Ti amo, Maria!
di
Giuseppe Manfridi
Personaggi:
Sandro
Maria
Scena:
Lo spazio articolato di un luogo condominiale a un piano alto. Vi si affacciano
due porte che si fronteggiano. Sul fondo, in una prospettiva forzata, sono
incorniciate le alte porte a cerniera dell’ascensore. Si tratta delle classiche
porte scorrevoli regolate da cellule fotoelettriche.
Applicato presso lo stipite c’è un piccolo riquadro con i controlli luminosi
che segnalano le corse dell’abitacolo. E’ sufficiente una luce verde e una
rossa, più un pulsante per le chiamate. Presso due opposte rientranze delle
pareti si percepiscono due rampe di scale: una che viene dal basso, l’altra che
sale al piano successivo.
Il rettangolo metallico dell’ascensore deve costituire il punto di fuga di
tutto l’ambiente.
Come la porticina ne "Las Meninas" di Velazquez.
ATTO PRIMO
Scena prima
Oltre lo spigolo che introduce ad una delle due rampe si intuisce la figura di
un uomo. Si tiene nascosto. A tratti si affaccia a spiare sul pianerottolo come
fosse in attesa di qualcuno. Il rumore dell’ascensore lo spaventa. Si accende
la luce rossa nel pannello dei comandi luminosi. L’uomo torna a nascondersi
nell’ombra della scala. Non si può capire se stia temendo o piuttosto
aspettando che l’ascensore si fermi al suo piano. La cosa comunque non avviene.
Il segnale di "occupato" si spegne e, con esso, il rombo sordo del
motore. L’uomo si affaccia in luce. Una luce in cui si mischia, a un misero
chiarore diurno filtrato da qualche invisiblile apertura, lo squallido biancore
di una secca luce al neon.
L’uomo indossa un modesto soprabito. Non è più giovane. Ha l’espressione
inquieta di un fuggiasco. Va presso una delle porte che si affacciano sul
piano. E’ come se l’uomo fosse arrivato sino lì proprio per giungere presso
quella porta. La guarda, si azzarda a sfiorarla con una mano. La scruta in ogni
dettaglio. Poi, come se si trattasse di uno specchio, l’uomo sembra cercare la
propria immagine riflessa nell’anta di legno. Tenta maldestramente di
sistemarsi con le mani i capelli ispidi e senza più colore. Qualcosa lo scuote.
Corre a rintanarsi nell’angolo dove si trovava sino a qualche istante prima.
Si riaccende la luce rossa dell’ascensore; esattamente com’è accaduto in
precedenza udiamo la messa in moto dell’abitacolo che è stato richiamato al
pianterreno. Udiamo lo scivolare e richiudersi delle porte e l’ascensore che,
dal fondo, comincia a salire.
Deve essere ben chiara la sensazione di "qualcosa che si avvicina".
Il clamore sordo di una frenata. Nel pannello dei comandi la luce rossa si
spegne e si accende quella verde. Subito poi, con sibilo sottile e lentamente,
si spalancano le porte della cabina.
Nella luce piena dell’abitacolo compare Maria.
Una donna giovane. Non più di trent’anni. Senz’altro graziosa, ma anche in
grado di sembrare molto bella. Non adesso, però. E’ stanca, forse proviene da
una città bagnata e caotica. Da ore di traffico. Forse di lavoro.
L’uomo si tiene schiacciato contro la parete, invisible alla donna. Non osa
guardare fuori dal suo nascondiglio; ha il cuore in gola; fissa con gli occhi
sbarrati un qualsiasi punto dinanzi a sÈ.
La donna raggiunge con pochi passi la porta del suo appartamento: la stessa che
aveva attratto lui pochi istanti prima. Cerca nella borsa un mazzo di chiavi, lo
trova. Tra le chiavi cerca quella che le serve, la trova. Sta per infilarla
nella toppa della serratura ma un rumore, alle sue spalle, la fa voltare.
Percepisce una presenza. L’uomo trema schiacciato contro il muro. Infine, come
sentendosi già smascherato, esce dal suo rifugio con il passo brusco e violento
di un aggressore; e ristà, come impalato, presso lo zerbino di fronte. Così si
mostra. Ubriaco, con le tasche tintinnanti per le bottigliette che vi sono
contenute.
Maria sembra paralizzata da quella visione.
(Una lunga pausa.)
SANDRO: Sì, lo so, è una cattiveria. Scusami.
MARIA: Sei tu?
(Silenzio)
MARIA: Ma sei davvero tu o stai scherzando?
SANDRO: Io. Dalla testa ai pedi. Nome e cognome. Io.
MARIA: O Gesù benedetto, ma che ci fai qui dentro?
(L’uomo si sforza di deglutire e non può rispondere.)
MARIA: Ma chi t’ha detto? ... - Come... Insomma, che vuoi? - Come ci sei
arrivato qui?...
(Senza emettere suono, l’uomo mima con le dita qualcuno che cammina.
Una lunghissima pausa.)
SANDRO: Buffo, eh...
(Maria lo guarda senza riuscire a raccapezzarsi. Quasi con raccapriccio. Lui
tira fuori una bottiglietta dalle tasche. Svita il minuscolo tappo di latta.
Beve. Lo stupore di lei sembra essersi trasformato in autentico orrore.
Infine...)
SANDRO: Ho desiderato morire per smettere di amarti. Ha senso amare così?
Dimmelo.
Ha senso o no?
Io la mia risposta ce l’ho, ma ora voglio la tua. Dimmi se ha un senso.
(Con forza) Ce l’ha o no?
MARIA: Tu sei - assolutamente pazzo. Se sei tu.
SANDRO: Lo so... per-fe-tta-men-te quello che è: una cattiveria.
Lo so. Questo lo capisco da me. Una di quelle che tu non perdoni a nessuno.
Sbaglio?
(Nessuna risposta)
No, tu non le perdoni. - Di sicuro non a me - Una roba del genere, a farla...
meglio che ti spari, d’accordo! Ma perchÈ... perchÈ uno la fa? - Eh, perchÈ?...
(Si ode l’abbaiare di un cane) Che è?
MARIA: Cosa vuoi che sia? Un cane.
SANDRO: La fa perchÈ dentro ti ci sta come un cumulo - si che vuol dire: un
cumulo? - un cumulo di cattiverie, di "altre" cattiverie, che uno poi
- metti uno come me - ma ti dico uno qualunque - segui il concetto?... E’ come
se... (Inspira una ricca boccata d’aria. Non trova l’espressione che cerca, poi
come interpretando una battuta altrui per tagliar corto...) "Spazio,
prego! Adesso tocca a me..." - Beh, quello che mi sono detto io. Che
adesso tocca a me. E tocca a me. E lo fai. Tanto che l’ho fatto. E dai fondo
alle tue risorse. Insomma, lo fai.
Io l’ho fatto.
(Accennando un sorriso falso e impossibile.)
Ciò che meno volevi è successo: eccomi qui.
MARIA: Alessandro, per piacere...
SANDRO: Mi chiamo Sandro.
MARIA: Sandro...
SANDRO: E’ lì che abiti?... Quella è casa tua?... E’ casa tua, ve’?...
MARIA: Già, quella. - Vattene!
SANDRO: Noiosetto abitare vicino a un cane che ti rompe le scatole tutto il
santo giorno. Rompe, ve’?...
MARIA: Solo quando sente estranei.
SANDRO: Un regalo: non me lo dire perchÈ non mi faresti entrare.
Io non mi sognerei mai di entrare, ma t’ammazzo se mi dici perchÈ non me lo
chiedi. Basta che stai zitta. Giura che stai zitta!
MARIA: (Più che mai ansiosa di sfuggirgli) Ti prego, vattene, mi fai paura.
SANDRO: Amore mio...
MARIA: Ma che t’inventi? Smettila.
SANDRO: Ti do quello che vuoi. Quello che vuoi.
MARIA: Pazzo! Pazzo ubriacone.
SANDRO: Non ti lascio, non ti lascio...
MARIA: Vattene!
SANDRO: Hai capito o no cosa ti ho chiesto? Mi devi rispondere.
Ha senso o non ha senso?
MARIA: Ma che?
SANDRO: Amare così. - Non me lo fare ripetere.
MARIA: Se devo essere aggredita - poi parla piano! - preferisco che a farlo sia
uno sconosciuto.
SANDRO: Pagherei per essere io uno sconosciuto: io. Io sottoscritto. E poter
venire da te per la prima volta. Io sono più condannato di qualsiasi
sconosciuto.
MARIA: E parla sottovoce. Non gridare. Ti sentono.
SANDRO: Qualsiasi sconosciuto potrebbe sperare più di me. Non è buffo? Io che
ti conosco... dappertutto, ti conosco.
MARIA: Ma l’hai contato il tempo che è passato? Eh?... Io - io, per tua norma,
non li ho trascorsi invano questi dieci anni. Inutile che ti tappi le orecchie,
ascoltami! O mi ascolti o te ne vai. - Anzi, te ne vai comunque. Non si può
ricomparire così davanti le persone. Dove si è mai visto?
SANDRO: Ci ho pensato. AltrochÈ. E allora ho pensato... io vado, e più che
dirle questo: ti do quello che vuoi... Ma devi dirmelo perchÈ mi hai lasciato!
(Maria, con una mossa veloce, tenta di infilare la chiave nella serratura. Lui,
con un balzo, va a strapparle il mazzo dalle mani.)
SANDRO: Un minuto! Un minutino che ti costa?...
Conviene che ci stai o finisce che ti perseguito per tutta la vita. Per tutta
la tua vita. - Da augurarti la mia morte! E almeno questo tu non l’hai mai
fatto. Ma ormai lo preferisco. Tanto è scritto che deve finire così.
(Una lunghissima pausa. Lei lo fissa con un odio che ancora non aveva mai fatto
trasparire. Lui, parlando, le gira intorno come se la donna fosse legata a un
palo della tortura.)
SANDRO: Me lo sono menato da solo negli ultimi cinque anni, o sei. Da solo.
L’unica cosa che ho rimediato sono state figure di merda con altre donne.
Da-so-lo.
MARIA: Dovrei dirti grazie?
SANDRO: (in un ringhio, stringendola a un polso) Da solo!
MARIA: Se hai imparato, continua!
SANDRO: Da solo! Da solo! Da solo!
MARIA: (tentando di liberarsi) Fatti tuoi! Ridammi le chiavi e vattene!
SANDRO: Oh, amore mio, amore mio... se un poco mi conosci, e in nome di quel
poco che forse mi devi - ti prego... voglio fidarmi di te, lo vedi?... Dammi un
minuto, solo un minuto della tua vita, e te lo pago a peso d’oro.
MARIA:(finalmente riuscendo a svincolarsi e fuggendo al capo opposto del
pianerottolo) Voglio sperare per te che tu non sia rimasto ubriaco tutto questo
tempo. Ti ritrovo come ti ho lasciato. Puzzi come un animale.
SANDRO: Hai tutto quello che vuoi. Sii generosa una volta tanto.
MARIA: Cosa sarebbe quello che voglio?
SANDRO: (indicando in direzione della porta di lei) Quello che sta lì dietro! E
che ne so io cosa ci sta lì dietro. Sarà tutto quello che vuoi. (Azzardando)
Figli?... (Silenzio) No, niente figli. (Silenzio) O sì?...(c.s.) Una nidiata di
figli. Figli e nipoti. - Un amante?... Due?... Un marito?... Un secondo
marito?... Magari uno che è venuto dopo un altro che c’è stato dopo un altro
che è venuto dopo di me... - Nessuno?... Terra di transito?...
Eh? Ci ho indovinato? Terra di transito?...
(Poi, preso da improvviso terrore)
Non farmi vedere le dita.
(Una pausa. Non sa che dire. Lei continua a fissarlo implacabile.)
Ma che sto dicendo?... Dio mio, non ci sto molto con la capoccia.
MARIA:(dura) Pare anche a me.
SANDRO: Ma tu, ti prego, se non ti secca, resta.
(Lei non risponde. Respira nervosa. Lui, sforzandosi in un sorriso) Ricordi
come ti dicevo? Se non ti secca, resta. - E restavi.
MARIA: Un anno è durata sentirsi ripetere la stessa frase. Niente repliche.
SANDRO: Mica per me che insistevo: per farti cantare. E tu non chiedevi di
meglio.
MARIA: Come no! Ogni sera avrei voluto piantarvi in asso; e bene avrei fatto!
SANDRO: Quando mai! Almeno quello ti piaceva.
MARIA: Prima cosa insopportabile che mi hai costretto a fare: esibirmi in
pubblico. Non c’è niente che mi dia più disgusto al mondo. Se c’è un conto da
tirar fuori, caro Alessa...Sandro, sai che ti dico? Che tocca a me di farlo.
SANDRO: Era quel piano di merda! Non dava gusto nÈ a suonarci nÈ a cantarci. Io
te lo dicevo ma tu morta piuttosto che starne lontana. Io a strimpellare, e tu
lì con me. - Ti piaceva.
MARIA: Sai quanti anni avevo?
SANDRO: Ne avevo di meno anch’io.
MARIA: Non voglio più avere a che fare con un uomo come mi è accaduto con te.
Ne ho avuto e mi è bastato. Son cose che a un certo momento della vita può
capitare di vivere. Poi se mi domando perchÈ ti ho lasciato - e nemmeno mi
ricordo di essere stata io a farlo - non lo so.
SANDRO: Ah, non fosti tu?...
MARIA: Dieci anni! Dieci anni!
SANDRO: Cinque. Manco sei.
MARIA: Poi comunque: ci hai sofferto? E ci avrò sofferto anch’io.
SANDRO: Ma adesso? Ora?
MARIA: Ma cosa ti credi che sono? Uno strumento, che puoi suonarmi come ti
pare? - Se c’è una persona lontana da me - adesso, ora, - sei tu. Vattene! Che
debba starmi a preoccupare anche di te, mi dispiace ma non se ne parla
proprio.
SANDRO: E se mi avessi incontrato per strada?
MARIA: Chiedi troppo alla mia fantasia. Non so pensarci, va bene?
SANDRO: Provaci!
MARIA: Ti cavo gli occhi se non te ne vai!
SANDRO: Mica lo capisco perchÈ hai paura.
MARIA: (facendo il gesto di suonare alla porta da dietro la quale abbaia il
cane) Vuoi che chiami?... Vuoi che chiami?...
SANDRO: No! Non farmi scoprire, ti prego.
(Una lunga pausa.)
T’ho chiesto un minuto.
MARIA: Vediamo di farlo passare in fretta questo minuto. Se già non è passato.
SANDRO: La signora non ha tempo da perdere.
MARIA: Pochissimo.
SANDRO: C’è chi l’aspetta.
MARIA: Può essere.
SANDRO: Allora sì?... C’è?...
MARIA: Vediamoci fuori. Smaltisci la sbronza e ti rivedo.
SANDRO: Lo faresti per me?
MARIA: Per chi dovrei farlo sennò?
SANDRO: Per te dovresti! A me ci penso da me. Se fossi solo un poco più
intelligente di quello che sei non ti ci vorrebbe molto per capirlo.
MARIA: Io sto bene come sto.
SANDRO: Balle - Di’, te lo ricordi il mago?
MARIA: Non mi ricordo di nessun mago.
SANDRO: Che bugiarda che sei! Ti ci portai perchÈ tu me l’avevi chiesto: che
volevi conoscere un mago. Ciavevi un momento strano. Dicevi: per me è un momento
strano, e avevi bisogno di un mago. Io lo conoscevo e ti ci portai. Già m’avevi
piantato.
MARIA: Sì, va bene, ricordo. Levati, fammi entrare...
SANDRO: Era muto. Parlava scrivendo e battendo i pugni sul tavolo. Perdeva
foglietti come piume. Portai te e un’amica tua lesbica.
MARIA: PerchÈ t’ha mandato a fare in culo. Per questo era lesbica.
SANDRO: Va prima lei, poi te. Sento che picchia e scrive. Poi chiama anche me.
E tu avevi tutti i tuoi foglietti davanti...
MARIA: Ne avesse azzeccata una, l’amico tuo!
SANDRO: Te li tenevi tutti così... una montagna. Solo uno, uno, ti era rimasto
lì aperto - e mica l’avevi tirato via. Quello no. E non dovetti sbirciare
troppo per leggere cosa c’era scritto. Già un anno, eh... già un anno che
m’avevi piantato. - "Tu sei persona... di Sandro", c’era scritto.
Mia. - Dimmi solo se te lo ricordi...
MARIA: L’avrà detto perchÈ già ti conosceva.
SANDRO: Che, ‘mi conosceva’?! L’avevo visto solo una volta prima di quella. E
comunque non c’entra. Dimmi solo se te lo ricordi o no.
MARIA: Cose morte e sepolte!
SANDRO: (categorico) Dimmi se te lo ricordi!
MARIA: Anche se ti dicessi di sì, cosa vorresti dimostrare?
SANDRO: Te lo ricordi o no?
MARIA: Quella poi dell’amica lesbica è il massimo!
SANDRO: Te lo ricordi o no?
MARIA: Tu basta che insulti!
SANDRO: Te lo ricordi o no?
(Una pausa.)
MARIA: Mi pare.
SANDRO: Sì. Sì che te lo ricordi.
(Una pausa.)
MARIA: Sandro, per piacere... ci sto male. Non è carino trovarsi in una
situazione del genere, credimi... - Hai bisogno di qualcosa? Di che?... Soldi?
Te li do. - Ora un po’ comincio ad averne. Se è per un aiuto posso dartelo.
(Aspetta una risposta che non arriva) Davvero. Se non ti serve moltissimo,
qualcosa posso dartela.
SANDRO: Non ti sono mai sembrato così brutto, vero?... E così vecchio.
MARIA: Te li vado a prendere?
SANDRO: Non è possibile. Sarei costretto a guardarti le dita mentre me li dai.
Non è possibile.
(Il cane abbaia.)
SANDRO: L’ammazzerei quel cane. Ma più il padrone ammazzerei. So come fanno. Li
lasciano chiusi dentro con una scorta di papponi. Ve’, che fanno così?... Anche
per tutta una settimana sono capaci di lasciarli. Magari anche per un mese.
Vero o no? E quelli abbaiano.
MARIA: Ci si abitua.
SANDRO: E’ un bel cane?
MARIA: Sandro, è un supplizio. Non si ricompare così davanti alla gente!
SANDRO: Chiaro. Te l’ho detto io per primo che è una cattiveria. Tu credi
sempre che non mi renda conto di quello che faccio e che lo faccia apposta.
MARIA: Eventualmente non me ne rendevo conto... die-ci an-ni fa.
SANDRO: Cinque.
MARIA: Quelli che sono. Non si ricompare così davanti alla gente. Fammi
entrare!
SANDRO: Io non ti lascio più.
MARIA: Prego?
SANDRO: Non ti lascio più.
MARIA: Gesù mio, non riesco mica a crederci di stare qui a sentire uno che mi
dice queste cose. Non ci credo.
Ti prego, ridammi quelle chiavi e scompari! Fa’ che chiudo gli occhi, li riapro
e non ci sei. Vattene.
(Silenzio.)
Fammi entrare a casa, non posso stare qui.
(Ancora silenzio.)
Ho da fare. (Una pausa) Ho da fare cose molto importanti, e tu non hai il
diritto...
SANDRO: (lanciandole contro le chiavi con rabbia) Entra!
Entra entra entra!...
Stupida eri e stupida sei rimasta!...
Beh, che fai? Non entri?
MARIA: (raccogliendo le chiavi) E tu che pensi di fare?
SANDRO: Aspetto un po’ e me ne vado.
MARIA: Vattene subito.
SANDRO: (dando sfogo a un’energia che sino a questo momento ha tenuto malamente
compressa) Te le ho ridate le chiavi, che vuoi?...
MARIA: Parla piano, non gridare.
SANDRO: Non l’ho mai conosciuta, io, una più cretina di te!...
MARIA: Non gridare, t’ho detto.
SANDRO: (c.s.) Credi che non mi sia costato nulla arrivare sino a qui?... E non
grido, non grido... Così non sveglio nessuno. - Guarda, adesso te le dico tutte
una a una: - quello che m’è costato... - primo, starti ad aspettare... no,
anzi... primo, trovarti... (confondendosi) no no no... ricomincio, primo:
passarli tutti questi anni, poi arrivare sino a questo punto di decidermi a
farlo, e farlo. Cioè, secondo: trovarti. Terzo: raggiungerti sino a qui.
Quarto: starti ad aspettare. E poi questo: vederti. Farmi vedere. Parlarti.
MARIA: Chi te l’ha chiesto?
SANDRO: Nessuno, e io l’ho fatto lo stesso.
MARIA: Da chi te lo sei fatto dire dove abito?
(Lui si stringe nelle spalle, non risponde.)
MARIA: M’hai seguita?
SANDRO: Questa città pare chissachÈ, ma è piccola. Piccolissima.
(E stringe le gambe per trattenere la voglia di orinare.)
MARIA: Cioè, un giorno mi hai visto per strada e ti sei messo a seguirmi?
SANDRO: (stringendo le gambe, torturato dall’urgenza del suo bisogno) Mi fai
andare in bagno da te?...
E’ l’ultima cosa che vorrei, ma sto morendo.
(Un rumore improvviso. Le porte dell’ascensore si richiudono e si accende il
segnale rosso di ‘occupato’. Lui ha un sobbalzo e corre a nascondersi dietro il
suo solito angolo. Maria ne approfitta: infila rapidamente la chiave nella
serratura, apre, entra in casa e chiude la porta.
Il segnale rosso si spegne. L’uomo torna in luce. Va dinanzi alla porta. La
fissa. Stringe le cosce. Si tormenta con una mano tra le gambe.
Continua a tenere lo sguardo inchiodato sulla porta. Si caccia l’altra mano
nella tasca tintinnante del soprabito. Alcuni secondi, poi buio.)
Scena seconda
E’ notte. Filtra, fioco, un raggio di luce lunare. Si intuisce la figura furtiva
dell’uomo. Si intuisce che ha qualche cosa con sÈ. Dopo alcuni istanti, durante
i quali lo vediamo muoversi confusamente nell’ombra, si azzarda ad accendere
l’illuminazione a tempo predisposta per i piani. Il suo viso appare meno
congestionato ma più provato e stanco. Gli abiti sono gli stessi.
Va a origliare presso la porta di Maria. Si accovaccia in terra. Aspetta.
L’oggetto che tiene goffamente nascosto tra le pieghe del soprabito è un
mangianastri.
Fruga con una mano nelle tasche della giacca e ancora in quelle, sempre
tintinnanti, del cappotto. Compare una delle solite bottigliette. La stappa e
beve. Ma appena un sorso. Riavvita il tappetto e il flaconcino scompare.
Il cane abbaia. L’uomo ha un’espressione di fastidio, poi torna a interessarsi
delle sue cose. Fa andare il nastro a basso volume. Ne viene una melodia scura
e struggente suonata da un sassofono jazz. L’uomo fa andare il nastro avanti e
indietro sino a raggiungere il punto desiderato.
La luce autoregolata si spegne.Trascorrono alcuni istanti, poi l’uomo spegne
anche il suo apparecchio. Nel buio, strusciando in terra, va a pigiarsi con la
schiena presso la porta. Accosta l’orecchio. Ascolta. Silenzio. Aspetta.
All’unisono con il consueto rombo di macchinari, si illumina la spia dell’ascensore.
Stavolta lui non sembra curarsene più di tanto.
L’ascensore si ferma prima del piano.
Ma ecco che dall’interno della casa di Maria giunge il suono di un televisore
improvvisamente messo in funzione.
L’uomo ne è scosso. Ascolta con più attenzione premendo con le mani contro la
porta chiusa. Si distingue la cronaca di una partita. Lui ha un moto di stizza.
Si alza di scatto, quasi facendo un balzo all’indietro. Mormora, in un ringhio,
tra i denti: "C’è un uomo! Lo vedi che c’è un uomo!... C’è un uomo! C’è un
uomo! Lo sapevo che c’era! Lo sapevo!..." Riappare la bottiglietta. Beve.
Ascolta meglio. Si riaccosta di un passo. La voce del cronista sembra essere
scomparsa. Si intuisce, al suo posto, una raffica di canali passati in
rassegna. L’uomo segue trpidante il tempo della scelta come un giocatore che se
ne stia con l’occhio fisso sulla pallina di una roulette. Infine ci si ferma su
di un film. Si distingue, nitida, la voce, mettiamo di Jerry Lewis. L’uomo ha
un reazione di gioia immediata.
Forse sa che lei adora Jerry Lewis.
Si deve comunque percepire che non poteva darsi, per lui, una preferenza più
soddisfacente e illuminante.
Torna ad accovacciarsi presso la porta, torna ad ascoltare. Ma stavolta come un
genitore che vada a chinarsi, con tenerezza infinita, presso la culla del
proprio figliolo. Subito poi si riscuote. Va a prendere il registratore che
aveva lasciato in terra. Lo riaccende. Lo poggia, ansioso, dinanzi alla porta
di Maria. Risolve che il volume è troppo basso e lo alza. Si perde nell’ascolto
del pezzo ma sempre attento a qualche reazione che possa giungere dall’interno.
Il cane ricomincia ad abbaiare. Quasi latrando.
L’uomo ha una reazione di rabbia incontrollabile, e lancia contro la porta
dietro la quale immagina il cane la bottiglietta di cognac ormai vuota. Il cane
abbaia più forte.
Si accende, inaspettata, la luce sul pianerottolo. Qualcuno, da sotto, grida:
una donna: - "Oh!... Ma c’è qualcuno lassù?... Cos’è questo baccano? Che
succede?... Insomma, si può sapere chi c’è?..."
L’uomo, terrorizzato, corre a nascondersi.
Ancora la voce della donna: "Guardate che chiamo la polizia!... Oh, mi
avete sentito o no? Chiamo la polizia!... Giovanni!... Giovanni, chiama la
polizia. C’è qualcuno che è entrato nel palazzo. - Ma sì, ti dico: l’ho sentito
io. Sta lì sopra! Presto! Fa’ il 113... questo è un ladro! - E spicciati!
Chiamala!"
L’uomo non sa più che fare. Infine, facendo appello a tutte le sue forze,
prende una decisione estrema e si butta a precipizio giù per le scale.
Udiamo l’urlo della donna che se lo vede passare davanti. Segue un colpo.
Ancora grida femminili ma ora attutite prechÈ provenienti da oltre una porta
chiusa: "L’hai visto?... L’hai visto se c’era?... O domineddio, ancora
tremo! L’hai visto o no se era un malintenzionato?..."
E niente più. Con uno scatto secco, la luce si rispegne.
Il cane ancora per qualche secondo continua a guaire, poi smette del tutto.
Dall’appartamento di Maria giunge la voce di Jerry Lewis.
Infine, il televisore viene spento.
Nel buio si ode, adesso, solo la musica del sassofono proveniente dal
mangianastri lasciato sullo zerbino.
Scena terza
E’ giorno. In sottofondo, ma lontano, il ronzio di un aspirapolvere.
Maria sta per entrare in casa. Indossa un impermeabile leggero. Ha con sÈ un
ombrello. Appare anche più curata. Più bella. Meno stanca. Sotto
l’impermeabile, un vestito già quasi estivo.
Si guarda intorno. Avanza di qualche passo verso il centro del pianerottolo.
Come per sincerarsi che non vi sia nessuno ad aspettarla; infine,
tranquillizzata, va alla porta del suo appartamento. Estrae le chiavi dalla
borsa. Apre. Entra. Richiude.
Una breve pausa. La porta viene riaperta. La donna si affaccia con il viso
oltre la soglia. Controlla ancora. Riavanza fuori. Poi, chiamando...
MARIA: Dove sei?... Lo so che ci sei. Vieni fuori, tanto lo so che sei tornato.
(Silenzio. La donna aspetta per alcuni secondi una risposta che non arriva,
poi, facendosi coraggio, va presso lo spigolo di sinistra e guarda sù per la
rampa.
Trasale. Retrocede di alcuni passi.)
MARIA: Stupido!... Stupido-deficiente-stupido!...
Lo sapevo che ci stavi. Devi finirla, hai capito?... Fi-ni-rla. Ma come te lo
debbo dire? - L’hai fatta la tua bravata, ci sei riuscito. Complimenti - ma
adesso basta, chiudiamola qui!
(Una breve pausa) Ah, no?... Me lo spieghi a cosa può servire? A chi?... Non a
te, nÈ tantomeno a me. - Vuoi rispondermi, almeno? A chi?... (Guarda meglio) E
cos’hai lì?... Ma che ti sei portato appresso? Altra roba?... No, per piacere,
non ne posso più. - E non scendere! Stai fermo, non muoverti!...
Io torno ma tu prometti che non ti muovi.
(Rientra veloce in casa senza richiudere la porta. Dopo alcuni istanti riesce
portando con sÈ una borsa piena di roba pesante.
La lascia ai piedi della scala.)
MARIA: Questa è roba tua. Fai il santo favore di prendertela e riportartela
via. Io non so cosa farci. E non ti sognare di venire a lasciarmi altre
cianfrusaglie davanti casa. Non lo capisci che potrebbe anche esser
imbarazzante?... Già, ma il signorino se ne frega dei problemi degli altri.
Basta che vada bene a lui...
Oh, mi stai a sentire?
E’ inutile che fai quella faccia da cretino e ciondoli la testa... o te la
vieni a riprendere, questa valigia, o te la faccio volare per le scale! -
Decidi tu.
(Una pausa) Vabbè, ho capito. Addio!
(E si allontana rientrando in casa. Richiude la porta lasciata socchiusa.
Dalla rampa verso la quale la donna indirizzava la sua voce scende l’uomo. Va
alla borsa. Ne tira fuori alcuni oggetti. Ricordi. Libri, dischi... giocattoli.
Un piccolo sassofono che sembra d’oro zecchino.
Poi, per farsi sentire...)
SANDRO: Ma allora sei sola. - Ci avrei giurato che eri sola.
Se sei sola fammi entrare. Per me non c’è problema a entrare... se sei sola.
(Una pausa) Mica tanto. Una volta. Una. Una e poi scompaio.
(Ancora una pausa. L’uomo assesta un gran pugno contro la porta.)
Di’... te lo ricordi quando giocavamo a pallone insieme per la strada, di
notte?...
Ce l’ho ancora quel pallone, sai!...
(Detto questo, corre su per le scale e ne ricompare con un pallone tenuto
dentro una busta di cellophane. Lo tira fuori e lo lascia cadere in terra.
Durante le poche parole che seguono lo calcerà facendolo picchiare più volte
contro la porta di Maria. Ma badando a non fare tanto rumore.)
SANDRO: E’ proprio quello. Se non ci credi, apri e guarda. Divertiva più a te
che a me. Fosti tu a volerlo comprare. E a pagarlo. Erano i primi soldi che
cominciavi a guadagnare. Almeno questo te lo ricordi?...
(E torna a picchiare con un pugno contro la porta. Il tono della sua voce si fa
d’improvviso brusco e minaccioso.)
Devo parlrti!... Per piacere, apri! Vieni fuori, devo parlarti.
(E la porta si apre. Maria viene fuori. Indossa non più l’impermeabile, ma un
cappottino che ha qualche pretesa di eleganza. Niente più ombrello.
Si intuisce che ha fretta e vuole andar via.
Richiude.)
SANDRO: Devo parlarti.
MARIA: Devo andare.
SANDRO: Hai tutto il tempo per andare; ora mi ascolti. Giù a sedere!
In nome di Dio, mettiti seduta! Ti scongiuro, mettiti a sedere. Non fare che te
ne vai.
Guarda, t’imploro... siediti, aspetta almeno un attimo.
Fammi parlare!... Poi me ne vado anch’io.
Allora, ti metti seduta o no?...
MARIA: E dove?
SANDRO: Lì.
MARIA: Non lo dire come se fosse logico: lì. Ci sono i gradini, lì.
SANDRO: Per me lo è. Ci ho passato le notti, lì: le notti. E mica seduta: a
dormirci. Sdraiato, va bene?... E tu non potresti starci seduta due minuti?
MARIA: Sia chiaro: cominci a farmi paura. E questa non è la prima volta che
accade. E’ il ricordo più sgradevole che ho di te. Vediamo, casomai, di
rinfrescarne altri. Non sopporto che qualcuno mi spaventi. Non sopporto di
avere paura e non credo di meritarmelo, questo.
SANDRO: A me basta che tu mi dica una cosa: che non mi hai voluto più per come
sono fatto. Cioè... per come sono a vedermi. O per la mia età. Dicevi di no e
invece è stato quello. Non può esserci nessun’altra ragione. O per questo o per
quello, ma di qui non se ne esce. Almeno dimmelo. Non hai mai avuto il coraggio
di farlo, ora lo pretendo.
MARIA: Anche fosse?...
SANDRO: Almeno te lo sento dire.
MARIA: Per farti scomparire, adesso, potresti farmi dire tutto quello che vuoi.
SANDRO: Allora dillo. Così poi mi spieghi anche perchÈ ti ci sei messa, con me.
MARIA: (andando all’ascensore e chiamandolo) C’è qualcuno che mi aspetta.
(I due rimangono in silenzio per tutto il tempo di attesa dell’ascensore.
Infine le porte metalliche si aprono. Lei scivola dentro la cabina. Spinge il
pulsante. Le porte si richiudono.
Lui va alla sua borsa. Vi fruga ancora dentro. Ne tira fuori il mangianastri
che aveva nella scena precedente. Cerca, tra le tante cose contenute nella
sacca, una cassetta. La trova e la infila nell’apparecchio che viene acceso.
Musica. Buio.)
Scena quarta
Sandro e Maria, l’uno di fronte all’altra. Lui ha in mano il suo mangianastri.
SANDRO: Ascolta se ti ricordi. Sembra di adesso. (Accende.)
VOCE SANDRO: Ho due certezze. Che i miei occhi, alla fine del mondo,
cercheranno i tuoi. Questa è la prima. La seconda è che li troveranno.
VOCE MARIA: Alla fine del mondo tua o di tutti?
VOCE SANDRO: Mia e di tutti.
VOCE MARIA: A quel punto pur io avrò qualche preoccupazione, tu che pensi?
VOCE SANDRO: Se non mi vuoi capire...
VOCE MARIA: Oh, ti capisco benissimo, invece.
VOCE SANDRO: Non mi sembra.
VOCE MARIA: PerchÈ non sto a dirti quello che ti vorresti sentir dire.
(Silenzio.)
SANDRO: Beh?
MARIA: Ma che, registravi mentre parlavamo?
(L’altro, per risposta, ha un sorriso un po’ sciocco.)
MARIA: Ladro.
(Da sotto il dialogo riemerge la musica.)
Scena quinta
(Non si può dire se siano trascorsi alcuni minuti, alcune ore o addirittura
giorni dalla scena precedente. La luce è rimasta immutata.)
SANDRO: Poi è inutile. In questa città non si può lavorare.
MARIA: Vecchia solfa.
SANDRO: Nemmeno vale la pena di provarci.
MARIA: Non è detto che tu debba farlo qui.
SANDRO: Sembra fatta apposta per spezzarti le gambe.
MARIA: E parti.
SANDRO: Per andare dove?
MARIA: Dove ti farebbero lavorare.
SANDRO: Ci ho pensato, ma così come sono messo sarebbe una pazzia. Pazzia per
pazzia ho preferito cercare te.
MARIA: C’era di meglio.
SANDRO: Io mi domando se una donna l’avrebbe mai fatto. Forse vi odio, a voi
donne. Non esistete. Ho scoperto che non esistete.
MARIA: Cosa ti ha spinto - ma rispondi sinceramente - dopo dieci anni? PerchÈ
li ho contati, e sono proprio dieci.
SANDRO: E’ ricominciato con un sogno. Con un sogno che mi ha rimesso voglia.
(Le luci si affievoliscono.)
Scena sesta
(Il pianerottolo è al buio, ma le porte dell’ascensore sono aperte. Dalla cabina
proviene una luce vivissima sufficiente a illuminare, anche se parzialmente, la
scena.
Sandro e Maria stanno con le schiene appoggiate agli opposti stipiti metallici
dell’ascensore.
In terra, innanzi a loro, il mangianastri manda un ‘blues’.
Lei prende dall’uomo una bottiglietta di cognac. Lui ne ha in mano
un’altra.
Con queste brindano. Lei beve.)
MARIA: Mi vergogno, Sandro. - Da morire, mi vergogno. Forse è tutta la vergogna
che provi tu. Sai che?... Io te la vedo addosso, e mi ci vedo come in uno
specchio. Allora, mi domando: è per adesso... per questa cosa assurda che sei
venuto a impormi, o mi vergogno di quello che abbiamo vissuto insieme?...
(Beve) Sarebbe davvero un bel risultato. PerchÈ io l’ho capito quanto ti è
costato, ma che posso farci se è quello che sento? - Mi hai implorato mille
volte: "Sincerità, sorellina..." - eccotela. (Beve)
Certo che ho avuto qualcosa di meglio dopo di te. E prima di te. Come donna,
dico. Mi hai scongiurato di non essere... pietosa. - "Non fare la suorina
di carità..." - Mai al mondo. Io lo so che, in verità, mi scongiuravi di
farlo e di non fartelo capire. (Beve) Esattamente ciò che ho fatto. Troppe
volte. (Una pausa) A me non interessa tutto quello che non hai fatto capire tu
a me.
Non ci sono... (fa un gesto) margini - che attraggano la mia attenzione. Ma se
per te è diverso... (Beve)
SANDRO: Che vuol dire... ‘margini’?
MARIA: Debiti. Crediti.
SANDRO: Tranquilla, mi prendo tutto io. Tutti ‘sti margini. Dovesse disgustarti
troppo. (Beve)
MARIA: Non mi hai fatto finire. Che poi non sarebbe finire, ma solo spiegarmi
meglio. Cercare di spiegarmi meglio. (Beve) Eravamo stanchi. Stanchissimi. Ma è
giusto così: che l’amore stanchi quanto ha stancato noi. NÈ più nÈ meno.
SANDRO: Tutto stanca. Anche mangiare stanca.
MARIA: Per rispondere a vanvera sei un maestro.
SANDRO: Non rispondo, osservo.
MARIA: E piantala di usare questo tono!Sempre ai tuoi porci comodi! Beh, certe
cose contano, va bene? Cortesia, rispetto: contano.
SANDRO: Anche il rugby stanca. Il tennis. La pallacanestro. Battere a
macchina.
MARIA: ...Nella scala dei valori contano!
SANDRO: Pensa a un calciatore in mezzo a uno stadio stracolmo che piglia e se
ne va dicendo: "Ragazzi, sono stanco. Cambio mestiere."
MARIA: Fa il superiore, lui! Bravo, il signorino! Mi fa bere e fa il superiore.
Ci vuole assai. Ancora con questi trucchi! PerchÈ sono trucchi. Da teppista,
bello mio! Eccola la parola, questo sei tu: un teppista. Vuoi saperlo? Oggi
come ieri. (Beve) Dici: cos’è che...? dici: ma perchÈ allora...? PerchÈ qui,
perchÈ là... Presto detto! PerchÈ eri un teppista. Sì!Sì! Questo teppista qui
che già eri allora. Questa minaccia ambulante. Ma è adesso che lo vedo. Chiaro
e tondo. (Barcolla) Ah, come ti piace di ridurmi in questo stato! Bah, non credere.
Così le paghi tutte, dalla prima all’ultima. - Inutile che ridi, e più ancora
che sorridi. Sei orribile quando sorridi - vuoi saperlo? O-rri-bi-le. Sono io
che rido. Io sottoscritta! Tu sei orribile quando sorridi e orribile quando
ridi. E più di te, oggi come allora, è orribile la tua ombra. Tu sei la tua
ombra. (Come avendo fatto una scoperta) Ecco! Ecco! Sei sempre stato la tua
ombra. M’hai sedotto perchÈ eri un’ombra. M’hai stupito perchÈ un’ombra;
incuriosito perchÈ un’ombra; divertito perchÈ un’ombra; m’hai fregato...
fre-ga-to perchÈ eri un’ombra. Per questo mi sono accorta di te. - Sempre
dietro qualcosa. Dietro un pianoforte la prima sera che t’ho visto; dietro i
tuoi amici la prima volta che siamo usciti insieme, sempre un passo dietro, e
dietro di me quando restavamo soli. E ora, lì, dietro quel muro. Dietro la
porta. In qualsiasi posto sai scovare subito l’anfratto, il buco, il
nascondiglio. Ma sei uscito allo scoperto, se Dio vuole! Smascherato! - Sei
un’ombra! Sei un’ombra! Sei un’ombra! - E se tu non fossi un’ombra che nemmeno
ha più il pudore di camuffarsi, quandomai potresti essere qui - a casa mia, a
quest’ora - con me, qui, nel pieno, nel mezzo, nel cuore di un’età, mia, che
tutto poteva prevedere, tranne te... tutto! - Tutto, tranne te. - E ti dico,
guarda, influenze, tifo, paratifo, morte mia, di mia sorella, di mia madre,
tredici al totocalcio, cambio di sesso, amori lesbici, stronzi, sublimi,
conversioni, perdizioni, cattedre universitarie, marciapiede, mÈnage a quattro,
a venti, a cento, vedovanze, operazioni, viaggi a Frascati e al Madagascar...
tutto! Tranne te! - Maledetta bugia vagolante per la città, alle mie spalle, da
sempre, nel cuore del giorno e della notte che ti bruci le labbra a dire ‘amore
amore amore’...- per chi ‘amore’? Di chi? guardatelo! No, per carità,
guardatelo! Allora vatti a cercare, se ti riesce, la ragazzina che hai fregato
all’alba dei tempi, ma non me. - M’hai fatto ubriacare, sei contento? - Ride,
lui... m’hai fatto ubriacare, disgraziato! Non t’è mai riuscito duemila anni fa
per quanto ci provassi e t’è riuscito stanotte, oggi, con una donna fatta. Ma
si può essere più scemi di così? Si può essere più scemi?...
Io ora non lo so se tutte le cose che ho pensato te le ho dette; ma, pure non
fosse, sappi che le peggiori me le sono sicuramente tenute dentro.
(Una lunga pausa.)
SANDRO: Quello che feci potrei rifarlo adesso.
MARIA: Non esiste.
SANDRO: Facile a dirsi.
MARIA: Come sarebbe ‘facile a dirsi’? Non ci sono alternative. E tu sei un
pazzo a pretendere l’incontrario.
SANDRO: Non riesci a capire. Sei una stupida. D’altronde è quello che avevo
sempre immaginato.
MARIA: Ti andava.
SANDRO: E t’avrò detto mille volte grazie.
MARIA: Me le stai facendo scontare tutte.
SANDRO: Finirà.
MARIA: PerchÈ dovresti essere tu a decidere quando?
SANDRO: PerchÈ sono io che ho deciso quando cominciare. E quando ricominciare.
(Una pausa . I due bevono.)
MARIA: Cretino!
SANDRO: Per servirla.
MARIA: Va’ all’inferno!
SANDRO: Ne vengo giusto adesso.
MARIA: Bravo, allora tornaci!
SANDRO: Agli ordini. (Beve) Stavolta, però, ti ci voglio portare con me.
(Un sibilo. Le porte dell’ascensore, richiamato, si chiudono.
La scena cade nel buio. La musica sfuma.)
Scena settima
Un tramestio nell’ombra. Movimenti furenti e rapidi. Due corpi che si muovono,
si scontrano. Si staccano. La percezione di una breve violenza.
Poi scatta la luce a tempo. Ad accenderla è stato Sandro. Come una liberazione.
E’ in ginocchio presso una parete. Il suo respiro è pesante, congestionato. Stringe
qualcosa in un pugno che terrà serrato sino alla fine della scena.
Maria è in terra, distante da lui, in un angolo. Ha gli abiti strappati.
SANDRO: PerchÈ non hai gridato?
MARIA: Non c’era niente da gridare.
SANDRO: PerchÈ non hai gridato?... Dovevi gridare!
(Silenzio.)
SANDRO: Avrei smesso se ti fossi messa a gridare.
MARIA:(freddissima, quasi di pietra)
Hai smesso lo stesso.
SANDRO: E quel cazzo di cane, perchÈ non ha abbaiato?...
Grida!
MARIA: Non grido, vai avanti.
SANDRO: Vuoi davvero che lo faccio? E io lo faccio!
MARIA: Fallo. Hai cominciato. Fallo.
SANDRO: Lo faccio! Lo faccio! Lo faccio!
MARIA: Sei tu che gridi. Io parlo sottovoce.
SANDRO: (Puntandole il dito contro) Tu!... Tu!...
MARIA: Io cosa?
SANDRO: Tu me l’hai già chiesto. A chiarissime lettere. Una volta. Poi, se
voluto davvero non lo so - ma chiesto sì. Vero che me l’hai già chiesto?
MARIA: Non te l’ho mai chiesto, e non te lo chiedo adesso.
SANDRO: Io me lo ricordo benissimo.
(Ha uno slancio verso di lei. Si frena) E se lo avessi fatto staremmo ancora
insieme. Vero o no?
MARIA: Io mi ricordo solo le cose che sono successe. Le intenzioni te le lascio
tutte.
(E tenta di risistemarsi addosso gli indumenti strappati.)
SANDRO: E non rispondermi così!
(Maria sorride) Non ridere!
(Si guarda le mani) E’ come se ti avessi ammazzata, perdio! Ce le ho sporche di
sangue.
MARIA: Un graffio. Te l’ho fatto io. E’ sangue tuo. Tu non mi hai fatto niente.
(E si riaggiusta gli abiti.)
SANDRO: Non ti toccare! Resta così. - Così!
MARIA: (immobilizzandosi) Pensi di continuare?
SANDRO:(parlando senza concitazione, quasi calmandosi)
Tu non ci volevi più venire a letto con me.
Dico la seconda volta, non la prima.
Dopo l’estate, quando siamo tornati insieme. (Una pausa) Novembre. Che partimmo
insieme. Te lo ricordi? - Venezia.
Te la ricordi Venezia?... - Il meglio della morte, Venezia, per me. Che m’hai
portato in un albergo dove mi avei detto che la proprietaria era un’amica dei
tuoi, e che ti conosceva. Te lo ricordi?
MARIA: (andando a recuperare una scarpa) Sì.
SANDRO: Ti potrei ridire com’era vestita quando la vedemmo appena arrivati. -
Già in treno l’avevo capito che non ci volevi più stare con me.
MARIA: (ora in piedi, sistemandosi) Anche lì eri sempre ubriaco.
SANDRO: Facile. Non era mica questo, l’avrei capito. E allora mi dici:
"Non possiamo prendere la camera insieme. Mi imbarazza." Ce n’era una
col letto grande, e una col letto piccolo.
Mi fai prendere quella col letto grande. Così sono io che debbo aspettare te.
Passa una notte che non si fa niente, e non mi dire che questo c’entra con le
due stanze...
MARIA: Ricominciasti come se ci fossimo lasciati il giorno prima. E comunque
un’estate non sono dieci anni.
(tendendo una mano) Ridammi.
SANDRO: (nascondendo il pugno dietro la schiena) No.
(Scatta la luce. Buio. Lui svelto la riaccende. Bloccando lei che già aveva
mosso un passo verso la sua porta.)
SANDRO: Sta’ ferma! Aspetta.
Ho tutto scolpito nel cervello.
Sto in quella piazza d’armi la prima sera, e niente.
Si esce. Si va a un concerto jazz. - Ci sei?...
MARIA: Mi ricordo che domandasti delle cose ridicole al musicista. Questo me lo
ricordo benissimo.
SANDRO: Io no.
MARIA: Tipo perchÈ aveva scelto di suonare il piano e non la tromba.
SANDRO: Beh?
MARIA: Al più grande pianista negro vivente.
SANDRO: Ebbè?... Avrebbe anche potuto essere il più grande trombettista negro
vivente. Scortese lui a rispondermi in quel modo.
MARIA: Ti dava solo fastidio che suonasse meglio di te, e che io me ne fossi
accorta.
SANDRO: Poi non dissi la tromba, dissi il sax tenore. Io adoro il sax, per
questo glielo chiesi. Poteva magari dirmi: "Avevo mio padre che suonava il
piano e così ho cominciato pur io con il piano." Una ragione come
un’altra. Tutto per non ammettere: "Non so suonare il sax." Un grande
jazzista per me suona sempre il sax. Anche il più grande pianista vivente
dovrebbe saperlo fare.
MARIA: E tu lo suoni?
SANDRO: Ti ha scocciato solo perchÈ era amico tuo.
MARIA: No. PerchÈ hai fatto una figuraccia tu, e l’hai fatta fare anche a me.
SANDRO: Ti sei messa con lui?... E’ per lui che mi hai piantato?... - Era un
mostro. Peggio di me.
MARIA: Ce l’hai sempre avuta questa fissa.
SANDRO: Certo, e sai perchÈ? PerchÈ quello non era affatto il più grande
pianista vivente. Pianista sì, lo ammetto. E negro. E basta. Ma se tu
continuavi con la storia del più grande pianista vivente per me un motivo
doveva pur esserci.
MARIA: Opinione diffusa.
SANDRO: Da te.
(Buio.)
SANDRO: Idea di merda andare a quel concerto! - Ti ho educata io a quella
musica. E’ l’unica cosa di cui m’intendo. Anche la mia, di opinione, avrà
qualche valore. O no?...
Io, ad esempio, lo ammetto: ho sbagliato strumento.
(La luce viene riaccesa. Stavolta è lei a spingere l’interruttore.)
MARIA: Tu mi hai plagiata, Sandro.
O almeno questa è stata l’unica cosa che hai voluto fare con me. Non lasciarmi
più un fiato in corpo che fosse solo mio.
Mi hai plagiata, e potrei dimostrartelo.
SANDRO: Sarei curioso di sentire come.
MARIA: Mi basta che tu lo capisca. O comunque che tu capisca che me ne sono
resa conto io.
SANDRO: Giuro: non voglio che tu mi dica sì o no, ma questo mi puzza di
analista. O c’è, o c’è stato. Magari lì dentro (in casa).
MARIA: Per me non ho problemi a...
SANDRO: Non voglio saperlo! - Tanto non cambi.
MARIA: O gesummio, non cambio...
SANDRO: Impossibile che cambi, tu no.
MARIA: E va bene. Ipse dixit. grazie.
SANDRO: E’ un insulto, mica un complimento.
MARIA: Scarso come insulto.
SANDRO: Chi ti ha messo in testa che ti ho plagiato?... Eh? Chi?... E’ quello
lì che ti ha fatto il lavaggio del cervello, non io.
MARIA: Vuoi nome e cognome?
SANDRO: Il tuo amichetto?
MARIA: Per piacere!
SANDRO: Uno dei tuoi amichetti?
MARIA: Non voglio sentir parlare di amichetti. E’ una parola che mi fa salire il
sangue alla testa.
SANDRO: Pardon.
MARIA: La usavi per tormentare prima te, poi me.
SANDRO: T’ho chiesto scusa.
MARIA: E ad ogni modo non sopporto di essere trascinata di nuovo in certi
discorsi.
SANDRO: Sarà che l’ho voluto io, sarà che sono scemo, fatto è che t’ho seguita
e t’ho raggiunta: qui. - E’ un’opinione?... Ci stiamo. Ci sto. Ci vediamo in
faccia o no?
MARIA: Per dire?
SANDRO: Che devi sopportarlo perchÈ un significato ce l’ha, e sai quale?
(Una breve pausa. Dosando la sua eccitazione) Che io, con te davanti, non vedo
nemmeno la porta alle tue spalle. Non vedo dove poggi i piedi. Non capisco
neanche che cosa sia la luce che t’illumina. Tu, bella mia, non hai il diritto
di essere diversa da me. PerchÈ tu maledetta, ci riesce a non vedere solo me.
Tu lo vedi dove sei. Ma che faresti, ora, se ti sparisse di nuovo questo
cagnaccio calzato e vestito che sono, io, ai tuoi piedi?... - Tu mi hai sempre
saputo ad aspettarti dietro l’angolo di una strada. In tutti i posti neri dove
ti sei cacciata.
Sino allo spigolo di quella scala.
Nemmeno il cuore, tu, ce l’hai ficcato in corpo quanto hai me.
Noi non ci siamo mai lasciati. Mai!
(Si stacca la luce. Lui subito la riaccende. Implacabile.)
SANDRO: E ora è deciso. Io abito qui.
Devi rendermi conto di tutto.
MARIA: (stremata) Ridammi la mia roba, vorrei andarmene.
SANDRO: (calciando verso di lei un mazzo di chiavi che si trovava in terra)
Stanno per terra le chiavi, eccole!...
MARIA: Non dico le chiavi. Ridammi.
(Una breve pausa) Ridà!
SANDRO: L’ho rotto!... (E nasconde la mano.)
MARIA: Ridammi lo stesso.
SANDRO: Fammi chiudere il capitolo Venezia, poi te ne vai.
(Maria, rassegnata, scivola a sedere in terra con la schiena poggiata contro il
muro.)
SANDRO: Era la terza sera. Quella prima di partire.
Sto sul letto a disegnare. L’ultima cosa che mi aspettavo, a quel punto, era di
sentirti bussare alla porta. - Ma tu bussi.
"Toh, guarda un po’ chi si vede! - A cosa dobbiamo l’onore?..."
Ovvio, mi fa piacere. E ancora rabbia.
Beh, mi rimetto dalla mia parte a disegnare. (Infila una mano in tasca. Ne tira
fuori dei fogli ripiegati.)
Ce li ho ancora. (Fa cadere i fogli in terra, vicino a lei)
Tu ti sdrai dall’altra. Avevi dei pantaloni di velluto. Marroni. - Di’ sì o
no!...
E gli stivali. - Tenevi la gamba sinistra giù dal letto con il piede sul
pavimento. E io, niente. Disegnavo. (Indica) Quelli. Tu ferma. Zitta. Eri
come... molla. Mi sarebbe bastato premerti un dito contro per lasciarti un
livido. Ma aspettavi. - Donne di merda!... E a me andava. Sino a bruciarmi il
cervello. E penso: ecco, Maria è di nuovo Maria. - Mi alzo. E vado a fare il
giro del letto. Poi vedo che hai una gamba di fuori, e penso che non saprei
come mettermi - e torno dalla mia parte. (Una pausa) Ti accarezzo. (Una pausa)
Un po’. (Una pausa) Male. Ti bacio. (Una pausa) E poi ti dico una cosa. - Te lo
ricordi cosa ti ho detto?
(Maria, passivamente, fa di ‘no’ con la testa. Lui, quasi urlando...)
Allora, maledetta... maledetta... non ti ricordi nemmeno quello che mi hai
risposto tu.
T’ho detto la cosa più stupida che si possa immaginare, e tu mi hai risposto
con la più terribile. Ma, perdio, si possono anche dire cose stupide!...
(Salta la luce. Lui non la riaccende.
Sale, lievissima, la musica di un sassofono.)
SANDRO: "Vorrei darti tutta la dolcezza del mondo..." Questo ti ho
detto.
E tu m’hai risposto in un modo che mi ha fatto alzare in piedi. E guardarti con
il fuoco negli occhi. E capire qual era l’unica cosa che avrei dovuto fare:
strapparti i vestiti. - Stuprarti. (Una pausa) Non ne fui capace. - Guardai te.
Sdraiata. Con quella tua risposta ancora in faccia. Poi me, nello specchio, con
una ridicola vestaglietta cinese addosso.
Mi hai cambiato la vita.
Te lo ricordi cos’è che m’hai risposto, a quella cosa stupida?...
(Una pausa.)
MARIA: (ricorda, e quasi sillabando)
"Non è della dolcezza che ho bisogno io".
(Ancora una pausa. I due rimangono immobili. Non si guardano.
Poi, senza alcun preavviso, si aprono le porte dell’ascensore.
Nella luce abbagliante della cabina un sassofonista, come un angelo, dà fiato
al suo lucente strumento. La musica sgorga piena. Il musicista è invisibile ai
due. Sandro tende la mano chiusa a pugno. Allarga le dita e, tra le dita, si
dipana il minuscolo chiarore di un lacerato slip femminile.
Sulla musica roca e notturna del sassofono si chiude il primo atto.)
ATTO SECONDO
Scena prima
Luce diurna, afosa. L’uomo sta flesso sulle ginocchia il più che può, con la
testa ciondoloni. Posizione scomoda nella quale stenta a tenersi in equilibrio.
Oltretutto, ha dell’alcool in corpo.
Sistema per terra innanzi a sÈ, come fossero soldatini da apprestare a una
battaglia, varie bottigliette di liquore che tira fuori da una busta di
‘cellophane’. I gesti sono lenti, misurati, tali da non compromettere la
precaria stabilità alla quale si obbliga. E, tranne alcuni istanti di impeto,
parlerà allo stesso modo: con calma e lentamente, quasi biascicando, per
controllare l’imperfetta dizione dovuta alla lingua impastata. Si deve avere la
sensazione che faccia molto caldo. Da estate piena e cocente.
SANDRO: Già, perchÈ io, secondo te, sono il tipo che dico dico e non lo faccio,
vero che la pensi così?
(Si sofferma per un istnte ad ammirare, soddisfatto, il suo plotoncino di vetri
scintillanti, poi, deciso, prende a versare il contenuto di una bottiglietta
contro la soglia di lei, affichÈ si spanda nell’appartamento. Ne stappa
un’altra e annaffia di liquido alcoolico il legno della porta.
Ne stappa una ancora e ripete il medesimo gesto.
Il cane abbaia penosamente.)
SANDRO: Sai che mi ci vuole? Una bella fiammellina, ma piccola piccola - e
zaff! Questo ci vorrebbe. Ti pare che ci metto tanto? - Niente ci metto. Mi ci
vuole assai. - Apri, o vedrai se non lo faccio!... (Silenzio)
E andiamo, fammi entrare, tanto lo so che stai lì sola soletta! Solissima stai.
Vero o no?... (Più forte) Vero o no?... - Non c’è un’anima in questo palazzo
schifo. Tutti al mare per godere e per amare. Lo so meglio io di te. - Siamo
soli, Maria, e posso fare tutto quello che mi pare e piace. Anche urlare, se mi
va - perciò aprimi o davvero, guarda, do fuoco a tutto.
Lo dico e lo faccio, e vorrei proprio vederli, qui dentro - pagherei per
vederli - quando s’accorgeranno di quanto cazzo picchiava il sole
quest’estate!... Col cucchiaino per tirarci via. A me, e a te. Due mucchietti e
una porta incenerita in mezzo. Chiusa. - Io lo faccio! puoi giurarci che lo
faccio.
(Vuota altre bottigliette.
Il cane abbaia. L’uomo riprende fiato.
Segue un suo lungo silenzio. Solo il latrato disperato dell’animale.)
Ti amo, Maria. - Mi senti? - Mi ascolti?...- Questa gran bella frase non è una
frase.
Sembra, ma non lo è. Mica è fatta di parole, no. Sai cos’è? E’ un verso. E’ il
verso di una bestia. E’ il mio verso. Di me sottoscritto. Nessuna parola in
questa porca frase. Come ragliare, ululare, muggire... Non c’è quantità,
niente, in una frase così. O sillabe. Nix! - Tu... ecco: tu ci sei. Con tutte
le tue tette... con tutto quello che mi hai fatto. Che abbiamo fatto... con
quelle manine belle. Quelle labbruzze; quelle guanciotte calde che io non mi
sono mai azzardato, mai e poi mai... Lo sai a che penso. Mai e poi mai.
(Una breve pausa, come per distrarsi dall’ultima cosa che stava dicendo)
Si può scrivere una frase così - e io l’ho scritta. Ovunque sono stato.
Pronunciata. Con il punto esclamativo, senza il punto esclamativo. ovunque sono
stato. Senza di te. Sempre. Non un giorno c’è stato, nella mia vita, in cui non
mi sia trovato a dirlo - ma a dirlo: con voce vera, parole vere che escono
dalla bocca e che, se uno sta là, te le sente dire!... O magari solo a
pensarlo, ma ogni giorno, ogni giorno e senza che tu, mai, lo sentissi - e lo
ripeterò più di quanto mi batta il cuore il petto. Potrò scordarmi di
respirare, di muovere le dita delle mani, di battere le ciglia - di essere dove
sono o dove sarò... non lo so, ma non questo. Sino a morire. Ho pregato: fammi
diventare frocio. Di non avercelo più, ho pregato. Di avere la forza per
tagliarmelo e, dio buono, sia quello che sia! E non è una colpa, nemmeno un
po’, se adesso voglio che un poco pesi anche su di te, Ma-ri-a!
(Tira il fiato. beve. Quello che resta lo versa sotto la porta. Si aggira,
balordamente, per il pianerottolo alla ricerca di un suo equilibrio. Il cane
guaisce.
Lui torna presso di lei.)
SANDRO: Mi sono masturbato sino a cosumarmi. E mai una sola volta pensando a
te, ci credi? - Giuro. Mai ho pensato a niente - di tuo.
PerchÈ ti amo, ecco perchÈ.
PerchÈ ti ho persa.
Se mi eccitavo al ricordo di qualcosa, diventava più la rabbia della voglia e
per sfogarmi dovevo immaginarmi un’altra faccia al posto della tua. Un’altra
bocca. Altre mani.
(Una pausa. Respira profondamente)
Maria... mi senti?... Io ho dei tagli nelle carni, ho budella massacrate, che
nemmeno uno travolto da un camion!
Ogni donna che ho incontrato ha dovuto rischiare, e sopportare, di essere usata
dalla mia fantasia al posto tuo. Per colpa tua. E questo loro lo sanno.
Benissimo.
Non di chi è la colpa, ma che gli tocca essere usate al posto di qualcun’altra
sì che lo sanno.
Loro magari dormono, o che ne so quello che fanno, e un altro le usa. L’ultimo
degli uomini. Lo sai chi è l’ultimo degli uomini, Maria?... E’ frutto tuo,
dovresti saperlo. Tuo! Tuo! Tuo!
Tu mi hai cambiato le carni amandomi, e poi ancora di più abbandonandomi - e
ora eccomi qui! Presente.
(Il cane abbiaia.
Lui si tura le orecchie per non sentire)
Per l’amor di Dio, ma non lo sentite che sta impazzendo quel cane lì dentro! E
un poco di pietà! Chiamate i pompieri! fate sfondare la porta, ma tiratelo
fuori!... O lo fate voi o lo faccio io!
(Con un gemito, e sempre tenendosi le mani premute sulle orecchie, scivola a
sedere in terra. Si calma. Solleva lo sguardo. Ha dinanzi a sÈ la busta delle
bottigliette. Ne tira fuori un piccolo involto di carta stagnola. Lo dispiega.
Contiene qalcosa da mangiare; probabilmente un panino. Dà un morso; ingoia a
forza. Ricaccia il panino nella busta.
Il cane abbaia.
L’uomo guarda di fronte a sÈ. Ora parla sommesso, quasi per non farsi
ascoltare.)
SANDRO: Beh, non sono qui per te. Vuoi saperlo? - E allora è così. Devi
rassegnarti. - Non lo so nemmeno io per chi. Forse nemmeno per me, che ne so.
Ci sono e basta. (Una breve pausa) Ti fa piacere sapermi qua fuori? ...
Scommetto di sì. E io ci resto. Non me ne vado.
(Ripesca il panino. Ancora un morso.
Il cane abbaia)
Vuoi uscire o no? (Silenzio.)
Se non vuoi farmi entrare, almeno esci tu!...
(Silenzio.)
Che ti costa? Esci! (Silenzio.)
O esci o mi fai entrare... (Silenzio.)
Insomma vuoi uscire o no? (Silenzio.)
(Si alza di scatto, furente. E’ seguito da un latrato. Come rianimato da nuova
forza e brandendo il suo panino a mò di arma rivà presso la porta. Ora grida
per farsi sentire.)
SANDRO: Oh! Io davvero ti ci do fuoco a questa fottutissima porta! - Sono cotto
e stracotto, basta spingermi con un dito. Me ne importa assai! - Con me dentro
ci do fuoco... - Con me dentro!... Una bella fiammata collettiva, contenta?...
PerchÈ te lo meriti, te lo meriti quello che sto per farti! Nessuna più di te
se lo merita.
(E vuota, come un invasato, tutte le ultime bottigliette contro la porta.
Il cane abbaia)
Ci siamo arrivati - visto che ci siamo arrivati! - se Dio vuole ci siamo
arrivati a questo bell’appuntamento! Ci manca solo di dire un bell’amen e in
culo a tutti! A tutti! A tutti!
(Infine giunge, dall’interno e inattesa, una musica registrata.
L’uomo è stroncato nella sua furia. Si blocca imbambolato ad ascoltarla.
Una pausa, poi...)
SANDRO: Lo vedi allora che hai paura anche tu!...
Il fuoco fa paura... ve’, che fa paura, il fuoco?...
(E crolla in terra con la testa tra le mani) Anche a me fa paura. Anche a me.
(Piange)
Ma io grazie non te lo dico... Non te lo dico...
(Ancora musica. IL cane guaisce.
Buio.)
Scena seconda
Sera. La porta di Maria è socchiusa, ne filtra un raggio di luce elettrica che
taglia la penombra della scena. Dall’anta dischiusa si affaccia il volto di lei
che spia preoccupata: al capo opposto del pianerottolo, sta l’uomo presso
l’appartamento di fronte.
Sandro, come un ladro, sta tentando di forzarne la serratura. Ha sparsi intorno
a sÈ, per terra, ferri e ferretti. Un vero e proprio armamentario da
rapinatore.
MARIA: (con apprensione, e badando a tenere un tono di voce soffocato) Tu mi
farai morire... Vieni via, smettila!
SANDRO: (senza neanche voltarsi a guardarla e continuando nella sua operazione)
Sta’ zitta!
MARIA: Ma vuoi finire in galera?... Poi vaglielo a spiegare che vuoi aprire per
il cane... - vieni via! E non te ne importa niente di metterci in mezzo anche
me!
SANDRO: (c.s.) Non vedo come.
MARIA: Poi è sua quella bestia, cosa vuoi ficcarti in mezzo?...
E’ vecchio, non ha nemmeno la forza di uscire, spiegami tu perchÈ dovrebbe
starsene da solo ad abbaiare giorno e notte? - E poi non dicevi che ti dava
fastidio?...
SANDRO: (c.s.) Gli è successo qualcosa.
MARIA: Ma che t’importa, è tuo?
SANDRO: E parla piano!
MARIA: Fosse tuo...
SANDRO:(voltandosi di scatto in un moto di collera) Ma vattene dentro se te la
fai addosso!
MARIA: Non essere ridicolo, parli come un gangster.
SANDRO: Mettitelo in testa: io non me ne vado se prima non l’ho tirato fuori di
lì.
(E la guarda, una breve pausa) Chiaro?
(E torna a trafficare con la serratura.)
MARIA: Da quand’è che hai imparato a scassinare porte?
SANDRO: Mani di pianista, mani di chirurgo.
SANDRO: E se c’è un antifurto?
SANDRO: Uno che se ne parte lasciando cbiuso dentro un cane non li spende i
soldi per un antifurto.
(Una pausa. Infila con premura un ferretto acuminato nella toppa.
Lei lo osserva senza perdere un solo movimento)
Non li ami molto gli animali tu.
MARIA: PerchÈ il tuo sarebbe amore per gli animali?
SANDRO: (c.s.) Oh!... Sei sicura, sì, di non averlo più visto rientrare?...
MARIA: (uscendo di un passo oltre la soglia)
Te l’ho detto, da quando è partito no - Non mi pare.
SANDRO: (voltandosi) No, o non ti pare?
MARIA: Ma no. - (Una breve pausa, poi quasi per convincere se stessa) No che
non è tornato. - Poi l’avrei saputo se fosse tornato. - Oh, mi abita di fronte,
vuoi che non lo sappia!
SANDRO: (tornando a occuparsi della porta) Che figlio di puttana!
(Segue un tempo durante il quale i due non parlano. Lui armeggia con i suoi
ferri e lei, avvicinandosi ancora di qualche passo, appare sempre più presa
dalle operazioni dell’altro; come una complice.)
MARIA: Ci riesci?
SANDRO: Non lo so.
MARIA: Ci sai fare davvero o stai improvvisando?
SANDRO: Ci provo. Un po’ d’esperienza ce l’ho.
MARIA: Cos’è? Rubavi macchine da piccolo?
SANDRO: Sì, come James Cagney.
MARIA: (indicandogli un ferro in terra) Prova con quello.
SANDRO: Ci siamo.
MARIA: Tu pensi che sia morto?
SANDRO: Sono tre giorni che non si sente. tre.
MARIA: Ma anche prima non è che abbaiava sempre.
SANDRO: Di sicuro deve averci una fame boia. E più che fame, sete. Magari si è
scordato di lasciargli l’acqua.
(Dall’interno dell’altro appartamento giunge lo squillo di un telefono.
Maria si volta. Resta immobile. Non sa che fare.)
SANDRO: Beh?... Va’!
(Maria rientra di corsa. Lui, ora solo, cambia ferro e continua. Infine, uno
scatto. L’uomo, che stava in ginocchio, si alza in piedi. Rimane per alcuni
istanti a guardare la porta ancora chiusa. Poi, con un gesto misuratissimo e
morbido, spinge l’anta non più bloccata dal paletto. Sandro apre totalmente la
porta. Entra. Maria torna fuori. Corre presso l’altra soglia.)
MARIA: Sandro?... O Dio mio, ci sei riuscito!!?... Beh, ci sta o no?... L’hai
trovato?... Ma dove sei? Vieni fuori! Insomma, l’hai trovato?...
(D’improvviso, acutissima e lacerante, scatta la sirena dell’antifurto.
Lei è sconvolta dal panico.)
MARIA: Vieni fuori! Vieni fuori!... Disgraziato, l’hai visto cos’hai
combinato!... Te l’avevo detto che c’era! Vieni fuori!... Scappa! Scappa! (Una
breve pausa) Guarda che io me ne vado... Mica t’aspetto!...
(Resta, incapace di muoversi, ancora per qualche secodo tormentandosi le mani,
poi, non potendo resistere oltre, fugge dentro casa richiudendo.
La scena cade nella penombra.
La sirena continua a suonare.
Oltre la porta di sinistra si accende una luce.
Sulla soglia ricompare Sandro. Tra le braccia tiene un grosso e pesante fagotto
avvoltolato nell’impermeabile. Si intuisce che si tratta del corpo del cane
morto.
Sandro, come se non sentisse nulla, non mostra alcuna fretta. Va dinnanzi alla
porta dell’ascensore. Con qualche fatica nel muovere una mano, spinge il
pulsante.
Si accende la spia rossa.
Lui aspetta.
La sirena continua a suonare.)
Scena terza
Luce chiara ma debole. E’ mattino. Molto presto. Maria, spettinata e pallida,
se ne sta in vestaglia e a piedi scalzi con la schiena poggiata contro la sua
porta chiusa.
Un passo dinnanzi a lei, Sandro. Appare infreddolito.
MARIA: Sei impazzito a suonare?
Si era detto che non devi mai suonare alla porta. PerchÈ hai suonato?... Non ti
ci provare più!
SANDRO: Ma io credevo...
MARIA: Io credevo è il verbo degli imbecilli. Si era fatto un patto. Proposto
da te. Imposto da te. Mi hai costretta a subirlo e l’ho accettato. - Se
vogliamo darci delle regole, manteniamole.
SANDRO: Allora c’è qualcuno...
(Dall’appartamento di fronte giunge, come in un ronzio, un radiogiornale del
mattino. Farà, lievissimo, da sottofondo a tutta la scena.)
MARIA: Qui c’è la mia vita. Questo indipendentemente dal fatto se c’è qualcuno
o no. E tu non c’entri con la mia vita. Non la devi toccare!... Lasciamola
fuori. - Perciò restiamo dove siamo. Qui è uno spazio morto. Ti vedo in un tempo
morto. Per me è come se non accadesse nulla;
E non che mi vada, ma mi costringi.
Guai a te se ti azzardi di nuovo.
(Sandro, scrollando storditamente il capo, fa di ‘no’ con la testa.)
MARIA: No, cosa?
SANDRO: Non mi azzardo più.
(Una breve pausa)
Dormivi?
MARIA: Alle sei di mattino si dorme.
SANDRO: (accennando all’altra porta) Quello è già sveglio.
MARIA: Potevi suonare da lui. Che vuoi?
(Una pausa.)
SANDRO: Niente. Ma andava fatto prima o poi.
MARIA: Per ordine di chi?
(Un silenzio.)
SANDRO: Pensavo ti alzassi presto. (Una breve pausa) Ti alzavi presto.
MARIA: Ho cambiato lavoro.
(Lui sorride.)
MARIA: Che ridi?
SANDRO: So io quale avrebbe dovuto essere il tuo lavoro.
MARIA: Ah, sì?...
SANDRO: Il tuo vero lavoro.
MARIA: E allora?... Illuminami.
SANDRO: Cantare per me. Ma che non l’hai mai voluta prendere sul serio.
Ammetti.
MARIA: Quando lo facevo non stavo a pensarci se quello fosse un lavoro o no.
SANDRO: Però ti piaceva.
MARIA: Ancora ricominci?
SANDRO: Ma perchÈ non lo vuoi ammettere?
MARIA: Mi divertiva. Chiuso.
(Una breve pausa.)
SANDRO: Ieri ho fatto una cosa che ti farà arrabbiare.
MARIA: Cioè?
SANDRO: Te li ricordi i disegni che ti avevo lasciato qui per terra?
MARIA: E allora?
SANDRO: Poi non te li sei presi.
MARIA: Vorrei vedere! Me li hai buttati in faccia.
SANDRO: Beh, te li ho spediti per posta.
MARIA: Dio santo...
SANDRO: Ti scoccia, ve’?...
MARIA: Ascolta. Te lo voglio dire. - Non so se dirò quello che voglio, ma tu
cerca di capirmi.
(Una breve pausa.) I ricordi non sono una colla come piacerebbe a te.
SANDRO: Che colla?
MARIA: Sì, una colla. Proprio. E neppure una specie di espiazione. Tu questo ne
fai. Casomai sono esattamente l’opposto: usiamoli per vivere, per proseguire. -
Ma per te no, è diverso - e questo - questo mi fa girare la testa: tu parli
come di cose che dovrebbero ancora interessarmi. Starmi a cuore. Ma così non
sono nemmeno ricordi. Nei ricordi c’è una distanza che tu neanche ti sogni. E
invece no: credi di essere un maestro perchÈ magari sai ridirmi... dettagli che
dio sa come ti sono rimasti in mente. La gonna che avevo. Il nome dell’albergo.
Le date. I pensieri che ti passavano per la testa. Le parole.
E ci stai immerso come dentro a una vasca da bagno.
Beh, io non ci trovo tanto così di dolcezza, di verità... - Tanto così! - Non
potrai mai possedere nulla, tu - mai - e ti toccherà - non te lo auguro, ma ti
toccherà di andare perseguitando donne dietro la porta di casa per tutta la
vita.
Se dovessi raccontarle io le cose che abbiamo vissuto insieme non saprei dirti
- forse sì, ma non c’entra - se una volta avevi quella camicia o quell’altra.
Se eravamo qui o chissà dove. Ma tirerei fuori qualcosa di me. Di mio. E non mi
sognerei mai di andarlo a buttare in faccia agli altri come fai tu con
me.
Io lo amo ciò che è mio. Lo amo - e non sto a sciuparlo. Io no.
(Forse vorrebbe parlare ancora ma non sa più che dire. Tace.)
SANDRO: Che vuol dire: ricordi come un’espiazione?...
MARIA: Vuol dire, vuol dire!...
SANDRO: Io sono fatto di carne, e la mia carne è cambiata da quando ti ho
conosciuta.
MARIA: Certe cose sono fatte per finire presto.
SANDRO: Poi lo so con chi ti sei messa dopo!
MARIA: E io invece so chi è stato a scrivere quelle frasi sui muri con le
bombolette spray.
SANDRO: Con quello dei libri, ve’?...
MARIA: Da darmi sprofondare per la vergogna.
SANDRO: Dimmi solo se è vero.
MARIA: Sei stato tu o no?
SANDRO: PerchÈ ci pensi?
MARIA: Tu rispondi.
SANDRO: No... Non te lo dico.
MARIA: Saresti capace di rifarlo ancora.
SANDRO: (trasalendo) Dio, ma perchÈ ci pensi adesso?
MARIA: PerchÈ ci ho sempre pensato e adesso te lo chiedo.
SANDRO: (quasi ridendo, da incosciente) Vai alla finestra e guarda. Già l’ho
fatto.
MARIA: Quando?
SANDRO: Mò.
MARIA: Scherzi?
SANDRO: Affacciati.
MARIA: Non è vero. - Di’ che non è vero.
(L’altro tace. Sorride un po’ beffardo) Guarda che t’ammazzo!...
(E in uno slancio gli va addosso a frugarlo. L’altro lascia fre; ancora
ridacchia sfottente. Gran tintinnio di boccettine. Infine, da una tasca, Maria
tira fuori una bomboletta spray.)
MARIA: (vorrebbe urlare, ma tiene il tono della voce soffocato) Cosa m’hai
scritto, deficiente? Che?... Cosa?... Troia? - Maria è una troia?!... Questo
sei andato a scrivermi un’altra volta sotto casa?... Ma io ti denuncio! L’hai
capito che ti mando in galera, razza di imbecille?!... Questo m’hai scritto? O
peggio?... Quelle cose che sai inventarti tu con quella testa malata - Che?...
Guarda che davvero se mi metti nei casini stavolta non te la perdono. - Sì,
ridi come un cretino, sai!... Io - io... già lo so che figura mi è toccato di
fare per colpa tua, e non ci sto a sopportarlo una seconda volta. - Gesù
benedetto! Ma perchÈ sei tanto egoista? Egoista e porco! perchÈ? - Cosa sei
andato a scrivere, me lo vuoi dire o no? - Che? Che?
SANDRO: Non è una cosa da offendersi. Quello che ripeto ogni giorno della mia
vita. Anche senza crederci. - Ti amo... Maria. -
MARIA: Giura!..
SANDRO: Guarda.
MARIA: (dopo un silenzio) Oh, maledetto...
SANDRO: (cadendole in ginocchio davanti) Puoi dirlo. - Forte, però -
fortissimo. Cos’è che sono io?... Ripetilo.
MARIA: Alzati.
SANDRO: Se lo dici forte, ma urlando, mi alzo. Mi alzo e scompaio.
MARIA: Sccch...
SANDRO: Davvero scompaio.
MARIA: Alzati, sù.
SANDRO: Ho deciso: non credo nelle donne, sai?...
Non ci credo che esistete.
MARIA: Bravo, bis.
SANDRO: Tu no, però; tu sei un’altra cosa.
MARIA: Traduci.
SANDRO: Tu sei Maria. Maria.
MARIA: Una di loro.
(Una breve pausa.)
SANDRO: (abbracciandola alle ginocchia) La padrona. - L’unica signora e
padrona.
MARIA: Ma di che?
SANDRO: (c.s.) La padrona! La padrona!
MARIA: (commossa) Di che? Di che?...
SANDRO: (stringendola con più forza e quasi piangendo) Se non lo capisci, è
meglio che mi sparo.
MARIA: O che mi sparo io... matto! - Io! (lo accarezza sulla nuca) Rialzati, ti
scongiuro.
SANDRO: (affondando il viso nel grembo di lei) Sta’ zitta... sta’ zitta.
(E tempestandola di baci si risolleva in piedi.)
MARIA: Questo non serve, Sandro... vattene...
SANDRO: (c.s.) Io non voglio roba che serve... non ti chiedo roba che serve...
- ma questo... questo...
MARIA: E’ una cosa che non va nemmeno a te... PerchÈ lo fai?... Non ti va,
lasciami!... Non va a nessuno dei due!
SANDRO: (baciandola sul collo, sui capelli) Tutta la dolcezza del mondo voglio
darti... Tutta la dolcezza del mondo... - E tu lo sai che posso... Tu lo sai,
Maria!... Tu lo sai... Vero che lo sai?...
(Inaspettatamente la porta, alle loro spalle, viene aperta dall’interno. I due
crollano goffamente oltre la soglia.
Sandro, impacciato, si ritira sù; guarda nel vano della porta e ciò che vede lo
annichilisce per l’orrore.
Possiamo intuire, dall’ombra stagliata sul pavimento, la sagoma di qualcuno. Di
colui che ha aperto.)
SANDRO: (balbettando, a questa terza persona) Non dica niente... non dica
niente...
(A lei) Troia!
(E fugge via.)
MARIA: (dopo una lunga pausa, guardando verso la porta dischiusa) Ora... ti
spiego.
(Buio.)
Scena quarta
La porta di Maria è aperta. Ne sta uscendo Sandro. Si ferma, guarda dentro.
SANDRO: Ah!... Se allora, per piacere, me lo ridai. Tanto non credo che per te
abbia un gran significato tenerlo oppure no...
(Segue una pausa. Sandro aspetta, come se la sua interlocutrice si fosse
allontanata. Dopo alcuni istanti prende un mangianastri, il solito, chi gli
viene porto dall’interno.)
SANDRO: Direi, allora, che si può chiudere qui. E’ stato il colloquio meno
edificante. Grazie di tutto.
In particolare di avermi fatto entrare. Tutto avrei immaginato tranne che di
riuscirci.
Dico, a farmi invitare.
E t’ho pure costretta a insistere.
Bon. E’ andata.
M’ha fatto piacere, spero a te altrettanto.
Ciao. (Accennando al mangianastri) Lo capisci, sì, perchÈ te l’ho richiesto?...
Mica per taccagneria. Io ci tengo.
(Va verso l’ascensore.)
MARIA: (comparendo sulla soglia) Non m’hai detto dove l’hai sepolto.
SANDRO: Chi?
MARIA: Il cane.
SANDRO: Ah, Chet.
MARIA: Non si chiamava così.
SANDRO: L’ho chiamato io Chet. Come Chet Baker. Non aveva più un dente in
bocca, poveraccio.
MARIA: Ma che, hai dato un nome a un cane morto?
SANDRO: Sì. - Mi meritavo di darglielo. E per tua informazione, non l’ho
sepolto.
MARIA: E che ne hai fatto? Dove l’hai messo?...
SANDRO: Nella mia macchina. (Maria ha un’espressione di raccapriccio)
La uso poco. (Una breve pausa) Beh, ti saluto.(Fa per andare.)
MARIA: (per fermarlo) Di’!... (Lui si volta. La guarda. Una pausa.)
SANDRO: Sì?...
MARIA: (accennando alle tasche dell’altro nuovamente tintinnanti) Butta quella
roba. E seppelliscilo... non fare idiozie.
(L’uomo china il capo come a dire di aver capito la lezione.)
Senza strafottenze...
SANDRO: Altro?
MARIA: Mi dispiace che te ne vai così...
SANDRO: Salutami chi di dovere.
MARIA: Ecco! mi sembrava strano che me la risparmiassi, la frecciatina.
SANDRO: Ci vive rintanato dentro casa. L’avessi mai visto una volta entrare o
uscire!... Mai.
MARIA: Stavamo parlando di cose un po’ più serie, mi pare.
(Senza risponderle Sandro fa per premere il pulsante di chiamata ma un secondo
prima qualcuno lo ha anticipato e adesso è accesa la spia rossa.
Sandro è costretto ad aspettare.)
SANDRO: Chiudi, fa freddo.
MARIA: Due secondi posso aspettare.
SANDRO: Per madama educazione.
MARIA: PerchÈ mi va.
SANDRO: Rientra. C’è un gelo!
(Una breve pausa.)
MARIA: Siamo intesi?... Non facciamo passare altri dieci anni.
SANDRO: (badando all’ascensore) Ma che, ci stanno facendo la doccia qui dentro?
MARIA: Oh!... Intesi?
SANDRO: Certo, come no.
MARIA: M’hai detto di sì.
SANDRO: (senza voltarsi) Eh!
MARIA: Non era quello che volevi?... Te lo dico perchÈ mi va. Potrà essere
bello, invece.
SANDRO: (c.sc.) Certo, come no.
MARIA: Occhio, è libero.
(Sandro chiama l’ascensore che comincia a salire.)
MARIA: Io però non so dove trovarti. Devi farti vivo tu.
(Silenzio) PerchÈ non me lo dai il tuo numero di telefono?
SANDRO: Non ho telefono.
MARIA: Ti chiamerei volentieri.
SANDRO: (quasi tra sÈ, volgendole le spalle) Come non detto, come non detto...
(Scatta la serratura dall’interno dell’appartamento di fronte.
Per inciso: sull’esterno dell’anta ne brilla una nuova di zecca molto
appariscente.
La porta si apre. Ne esce un uomo. Un po’ curvo. Imbacuccato. Con una sigaretta
appena accesa tra le labbra.
Richiude. Scambia un asettico cenno di saluto con i due. Il saluto è ricambiato
da Maria ma non da Sandro.
Le porte dell’ascensore si aprono.
L’uomo fa cenno a Sandro di entrare prima di lui ma l’altro gli lascia il
passo. L’uomo ci pensa un attimo, poi, ostentando tutto il suo senso civico,
getta la sigaretta non consumata in terra e la spegne per non fumare nella
cabina. Entra. Aspetta che Sandro lo raggiunga; questi, invece, non si muove di
un passo.)
SANDRO: (all’altro) Vada, vada...
(L’uomo preme il pulsante. Si accende il segnale rosso. Le porte si
richiudono.)
SANDRO: Io non ci scendo con quello. - Bastardo figlio di puttana!
MARIA: Te l’ho detto?... Si crede che è ancora vivo e che se n’è andato perchÈ
i ladri avrebbero lasciato la porta aperta. E secondo lui sarebbe stato proprio
il cane a farli scappare.
SANDRO: E così sta pure con l’anima in pace!... Almeno, questa testa di merda,
speravo di non dovermela mai trovare davanti!...
(Voltandosi, con rabbia, verso di lei) Ha provato a mangiarsi anche la paglia
dei divani prima di rimanerci secco. Lo sapevi questo?...
MARIA: PerchÈ credi non valga la pena quello che ti propongo?... Per me è
importante.
SANDRO: (senza interesse) T’ho detto sì.
MARIA: Con una faccia!...
SANDRO: La mia solita.
(La spia rossa si spegne ma lui se ne accorge nuovamente con un attimo di
ritardo, quando l’ascensore è stato già prenotato da altri.)
SANDRO: O merda!... Ma che è? tutti adesso!
(Una breve pausa.)
MARIA: Una curiosità. Non m’hai spiegato come facevi a entrare qui tutte le
volte che volevi.
SANDRO: Difatti non ci riuscivo tutte le volte che volevo. Anzi... - sei stata
fortunata. Scavalcare il cancello fuori è il meno, ma con la porta a vetri non
si può sapere. C’è chi la lascia aperta e chi no. A ‘sto punto li ho
individuati tutti uno a uno. Ah, tu non sai... un tizio che sta al piano sotto
ormai si crede che abito qui. Ieri m’ha detto: "SicchÈ ci si vede stasera
alla riunione dei condomini".
MARIA: (ride) E tu?
SANDRO: Mille scuse che non potevo e gli ho lasciato la delega. - Firmata.
(Maria ancora ride. Poi...)
MARIA: Ma così per tutti questi mesi? - E il tuo lavoro?
SANDRO: Croce sopra.
MARIA: Come pensi di vivere?
SANDRO: Allora non mi senti quando parlo! - Manco scherzassi - Sono arrivato
alla mia età per capire che ho sbagliato strumento.
MARIA: Dio, ma che sarebbe adesso, ‘sta fissazione?...
SANDRO: E’ vero. Non sono fatto per farmi uscire la musica dalle dita. Questo
ho scoperto. Ma dai polmoni. Mi sarebbe andata meglio.
MARIA: Scuse.
SANDRO: Se solo avessi saputo suonare come tu sapevi cantare!...
MARIA: Lo facevo per seguirti.
(La luce rossa è spenta, ma i due non ci stanno più badando.)
SANDRO: (più diretto, con un’ansia improvvisa) Canteresti ancora se te lo
chiedessi?
MARIA: Con te?
SANDRO: Con me.
MARIA: Si potrebbe. - Sarebbe curioso.
SANDRO: Non volevi altro dalla vita.
MARIA: Beata gioventù!
SANDRO: Cantare, cantare, cantare...
MARIA: Già, chi è che me l’ha messo in testa?
SANDRO: Astuzia. Piacevi.
MARIA: Se vuoi si rifà. Ma così, per gioco.
SANDRO: (ritraendosi) Quando sarò padrone dello strumento.
MARIA: Te lo sei venduto?
SANDRO: Voglio imparare il sassofono. Col piano ho chiuso. - Polmoni!
Polmoni!...
MARIA: Non scordarti, però. (Si avvicina, lo carezza) Il mio grande amico...
(Lui le sfugge con uno scarto. Lei torna a stringerlo, con leggera voluttà, a
un braccio) Mi va di toccarti. Di rendermi conto, davvero, di quanto esisti.
Non è stato facile immaginarti, e ormai mi sembra di averti ricostruito pezzo
per pezzo.
SANDRO: Finalmente t’è fiorita sulle labbra quella maledetta parola...
amicizia!
MARIA: Ma non nel senso banale.
SANDRO: Per me è un verdetto.
MARIA: Eri d’accordo.
SANDRO: Non che sperassi niente, figurati!
MARIA: (anche lei scostandosi) Ragionavi meglio al chiuso di quattro mura.
SANDRO: Ero troppo impegnato a non girare intorno lo sguardo. - Ah... ringrazia
il tuo amichetto, lì, di avermi lasciato il visto per entrare.
MARIA: Tanto non mi ferisci, è inutile.
SANDRO: Come non detto.
MARIA: No, a questo punto aspetti!
SANDRO: Ciao...
MARIA: T’ho detto che aspetti! (Una pausa)
Io non so che dirti ma voglio provarci.
Non mi è mai successo di non sapere che dire a qualcuno sino a questo punto.
Cioè, come con te.
Mi vergogno... Vabbè, questo già lo sai. - Di non meritarmelo quello che hai
fatto, ecco cosa mi fa vergogna.
(Riprende fiato. Raccoglie i pensieri, prosegue) Quasi vorrei avere altre due o
tre anime, una più grande dell’altra, per dimostrarti che invece no, che hai
avuto ragione a fare una cosa tanto... enorme - poi se bella o brutta non lo
so, non lo voglio sapere, ma enorme - e di averla fatta per me. (Una breve
pausa) E dài che mi cerco dentro come qualcosa da dirti: "Vedi? Me lo
merito." - Ma non c’è niente. (Una pausa) Mi dà fastidio che tu mi faccia
sentire a disagio per non essere... come non ho mai desiderato di essere.
(Ancora una pausa) Oh, accidenti... Ho bisogno di gente... non dico meglio o
peggio, ma normale. - Io mi ci ritrovo. (Una pausa)
O forse che non ho capito quello che sei venuto a chiedermi.
SANDRO: Ma, Cristo, io sono normale.
Sono normale.
E’ questo quello che tu non hai mai voluto capire. Sono normalissimo.
(Una pausa.)
MARIA: Forse è vero. (Una pausa) E appunto non c’è nulla per cui debba
preferirti a chi già potrebbe esserci.
(Una pausa.
Lui la guarda con odio infinito.)
SANDRO: Stavolta davvero non t’avevo chiesto nulla.
MARIA: Non è quello che volevo cercare di spiegarti.
SANDRO: (in un soffio) Come non detto.
MARIA: Basta che non ti perdo. (Una pausa) Torna.
Guarda che stavolta potrei essere io a raggiungerti dietro la porta di casa
tua. Ah, sarei proprio curiosa di vedere te nella mia situazione di adesso.
SANDRO: Ti sei spiegata benissimo.
MARIA: Se scompari vedrai se non lo faccio!
SANDRO: Come non detto, come non detto...
MARIA: Ma non detto cosa?
SANDRO: Tutto.
MARIA: Vediamoci. Anche domani. Qui, se vuoi.
SANDRO: Sarebbe un modo estroso di farti un amante.
MARIA: Non ho detto ‘amante’! Ho detto solo: vediamoci. (Una pausa) Poi si
trova il modo. Ci si organizza. Belle, queste uscite: ‘amante’!... Subito coi
paroloni!
SANDRO: E’ una parolona se riferita a me.
MARIA: Cerca di ragionare con un poco di cervello!
SANDRO: E va bene, ragiono: io ti vedo, e dopo?...
Non saprei che farti. Vengo e si parla? - No, grazie.
MARIA: Non siamo stati bene oggi?
SANDRO: Ah, molto.
MARIA: Certo, se tu la prendi come la maniera scontata di una che cerca di
salvare da una parte e dall’altra... - Ma è una cosa vera. Che sento davvero. E
che interesse avrei?...
SANDRO: Te lo ripeto. Come non detto.
MARIA: Torna. (Una pausa)
Che differenza c’è, me lo dici?... Quando stavi qui fuori e ululavi come un
lupo... Ecco, da allora a adesso... - Tu lo sapevi che... già lo sapevi che non
potevo essere sola. Non era possibile. Ma tu... tu non ti guardi intorno?... Le
vite sono... macchine sono. Non lo vedi come funzionano? - E sono fatte apposta
per funzionare in un certo modo. In quello e basta. Beh, anche la mia vita è
così. NÈ più nÈ meno. E dieci anni, per me, se passano, passano. E se mi guardo
indietro (scandendo) de-bbo fa-re i conti.
Tu no, io sì. - Sola o non sola.
(Una lunga pausa.
Poi, molto più dura...)
Comunque, comodo prendersi tutti gli assi del mucchio. - In questa storia tu te
li sei presi tutti. - Fai, disfai - vieni, vai, te ne ritorni...
E io?... - E io?...
(Una lunga pausa.
I due si fissano negli occhi.)
SANDRO: Girati.
(Lei non capisce. Poi si gira di tre quarti.)
SANDRO: Girati tutta.
(Lei si gira sino a dargli completamente le spalle.
Ancora una breve pausa.
Lui allunga una mano a toccarle i glutei.
La palpa. Lei ha uno scatto.)
SANDRO: Sta’ ferma!
(Lei si immobilizza. Lui la palpa ancora.)
SANDRO: Avrei potuto farlo quando volevo.
(Maria, impietrita, si lascia palpare.
Vorrebbe piangere.
Anche lui vorrebbe piangere.
Lei non riesce a trattenersi. Lacrima.
Lui continua a tenerle la mano addosso. A toccarla, ma senza piangere.
Poi la ritrae.
Lei crolla in terra perdendosi in un pianto dirotto.
Lui chiama l’ascensore che era stato richiamato via.
Lei si aggomitola in terra. Singhiozza furiosamente.
Si muove.
Ruota su se stessa. Senza sollevare il viso cerca, con le mani, le caviglie di
lui rimasto impalato nella sua posizione. Le trova, le stringe. Le
abbraccia.
Lui, forse per non sentirla, accende il suo mangianastri.
Fa un passo indietro. Si stacca dalle mani di Maria che lo cercano.)
MARIA: PerchÈ no, figlio di puttana?... PerchÈ no?...
(Lui alza il volume della musica.
Si aprono le porte dell’ascensore. Lui entra con la sua musica accesa.)
MARIA: (sollevandosi sul dorso, in un urlo) PerchÈ no?...
(Sandro spinge il pulsante. Le porte si richiudono. La musica comincia a
scendere.)
MARIA: (avventurandosi contro le porte metalliche)
Non te ne vai! Non te ne vai! Torna! Torna...
(E picchia contro lo stipite) Sandro!...
E’ da schifosi comportarsi così! Sempre tu che devi decidere! Sempre tu!...
M’hai capito di tornare? Torna!... perchÈ no? PerchÈ no?...
(La musica scende. Lei preme con forza il tasto di chiamata.
Lo tiene premuto per far ritornare subito sù l’ascensore.)
MARIA: (quasi tra sÈ, incomprensibile) Non mi lasci così... Li hai fatti male i
tuoi conti, bello mio... Non mi lasci così! Te lo faccio vedere io se non
torni!... Te lo faccio vedere io...
(Finalmente la spia di occupato si spegne. Lei, immediatamente, spinge, quasi
con tutta la forza che ha in corpo.
Di nuovo la luce rossa.
Dal basso, la musica ricomincia a salire.
Sale. Sale.
Lei non parla più. Si è staccata dalla porta. Aspetta nervosa.
La musica giunge al piano.
Lei sembra che lo aspetti al varco. Ora ferma, decisa.
Le porte, con il loro lieve sibilo, scorrono lentamente ad aprirsi.
La musica ne fuoriesce fortissima.
Nella cabina, illuminata a giorno, Sandro sta come un fagotto di stracci
crollato in terra. Guarda disperato, sofferente, in avanti. In alto.
In una mano, il suo registratore; nell’altra, si intuisce una pistola.
Lei non ha la forza di urlare, nÈ di muoversi.
Sandro accenna qualcosa con le labbra.
La musica non fa capire cosa.
Scuote appena le spalle, le braccia. Forse per tentare, follemente, di tirarsi
sù. E’ un nulla, ricasca. Mormora ancora.
Lei avanza sulla soglia dell’abitacolo.
Non sa fare altro.
Si china, ma senza azzardarsi a toccarlo.
Lui non mormora più nulla; non accenna alcun movimento.
La musica esplode fragorosa.
Una lunga pausa. Infine, da sotto, qualcuno battendo i pugni sul muro strilla:
"Ascensore! Ascensore..."
Qualche istante ancora, poi buio.
Sipario.)
Dicembre 1988