUI:    (Sta per rispondere ma vi rinuncia) Metto la giacca e sono subito pronto.

LEI: Ti aspetto.

LUI:    (Esce)

LEI: (Rimasta sola, accenna a qualche passo di danza, ma si ferma perché si sente suonare un campanello) Papà, hanno suonato alla porta.

LUI:    (d.d.) Ho sentito.

LEI: Vado ad aprire?

LUI: (d.d.) No. Vado io.

LEI: Va bene.

LUI:    (Entra. E' in giacca molto estrosa come tutto il suo ab­bigliamento) Lo sai che tu non devi mai aprire. Abbiamo troppi nemici. (Il campanello suona ancora) Sono anche impazienti! (Gridando) Vengo. (Esce)

LEI: (Riprende a mimare i passi di danza. E' molto allegra)

LUI: (Dopo un po' ritorna)

LEI: Chi era?

LUI:    Uno che ha sbagliato. Cercava, al solito, il dentista del terzo piano.

LEI: (Ammirandolo) Fatti vedere. Stai proprio o.k. Complimenti.

LUI:    Grazie. Allora andiamo?

LEI: Andiamo. (Lo prende sottobraccio e insieme si avviano per uscire. Ma giunti quasi sulla soglia, lei d'improvviso lo trattiene) Papà.

LUI:    Che c'è?

LEI: Vieni un po' qui.

LUI:    Dove?

LEI: Qui. (E lo riporta verso il centro della scena)

LUI:    Perché? C'è qualcosa che non va?

LEI: Siediti un momento. (Lo fa sedere poi prende l'altra sedia e la pone di fronte alla sedia di lui. Vi si siede e comin­cia a scrutarlo intensamente in silenzio)

LUI:    (Inquieto, quasi agitandosi, sulla sedia come volesse sfuggirle) Bada che facciamo tardi al cinema. (E tenta di alzarsi ma lei con garbo lo rimette giù premendogli una mano sulla spalla).

LEI: No. Resta seduto.

LUI:    (Tentando l'ironia) Cos'è? vuoi psicanalizzarmi?

LEI: (Sempre seria) Pressappoco. (Continua a fissarlo, indagatrice).

LUI:    (Abbassa gli occhi e volta la testa come a non farsi leggere dentro)

LEI: Ripeti: chi ha suonato?

LUI:    Te l'ho detto: uno che ha sbagliato.

LEI: (Convinta) No. E' stato qualcun altro. Chi? (Gli solleva il volto) Non vuoi dirmelo?

LUI:    Ma perché dovrei mentirti?

LEI: (Preoccupata) Appunto: perché? Poco fa nell'uscire mentre ti tenevo sottobraccio, ho sentito che il tuo brac­cio tremava. Già avevo notato quando sei tornato dalla porta d'ingresso che eri pallido come non ti ho mai visto. (Incalzante) Chi ha suonato?

LUI:    Ma chi può aver suonato?

LEI: Aspetto che me lo dica tu. E c'è un altro particolare. Da quando sei tornato dopo aver aperto la porta, tieni la mano destra in tasca e non l'hai mai tolta.

LUI:    (Senza trarre la mano di tasca) Questa?

LEI: Quella. Hai capito benissimo. E allora cosa mi nascondi in tasca? Vuoi dirmelo?

LUI:    Niente d'importante.

LEI: Non sarà per caso una rivoltella?

LUI:    Figurati! Mai posseduto una rivoltella.

LEI: Molti giudici girano armati, me l'hai detto tu.

LUI:    E io, no.

LEI: E allora se non è un'arma, perché non mi lasci frugare nella tua tasca?

LUI:    (In un ultimo disperato tentativo di sottrarsi all'interrogatorio) Il Cinema. Lo perdiamo.

LEI: Non importa. Mostrami cosa ti hanno portato e nascondi in tasca.

LUI:    (Senza estrarre la mano) E' un foglio.

LEI: Ah, lo volevo dire io. E' una cosa grave?

LUI:    (Minimizzando) Un po'.

LEI: Ho capito. E' gravissima. Ma è grave per te o per me?

LUI:    (Un tempo) Per te e per me.

LEI: Fammi leggere cosa c'è scritto.

LUI:    (Per prepararla) Vedi, a volte accadono eventi che se anche in un certo senso previsti...

LEI: (Interrompendolo) Lascia i preamboli e dammi il foglio.

LUI:    (Ormai rassegnato, estrae il foglio dalla tasca e glielo porge)

LEI: (Legge il foglio in silenzio senza apparerai reazioni)

LUI:    (Spia con trepidazione crescente la lettura di lei. Ma lei continua a leggere senza commenti. Poi gli restituisce il foglio in silenzio, quasi con indifferenza)

LUI:    (Prende il foglio, lo accartoccia e lo butta a terra con palese disprezzo)

LEI: (Sempre calma) E adesso che facciamo?

LUI:    (Apre le braccia in un gesto sconsolato)

LEI: Non possiamo fare niente: è questo che vuoi dire?

LUI:    Purtroppo.

LEI: Non possiamo opporci?

LUI:    No.

LEI: Nemmeno tu?

LUI:    Nemmeno io.

LEI: (Riflessiva) Come mai?

LUI: E' un'ordinanza del Tribunale dei minorenni. Non è impugnabile. Ed è anche immediatamente esecutiva.

LEI: Capisco. (Una pausa) E abbiamo solo il tempo che è scritto in quel foglio? (Lo indica a terra)

LUI:    Sì.

LEI: Poi vengono?

LUI:    Sì.

LEI: Le guardie?

LUI:    Sì.

LEI: E mi portano via?

LUI:    Sì.

LEI: Lì c'è scritto che mi affidano a mia madre.

LUI:    Sì.

LEI: Definitivamente.

LUI:    Sì.

LEI: Perché?

LUI:    E' lei che esercita la patria potestà su di te in mancanza di un padre.

LEI: Ma io un padre ce l'ho. Sei tu.

LUI:    Per la legge io non conto. (Un tempo poi con uno stra­zio che non riesce a dominare) E ora che si fa?

LEI: (Semplice, decisa) Quello che devo fare, io lo so. Dal giorno che t'incontrai. Non ti lascerò. Già una volta te lo dissi. Ricordi?

LUI:    Ricordo.

LEI: Tu piuttosto... che fai?

LUI:    E me lo domandi? Non rinuncerò a te. Mai.

LEI: (Sollevata) E allora siamo d'accordo. Come sempre. Vero?

LUI:    Sì. D'accordo. (Sembra che si sia liberato da un peso che lo opprimeva)

LEI:  (Si alza) Ci restano tre ore e quarantacinque minuti. (Consulta l'orologio) No. E quaranta. Sono passati già cinque minuti.

LUI: (Consulta a sua volta l'orologio) Sì. E quaranta.

LEI: La casa è già in ordine. Per fortuna l'ho appena rassettata. Adesso ci resta solo di abbassare le tapparelle e turare le fessure.

LUI:    E' inutile.

LEI: Perché?

LUI:    Il gas invade ugualmente tutti gli ambienti. Basta chiudere bene finestre e porte. Lo so per esperienza giu­diziaria. Quando ero giudice, agli inizi della carriera, sa­pessi quanti sopralluoghi ho fatto in casi simili! Non si sfugge, se tutto è ben chiuso.

LEI:  (Quasi divertita, come a un nuovo gioco) Davvero?

LUI:    Sì. Sta certa.

LEI: Meglio così. Avremo più tempo per noi. A proposito, in quanto tempo il gas produce il suo effetto?

LUI:    In genere un paio d'ore.

LEI: Allora vado ad aprire i rubinetti in cucina. (Si avvia)

LUI:    (Con un grido) No. Aspetta!

LEI: (Tornando indietro) Cosa c'è?

LUI:    Rifletti bene prima. Tu hai tutta la vita avanti a te.

LEI: La vita senza di te per me non ha senso.

LUI:    Così, sei proprio decisa?

LEI: Decisissima.  (Torna ad avviarsi per uscire) Tu ti fai trovare così?

LUI:    (Come se ci avesse già pensato) Oh, no, mi vesto.

LEI: E come?

LUI:    Da magistrato.

LEI: Bravo.

LUI:    E tu?

LEI: Anch'io mi vesto.

LUI:    E come?

LEI: Vedrai.

LUI:    E allora sbrighiamoci.

LEI: Prima corro in cucina.

(I due escono di scena in direzioni diverse. Per un attimo scena vuota)

LUI:    (Torna per primo. E' vestito da magistrato con la toga, il soggolo e il tocco come all'inizio della commedia. Pas­seggia in attesa di lei. Sembra soddisfatto)

LEI: (d.d.) Sono quasi pronta.

LUI:    Fa' con comodo. (Poi rivolto al pubblico) Signore e si­gnori, il nostro processo si conclude qui. La sentenza, co­me avete sentito, è stata emessa. Ed è immediatamente esecutiva. Anzi, la stiamo già eseguendo. L'altra giusti­zia, quella codificata, non è mai così rapida ed efficace. Ma questo, come dicevo all'inizio, è un processo anoma­lo. E tale vi prego di considerarlo. Scusate la parentesi. (Accenna un inchino alla platea)

LEI: (Entra, è vestita con l'uniforme di studentessa che in­dossava all'inizio. Ha anche la cartella dei libri a tracolla Si ferma ammirata a guardare lui) Papà, sei splendido! Non ti avevo mai visto vestito così.

LUI:    Già, è vero. Con te non mi sono mai bardato. (La guarda, a sua volta, ammirato) Non mi aspettavo di rivederti come il primo giorno.

LEI: Ho fatto male?

LUI:    Hai fatto benissimo.

LEI: Abbiamo il tempo per una partita?

LUI:    Certo.

LEI: Ramino o dama?

LUI:    Quello che vuoi.

LEI: Allora, dama. (Va a prendere dal tavolo una scatola, ne trae una scacchiera, siede posandosela sulle ginocchio e dispone le pedine)

LUI: (Siede su un'altra sedia che pone di fronte alla sedia di lei. Si intuisce che i due compiono gesti che sono loro abituali. Ora li divide solo la scacchiera)

LEI: Per te, bianche o nere?

LUI:    Nera. Come la toga.

LEI: Bene. (Rivolta la scacchiera)

(I due cominciano a giocare in silenzio)

LEI: (Fiutando l'aria) Si comincia a sentire.

LUI:    Sì.

LEI: (Muovendo le pedine) Ti soffio la pedina.

LUI:    E io faccio dama.

(Giocano ancora in silenzio)

LEI: (Fiutando ancora l'aria) Adesso si sente più forte.

LUI:    Sì.

LEI: Fino a quando potremo parlare?

LUI:    Ancora un po'.

LEI: Comunque è meglio dirti subito che per me sono stati tre mesi bellissimi.

LUI:    Anche per me.

(I due riprendono a giocare in silenzio).

(D'improvviso si ode il suono del violoncello. E' un brano quasi festoso).

LEI: (Illuminandosi in volto) E' papà. Ci viene incontro. Sono contenta. Così te lo presento.

LUI:    Sì.

(Da questo momento i due si immobilizzano nei gesti della partita. E resteranno così immobili sino alla fine)

(Il suono del violoncello diventa sempre più forte mentre la luce decresce lentamente in scena fino al... BUIO TOTALE).