Torquato Tasso

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Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

TORQUATO TASSO

Commedia di cinque atti in versi rappresentata per la prima volta

in Venezia nel Carnovale dell'anno 1755

A SUA ECCELLENZA

IL SIGNOR

LEOPOLDO OTTAVIO

CONTE DEL S. R. I. DELLA TORRE VALSASSINA E TASSIS,

CAMERIERE DELLA CHIAVE D'ORO E

CONSIGLIERE DI STATO DI S. M. C. GENERAL

EREDITARIO DELLE POSTE IMPERIALI NEL

SERENISSIMO DOMINIO VENETO

Un Padre, Eccellentissimo Signore, il quale veggasi da parecchi Figli attorniato, non potendo dar loro quella riputazione in cui li desidera il paterno amore, cerca provvidamente di porli sotto la protezione di riguardevole Personaggio, che recar vaglia ad essi quel fregio che non sortirono dalla nascita loro, e quello scudo di che abbisognano nelle vicende del secolo. Molto più questo Padre amoroso diligentemente si adopra, qualora trattisi di un Figliuolo suo prediletto, la qual distinzione d'amore sogliono i Padri tutti sentire inverso dei loro parti, siano eglino generati dal sangue, o dallo intelletto prodotti. Io di questi m'intendo, allora quando de' Figli miei ragiono, che dell'altro genere sono ancor privo; e i parti miei legittimi sono le mie Commedie, avendomi l'inclinazione a Talia congiunto, e tutt'altro che sia dalla mia mente sortito, spurio deve essere reputato, e contro la data fede alla comica Musa prodotto. Ma questa mia gelosa compagna, che finora di ottantadue Figliuole mi ha fatto Padre, permette ch'io possa amarne alcuna più delle altre, secondo più o meno mi costano di fatica, ed a misura dei maggiori o minori vezzi, che dalla Madre medesima furono ad esse contribuiti. Una delle mie predilette è quella che con insolito ardire il celeberrimo Torquato Tasso espose al Pubblico dalle Scene; e dalle onorate sue gesta, e dalle sue sventure, trasse doppio argomento di laude e di commiserazione per esso, non meno che di utile e dilettamento agli ascoltatori. Può ciascheduno, che di tali opere non sia ignaro, conoscere in questa, quanto siasi la Musa di se medesima compiaciuta, e quanta maggior fatica costato mi sia condurre a fine il disegno dalla poetica fantasia concepito, e dalla pratica teatrale ordinato. Non fecemi il fortunato evento della mia diligenza pentire. Ebbe il mio Tasso quella sorte che io poteva desiderargli, vale a dire il compiacimento delle dotte persone, e da per tutto ove i Comici hanno sinora quest'opera rappresentata, si mantenne la fortuna medesima, giunta a ridurre dal mio partito chi erasi impegnato a discreditarmi.

Ora questa mia prediletta passar deve dalla scena al torchio, ed eccola più da vicino agli occhi del Pubblico, severo giudice delle opere altrui, delle quali ha tempo e comodo di rilevare i difetti, non riparati dall'abilità degli Attori e dal sollecito volo della scenica rappresentazione. Io dunque, che provveduto ho sinora cinquantanove Sorelle di protezione, deggio pensare alla sessagesima tanto a me cara, ed a misura dell'amor mio, un Protettore magnanimo procurarle. Chi mai poteva io rinvenire, per meglio soddisfar le mie brame, fuori dell' E. V., Cavaliere di un sangue cotanto illustre, di una mente così elevata, e di un cuore sì generoso? E vaglia il vero, a chi mai se non se all'E. V. dovevasi questa Commedia raccomandare, facendo essa onorata menzione di un riguardevole Personaggio, tratto dalla innumerabile schiera di quegli Eroi, che colle lettere o colle armi illustrarono la vostra eccelsa Famiglia? Non sono io quell'adulatore che comprar voglia la grazia de' Mecenati al prezzo di false lodi, né Voi soffrireste per questa via indegna le acclamazioni del popolo; ma piene sono le storie del vostro nome; volumi intieri stampati si veggono ad onore della vostra Casa, e sino da' primi secoli rispettata, mantiene tuttavia in tante partii d'Europa l'antico splendore, e la successione agli onori. Gli Storici più accreditati, parlando della origine de' Torriani vostri progenitori, la cercano sì di lontano, che derivare li fanno dalla Casa Reale di Francia diramata in Borgogna e di là trasportata in Italia, ove signoreggiò la Città di Milano ed altri luoghi circonvicini. La guerra, che fece in ogni tempo cambiare aspetto alle Famiglie Sovrane, privò i Torriani del principato, e li costrinse a dividersi in varie parti. Altri formarono nel Friuli l'illustre Casa che dicesi Della Torre. Altri nel Territorio di Bergomo ricovrati nell'anno 1313, aspettando più da vicino la fortunata occasione di ripigliare la sovranità di Milano, impadronitisi della Val di Cornello, colà si rimpiattarono alle falde del Monte Tasso, imitando quell'animale di cotal nome, che ritirato nel verno nella sua tana, aspetta la novella stagione per uscir fuori, dacché appunto pigliarono essi il novello cognome de Tassis, ed alla torre, nelle armi loro, aggiunger vollero il tasso. Da questo nobilissimo ceppo l'E. V. deriva; da questo derivarono tanti Eroi, che segnalati si sono nelle armi e nei servigi prestati agl'Imperatori; e derivò dalla stessa fonte Bernardo Tasso, padre del mio Torquato, che colle lettere recò tanta gloria e tanto splendore alla sua Famiglia, quanto ne resero tanti altri col valore e col sangue, e quanto coll'ingegno suo ne ha recato Francesco de Torriani de Tassis, il quale trovandosi presso l'Imperatore Massimiliano, primo di questo nome, suggerì e condusse ad effetto l'invenzione ammirabile delle Poste, sì utile al commercio degli Uomini, da cui tanto comodo e tanto bene a tutti i Regni n'è derivato. Egli, che non aveva di sé Figliuoli, chiamò da Bergamo tre suoi nepoti, Gio. Battista, Maffeo e Simone, ai quali poscia da Carlo V, come a successori del benemerito loro Zio, fu distribuita la vastità delle Provincie da lui possedute, rispetto alla importantissima sopraintendenza alle Poste; e d'allora sino al presente giorno continua nei diversi rami della Famiglia de Tassis lo specioso carico di General delle Poste, sostenuto in Germania dalla linea del Primogenito, col titolo e cogli onori di Principe del Sacro Romano Impero; quella del secondogenito in Spagna, nei conti di Villamediana, passata poi nella famiglia d'Ognate; ed è la linea del terzogenito quella che dalla E. V. viene rappresentata in Venezia, oltre ai due rami che parimente fioriscono, uno in Roma, e l'altro in Ispruch. Tutte queste Famiglie risplendono da per tutto fra gli onori e fra le ricchezze; ma io fissando gli occhi soltanto nell'E. V., mi, consolo colla mia Patria, che ad essa abbia toccato in sorte un Cavaliere di tante virtù fornito, il quale ai fregi del sangue unisce quelli della persona. Un uomo di talento non è sempre un uomo di spirito, e sovente chi ha dello spirito, non è di egual talento fornito. In Voi l'uno e l'altro perfettamente ritrovasi, cioè una mente felice ed un brio vivace, onde fra le applicazioni più serie, alle migliori scienze ed alle belle arti donate, sapete vivere cogli amici, e procurare a Voi stesso la società più aggradevole di questo Mondo. La storia, la filosofia, la morale sono i pascoli del vostro intelletto. La musica, la poesia, la conversazione sono i trattenimenti del vostro spirito; e l'animo generoso ed il cuore benfatto vi fa essere amante non solo della virtù, ma protettore benefico de' virtuosi. La strada che vi conduce nelle operazioni voi sire, è situata fra la generosità e la moderazione. Chi esce da un tal sentiero, suol cader negli estremi: Voi, guidato dalla prudenza, siete magnifico nelle occasioni, senza vanità e senza fasto. Iddio, che da tanti secoli colmò di benedizioni la vostra Casa, vi ha donato un Figliuolo degno di Voi e della nobilissima vostra Sposa, il quale seguendo l'orme de' suoi maggiori, col vivo esempio di un Padre adorno di tanti pregi, accrescerà ognora più il lustro della Famiglia.

Ricordomi, tremante ancora, in quanta pena ci teneste l'anno passato, allora quando minacciava la morte di abbreviare i giorni della vostra vita; e certamente, se i caldi voti del Popolo sono in Cielo ascoltali, non si potea dubitare della vostra salute, cara a tutti egualmente, e da tutti desiderata. I voti miei non furono in tale occasione meno fervidi di qualunque altri, interessandomi per il bene della mia Patria, che vi ama e vi stima, e Figliuolo suo vi considera, sendo oltrepassati più secoli, che avete in Venezia il domicilio piantato. M'interessai per le Lettere che coltivate, per le belle Arti che proteggete, per le Virtù dell'animo che praticate. M'interessai per la cara Famiglia vostra, per i teneri vostri Amici, per i servidori vostri beneficati; ma siccome io tengo per fermo, che in tutti i desideri nostri più nobili e più virtuosi abbiavi la parte sua l'amor proprio, non esito punto a manifestarvi, che il mio particolare interesse inducevami a pregar Dio per la vostra vita e per la vostra salute. Troppo mi sarebbe costato il perdere un Protettore delle opere mie qual Voi siete, che basta col compiacimento di esse ad accreditarle, e impone silenzio a chiunque per opprimerle si affatica. Il mio Torquato, sino dai primi giorni che fu da me riprodotto, si lusingò di poter essere dal nome vostro onorato; ed io che l'amo tanto, avrei amaramente compianta la sua sventura.

Viva l'eterna Provvidenza che vi vuol nostro, e nostro vi serbi felicemente per lungo tempo avvenire, e alle magnanime idee del cuor vostro corrispondano sempre i fortunati auspici del Cielo. Ecco Torquato vostro per parentela, Torquato mio per amore, consolato del nuovo fregio che or gli recate. Spero che l'onorato spirito del valoroso Poeta non siasi meco sdegnato, veggendo le gesta sue da me sulle Scene rappresentate; poiché studiato mi sono di farlo in guisa che disonore al suo nome ed al mio medesimo non recasse, ed ora sarà egli di me piucchemai contento, dandogli per protettore un Nipote che ama le Lettere di lui non meno, e che tanta gloria ha accresciuto alla sua Famiglia. Con così bella speranza, e coll'altra ancora che V. E. l'umile ossequio mio non isdegni, alla di Lei protezione mi raccomando, nell'atto di profondamente inchinarmi.

Di V.E.

Umiliss. Dev. e Obblig. Servidore

Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Torquato Tasso, discendente dall'illustre famiglia de' Torreggiani, signori di Milano e di altre città della Lombardia, nacque in Bergomo li 11 marzo del 1544. Nell'età di sei mesi egli esprimevasi in modo che facevasi intendere. Nella sua infanzia ridere non fu mai veduto, e piangere poche volte; né mai vi fu bisogno di batterlo o di correggerlo, obbediente sempre ed esatto ne' suoi studi e ne' suoi doveri. Di tre anni fu mandato alle prime scuole, e di quattro principiò i suoi studi sotto la disciplina dei Gesuiti. Levavasi egli ordinariamente col sole, e prima ancora talvolta, per l'impazienza di applicarsi allo studio. Appena toccò i sett'anni, principiò a comporre dei versi, e fece delle orazioni che recitò in pubblico con una franchezza ammirabile. Di dodici anni terminò gli studi di belle lettere. Sapeva perfettamente il latino ed il greco; e possedeva tutte le regole della poetica, della rettorica e della logica; ma lo studio suo prediletto fu quello dell'etica, che è la scienza dei buoni costumi. Portossi a Padova ai pubblici studi, e vi fece tali progressi, che nell'anno diciassettesimo sostenne pubbliche tesi di filosofia, di teologia, e di jus civile e canonico; ma con tutto questo, malgrado ancora le proibizioni del Padre, si attaccò estremamente al diletto della poesia. Nell'anno 1565 passò in Ferrara, chiamato colà dal Duca Alfonso e dal Cardinal d'Este, ov'ebbe un appartamento assai comodo nel Palazzo Ducale, ed ivi lavorò la sua celebre Gerusalemme liberata, e molte altre opere sue al mondo letterato palesi. Nel 1572, in compagnia del Cardinale suddetto, passò in Francia; e questo viaggio non gl'impedì il proseguimento del suo Poema; poiché viaggiando, ed a cavallo ancora, formava di quando in quando delle bellissime ottave. Arrivato a Parigi, ebbe dagli uomini dotti di quella Nazione segni parecchi di molta stima, e il Re medesimo Carlo IX mostrò di avere per lui moltissima benevolenza. Ritornato a Ferrara, pieno di meriti e di virtù e di applausi, principiarono le sue disgrazie. S'innamorò Torquato perdutamente; e la sua bella aveva nome Eleonora. Tutti quelli che hanno letto la vita di sì grand'uomo, scritta in vario modo da vari autori, sapranno bene chi fosse quella Eleonora di cui Torquato si accese, e che per degni rispetti ho dovuto io contentarmi di farla credere una Dama di Corte della Duchessa, e figurandola la favorita del Duca, far che in lui operasse la gelosia, quel che eseguì per altra cagione contro lo sventurato Poeta. Le tre Eleonore, da me introdotte nella Commedia, non sono inventate a capriccio, per prepararmi la ragion dell'equivoco; ma la stravaganza di tre simili nomi in un palazzo medesimo la trovo autenticata dal Dizionario Istorico del Moreri, all'articolo Tasse, con questi precisi termini: Il y avoit alors à la Cour de Ferrare trois Eléonores, également belles et sages, quoique de différente qualité, etc. Torquato fece dei versi in lode di una delle tre Eleonore, ma non specificando cosa che una più dell'altra individuasse, lasciò lungo tempo in dubbio qual fosse quella che il cuore gli avea incatenato. Con questa notizia storica cercai qual fosse la poesia che produsse l'equivoco, e fra i suoi Madrigali uno ne ritrovai che potrebbe esser desso, parlando appunto di una Eleonora ch'egli ama, ed è quello che leggesi nella prima scena della Commedia, ove fo vedere Torquato al tavolino, nell'atto medesimo di comporlo.

Tornando alla vita del Tasso, nell'età di trentanov'anni terminò la Gerusalemme, e gli fu stampata furtivamente, senza ch'ei potesse darle l'ultima mano, di che nella Commedia fo ch'ei si lagni, trovandomi anch'io parecchie volte nel caso istesso. Questo Poema ebbe sì universale l'applauso, che fu tradotto in latino, in francese, in ispagnuolo, in arabo, in turco e in quasi tutti i vernacoli delle varie lingue italiane; ma ciò non ostante l'attaccarono fieramente varie persone critiche, specialmente nella purità della lingua; e queste sono da me figurate nel Cavaliere del Fiocco. Quantunque uomo grande il Tasso ch'essere dovea superiore alle critiche, si lasciò condurre dalla passione, e volle correggere e riformare il Poema suddetto, dandogli il titolo di Gerusalemme conquistata, in che molto tempo ha perduto, e la fantasia gli si è gravemente alterata. Era melanconico di natura, collerico ed impetuoso. Si battè in un duello, e restò superiore dell'inimico; ma siccome il Duca glielo avea proibito, fu costretto partire e rifugiossi in Torino. Dopo un anno tornò in Ferrara per sua sventura; si accrebbe l'amor suo, e fra questa passione, che non poteva senza pericolo manifestare, e fra le persecuzioni degl'invidiosi e malevoli, gli si sublimò l'ippocondria a segno, che pareva di tratto in tratto aver perduto il chiaro lume dell'intelletto. Il Duca colse da ciò il pretesto per chiuderlo nell'ospitale, ove fu trattenuto per qualche tempo, e da dove si liberò per le preghiere di Vincenzo Gonzaga. Roma lo desiderò ardentemente, preparandogli la corona d'alloro, che dopo il Petrarca ad altri non era stata concessa. Vi andò da buoni amici sollecitato, ma appena giunto colà, sopraggiunse la morte a terminare il corso delle sue glorie terrene, cogliendolo nell'età di anni cinquantauno. Egli aveva un temperamento assai vigoroso, atto a tutti gli esercizi del corpo; ma pallido in viso, e consumato assai dallo studio. Il suo talento insigne, e le opere grandi ch'egli ha prodotto al mondo dovevano renderlo più fortunato; ma egli, o poco curante dei comodi della vita, o disgraziato per qualche sua debolezza, non ebbe la giusta ricompensa de' suoi sudori.

Famosa è la contesa della sua patria fra i Bergamaschi e i Napolitani. Quelli si fondano per essere stato il padre suo, Bernardo di nome, uomo parimenti di lettere, Bergamasco di nascita non meno che per l'origine; questi per creder nato Torquato medesimo in Sorriento, città del Regno di Napoli, colà portatasi la Madre sua già incinta, per visitare una sua germana. Ho introdotta io pure nella Commedia la disputa delle due nazioni su questo articolo, il che non solo pone in veduta la verità dell'istoria, ma forma il ridicolo della rappresentazione.

Il nostro Tasso è tanto celebre per tutto il mondo, che pochi sono quelli che non lo conoscano e non lo esaltino. I Veneziani più di tutti lo sentono tutto il dì passare di bocca in bocca dal primo rango de' suoi cittadini sino all'infimo della plebe. Non vi è persona che non reciti o non canti i versi della Gerusalemme; e questa ha dato motivo a moltissime teatrali rappresentazioni, e tutti gli anni vedevasi sui nostri Teatri una specie di tragicommedia dal suo Poema estratta, ed il suo nome era sempre dal popolo meritamente acclamato. M'invogliai, dopo tanto tempo, di mettere sulla scena l'Autor medesimo, oggetto delle pubbliche acclamazioni, e mi consolai moltissimo veggendo bene accolta dall'universale la mia intrapresa. Considerato Torquato Tasso nella disavventura degli assalti suoi ippocondriaci, mi somministra un carattere comico particolare. Non mi riuscì facile condurlo a buon termine; poiché internarsi nella verità di un tal carattere estraordinario non è cosa comune. Mi facilitò assaissimo la riuscita l'esser io soggetto di quando in quando agli assalti dell'ippocondria, non per la Dio grazia al grado di quei del Tasso, ma sensibili qualche volta un po' troppo, e familiari a tutti quelli che si consumano al tavolino. Ho di buono, che come il Tasso non m'innamoro, e che delle critiche appassionate non fo quel conto che egli faceva.


PERSONAGGI

Torquato TASSO poeta del Duca di Ferrara

Don GHERARDO cortigiano del Duca

Donna ELEONORA moglie di don Gherardo

La Marchesa ELEONORA vedova, dama d'onore della Duchessa

ELEONORA cameriera della Marchesa

Don FAZIO napolitano

Il CAVALIER DEL FIOCCO cruscante

Il Signor TOMIO([1]) veneziano

PATRIZIO romano

TARGA servitore

La Scena si rappresenta in una camera di Torquato, nel Palazzo del Duca di Ferrara.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Torquato solo, al tavolino, pensando.

TOR.

Muse, canore Muse, Amor, soave foco, (alzandosi.)

Umile a voi mi volgo, voi nel grand'uopo invoco.

Ho gl'inimici a destra, che all'onor mio fan guerra:

A sinistra ho colei che co' begli occhi atterra.

M'insidiano la pace, m'insidiano la vita:

Soccorretemi, o Muse, dammi, Cupido, aita.

Scrivasi. E che? si scriva contro un nemico audace.

No. Di colei si scriva, che mi tormenta e piace.

Che se torbida invidia m'affanna e m'addolora,

Conforto tu mi rechi, bellissima Eleonora.

A te finor non dissi, ch'io t'amo e ch'io sospiro:

Tacito nutro il fuoco, smanio, peno, deliro.

De' miei deliri il mondo s'accorge, e mi deride,

Ma ignota è la cagione che me da me divide.

Se a cogliere giugnessi delle mie pene il frutto,

Racquisterei la mente, o impazzirei del tutto,

Ché ambe cagion possenti, onde ragion si scema,

Son l'estremo cordoglio e l'allegrezza estrema.

Sfogati, cuor ritroso. Di lei che non ha eguale,

Canta, ragiona, scrivi, falle onor: Madrigale (scrivendo.)

Cantava, in riva al fiume,

Tirsi, d'Eleonora,

E rispondean le selve e l'onde, onora,

E l'acque insieme e i rami:

Or chi fia che l'onori, e che non l'ami?

Sotto il nome di Tirsi canto d'Eleonora;

Fingo che in varie parti l'Eco risponda: onora.

Se questi versi miei la luce un dì vedranno,

I critici indiscreti che diran? che faranno?

Coi lirici miei carmi seguiranno il sistema

Con l'epico tenuto mio sudato poema?

Cara Gerusalemme, cara mia Liberata,

Epiteto novello avrai di Conquistata?

Sì, questa il mondo vegga sperienza d'intelletto,

Formar nuovo poema sullo stesso soggetto;

E i critici sien paghi d'aver coi lor clamori

Turbati i miei riposi, spremuti i miei sudori.

Stanza del canto quinto, ch'ora del sesto è terza,

Negli ultimi due versi dai critici si sferza:

Che nel mondo mutabile e leggiero

Costanza è spesso il variar pensiero.

Dicasi: che nel secol mutabile e leggiero.

SCENA SECONDA

Don Gherardo ed il suddetto.

GHE.

Componete?

TOR.

Correggo.

GHE.

Impazzirete.

TOR.

È vero. (getta la penna, e s'alza.)

GHE.

Posso veder?

TOR.

No ancora.

GHE.

Vi prego, qualche cosa.

TOR.

Frenate la soverchia avidità curiosa.

GHE.

Nel veder, nel sapere, ho tutto il mio diletto.

TOR.

Quest'è in voi, compatite, stucchevole difetto.

GHE.

La passion del sapere è naturale in noi.

TOR.

Saper con discrezione. Tutto ha i limiti suoi.

GHE.

Dunque voi non volete ch'io veda niente, niente?

TOR.

Per carità... La testa mi scaldo facilmente.

Per or non m'inquietate; lo vederete poi.

GHE.

Sarò il primo?

TOR.

Il sarete.

GHE.

Ben, mi fido di voi.

Ma ditemi soltanto, s'è ver quello ch'io credo,

Che riformate il vostro bellissimo Goffredo.

TOR.

Sì amico, è ver pur troppo: stanco la mente mia,

Sol de' critici in grazia.

GHE.

Cotesta è una pazzia.

TOR.

Il Cavalier del Fiocco, l'acerrimo cruscante,

Fin qui è venuto a farmi il critico, il pedante;

E tanto a danno mio, tanto ha egli fatto e detto,

Che puote il mio poema far passar per scorretto.

Il Duca mio signore protegge il mio nemico:

Di lui parlar non oso, il destin maledico.

Pochi ignoranti, ch'hanno l'adular per mestiere,

Sogliono far per gala la corte al forestiere,

Ed ei l'adulazione paga d'egual moneta;

L'un dando all'altro il nome d'altissimo poeta,

Si esaltan fra di loro, indi, non so il perché,

Le satire d'accordo scaglian contro di me.

SCENA TERZA

Targa e detti.

TAR.

Signor.

TOR.

Che cosa c'è?

TAR.

Sua Altezza vi domanda.

TOR.

Sì, v'andrò quanto prima.

GHE.

Ite pur, s'ei comanda.

Per me non v'arrestate; v'attenderò curioso

Di saper che ha voluto.

TOR.

(Eccolo qui il noioso.

Vuol saper tutto).

TAR.

Andiamo, che sua Altezza vi aspetta.

TOR.

Andrò.

TAR.

Tosto vi vuole.

TOR.

Anderò, non ho fretta.

Ah maledetto il punto, che in Corte io son venuto!

Venero il mio signore, ma a lui non mi ho venduto.

Giovin di quattro lustri venni invitato in Corte;

Sperai co' miei sudori fabbricar la mia sorte.

Lo studio e la fatica riposo unqua non diemme,

Ott'anni ho consumati nella Gerusalemme;

E il mio signore, a cui l'opra sacrar si vede,

Qual diede a' miei sudori generosa mercede?

Misero me! per lui faticato ho l'ingegno,

E d'un clemente sguardo appena mi fa degno.

Gli hanno i nemici miei avvelenato il cuore:

Mi tratta da nemico il Prence, il protettore.

Non so il perché... può darsi... ma no, non è capace.

Facile ascolta, e crede... Chetati, labbro audace.

Vadasi a lui... ma s'egli?... Egli è di me il padrone.

Se il nemico m'insulta? Mi saprà far ragione.

Qual ragion, qual ragione? Perfidi, l'ingannate...

Oimè! l'alma delira. Vado a lui: perdonate. (parte.)

SCENA QUARTA

Don Gherardo e Targa,

TAR.

Del povero padrone non so che cosa sia;

Sei, sette volte il giorno lo vedo in frenesia

Egli non ha perduto della ragione il lume,

Ma tetro divenuto mi pare oltre il costume.

GHE.

Giovine egli era ancora, era in età puerile,

Che gravità mostrava sostenuta e virile.

Narrano quanti amici finor l'han conosciuto,

A ridere giammai non averlo veduto.

Questo suo umor patetico principio ha dalle fasce;

Difficile è la cura d'un mal con cui si nasce.

TAR.

È vero, anch'io il proverbio dir più volte ascoltai:

Quando si nasce matti, non si guarisce mai. (parte.)

SCENA QUINTA

Don Gherardo solo.

GHE.

Suol lagrimosi effetti produr melanconia.

Misero chi è soggetto al mal di fantasia!

Io almen l'indifferenza ebbi dal cielo in dono:

Vada ben, vada male, sempre lo stesso io sono.

Forza è dir di Torquato, che la bile lo prema,

Or che del suo Goffredo cambiar vuole il poema.

Curiosità mi sprona veder com'egli è accinto...

Il duodecimo canto fatto è il decimoquinto. (va leggendo sopra vari fogli che trova sul tavolino.)

Era la notte, e non prendean ristoro

Col sonno ancor le faticose genti,

Ma qui il rimbombo del martel sonoro

Faceva i Franchi alla custodia intenti.

Ha scassato, ha cambiato. Il cambio eccolo qui,

Vediam la correzione. Ora dice così:

Ma qui vegghiando nel fabbril lavoro,

Stavano i Franchi alla custodia intenti.

Ecco dove si perde, chi di sé ha poca stima:

La mutazion peggiora: meglio diceva in prima.

E rintegrando le già rotte mura,

E de' feriti era comun la cura.

E rintegrando gian le rotte mura,

E degli egri s'avea pietosa cura.

Spiacemi di Torquato l'inutile lavoro;

Vedo che, per far meglio, vuol perdere il decoro.

Questa non parmi ottava. Leggiamo. È un madrigale.

Che un amico lo vegga non dee aversene a male.

Cantava, in riva al fiume, Tirsi d'Eleonora...

Che sento? E rispondean le selve e l'onde, onora,

E l'acque insieme e i rami. Costui di chi favella.

Or chi fia che l'onori, e che non l'ami? Oh bella!

Quel che Torquato turba, son l'amorose doglie.

Amante è d'Eleonora? sarebbe ella mia moglie?

Due altre ve ne sono in Corte di tal nome:

Non spiega il madrigale né il grado, né il cognome.

Ma una è la Marchesa, del Duca favorita;

L'altra è la damigella: non sarà preferita.

Torquato, il cuor mi dice, amante d'Eleonora,

Mi fa l'onor sublime d'amar la mia signora.

Dottissimo poeta, una finezza è questa,

Che può d'estro poetico aggravarmi la testa.

Tu sei, per quel ch'i' vedo, per amor melanconico,

Io non vorrei d'intorno di gelosia il mal cronico.

Finora è un mio sospetto. Forse ciò non sarà.

Ecco, sia maladetta la mia curiosità.

Fogli mai più non leggo, novità più non curo.

La moglie mia conosco. Vivo di lei sicuro.

Vorrei però sapere con queste rime sue

Qual altra il buon Torquato onora delle due.

Voglio portarli meco questi graziosi carmi,

Voglio copiarli, e voglio di tutto assicurarmi.

Non sarò queto mai, se il ver non si saprà.

Questo è zelo d'onore, non è curiosità. (parte.)

SCENA SESTA

Anticamera della Duchessa.

La Marchesa Eleonoraavendo nelle mani il poema del Tasso in quarto, e donna Eleonora.

MAR.

Grazie alla sorte, alfine da' torchi uscì perfetto

Il poema del Tasso da lui stesso corretto.

In sei mesi di tempo ne uscir quattro edizioni,

Ma sui testi rapiti, pieni di scorrezioni.

Il povero poeta, che tanto ha in quel sudato,

Penò contro sua voglia mirandolo stampato;

Ed or sarà famosa, grata sarà ad ognuno

Questa edizion del mille cinquecento ottantuno.

D.EL.

In fatti meritava dal mondo più rispetto

Opera che all'Italia accresce il buon concetto;

Dagli editor stampata finor fu con malizia,

Non so se per impegno, o pur per avarizia.

MAR.

Questo, per chi lo gusta, in oggi è il miglior spasso,

Ciascun che sappia leggere, legge e rilegge il Tasso.

Il Duca signor nostro, dotto, prudente e grave,

Meco passando l'ore, gusta le dolci ottave,

Gara tra noi facendo chi con maggior franchezza

Sa rilevar dei versi lo spirto e la bellezza.

D.EL.

Ditemi in confidenza, come vi piace, amica,

Stanza che, s'io non erro, mi par che così dica:

Teneri sdegni, e placide e tranquille

Repulse, e cari vezzi, e liete paci,

Sorrisi, parolette e dolci stille

Di pianto, e sospir tronchi, e molli baci.

MAR.

Tenero amor si sente ne' vivi carmi espresso.

D.EL.

Dite, tra 'l Duca e voi li ripetete spesso?

MAR.

Donna Eleonora, intendo. Pungermi voi cercate.

D.EL.

Pungervi? la mezzana vi farò, se 'l bramate.

Vedova siete voi, vedovo è il Duca ancora.

Dama nasceste, il Prence vi venera e vi adora:

Gran cosa non sarebbe se anch'ei, per viver queto,

Volesse fare un dolce matrimonio segreto.

MAR.

D'altro parliamo, amica: io son, per suo favore,

Della Duchessa madre damigella d'onore.

A tanto non aspiro, so che tanto non merto;

Coi versi di Torquato mi spasso e mi diverto;

E i versi del poeta mi dan tanto piacere,

Che in leggerli talora spendo le notti intere.

D.EL.

Marchesa, lo sapete, io son d'allegro umore:

Vi piace il suo poema, o piacevi l'autore?

MAR.

Vi dirò: dell'autore ho qualche stima, è vero,

Ma è troppo melanconico, troppo in volto severo;

Né so come prodotte abbia sì dolci rime,

Un uom che nel vederlo nera mestizia imprime.

Ammiro il suo talento, gradisco i carmi sui,

Ma egual piacer non trovo a conversar con lui.

D.EL.

Io, io lo sveglierei, se non fosse un riguardo.

MAR.

Temete che geloso di voi sia don Gherardo?

D.EL.

Mio marito, per dirla, non credo sia geloso;

Si fida, e può fidarsi. Ma è piuttosto curioso.

Vuol veder, vuol sapere. È ver che guarda e tace;

Ma ch'egli tutto sappia, qualche volta mi spiace.

SCENA SETTIMA

Eleonora e dette.

ELE.

Serva di lor signore.

MAR.

Che volete, Eleonora?

D.EL.

Eleonora si chiama ella pur?

ELE.

Sì signora.

Fecer tre nomi eguali maraviglia anche a me.

Chi paga la merenda, ora che siamo in tre?

MAR.

Via, che volete ?

ELE.

È quivi il Cavalier del Fiocco.

MAR.

Di Torquato il nemico. (a donna Eleonora.)

D.EL.

Di lui nemico? sciocco!

MAR.

Digli che venga.

D.EL.

Oibò.

MAR.

Godrete il bell'umore.

D.EL.

Sentite, io non mi tengo, se strapazza l'autore.

ELE.

Anch'io tengo da lui; son proprio innamorata:

Trovo nei dolci versi la manna inzuccherata.

Bene o male, li leggo anch'io la notte e 'l dì;

Oh, mi piace pur tanto, quando dice così:

Sani piaga di stral piaga d'amore,

E sia la morte medicina al cuore. (parte.)

SCENA OTTAVA

La Marchesa Eleonora e donna Eleonora.

D.EL.

Come sapete voi che questo forestiero

Sia nemico del Tasso?

MAR.

Lo so; pur troppo è vero.

Male di lui l'intesi a ragionar col Duca.

Ho timor che l'ascolti.

D.EL.

Sarà una fanfaluca.

Il Prence lo conosce, n'ha della stima, e poi

Basta, perch'ei lo stimi, che lo stimiate voi.

MAR.

Amica, v' ingannate.

D.EL.

Basta, su ciò non tresco.

MAR.

Il Cavalier sen viene.

D.EL.

Venga, venga: sta fresco.

SCENA NONA

Il Cavaliere del fiocco e dette.

CAV.

Servo di lor signore.

MAR.

Serva sua.

CAV.

Divotissimo.

Che avete per le mani?

MAR.

Il Goffredo.

CAV.

Bellissimo! (con ironia.)

D.EL.

Par che questo bellissimo detto l'abbiate ironico.

CAV.

Non meno il can per l'aia; parlar soglio laconico.

D.EL.

Voi sprezzate Torquato?

CAV.

Non ho negli occhi il fignolo.

Ha la lucerna sua poc'olio, e men lucignolo.

D.EL.

Bellezze ha ne' suoi versi, che non han par.

CAV.

Non veggole.

MAR.

Colto è lo stil.

D.EL.

Purgato.

CAV.

Avete le traveggole.

Voci ha latine e barbare, egli è lombardo fracido.

Uggia ci mette in leggerlo stile confuso ed acido.

Quel suonare a ritratta è cosa intollerabile.

Lampilli per zampilli: bel cambiamento usabile!

Quando una cosa grave prende il Tasso a descrivere,

Parole madornali suol usar nello scrivere.

Latinismi a bizzeffe mesce scrittor ridicolo.

Che gli sieno imburchiati non vi sarà pericolo.

In favor di Torquato odo talor decidere,

Ma decision lombarde i cruscanti fan ridere.

Ha nello scilinguagnolo un difetto epidemico,

Chi non è della Crusca dichiarato accademico.

MAR.

(Che dite?) (piano a donna Eleonora.)

D.EL.

(Ira mi desta).

MAR.

(Prendiamolo per gioco).

SCENA DECIMA

Don Gherardo e detti.

GHE.

(Che parlin di Torquato? voglio sentirli un poco).

CAV.

Ma ritorniamo a bomba.

D.EL.

A bomba?

CAV.

Sì, al proposito.

Tosto nel primo verso v'incalma uno sproposito.

Canto l'armi pietose. Se dritto il ver si esamina,

Pietosa non può dirsi cosa che non ha l'anima;

Dicendo l'armi pie, detto avrebbe benissimo.

Gli epiteti confonde lombardo ignorantissimo

D.EL.

Orsù, signor cruscante, signor infarinato,

Favorisca per grazia di rispettar Torquato.

Parmi, per dir il vero, un poco troppo audace

Chi sprezza in casa d'altri cosa che preme e piace.

GHE.

(Preme e piace Torquato dunque alla mia signora.

Sarà del buon poeta l'adorata Eleonora). (da sé.)

MAR.

Sì, Cavalier, voi troppo siete in lodar restio:

Torquato è un uom valente, e lo difendo anch'io.

GHE.

(A confondermi torno).

CAV.

Per lui, signore, io dubito

Passione in voi soverchia.

D.EL.

Tacete.

CAV.

Taccio subito.

Lo so che anfana a secco, so che in arena semina,

Chi l'ostinazione vuol guarir nella femmina. (parte.)

SCENA UNDICESIMA

La Marchesa Eleonora, donna Eleonora, don Gherardo.

MAR.

Donde crediamo noi tant'astio in lui derive?

D.EL.

Invidia è che lo muove contro d'un uom che scrive.

Perché quattro riboboli sa unire in lingua tosca,

Per maestro di lingua vuol che ognun lo conosca;

E se termine trova, che a lui rassembri nuovo,

Lo critica, e pretende trovare il pel nell'uovo.

Ripieno è di proverbi, usa parole sdrucciole;

Ai gonzi per lanterne suol vendere le lucciole.

Quei che con fondamento non han studiato mai

Lodano questi tali chiamati parolai;

Ma gli uomini, di cui le teste non son zucche,

Distinguere san bene chi spaccia fanfalucche.

GHE.

(Non si può dir di più. Ella è la prediletta).

MAR.

È vero che i Lombardi non han lingua perfetta,

Ma studiano gli autori, scelgon di loro il buono;

Dai vizi della lingua spregiudicati sono.

Non dicon la mi casa, invece della mia.

La mana per la mano non corre in Lombardia.

Scrive ben, parla bene, quivi ancor chi ha studiato;

Scrive ben, parla bene sovra d'ognun Torquato.

GHE.

(E questa in guisa parla, che di lui pare accesa.

Curiosità mi sprona). M'inchino alla Marchesa.

MAR.

Serva di don Gherardo.

D.EL.

Serva, signor consorte.

Quant'è che si trattiene nascosto in queste porte?

GHE.

Io?

D.EL.

So il costume.

GHE.

Oibò ! di me parlate male.

MAR.

V'è novitade alcuna?

GHE.

Vi porto un madrigale.

D.EL.

Di chi?

GHE.

Di chi? del Tasso.

D.EL.

Sarà una cosa bella.

MAR.

Lo sentiremo?

GHE.

Sì, lo sentirà ancor ella. (a donna Eleonora.)

Lo leggerò. Sentite: Cantava, in riva al fiume,

Tirsi, d'Eleonora. Ei seguita il costume,

Cambiando il proprio nome, dalli poeti usato;

Finge che Tirsi parli, e favella Torquato.

MAR.

Basta così, non voglio sentir altro da voi;

Interpretar chi scrisse può solo i carmi suoi,

Nel leggere tai versi vi siete a me rivolto:

Quel che nel cuor pensate, vi si ravvisa in volto.

Apprezzo di Torquato il merito sublime;

Giust'è che l'uomo grande si veneri e si stime.

Sola non son che ammiri quel che risplende in lui;

A me non son per questo diretti i carmi sui.

Se parla il madrigale, se canta d'Eleonora,

Altre di cotal nome qui ve ne sono ancora. (parte.)

SCENA DODICESIMA

Donna Eleonora e don Gherardo.

GHE.

Udiste? canta il vate d'una Eleonora bella.

Se non è la Marchesa...

D.EL.

Chi sa ch'io non sia quella?

GHE.

Esser vi piacerebbe dal poeta lodata?

D.EL.

Piaccion le lodi a tutti.

GHE.

Bravissima, garbata.

Godo trovare in lei tanta sincerità,

Che uguagli il pregio eccelso di lodata beltà.

D.EL.

Voi parlate da scherno, io davver vi rispondo:

Torquato è tal poeta, che non ha pari al mondo.

Felice quella donna che di sue lodi è degna!

Egli co' vivi carmi a rispettarla insegna.

Quantunque lusinghiera, nata di stirpe infida,

Desta amor, desta invidia all'altre donne Armida.

E Clorinda infelice, allor che langue e more,

In chi legge i bei carmi, desta pietade e amore.

Se lo scrittor felice di me formasse istoria,

Voi pur sareste meco a parte di mia gloria.

Ma il dolce madrigale non parlerà di me;

Son parecchie Eleonore: in Corte siamo tre.

L'una serve, egli è vero; di lei non canterà.

L'altra è amata dal Duca, rispettarla saprà.

Dir ch'io sia non ardisco; è ver, son maritata:

Ma puote in ogni stato la donna esser lodata. (parte.)

SCENA TREDICESIMA

Don Gherardo solo.

GHE.

Ho inteso e non ho inteso. Ognuna delle due

Ha sovra il madrigale le pretensioni sue.

Dubito che sia peggio averlo letto; avea

Curiosità d'intendere... Ma so quel che sapea.

Non veggo a chi Torquato rivolga i suoi pensieri;

Ma so che 'l gradirebbe mia moglie volentieri.

Par che di gloria solo senta nel cuore il caldo:

Esser vorrebbe Armida, ma temo di Rinaldo.

Temo, che se Clorinda nell'eroismo eguaglia,

Non trovi il suo Tancredi, che la sfidi a battaglia.

Per lo più queste donne che leggono poemi,

Apprendono d'amore le leggi ed i sistemi.

Fa il poeta il mezzano talor co' carmi sui,

Ma credo che Torquato lo voglia far per lui;

No, non sarà; sospetto aver non vuò, lo dico.

Della mia cara pace non voglio esser nemico.

Curiosità malnata, vanne da me repente;

Vuò, come dice il Tasso, passarla allegramente:

E fra pochi sedendo a mensa lieta,

Mescolar l'onde fresche al vin di Creta. (parte.)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Torquato e Targa servitore.

TOR.

Vieni qui... la mia spada. (a Targa.)

TAR.

Signor...

TOR.

La spada mia. (crescendo nello sdegno.)

TAR.

Con chi l'avete?

TOR.

Presto.

TAR.

Questa è un'altra pazzia.

TOR.

Temerario!

TAR.

M'avete detto ch'io vi avvertisca,

Quando mi par, signore, che il cervello patisca.

TOR.

Ah, dell'ira si freni l'impeto micidiale.

Ritirati, per ora.

TAR.

Sì, signor, manco male. (si ririra.)

TOR.

A sé mi chiama il Duca; fa che l'udienza aspette;

Prima di me all'udienza il Cavaliere ammette.

Entro: mi guarda appena; poi, con severo ciglio,

Che di Ferrara io parta dar mi vuol per consiglio

Consiglio d'un sovrano, comando è in caso tale.

Stelle! si vuol ch'io parta? Che mai fatto ho di male?

È ver che d'una colpa porto macchiato il cuore;

Ma noto esser non puote il mio segreto amore.

E al mio signor, se note fosser le mie catene,

Quella per cui sospiro, a lui non appartiene.

Ma a figurar ragioni perché invan m'affatico?

Il cuor del mio sovrano sedotto ha il mio nemico

Perfido! a' tuoi disegni troncar saprò la strada:

Targa, Targa.

TAR.

Signore.

TOR.

Portami la mia spada.

TAR.

La spada?

TOR.

Sì, fa presto.

TAR.

Ecco qui, siam da capo.

TOR.

Non mi stancar.

TAR.

Badate, torna a girarvi il capo.

TOR.

Misero me! La bile sento che mi divora.

TAR.

Un bicchier d'acqua fresca.

TOR.

Vattene alla malora.

TAR.

Un po' di sangue...

TOR.

Indegno, vanne, ch'io non t'ammazzi.

TAR.

Comincio a dubitare che i poeti sian pazzi. (parte.)

SCENA SECONDA

Torquato solo, poi Targa.

TOR.

No, fuor di me non sono; no, non è questa mia,

Che m'agita e m'accende, dichiarata follia.

Ma giugnere all'eccesso potrebbe a poco a poco,

Se a spegner io tardassi nel sen dell'ira il foco.

Amor, tu mi soccorri; porgimi, Amore, aita.

Oimè! dal mio nemico ho da impetrar la vita?

Sì, l'unico conforto son gli amorosi versi,

Dolce rimedio al cuore, benché d'amaro aspersi.

Leggansi que' poc'anzi all'idol mio diretti:

Divertasi la mente nel renderli corretti. (va al tavolino, cercando il madrigale.)

Dov'è il foglio? Ma dove? Più nol ritrovo. Oimè!

Targa, Targa.

TAR.

Signore.

TOR.

Il madrigal dov'è?

TAR.

Il madrigal?

TOR.

Sì, quello.

TAR.

Non so che cosa sia.

TOR.

Pochi versi rimati, una breve poesia.

TAR.

Una pentola, un piatto vi darò, se 'l volete;

Ma se poesie cercate, a me non le chiedete.

Quando voi domandato m'avete il madrigale,

Credeva, con rispetto, voleste un orinale.

TOR.

Chi è stato qui?

TAR.

Nessuno.

TOR.

Testaccia maledetta!

Dov'è il foglio? (lo prende per un braccio.)

TAR.

Nol so, non me n'intendo. (con timore.)

TOR.

Aspetta. (lo lascia.)

Stato v'è don Gherardo?

TAR.

Sì, don Gherardo, è vero.

TOR.

Egli l'avrà...

TAR.

Pigliato.

TOR.

No, ch'egli è cavaliero.

Tu dei renderne conto. (lo afferra.)

TAR.

Signor, per carità.

TOR.

Potrebbe averlo preso...

TAR.

Per sua curiosità.

Sapete pur ch'egli è curioso, curiosissimo.

TOR.

Non è vano il sospetto.

TAR.

Sospetto fondatissimo.

TOR.

Cercami don Gherardo.

TAR.

Sì signore. (in atto di partire.)

TOR.

Ma no.

(L'amor per Eleonora come nasconderò?) (da sé.)

TAR.

Picchiano, con licenza.

TOR.

Deh, non abbandonarmi.

TAR.

Torno. (Mai più poeti, se giungo a liberarmi). (da sé, e parte.)

SCENA TERZA

Torquato solo, poi Targa.

TOR.

Del consiglio del Duca chi sa cagion non sia

Il madrigale, in cui svelo la fiamma mia?

Geloso è don Gherardo del nome d'Eleonora,

Geloso esser il Duca può di tal nome ancora.

L'uno la moglie, l'altro la favorita ha in cuore:

Ambi di me nemici resi da un solo amore.

Se mi dichiaro, acquisto d'uno la grazia, è vero;

Ma l'altro da me offeso sarà meco più fiero.

Parmi miglior consiglio lasciarli nell'inganno,

Dividere il sospetto, dividere l'affanno,

E procurar, per quanto potrà la forza mia,

Scacciar dell'un dell'altro dal cuor la gelosia.

TAR.

Signor, siete richiesto.

TOR.

Chi mi vuole?

TAR.

Una bella

Che chiamasi Eleonora.

TOR.

Qual di lor? (con agitazione.)

TAR.

La donzella.

TOR.

(Oimè, scuoter m'intesi tutte le fibre al petto). (da sé.)

TAR.

Cosa ho da dirle?

TOR.

Aspetta. (pensando.)

TAR.

Picchiano.

TOR.

Aspetta.

TAR.

Aspetto.

TOR.

Dille che venga.

TAR.

Bene. E quel ch'ora ha picchiato?

TOR.

Chi sarà?

TAR.

Lo vedremo.

TOR.

Di' che non son tornato.

TAR.

Ho inteso, sì signore; mi basta una parola.

(L'amico coll'amica vuol star da solo a sola). (da sé, e parte.)

SCENA QUARTA

Torquato, poi Eleonora.

TOR.

Costei, che or viene a caso, giovi ai disegni miei,

Credasi che i miei carmi favellino di lei.

Ma io del mondo in faccia m'avvilirò a tal segno?

Anche all'onor del cuore provvederà l'ingegno.

ELE.

Serva, signor Torquato.

TOR.

Buondì, Eleonora bella.

ELE.

Bella a me?

TOR.

Bella a voi.

ELE.

Signor, io non son quella.

Tutto il bello ch'io vanto, è d'Eleonora il nome

Ma non ho, come l'altre, bel viso e belle chiome.

Di signoria mi manca il prezioso onore,

Solo vantar mi posso di schiettezza di cuore;

Onde, se non per altro, almeno pel cuor mio

Degna di quattro versi potrei essere anch'io.

TOR.

(Don Gherardo indiscreto! Del madrigale è intesa). (da sé.)

ELE.

(D'esser un po' lodata proprio mi sento accesa). (da sé.)

TOR.

A queste stanze mie qual motivo vi guida?

ELE.

Una question si brama, che da voi si decida.

Un certo madrigale parla d'Eleonora:

Alcuno alla Marchesa l'applica, mia signora;

Alcun di don Gherardo alla consorte: ognuna

D'esser da voi stimata aspira alla fortuna;

E mandanmi da voi entrambe in confidenza,

A rilevar, se posso, l'arcano e la sentenza.

TOR.

Quel che nel sen racchiudo, non spiego con parole.

Dite alle due Eleonore, ch'elleno non son sole.

ELE.

È ver, di cotal nome ve ne son altre ancora.

Per esempio, ancor io ho il nome d'Eleonora...

Ma da metter non sono in paragon di quelle.

TOR.

Gli occhi dell'uom son quelli che fan le donne belle.

L'amor, la tenerezza, il cuor d'affetti pregno,

Può far qualunque oggetto meritevole e degno.

Tutti siam d'una pasta, ed è mero accidente

Che una sia la padrona, e l'altra la servente.

ELE.

È vero, è un accidente ch'io sia a servir costretta.

Nata son cittadina; mio padre era cornetta.

E a quel che dir intesi, mia madre, se non fallo,

Era di Magnavacca, o di Bagnacavallo.

M'hanno allevato sempre con tutta civiltà;

Mia madre praticava il fior di nobiltà;

E s'ella non moriva da certo mal di gola,

Avrei fatto fortuna sotto la di lei scuola.

TOR.

Forse da miglior sorte non siete assai lontana.

ELE.

Se viveva mia madre, io sarei cortigiana.

Chi sa che non avessi in questa Corte anch'io

Un marito onorato, qual era il padre mio?

Era da tutti amato. Facean finezze ognora

A lui, alla consorte e alla figliuola ancora.

TOR.

(Scorgesi l'ignoranza). (da sé.) Restino i morti in pace;

Voi potrete finezze aver quante vi piace.

ELE.

Da chi?

TOR.

Da chi s'appaga del buon che in voi avete.

ELE.

Dite: son miei quei versi?

TOR.

Vostri son, se volete.

ELE.

Capperi, chi potrebbe ricusare un tal dono?

Sono versi amorosi.

TOR.

Ma in quelli io non ragiono.

ELE.

Chi dunque?

TOR.

Tirsi parla; Tirsi, ignoto pastore.

ELE.

Eh, che voi siete Tirsi.

TOR.

Chi ve lo dice?

ELE.

Il cuore.

Così quella foss'io, che il pastorello adora.

TOR.

Lo può sperar chi il merta.

ELE.

Chi lo merta?

TOR.

Eleonora. (parte.)

SCENA QUINTA

Eleonora sola.

ELE.

Ei me l'ha detto in modo, che quasi giurerei

Che fosse innamorato cotto de' fatti miei.

Perché no? già si sente che un uomo che ha studiato

Non guarda nella donna né il sangue, né lo stato;

Fuori di questo, a dirla, non son delle più brutte,

E fuor della ricchezza, ho anch'io quel che hanno tutte.

SCENA SESTA

Don Gherardo e la suddetta.

GHE.

Or che non vi è Torquato, rimetterò... che vedo?

Che fate qui?

ELE.

Signore, gli altrui fatti non chiedo.

GHE.

Via, via, non v'adirate. Chi vi manda?

ELE.

Nol so.

GHE.

Vi manda la Marchesa?

ELE.

Signor sì, e signor no.

GHE.

Come sarebbe a dire?

ELE.

Come comanda lei.

GHE.

Siate bonina un poco.

ELE.

Che vuol da' fatti miei?

GHE.

Se voi mi dite il vero, perché qui vi trovate,

Uno scudo vi dono.

ELE.

Eh!

GHE.

Davver.

ELE.

Mi burlate.

GHE.

Eccolo qui, tenete.

ELE.

Io vi prendo in parola.

GHE.

Ecco, lo scudo è vostro.

ELE.

(M'ha preso per la gola). (parte.)

GHE.

E ben, per qual motivo siete venuta qua?

ELE.

Vi dirò, m'ha condotta certa curiosità.

GHE.

Il vizio delle donne. E così?

ELE.

Mi premeva

Spiegato un madrigale, che ben non s'intendeva.

GHE.

Qual madrigale?

ELE.

Un certo madrigale amoroso,

Composto da Torquato.

GHE.

Bello?

ELE.

Maraviglioso.

GHE.

Come dice?

ELE.

Non so.

GHE.

Sarebbe questo qui?

ELE.

Come principia?

GHE.

Tirsi...

ELE.

È quello, signor sì.

GHE.

Ma voi del madrigale come avete saputo?

ELE.

La signora Marchesa m'ha detto il contenuto.

Cioè, a me non l'ha detto, ma colla vostra sposa

Intesi favellarne; era perciò curiosa

Di sentir da Torquato la vera spiegazione,

Per veder chi di loro aveva più ragione.

GHE.

E ben, ve l'ha spiegato?

ELE.

Me l'ha spiegato or ora.

GHE.

Di chi parla il poeta?

ELE.

Parla d'Eleonora.

GHE.

D'Eleonora parla, si sente, anch'io lo so.

Parla della Marchesa?

ELE.

Ho paura di no.

GHE.

Ah sì, sì, sarà vero. Ardo di gelosia:

Torquato sarà acceso della consorte mia.

Questo è quel che s'acquista a prendere una sposa,

Che sia di bell'aspetto, disinvolta, graziosa.

A simili perigli, no, non si può star saldi:

La bile mi divora.

ELE.

Signor, la non si scaldi,

Che se il poeta nostro sente d'amore il foco,

Alla di lei consorte molto non pensa, o poco.

GHE.

E a chi dunque?

ELE.

Vi basti saper che non è quella.

GHE.

Ma chi sarà?

ELE.

Non so.

GHE.

Ditelo, gioia bella.

Ditelo a me.

ELE.

Non posso.

GHE.

Un altro scudo.

ELE.

Eh via.

GHE.

Eccolo, ve lo dono.

ELE.

Grazie a vossignoria.

GHE.

E così?

ELE.

Deggio dirlo?

GHE.

Sì! saperlo desio.

ELE.

Sa chi è la favorita?

GHE.

Dite chi è?

ELE.

Son io. (fa una riverenza, e parte.)

SCENA SETTIMA

Don Gherardo, poi Torquato.

GHE.

Come! sentite, dite. Par ch'abbia ai piedi l'ale.

Vorrei saper... due scudi, affé, li ho spesi male.

Può darsi che Torquato sia acceso di costei.

Ma come, quando, dove... tutto saper vorrei.

Eccolo ch'egli viene. Ripongo il madrigale.

Che cos'è questo scritto? qualch'altro originale?

Tondo è il ricco edifizio... Vuò ricavar da lui...

TOR.

Signor, chi v'ha insegnato guardare i fatti altrui?

GHE.

Compatite: v'è noto ch'io son de' versi amante,

Stimo le cose vostre d'ogn'altra cosa innante.

Quella che qua mi porta, non è curiosità;

È amicizia, è passione...

TOR.

Unita a inciviltà.

GHE.

Voi m'offendete, amico, parlandomi così.

TOR.

Dov'è il mio madrigale?

GHE.

Il madrigale è qui.

TOR.

A voi chi diè licenza levarlo da quel loco?

GHE.

Con un par mio, Torquato, voi eccedete un poco.

TOR.

Libero a tutti parlo, se so d'aver ragione.

Non porterei rispetto in tal caso al padrone.

GHE.

Spiacevi che si sappia l'amor che in sen nutrite?

TOR.

Qual amor? io non amo.

GHE.

Eh, che si sa.

TOR.

Mentite.

GHE.

Una mentita a me? Vi corre un bel divario...

TOR.

Perdonate il trasporto; lo so, fui temerario;

Ma i primi moti in seno frenar non mi è permesso.

GHE.

Dell'amicizia in grazia, vi perdono ogni eccesso.

Basta che in ricompensa di mia benevolenza,

Non ricusiate almeno farmi una confidenza.

Qual sia quella che amate, da voi saper io bramo.

TOR.

Amico, questo tasto, pregovi, non tocchiamo.

GHE.

Vi compatisco; in fatti, un uomo come voi,

Impiegar non dovrebbe sì mal gli affetti suoi.

TOR.

(M'annoia). (da sé.)

GHE.

Un uomo dotto, di meriti ripieno,

Amar femmina vile?

TOR.

(Or or disciolgo il freno). (da sé.)

GHE.

Ma l'amate davvero?

TOR.

Basta, per carità.

GHE.

Ditemi sì o no, almen per civiltà.

TOR.

Di quel che a voi non preme, siate curioso meno.

GHE.

Alfin non è gran cosa. Ditemi il ver.

TOR.

Son pieno.

GHE.

D'amor per la ragazza?

TOR.

Di rabbia e di dispetto.

GHE.

Via, sfogatevi meco.

TOR.

(Che tu sii maladetto). (da sé.)

GHE.

Confidatevi a me.

TOR.

Voi stuccato m'avete.

Voi, signor, m'annoiate.

GHE.

Una bestia voi siete.

TOR.

Cessate, don Gherardo, di rendermi molestia,

O vi darò ragione di chiamarmi una bestia.

GHE.

Siete un ingrato.

TOR.

È vero. (fremendo.)

GHE.

Un incivile.

TOR.

Sì.

GHE.

Un mentecatto.

TOR.

Ancora.

GHE.

Un vil.

TOR.

Basta così. (minacciandolo.)

Avvezzo a tali insulti Torquato unqua non fu.

GHE.

Vado via.

TOR.

Sarà bene.

GHE.

E non ci torno più.

TOR.

Meglio assai.

GHE.

Dell'affronto me ne ricorderò.

TOR.

Quando si va, signore?

CHE.

Mai più ci tornerò. (in atto di partire.)

SCENA OTTAVA

Targa e detti.

TAR.

Signore, un forestiero favellarvi desia.

TOR.

Si trattenga un momento.

GHE.

Dimmi: si sa chi sia? (a Targa.)

TAR.

Parmi napolitano.

GHE.

Quand'è arrivato?

TAR.

Ieri.

TOR.

Vattene. (a Targa, che parte.)

GHE.

(Son curioso. Resterei volentieri). (da sé.)

TOR.

Signor, ricever devo, se mi date licenza,

Il forestier.

GHE.

Servitevi con tutta confidenza.

TOR.

Può esser ch'ei non voglia per or conversazione.

GHE.

Venga, parli; il sapete, io non do soggezione.

TOR.

Lo vuò ricever solo. Ve l'ho da dir cantando?

GHE.

Voi mi mandate via.

TOR.

Sì signore, vi mando.

GHE.

So che scherzate, amico, perciò non me n'offendo:

Dovete restar solo, è ver, non lo contendo.

Ma quando il forestiere sia stato un pezzo qui,

Potrò venire allora?

TOR.

Signor no.

GHE.

Signor sì. (parte.)

SCENA NONA

Torquato solo.

TOR.

La sofferenza mia giunta parmi all'eccesso.

Fuori per l'atra bile soglio andar di me stesso.

Sentiami nell'interno moti violenti e strani,

Poco mancò non abbia adoprate le mani.

Chi è di là? S'introduca il forestier. Che vedo?

Don Gherardo con lui? Sarà suo amico, io credo.

SCENA DECIMA

Don Fazio, don Gherardo e detto.

GHE.

Venite pur, signore...

FAZ.

Schiavo allo sì Torquato.

GHE.

Vedrete un uomo grande. (a don Fazio.)

FAZ.

Voi m'avete frusciato. (a don Gherardo.)

TOR.

Signor, lo conoscete quel ch'è con voi venuto? (a don Fazio.)

FAZ.

Da che l'ho dato a balia, più non l'aggio veduto.

TOR.

Don Gherardo, da voi dunque si spera invano...

GHE.

Aspettate un momento. (a Torquato.) Siete napolitano? (a don Fazio.)

FAZ.

Sì signore.

GHE.

Non pare: non siete caricato

Nelle parole vostre.

FAZ.

Aggio un poco viaggiato.

TOR.

Ehi! chi è di là? sediamo.

GHE.

Voglio seder vicino...

TOR.

Don Gherardo...

GHE.

Per grazia, soffritemi un pochino.

TOR.

(Di rompergli la faccia prurito ora mi viene.

Ah, si freni la collera. Non facciamo altre scene). (da sé, siedono.)

FAZ.

Tu sei, Torquato mio, in Sorriento nato;

In Napole t'aveva lo patre generato;

Sia per l'un, sia per l'autro, chiaro se bide e chiano,

Tasso, non v'è che dicere, tu sei napoletano.

GHE.

Dicon sia bergamasco...

TOR.

Chetatevi un momento.

FAZ.

Da Bergamo è lo patre, la matre da Sorriento.

In casa della mamma è nata chissa gioia;

Quella però se dice che sia la patria soia.

TOR.

Signor, sul nascer mio niuno finor pretese;

Merto non ho che vaglia a risvegliar contese.

Misero qual io sono, dagli Itali non spero

L'onor ch'ebbe da' Greci il combattuto Omero.

Anzi che s'abbia a dire paese sfortunato,

Temo, per mia cagione, quello dov'io son nato.

FAZ.

Sanno i Napoletani, sa tutta la cettate,

Che tu se' sfortunato, che vivi in povertate.

I parenti, li amici, el popolo t'invita

A passà, bene mio, chiù meglio la to vita.

GHE.

Ei non potrà venire, perch'è in Corte impegnato.

FAZ.

Uh, managgia la mamma porzì che t'ha figliato.

GHE.

Bravo; così lo stile di Napoli si sente.

TOR.

Voi meritate peggio. (a don Gherardo.)

GHE.

Non me n'offendo niente.

FAZ.

Vieni, Torquato mio, vieni alla città bella:

Non essere chiù ingrato all'amore di quella.

Sarai lo ben veduto da principi e marchesi,

Avrai delli carlini, avrai delli tornesi;

Songo per te venuto: vieni con meco...

GHE.

Io dubito

Ch'egli non ci verrà.

FAZ.

Pozza morì de subito. (a don Gherardo.)

GHE.

Obbligato, signore.

TOR.

Siete ancora contento? (a don Gherardo.)

GHE.

È de' Napolitani solito complimento.

FAZ.

Vedrai la gran cettate, ch'ogni cettate avanza,

De popolo ripiena, ripiena d'abbonnanza.

Abbonna de persone nobile e vertuose,

D'omeni letterati, di femmine graziose.

Tutti con braccia apierte là stannote aspettanno.

Ciascun se sente dicere: quanno l'avrimmo, quanno?

Dimme, verrai tu meco?

GHE.

Non ci verrà, signore.

FAZ.

Che te venga lo canchero in mezzo dello core.

GHE.

Ecco un'altra finezza. (a Torquato.)

TOR.

Finezza a voi dovuta.

FAZ.

Pozza essere acciso. (a don Gherardo.)

GHE.

Sentite? mi saluta. (a Torquato.)

Fatemi grazia almeno di dirmi, in cortesia,

Giacché tanto mi onora, chi è vossignoria?

FAZ.

M'hai frusciato abbastanza: te pozzano pigliare

Tanti cancheri quante le arene dello mare.

Lo fulmene te pozza piglià tra capo e cuollo;

Te pozza soffocà le fiamme de Puzzuollo;

Pozza crepà con tutte porzì le imprecazioni

De tutti i mareiuoli, de tutti i lazaroni;

E quanno sarà ito in braccio a Belzebù,

Pozz'essere scannato un'atra vouta, e chiù. (parte.)

SCENA UNDICESIMA

Torquato e don Gherardo.

GHE.

Chiamatelo, chiedete se nulla si è scordato.

TOR.

Dirò, senza di lui, che siete uno sguaiato.

Non si tratta così, di voi mi maraviglio;

Oprate senza senno, senz'ombra di consiglio.

Sempre da voi mi tocca soffrir ingiurie nove.

Quel forestier mi preme. Andrò ad udirlo altrove. (parte.)

GHE.

Va in collera Torquato, ma poi è amico mio:

Bel bello il forestiere vuò seguitare anch'io.

Dai termini si sente ch'egli è napolitano,

Però non si distingue se nobile o villano.

Voglio saper chi è. Sono curioso in questo:

Bestemmi, maledica, voglio sapere il resto. (parte.)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Torquato, poi Targa.

TOR.

Sì, sì, vadasi pure dove miglior prepara

Stanza a me la fortuna. S'abbandoni Ferrara.

In questa illustre Corte finor fui sfortunato;

Spesso, cangiando cielo, si cangia anche lo stato.

A Napoli si vada; quella mia patria sia,

Che a me professa amore, che m'offre cortesia.

Fuggasi della Corte la noia ed il periglio:

Del signor mio s'adempia il cenno ed il consiglio.

È ver, saran per questo contenti i miei nemici;

Ma io godrò lontano giorni assai più felici.

Godrò giorni felici? Ah no; dolente ognora

Vivrò da te lontano, bellissima Eleonora.

È ver, ch'esser beato teco non posso appieno;

Ma veggoti, e in secreto posso adorarti almeno.

Oimè! partenza amara! Ahi, quai dubbi funesti!

Tu mi consiglia, o cuore. Vuoi tu ch'io parta, o resti?

Ho già risolto. Targa.

TAR.

Signor.

TOR.

Tutto sia lesto

Per partire in domani.

TAR.

Il baul si fa presto.

Quando vi ho messo dentro i vostri scartafacci,

Tutto quello che resta, son libri e pochi stracci.

TOR.

Targa, si cambieranno gli astri per noi severi.

TAR.

Lo voglia il ciel, ma temo.

TOR.

L'hai da sperar.

TAR.

Si speri.

Ma...

TOR.

Che ma? Questo ma che dir vuol?

TAR.

Niente, niente.

TOR.

Parla.

TAR.

Vi contentate?

TOR.

Parla liberamente.

TAR.

Tutto il mondo è paese, per tutto si sta bene,

Quando il cervello in cassa, come si dee, si tiene.

Voi foste fin ad ora per la virtù stimato;

Sareste con il tempo venuto in miglior stato;

Ma dopo che v'accese certo segreto amore...

TOR.

Basta così...

TAR.

(L'ho detto).

TOR.

Non mi fare il dottore.

Se di ciò più mi parli, ah giuro al ciel, t'ammazzo.

Vattene. Dove vai? Presto il baule.

TAR.

È pazzo (parte.)

SCENA SECONDA

Torquato solo.

TOR.

Possibile che tutti con empia indiscretezza

Voglian rimproverarmi del cuor la debolezza?

Andrò da voi lontano, dolci pupille e vaghe:

Vedrò se lontananza vaglia a sanar le piaghe;

E se morir dovessi per un dolor più forte,

Una pena di meno proverò nella morte.

Io non avrò il tormento d'essere a voi vicino,

Soffrendo del mio cuore il barbaro destino;

E 'l curioso mondo, dopo mia morte ancora,

Vivrà incerto qual fosse la mia amata Eleonora...

Eccone due ad un tratto. Ahi, qual incontro è questo!

SCENA TERZA

La Marchesa Eleonora, donna Eleonoraed il suddetto.

MAR.

Parte il Tasso? (a Torquato.)

D.EL.

Ci lascia? (a Torquato.)

TOR.

Se 'l comandate, io resto.

MAR.

Di noi chi lo potrebbe voler con più ragione? (a Torquato.)

TOR.

Merito avete entrambe, odioso è il paragone.

MAR.

(Scaltro risponde).

D.EL.

(Il vero saper si spera invano).

TOR.

(Occhi miei, state in guardia; non scoprite l'arcano).

MAR.

Posso, se a voi fia grato, parlare al signor nostro,

Che mal di voi contento promosse il partir vostro.

S'egli è con voi sdegnato, m'ingegnerò placarlo.

Siete di ciò contento?

TOR.

Vi prego di non farlo.

MAR.

Per uom che non gradisce, gettata è la fatica;

Più cari i buoni uffici saranvi dell'amica.

S'ella restar v'impone, che sì, che dir io v'odo:

Resto per obbedirvi?

TOR.

Partirò in ogni modo.

D.EL.

Sì, partirà Torquato più presto, e con più gioia,

Delle mie preci vane recandogli la noia.

Lo so che le mie cure da lui son disprezzate;

Lo so che non m'ascolta.

TOR.

Signora, v'ingannate.

MAR.

Sentite? Egli vi adora.

TOR.

Nol dissi, e non lo dico.

D.EL.

Di lei sarete acceso.

TOR.

Sono d'entrambe amico.

MAR.

(Vediam chi di noi due la può sul di lui cuore).

In grazia mia restate, vel chiedo per favore;

A dama che vi prega, risponderete un no?

Ardirete partire? Dite.

TOR.

Ci penserò.

D.EL.

A quei della Marchesa aggiungo i voti miei:

Se per me non vi piace, restate almen per lei.

Grata a me in ogni guisa sarà vostra dimora.

E ben, che rispondete?

TOR.

Non ci ho pensato ancora.

D.EL.

(Che saper non si possa qual sia di noi distinta!)

MAR.

(Se m'ami, o mi disprezzi, ancor non son convinta).

TOR.

(Vuol ragion ch'io mi celi; ma questo è un penar molto.

Son col mio ben, né ardisco di rimirarlo in volto).

D.EL.

Un certo madrigale di voi ci fu mostrato.

MAR.

Un madrigal vezzoso.

TOR.

Non merta esser lodato.

MAR.

Sentesi che l'autore donna felice adora.

D.EL.

Sentesi che la donna ha il nome d'Eleonora.

TOR.

Nomi talor ne' carmi avvezzo a finger sono:

Se m'abusai del vostro, domandovi perdono.

MAR.

Dunque è falso che Tirsi Eleonora apprezzi?

D.EL.

Più non credo a' poeti, se a mentir sono avvezzi.

TOR.

Altro è mentire il nome, altro è mentir gli affetti:

Tirsi è pastor sognato, son veri i suoi concetti.

MAR.

Vero è dunque ch'egli ama?

TOR.

Verissimo.

D.EL.

E chi mai?

TOR.

Nol so.

D.EL.

Lo saprà Tirsi.

TOR.

Non glielo domandai.

MAR.

Né chieder lo potete, s'egli è pastor sognato.

Quello che Tirsi tace, potrà svelar Torquato.

TOR.

Svelar gli altrui segreti, signora, a me non piace.

Se non si spiega Tirsi, anche Torquato tace.

SCENA QUARTA

Eleonora e detti.

ELE.

Signore, permettete ch'io dica fra di noi

Una cosa che preme. Si mormora di voi;

Di voi geloso il Duca si mostra inviperito. (alla Marchesa.)

Pare che sia geloso ancor vostro marito. (a donna Eleonora.)

Smaniano tutti due per un istesso inganno.

(Ma quello che so io, non credono o non sanno). (da sé.)

TOR.

Deh, il vostro piè, signora, vada da me lontano:

Non crescano gli sdegni per voi del mio sovrano.

Di me pur troppo il veggio nemico e sospettoso...

D.EL.

Dunque ha ragione il Duca d'esser di voi geloso.

TOR.

Ragione io non gli diedi, non manco al mio rispetto,

Ma nasce in cuore amante facilmente il sospetto.

D.EL.

Ite, Marchesa, altrove; voi siete il suo periglio.

TOR.

Ite voi pur, madama, vi prego e vi consiglio.

MAR.

Di temer don Gherardo avrà le ragion sue. (a donna Eleonora.)

TOR.

Per carità, vi prego, itene tutte due.

D.EL.

(A me più caricato intimò la partenza).

MAR.

(Nel dir ch'io me ne vada, m'usò dell'insolenza).

SCENA QUINTA

Targa e detti.

TAR.

Signore, è la giornata questa de' forestieri.

Un altro vi domanda.

TOR.

Venga pur volentieri.

TAR.

Mandato ha l'imbasciata, ancora è un po' lontano.

TOR.

Sai dirmi chi egli sia?

TAR.

È un signor veneziano.

TOR.

Lo vedrò volentieri; amo assai la nazione.

Anderò ad incontrarlo. Con vostra permissione.

MAR.

Servitevi, signore. (sostenuta.)

D.EL.

Sì, servitevi, andate.

TOR.

Che vuol dir quest'asprezza? Siete meco sdegnate?

D.EL.

Vuol dir che quasi quasi disciolta è la contesa.

Partirò per piacervi. Resterà la Marchesa. (parte.)

TOR.

V'ingannate, signora.

MAR.

S'inganna, anch'io lo so.

Torni donna Eleonora, v'intendo: io partirò.

ELE.

Rido di tutte due, ch'hanno i lor sdegni accesi.

Non sanno, poverine... Ehi, già ci siamo intesi. (parte.)

TAR.

Andiam, che il forestiere non tarderà a venire;

Se baderete a donne, vi faranno impazzire. (parte.)

TOR.

È vero, e son vicino ad impazzir per una.

Dissi con due lo stesso, e non m'intese alcuna. (parte.)

SCENA SESTA

Il signor Tomio e don Gherardo.

GHE.

Sì, signore, Torquato v'insegnerò dov'è.

TOM.

La me farà ben grazia.

GHE.

Favorite con me.

Ma chi è vossignoria?

TOM.

Cossa voleu saver?

GHE.

Faccio per dirlo a lui.

TOM.

Seu el so camerier?

GHE.

Vi corre un bel divario da me ad un cameriere.

TOM.

Chi xela, mio patron?

GHE.

Del Duca un cavaliere.

TOM.

Lustrissimo patron, con so bona licenza,

Dal Duca o dalla Corte mi no domando udienza.

Stalo qua sior Torquato?

GHE.

Abita qui.

TOM.

Ghe xelo?

GHE.

Vi sarà. Che volete?

TOM.

Voggio parlar con elo.

GHE.

Ed io, che son amico di tutti i forestieri,

Vi condurrò da lui.

TOM.

Caro sior.

GHE.

Volentieri.

Venezian, non è vero?

TOM.

Venezian, per servirla.

GHE.

Se è lecito, il suo nome?

TOM.

Tomio, per obbedirla.

GHE.

Signor Tomio de' quali?

TOM.

Che vuol dir?

GHE.

Il casato?

TOM.

A vu nol voggio dir.

GHE.

Lo direte a Torquato.

TOM.

Ma andemio, o non andemio?

GHE.

Andiam, se avete fretta.

TOM.

Ma se son vegnù a posta.

GHE.

Dite: il Tasso vi aspetta?

TOM.

Credo de sì.

GHE.

Gli è noto quel che da lui volete?

TOM.

Nol sa gnente gnancora.

GHE.

Confidar lo potete

A me con segretezza, finché facciam la strada.

TOM.

Sior cavalier mio caro, l'è una bella seccada.

GHE.

Lo fo, perché un amico all'altro può giovare.

Lo fo per comun bene.

TOM.

No son gonzo, compare.

GHE.

Gonzo perché? Un amico dovrebbe esser lodabile.

TOM.

Vu no me tirè zoso, sier bombasina amabile.

GHE.

Però se mal concetto di me avete formato,

Andate, ecco la porta che mena da Torquato.

Il signor veneziano, se non dirà chi sia,

Qui resterà per poco, lo faremo andar via.

TOM.

(Lo vôi gòder sto matto). (da sé.) La senta una parola.

Vorla saver chi son? Cosmo dalla carriola,

Quello che in Marzaria fa le fazzende soe;

E son vegnù a Ferrara a comprar delle scoe.

GHE.

Della scusa m'appago; per or basta così.

TOM.

Andemio, o non andemio?

GHE.

Torquato eccolo qui.

SCENA SETTIMA

Torquato e Tomio.

TOM.

Amigo, finalmente ve vedo e v'ho trovà.

TOR.

Perché non inoltrarvi?

TOM.

Causa sto sior ch'è qua.

TOR.

Ma don Gherardo, eccede la sofferenza mia.

GHE.

Che occor che vi scaldiate? Ecco qui, vado via. (s'allontana.)

TOR.

S'è lecito, signore, conoscervi desio.

GHE.

(Saprò s'egli si chiama o Cosimo, o Tomio). (s'accosta.)

TOM.

Mi son... se poderia parlar con libertà? (a don Gherardo.)

TOR.

Che impertinenza è questa? (come sopra.)

GHE.

A me?

TOM.

Che inciviltà!

GHE.

A me? Mi renderete conto di tal parola,

Signor Torquato Tasso, signor Cosmo Carriola. (parte.)

SCENA OTTAVA

Torquato e Tomio.

TOR.

Non so che dire intenda.

TOM.

No ghe badè a colù.

TOR.

Vorrei che si spiegasse.

TOM.

Mo via, tendemo a nu:

Son vegnù da Venezia apposta per trovarve.

Xe do ore che aspetto; me preme de parlarve.

Son Tomio Salmastrelli: son galantomo, e son

Uno che per i amici qualche volta xe bon.

Me piase i vertuosi, li tratto volentiera,

Conversazion con lori fazzo squasi ogni sera.

No son de quelle sponze, che suga qua e là

Tutti i pettegolezzi de tutta la città;

No son de quei che perde el tempo malamente

A criticar poeti, a dir mal della zente.

Amigo son de tutti; no vôi antegonista,

No disprezzo l'Ariosto, benché mi sia tassista.

No digo questo è il primo, quest'altro xe el segondo;

Del merito de tutti fazza giustizia el mondo.

La bella verità presto o tardi trionfa;

Rido de chi se scalda, rido de chi se sgionfa.

No digo, questo è bon; digo, questo me piase.

Dei altri ha più giudizio chi gode, ascolta e tase.

TOR.

Signor, mi fate onore, spiegandovi parziale

Di me, che di virtute non vanto il capitale.

Il cielo, che pietoso assiste agl'infelici,

A me concede al mondo un numero d'amici.

Questi per onor mio si serbino costanti;

Compatiscano gli altri me pur fra gl'ignoranti.

Se sol del vero in grazia mi sprezzano, han ragione:

Basta che non sien mossi da invidia o da passione.

In caso tal sarebbe il lor giudizio incerto,

La critica sospetta, l'impegno senza merto.

Chi parla per passione, perde del zelo i frutti,

E per far bene a un solo, fa pregiudizio a tutti.

TOM.

Basta, lassemo andar. Pur troppo semo avvezzi

A sentir tutto el zorno de sti pettegolezzi.

Saveu perché a Ferrara son vegnù, sior Torquato?

Son vegnù, perché spero de farve cambiar stato.

TOR.

Come, signor?

TOM.

Dirò... Ma, amigo, non usè

Dir gnanca ai galantomeni: sentève, se podè?

TOR.

Compatite, signore... non son le stanze mie...

Andiam là, se v'aggrada...

TOM.

Oibò, staremo in pìe.

TOR.

Compatite, vi prego, la poca civiltà.

O andiamo, o qui sediamo.

TOM.

Via, sentemose qua.

TOR.

Vi servo. (va per la sedia.)

TOM.

Lassè star.

TOR.

Lasciate in cortesia. (prende la sedia.)

TOM.

Vu porterè la vostra, mi porterò la mia.

TOR.

Favorite.

TOM.

Sentève, che me sento anca mi.

A Venezia, compare, se pratica cussì.

Se sa le cerimonie, el galateo el savemo;

Ma con i complimenti tra nu no se secchemo.

Cussì, come diseva, son vegnù qua per vu.

S'ha dito che a Ferrara no voggiè restar più;

Che in Corte no stè ben, che gh'è delle contese,

E che gh'avè intenzion de scambiar de paese.

Quando la sia cussì, son qua per invidarve

A una città più bella, che no fa che lodarve.

Venezia xe el paese de vostra maggior gloria,

Sa la Gerusalemme squasi tutti a memoria:

I omeni, le donne, i vecchi, i putti, i fioli,

Mercanti, botteghieri, e fina i barcarioli.

I versi del Goffredo saver tutti se vanta:

I lo leze, i lo impara, i lo spiega, i lo canta.

Ogni tanto se sente citar un vostro passo;

Spesso se sente a dir: dirò, co dise el Tasso.

Della moral più soda, del conversar più onesto,

Fatto è el vostro poema regola, base e testo.

Donca quella città, che all'opere fa onor,

De posseder sospira el degnissimo autor;

E una partia de amici, che pol, che sa, che intende,

Là ve invida de cuor, là con el cuor v'attende.

Lassè, lassè la Corte, dove baldanza audace

Fa, come disè vu, perder del cuor la pace.

Compare, ho viazà el mondo, so qualcossa anca mi,

Ho praticà la Corte per mia desgrazia un dì.

Cariche non ho avudo, ma poder dir me vanto

Quello che dise el vecchio in tel settimo canto:

E benché fossi guardian degli orti,

Vidi e conobbi pur le inique corti.

TOR.

Grazie, signore, io rendo al benefizio offerto;

Tanta bontate ammiro, tanto favor non merto.

Venezia è un bel soggiorno, amabile, felice,

Ma accogliere l'invito per ora a me non lice.

Da Napoli stamane giunto è un amico espresso:

M'invitò qual voi fate: promisi andar con esso;

E la ragion per cui mi son seco impegnato,

Ell'è, perché nel regno di Napoli son nato;

Onde a quel che ricevo non meritato onore,

S'aggiugne della patria gratitudine e amore.

TOM.

Compare, a sto discorso no posso più star saldo.

Sta rason, compatime, m'ha fatto vegnir caldo.

Se sè nassù in Sorriento, cossa conclude? gnente.

Se sa che là sè nato solo per accidente.

Vostra mare xe andada a trovar so sorella,

L'ha trattegnua i parenti, l'ha partorio con ella.

Sè nassuo là, e per questo? Se nato fussi in mar,

Concittadin dei pesci ve faressi chiamar?

Dirà chi ve pretende, chi ha invidia al Venezian:

L'è stà generà in Napoli, el xe napolitan.

Fermeve, a chi lo dise, fermeve, ghe respondo:

De un omo che va in ziro, xe patria tutto el mondo.

Quando Bernardo Tasso a Napoli xe andà,

A Bergamo so patria no aveva renonzià.

Xe nati bergamaschi tutti i parenti sói,

E sarà bergamaschi, come xe el pare, i fioi.

Là xe la casa vostra, de Bergamo ai confini

Un tempo comandevi, sè adesso cittadini.

Del Tasso la montagna dà alla fameggia el nome.

Napolitan Torquato? Chi è che lo prova, e come?

Suddito de Venezia ogni rason ve vol;

Co chiama la sovrana, no, mancar no se pol.

E una sovrana tal, che a tutti è madre pia,

Piena de carità, d'amor, de cortesia,

No merita sti torti, no merita che ingrato

La lassa, l'abbandona, per Napoli, Torquato.

Savè che i forestieri corre a Venezia tutti,

Co i gh'ha bisogno, e i trova delle fadighe i frutti;

E so per esperienza, e ho sentio a confermar,

Che via da nu se stenta i omeni a impiegar.

Quel che mi ve offerisso, xe molto e xe seguro;

Quel che podè sperar a Napoli, xe scuro.

Concluderò coi versi che el messaggiero Alete

Dise al canto segondo, stanza sessantassete:

Ben gioco è di fortuna audace e stolto,

Por contra il poco, e incerto, il certo e il molto.

TOR.

Amo la patria antica; quella amo, ov'io son nato:

Ma in forestier paese finor mi volle il fato.

Parea che la fortuna fosse per me ridente,

Invitommi alla Corte almo signor clemente;

Venni a servir, compito il quarto lustro appena;

Tenero al piè mi posi dura servil catena,

Che sembra aver gli anelli d'oro massiccio e bello,

Ma ferro è la materia, impaniata d'orpello.

Fui fortunato un tempo, assai più che or non sono,

Seco guidommi il Duca in Francia a Carlo nono,

E quel monarca istesso, dicolo a mio rossore,

Segni mi diè parecchi di clemenza e d'amore.

Or non son quel di prima: lungo servir m'acquista

D'odio ingrata mercede, miserabile e trista.

Ciò ad accettar mi sprona il ben che viemmi offerto;

Ma se l'offerta accetti, sono tuttora incerto.

E a chi ragion mi chiede, altra ragion non dico:

Qui mi tien, qui mi vuole, fiero destin nemico.

TOM.

Diseme, caro amigo, xe vero quel che i dise.

Che Torquato in Ferrara abbia le so raìse?

TOR.

Signor, non vi capisco.

TOM.

Ve la dirò più schietta.

Xe vero che gh'avè qua la vostra strazzetta?

TOR.

Il termine m'è ignoto.

TOM.

La macchina, el genietto?

Gnancora? Che ve piase un babbio, un bel visetto?

TOR.

Basta così, v'intendo. Chi è quel, saper vorrei,

Ch'esaminar pretende sino gli affetti miei?

Amo, non amo a un tempo, smanio, peno, sospiro.

Chi non c'entra, non parli. Oimè! quasi deliro.

Ci rivedremo, amico... per or chiedo perdono.

Mi si riscalda il capo, quando a lungo ragiono.

Risolverò, v'aspetto. Per carità, signore,

Parlatemi di tutto; non parlate d'amore. (parte.)

SCENA NONA

Sior Tomio solo.

TOM.

Cossa xe sto negozio? la testa ghe vacila?

Ho paura che l'abbia dà volta alla barila.

Prima el giera un sospetto ch'el fusse innamorà,

Adesso de seguro el se vede, el se sa.

Amor fa de ste cosse, amor xe un baroncello,

Che ai omeni più grandi fa perder el cervello;

Ma mi no gh'ho paura de dar in frenesia,

Tre zorni innamorà no son stà in vita mia.

Me piase devertirme; me piase el vezzo, el ghigno:

Ma quando le se tacca, le impianto, e me la sbigno.

SCENA DECIMA

Il Cavaliere del fioccoe detto.

CAV.

Signor, vi riverisco.

TOM.

Schiavo suo.

CAV.

Favoritemi.

Vossignoria chi è?

TOM.

Chi son mi?

CAV.

Compatitemi.

Un forestiere in Corte non è cosa dicevole

Non renda del suo grado il Prence consapevole;

Conciossiacosaché, se vi celate, io dubito

Battere le calcagna di qua dovrete subito.

TOM.

Del nome e della patria ve dirò ogni menuzzolo;

Tutto quel che volè, caro compare sdruzzolo.

Mi me chiamo Tomio, son nato venezian,

Vivo d'intrada, e i dise che fazzo el cortesan.

No son vegnù a Ferrara per cabale o per truffe,

Non ho lassà Venezia per stocchi o per baruffe;

Son vegnù per el Tasso, la verità ve digo.

Ve basta? Voleu altro? Disè su, caro amigo.

CAV.

Veniste per il Tasso? Il Tasso, affé, non merita

Che muovasi per lui persona benemerita.

È un uomo effeminato, nel di cui petto domina

Amor per una donna, che Eleonora si nomina.

Un che stimato viene pochissimo in Etruria,

Che mostra ne' suoi carmi di termini penuria,

Che sbaglia negli epiteti, che manca nei sinonimi,

Non merta che s'apprezzi, non merta che si nomini.

Nemico della Crusca, degn'è di contumelia;

E voi gli siete amico? No, no, farete celia.

TOM.

Cossa vuol dir far celia?

CAV.

I termini s'abbellano.

Fate celia si dice a quelli che corbellano.

TOM.

Come sarave a dir, in lingua veneziana,

Me piantè una carota, me contè una panchiana.

CAV.

Vari in ogni paese si sentono i riboboli:

Altro è il dir di Camaldoli, altro è il parlar di Boboli.

Ciriffo e il Malmantile ad impararli aiutano,

Ma quelli per Torquato son termini che putono.

TOM.

E termini per mi xe questi, patron caro,

Che par che i me principia a mover el cataro.

Voleu altro da mi?

CAV.

Vogliovi a iosa ostendere

Le imperfezion del Tasso, che non si pon difendere.

TOM.

Diseghene mo una.

CAV.

Ecco ch'io ve la spiffero

La prima melonaggine suonata a suon di piffero:

Sdegno guerrier della ragion feroce.

In tali gaglioffaggini il babuasso impegnasi.

Ragion non è feroce, la ragion non isdegnasi.

Schicchera paradossi, squaderna falsi termini,

Che fan muovere i bachi.

TOM.

Che vol mo dir?

CAV.

I vermini.

TOM.

Seu fiorentin?

CAV.

Nol sono, ma della lingua vantomi,

E cuopromi col vaglio, e col frullone ammantomi.

Son cavalier, son tale che ha veste, e può decidere;

E appresi la farina dalla crusca a dividere.

TOM.

Caro sior cavalier, siben son venezian,

Mi me ne son incorto, che no gieri toscan.

Usa i Toscani, è vero, bone parole e pure,

Ma usar no i ho sentii le vostre cargadure.

Capaci eli no xe de dir dei barbarismi,

Ma gnanca no i se serve dei vostri latinismi.

La critica ho sentio del verso de Torquato;

Son qua, sior cavalier, son qua, sior letterato.

Risponderò, come da me si suole,

Liberi sensi in semplici parole.

Sdegno guerrier: distingue el sdegno del valor

Da quel che per la rabbia degenera in furor.

Sdegno della ragion: ogni moral insegna,

Che anca la virtù stessa colla rason se sdegna;

E la ragion feroce sona l'istessa cosa,

Che dir la ragion forte, la ragion valorosa.

Coi occhi della mente esaminè Rinaldo,

Un omo figureve che per amor sia caldo,

Che se ghe leva el velo dai occhi impetolai,

Che se ghe sciolga in petto i spiriti incantai;

Se sveglia la rason, e la rason se accende

De quel sdegno guerrier, che el so dover comprende;

E tanto pol el scudo, e tanto pol la voce

D'Ubaldo, che deventa sdegno guerrier feroce;

Onde rason rendendo l'omo sdegnoso e forte,

Rinaldo abbandonando della maga le porte,

Squarciossi i vani fregi e quelle indegne

Pompe, di servitù misere insegne.

CAV.

Cotesta cantafera è badiale e ridicola,

Ma chi cinguetta a aria, zoppicando pericola.

Tasso par tutto il mondo, ma il parere e non essere,

È come giustamente il filare e non tessere.

Vi proverò col testo, ch'ei non è autor dell'opera;

Che Omero, Dante, Ovidio e il buon Virgilio adopera;

Che veste l'altrui penne la garrula cornacchia,

Che cigno di palude non modula, ma gracchia.

Atto a condur dassezzo più che la penna il vomero,

Merta che si coroni di buccie di cocomero.

SCENA UNDICESIMA

Sior Tomio solo.

TOM.

Chiaccole senza sugo. Sto sior voggio sfidarlo.

E col Tasso alla man, in sacco vôi cazzarlo.

Ghe spiegherò dell'opera tutta l'allegoria,

Ghe proverò i precetti dell'epica poesia,

La favola, l'istoria, l'intreccio, i episodi,

L'espression, i argomenti, e le figure, e i modi;

Con un bon Venezian sto sior che nol se meta,

El resterà in vergogna, ghe dirò col poeta:

Renditi vinto, e per tua gloria basti,

Che dir potrai che contro me pugnasti. (parte.)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Sior Tomio solo.

TOM.

Quanto che pagheria saver chi è sta Leonora,

Che el cuor del mio Torquato, poverazzo, innamora!

Quel sior dai slinci e squinci me l'ha accennà de volo,

Ma l'ho sentio da tanti, no l'ho sentio da un solo;

De véderla gh'ho voggia; troverò ben el come.

So a bon conto qualcossa. So per adesso el nome.

Ghe xe in ti Veneziani, per dir la verità,

In materia de donne della curiosità.

Ghe n'avemo a Venezia pur troppo in abbondanza,

E par, a chi ne vede, no ghe ne sia abbastanza.

Se passa un zendaetto, ch'abbia un poco de brio,

Se tiol el tratto avanti, e se se volta indrio.

E quando le se sconde, allora vien la voggia;

Par che sotto el zendà se sconda qualche zoggia.

Se ghe va drio bel bello per Marzaria, per Piazza.

E po? e po se scovre qualche brutta vecchiazza.

SCENA SECONDA

La Marchesa Eleonora ed il suddetto.

MAR.

(Il Veneziano è questi, che amico è di Torquato).

TOM.

(Olà! che bel caetto! Tomio, no far el mato).

MAR.

(Sentirei volentieri se parte il nostro autore).

TOM.

Servitor umilissimo.

MAR.

Serva di lei, signore.

TOM.

La scusi, la perdoni; son qua per accidente.

MAR.

S'accomodi.

TOM.

Obbligato.

MAR.

Serva sua riverente.

TOM.

Se è lecito, ella ela de Corte?

MAR.

Sì signore.

Son della Principessa prima dama di onore.

TOM.

Me ne consolo.

MAR.

Dite, viene con voi Torquato?

TOM.

Spero de sì.

MAR.

Lo renda il ciel più fortunato.

TOM.

El lo merita in fatti.

MAR.

Lo merita, egli è vero.

Spiacemi che in Ferrara provi il destin severo;

Ma quei che per invidia cercano il di lui danno,

Forse d'averlo offeso un dì si pentiranno.

TOM.

La parla con bontà del nostro autor novello.

Sento che la lo stima.

MAR.

Per giustizia favello.

TOM.

Col dir fazzo giustizia, la ghe fa un bell'onor;

Ma se ghe zonze gnente de bruseghin de cuor?

MAR.

No, signor Veneziano. Non l'amo niente più

Di quel che in lui esiga il merto e la virtù.

Voi non mi conoscete. D'un letterato onora

I pregi al mondo noti la marchesa Eleonora. (parte.)

SCENA TERZA

Sior Tomio e don Gherardo.

TOM.

Dove vala? la senta. Ih ih, la xe scampada.

La marchesa Leonora? per diana, l'ho trovada.

Questa xe giusto quella che ha innamorà Torquato.

GHE.

(Oh, non ho inteso bene. Tardi sono arrivato).

TOM.

(Velo qua un'altra volta).

GHE.

(Quello che non ho inteso,

Posso saper da lui. Ma no, troppo m'ha offeso).

TOM.

Patron mio riverito.

GHE.

Servitor suo devoto.

TOM.

Stala ben? vala a spasso?

GHE.

Faccio un poco di moto.

Tutto 'l dì alla catena...

TOM.

Tutto el dì sfadigar...

GHE.

(Dissimular Conviene).

TOM.

(El vien dolce, me par).

GHE.

Quella gentil signora, che or or da qui è partita,

La conoscete?

TOM.

Poco.

GHE.

È una dama compita.

TOM.

Certo me par de sì.

GHE.

Con voi non ha parlato?

TOM.

La m'ha parlà.

GHE.

V'ha detto qualcosa di Torquato?

TOM.

Ella no ha dito gnente, anzi la m'ha negà;

Ma da vari discorsi qualcossa ho combinà.

El nome, la fegura, el parlar tronco e scuro,

El sito, la premura... la xe quella seguro.

GHE.

Quale?

TOM.

Quella, compare... No so se m'intendè.

L'amiga de Torquato.

GHE.

Così pare anche a me.

TOM.

L'ha dito el Cavalier, l'ha dito qualcun altro.

Senz'altro la xe questa.

GHE.

Questa sarà senz'altro.

Se il Cavalier l'ha detto, il Cavalier saprà,

Forse dal Duca stesso, tutta la verità.

TOM.

Vu nol savè de certo?

GHE.

Non ero ancor sicuro.

Son un che i fatti altrui di saper non mi curo;

Però questa tal cosa mi dà divertimento,

Ma di quel che ho saputo non sono ancor contento.

A ritrovar il Duca ora vo presto presto:

Da lui vuò far di tutto di risapere il resto;

E per tirarlo a dirmi quel che saper mi preme,

Gli narrerò il discorso che abbiamo fatto insieme.

TOM.

Ma no vorria...

GHE.

Tacete, lasciate fare a me.

Torquato è amico vostro, un galantuomo egli è.

Fo per fargli del bene; per altro, lo ridico,

Della curiosità son mortale nemico. (parte.)

SCENA QUARTA

Sior Tomio, poi donna Eleonora.

TOM.

Me n'accorzo anca mi, che gnente el xe curioso;

El smania per saver, l'è fanatico ansioso.

Più de quel che saveva, da lu non ho savesto;

Ma za che la sia quella persuasissimo resto.

La parla in so favor, la gh'ha nome Leonora,

Donca concluder posso... chi xe st'altra signora?

D.EL.

Vo' andar dove mi pare. Dove s'è mai udito

A numerar i passi alla moglie il marito? (verso la scena.)

TOM.

(La cria con don Gherardo: che la sia so muggier?)

D.EL.

(Oh questa sì ch'è bella! vuol veder, vuol saper).

TOM.

Patrona.

D.EL.

Serva sua.

TOM.

In collera? con chi?

D.EL.

(Che indiscreto!)

TOM.

La diga, se pol?...

D.EL.

Eccolo qui.

SCENA QUINTA

Don Gherardo e detti.

GHE.

Vi prego in cortesia... (a donna Eleonora.)

D.EL.

Vuò andar dove mi pare.

GHE.

Sì, ma ditemi almeno...

D.EL.

Non mi state a seccare.

Non vado fuor di Corte. Ciò non vi basta ancora?

È un voler saper troppo.

GHE.

Zitto, cara Eleonora.

TOM.

(Leonora!) (da sé.)

GHE.

Andate forse dalla Duchessa?

D.EL.

No.

GHE.

Dalla Marchesa?

D.EL.

(È lunga). (da sé.)

GHE.

Via, vi accompagnerò.

D.EL.

Son stanca di soffrirvi; non voglio compagnia.

Tornerò per prudenza nella camera mia. (parte.)

SCENA SESTA

Sior Tomio  e Don Gherardo.

TOM.

Vostra muggier?

GHE.

Sicuro.

TOM.

E la gh'ha el nome istesso?

GHE.

(Gioco che non va in camera). (da sé.)

TOM.

Donca...

GHE.

Le vado appresso.

Ma no, megli'è ch'io vada dal Principe, a vedere,

A confrontare, a intendere, a cercar di sapere. (parte.)

SCENA SETTIMA

Sior Tomio, poi Torquato.

TOM.

Eleonora anca quella? No so, sto nome univoco

El poderave in Corte formar fursi un equivoco.

Scarso xe el fondamento sul qual mi ho giudicà.

Voi saver da Torquato... per diana, eccolo qua.

TOR.

Di Napoli l'amico ad appagar non basto:

Insiste nel volermi, insiste nel contrasto.

Io fomentar non deggio tale contesa amara.

TOM.

Cossa penseu de far?

TOR.

Restar penso in Ferrara.

TOM.

Bravo; no me despiase sto grazioso espediente.

Se sol dir, che la lengua trà dove diol el dente.

Volentiera in Ferrara lo so che resteressi;

Ma cossa dise el Duca? come va sti interessi?

TOR.

Il Principe clemente a favellar m'intese;

Calmò la gelosia, che nel suo petto accese.

Spero la mia condotta non gli darà sospetto.

Venero la Marchesa; ho per lei del rispetto;

Ma non può dir ch'io l'ami.

TOM.

No xe gnanca el dover,

Che del so segretario corteggiè la muggier.

TOR.

Non è ver. Chi lo dice?

TOM.

Oh, questa sì xe bella.

Le Leonore xe do: la sarà questa, o quella.

No m'aveu confessà...

SCENA OTTAVA

Eleonora e detti.

ELE.

Signor... (a Torquato.)

TOM.

Chi è sta signora? (a Torquato.)

TOR.

Serva della Marchesa e chiamasi Eleonora.

TOM.

Eleonora anca ela? Xelo un nome alla moda?

El xe un casetto bello; lassè che me lo goda.

In t'un palazzo istesso tre nomi stravaganti?

No parla una panchiana sul stil dei commedianti?

Sta cossa se in commedia, se in scena mi la vedo,

Digo l'autor xe matto, no pol star, no lo credo.

ELE.

Badate a me, signore, son venuta a avvisarvi:

Dal Duca e don Gherardo sentito ho a nominarvi.

Il Cavalier del Fiocco qual mantice soffiava,

Don Gherardo rideva, e 'l Duca minacciava;

E questo finalmente, per i sospetti suoi,

Parlava di vendetta, l'avea contro di voi.

TOR.

Misero me! fia vero che sospettar ei possa

Di me, della mia fede?

TOM.

Credo saver qualcossa.

TOR.

Ditelo, per pietade; lasciate ogni riguardo.

TOM.

El mal l'avemo fatto intra mi e don Gherardo.

TOR.

Come?

TOM.

Un cert'accidente, certe parole a caso,

Che amessi la Marchesa tutti do ha persuaso.

E lu, che l'è curioso pezo de una pettegola,

Che rason, che prudenza nol gh'ha gnanca una fregola,

L'è andà presto dal Duca; sa el ciel cossa l'ha fato,

Sa el ciel cossa l'ha dito!

TOR.

Ahimè, son rovinato!

TOM.

Gnente; vegnì a Venezia, e la sarà fenia.

ELE.

Non signore: Torquato non ha da venir via.

TOM.

No? per cossa?

ELE.

Perché l'affanno è inconcludente:

Il mal che gli sovrasta, si medica con niente.

TOM.

Via mo, da brava!

ELE.

Udite, presto v'insegno il come.

Accese il van sospetto l'equivoco del nome;

Basta ei vada dal Duca, e dica a aperta ciera:

Non amo la padrona, amo la cameriera.

TOM.

Bravo! adesso ho capio. L'idea no me despiase.

Cossa diseu, compare?

ELE.

Cosa risponde?

TOM.

El tase.

ELE.

Ben, chi tace conferma. Intendere si può.

TOM.

Confermeu la sentenza? semio d'accordo? (a Torquato.)

TOR.

No.

TOM.

Aveu sentio? (ad Eleonora.)

ELE.

L'ho inteso. (mortificata.)

TOM.

Via, no ve vergognè.

Pur troppo de sti casi al mondo ghe ne xe. (ad Eleonora.)

Quel che xe stà, xe stà: fenirla un dì bisogna;

Quando el mal se cognosse, prencipia la vergogna.

Fina che semo in tempo, se podè, remedieghe.

A sta povera putta quei do versi diseghe:

Sarò tuo cavalier quanto concede

La guerra d'Asia, e coll'onor la fede.

ELE.

Dunque di me si burla, dunque mi sprezza ingrato?

Io non credea mendace il labbro di Torquato.

È ver ch'ei non mi disse: ardo per voi d'amore;

Ma tal speranza almeno fe' ch'io nutrissi in cuore.

Dovea parlar più chiaro al cuor d'una donzella,

Dir doveva: Eleonora tu sei, ma non sei quella.

Delusa, scorbacchiata, me n'ho per male assai;

Quando mi fanno un torto, non me ne scordo mai.

Non sono una Marchesa, ma alfine son chi sono:

Me l'ho legata al dito, mai più gliela perdono. (parte.)

SCENA NONA

Torquato  e sior Tomio.

TOM.

Sentiu cossa la dise? No par che la ve sfida?

La parla, la manazza coi termini d'Armida:

O mia sprezzata forma, a te s'aspetta

(Ché tua l'ingiuria fu) l'alta vendetta.

TOR.

Duolmi d'averle dato qualche lusinga invano.

TOM.

Ghe voleu ben?

TOR.

Amico, non son del tutto insano.

È ver che la ragione talor cede all'amore,

Ma in me spente non sono le massime d'onore.

TOM.

No la saria gran cossa amar una puttazza;

Xe pezo amar quell'altra, se el Duca ve manazza.

TOR.

Del Duca le minaccie per questo i' non pavento.

Sospetta, e i suoi sospetti non hanno un fondamento.

Può gelosia nel Prence svegliar la diffidenza,

Ma la passione istessa dà luogo alla clemenza.

TOM.

Va ben, ma sarà meggio che vegnì via con mi.

TOR.

Amico, ho già risolto.

TOM.

De vegnir?

TOR.

Di star qui.

TOM.

Vardè ben quel che fe.

TOR.

Vuol l'onor mio ch'io resti.

Varie son le ragioni, vari i motivi onesti.

Si sa che 'l Duca irato volea la mia partenza:

Confesserei, partendo, macchiata la coscienza.

Lor cederei, partendo, troppo vilmente il loco.

De' miei nemici è nota l'ira, le trame, il foco:

E la Gerusalemme, che dar degg'io corretta,

Prima che di qui parta, vuò rendere perfetta.

Questa s'aggiunga all'altre ragion forti e sincere:

In me sospetta il mondo fiamme che non son vere;

Ma quando m'allontani per così ria cagione,

Pon perdere due donne la lor riputazione.

Parvi che giusto i' pensi? Trovate in questi accenti

La ragione, il consiglio, dell'uomo i sentimenti?

No, fuor di me non sono; d'errar non ho timore:

Il cuor non mi consiglia; parla ragione al cuore.

TOM.

No dirò, caro amigo, che siè fora de ton;

Pensè, parlè pulito; par che gh'abbiè rason.

Ma con quattro parole, se me ascoltè, m'impegno

Destruzer i argomenti fatti dal vostro inzegno.

Se andè via, no xe vero che reo siè dichiarà:

Napoli, podè dir, Venezia m'ha invidà.

Questa xe cossa chiara, questo xe un fatto certo,

Che della maldicenza pol metterve al coverto.

Dubitè che i nemici rida co sè andà via?

Podè mortificarli, se fussi anca in Turchia.

Anzi co sè lontan, podè con libertà

Dir le vostre rason, più assae che no fe qua.

El vostro bel poema toccar no ve conseggio;

Co le cosse sta ben, se fa mal per far meggio;

Ma quando che ghe abbiè sta tal malinconia,

Per tutto podè farlo: scriverè in casa mia.

All'ultimo argomento sentì cossa respondo:

O xe vero, o xe falso quel che sospetta el mondo:

Se amè, colla partenza se modera l'affetto;

Se non amè, più presto se modera el sospetto.

Lassè che tutti diga, e vegnì via con mi:

No sol le maraveggie durar più de tre dì.

Risolti i tre argomenti, vegno alle persuasive;

Pensemo a viver meggio quel poco che se vive.

Qua gh'è, per quel che sento, un mar de diavolezzi;

Vu gh'averè a Venezia quiete, decoro e bezzi.

Pesè l'un, pesè l'altro, siè de vu stesso amante.

Finirò el mio discorso, come fenisse Argante:

Tua sia l'elezione; or ti consiglia

Senz'altro indugio, e qual più vuoi ti piglia.

TOR.

Son le ragioni vostre convincenti, il confesso;

Ma ohimè, non sono, amico, padrone di me stesso.

Veggo il ben che m'offrite; goderlo io non son degno.

TOM.

Amigo, v'ho capio. Gh'è del mal in tel legno.

TOR.

Che di me sospettate?

TOM.

No xe sospetto el mio.

Sè innamorà, gramazzo. Sè zo, sè incocalio.

TOR.

Ah giusto ciel!

TOM.

Mi donca posso andar?

TOR.

Aspettate.

TOM.

Via resolvève, o andemo, o che mi vago.

TOR.

Andate.

SCENA DECIMA

Targa e detti.

TAR.

Signor. (frettoloso.)

TOR.

Che nuova c'e?

TAR.

Nuova funesta e ria.

TOM.

Cossa vuol dir?

TOR.

Via, parla.

TAR.

Vi conviene andar via. (a Torquato.)

TOR.

Come? perché?

TOM.

Contème, cossa xe mai successo?

TAR.

Del padron nelle stanze evvi del Duca un messo:

Ei v'aspetta, signore, e ho ordine di dirvi

Che in tempo di tre ore dobbiate dichiarirvi

In certo madrigale qual sia la donna intesa,

O andar da questo stato dobbiate alla distesa.

TOM.

Se qua volè restar, sto amor convien scovrirlo.

TOR.

Non si sa, non si sappia. Morirò pria di dirlo.

Dov'è costui? (a Targa.)

TAR.

V'aspetta.

TOR.

Vattene via di qua.

TAR.

Signor, badate bene che il cervello sen va.

TOR.

Ah temerario...

TOM.

Zitto, bisogna respettarlo.

Col paron no se burla.

TAR.

M'ha detto d'avvisarlo.

M'ha detto ch'io lo desti, quando il cervel gli frulla,

Ma parmi ogni dì peggio. Con lui non si fa nulla. (parte.)

SCENA UNDICESIMA

Torquato e sior Tomio.

TOM.

No vôi abbandonarlo. Sto nembo el passerà.

TOR.

Son fuor di me. Vi prego... vi domando pietà.

Parto, ma non so quando; andrò, ma non so dove.

M'investono per tutto i fulmini di Giove.

Andrò peregrinando, terra scorrendo e mare;

Vi raccomando, amico, le cose a me più care:

La mia Gerusalemme, Rinaldo innamorato,

L'Aminta, il Torrismondo e 'l mio Mondo creato,

Il canzonier, le prose, le lettre famigliari,

Le orazioni e 'l trattato diretto ai secretari,

Dell'arte del poema i tre ragionamenti,

L'apologia al Goffredo, i dialoghi, i commenti.

Questi vi raccomando, che a me costan sudore:

Vi raccomando, amico, il povero mio cuore.

Ma no, questo è perduto, perdermi deggio anch'io;

Mondo, amici, Ferrara, bella Eleonora, addio. (parte.)

TOM.

Fermeve, vegnì qua. El corre co fa el vento.

L'è matto per amor. Donne, me fe spavento. (parte.)

SCENA DODICESIMA

La Marchesa Eleonora, donna Eleonora, poi don Gherardo.

D.EL.

Mi rallegro con voi. Dunque il tempo s'appressa,

Che passar vi vedremo al grado di Duchessa.

MAR.

Non per il van desio di titolo sovrano,

Al Principe ho risolto di porgere la mano;

Ma ai replicati assalti di lui, ch'è mio padrone,

Ho condesceso alfine per più onesta ragione.

Sospetta di Torquato, crede ch'io l'ami, e freme:

Il misero poeta soffre, sospira e teme.

Parla di noi la Corte, mormora il mondo audace;

Quando mi sposi al Duca, ognun si darà pace.

D.EL.

Il fin per cui lo fate, è onestissimo, il veggio;

Basta che poi, sposata, non dicano di peggio.

MAR.

No, amica, l'onor mio non è in sì poca stima.

D.EL.

Soggetta a tai disgrazie non sareste la prima.

GHE.

(Entra nella camera, e vedendo le due che parlano, si trattiene in disparte per ascoltare.)

MAR.

Che perdanmi il rispetto sì facile non è.

D.EL.

Anch'io son conosciuta, e han detto anche di me.

GHE.

(Che parlan fra di loro?) (accostandosi un poco.)

MAR.

È vero, e a dir io sento

Che han di voi sospettato senz'alcun fondamento.

D.EL.

Dirò: per me Torquato ha della stima in cuore;

È facile la stima interpretarsi amore.

MAR.

(L'ambizion la seduce).

GHE.

(Non intendo parola).

MAR.

Torquato il suo rispetto non mostrò per voi sola.

D.EL.

Né sol per voi.

MAR.

Gli è vero, ma di me parla il mondo.

Dite, s'inganna forse?

D.EL.

Non so, non vi rispondo.

GHE.

(Se non sento, patisco). (s'accosta un altro poco.)

MAR.

Dite liberamente...

D.EL.

Io non saprei che dirvi. Dubbio è ciò che si sente.

MAR.

È ver, ma si potrebbe... (È qui vostro marito). (piano.)

D.EL.

(Sarà qui ad ascoltarci. Vuò trargli l'appetito). (piano.)

MAR.

(Cosa non è ben fatta)... (piano.)

D.EL.

D'amore in testimonio, (principia a parlar forte.)

Mi consolo con voi del vicin matrimonio.

Vuò darvi un buon consiglio da usar col vostro sposo:

Fatelo disperare quand'ei fosse curioso;

Se vuol sentir che dite, se vuol veder che fate,

A rispettar impari le femmine onorate.

GHE.

(Si ritira un poco.)

D.EL.

E quando in lui cadessero di voi falsi sospetti,

Trattatelo qual merta, fategli dei dispetti.

GHE.

(Si ritira ancora.)

D.EL.

In questa guisa, amica, si troverà la strada

Di chiarire i curiosi.

GHE.

(Megli'è che io me ne vada). (da sé, volendo partire.)

MAR.

(Parte). (piano a donna Eleonora.)

D.EL.

(L'ho fatto apposta).

MAR.

Torquato in questo loco? (osservando la scena.)

D.EL.

Che mai vorrà?

GHE.

(Torquato? voglio ascoltare un poco). (da sé; torna indietro, e si ricovera in un'altra stanza.)

SCENA TREDICESIMA

Torquato e detti.

TOR.

Godo trovarvi unite.

MAR.

Godo vedervi anch'io.

D.EL.

Che da noi comandate?

TOR.

Dirvi per sempre addio.

D.EL.

Come?

MAR.

Perché?

TOR.

Ch'io parta vuol l'avverso destino:

Andrò per l'ampia terra disperso pellegrino.

GHE.

(Esce pian piano, e si va accostando per ascoltare.)

TOR.

Mi vuole il mio Sovrano lontan dalla sua Corte;

Andrò dove mi guida la barbara mia sorte.

GHE.

(Vuole andar via, non vuole svelar l'occulto affetto).

D.EL.

Non è tiranno il Prence. Si sa quel ch'egli ha detto.

Vuol saper di Torquato quale la fiamma sia;

Basta, perché restiate, troncar sua gelosia.

GHE.

(Sentiam cosa risponde).

MAR.

Basta, perché restiate,

Dir ch'è donna Eleonora quella che più stimate.

GHE.

(Oh, la sarebbe bella!)

D.EL.

Dirlo non può.

TOR.

L'arcano

Dal labbro il mondo tutto cerca strapparmi invano.

Amo, egli è ver pur troppo: d'amar solo m'appago;

Son di mercede indegno, son di pietà non vago.

Par che non s'ami al mondo, che per goder soltanto;

D'amar senza speranza vuole Torquato il vanto;

E ricusando ancora d'amor sì strano il merto,

Delle mie fiamme al mondo serbo l'oggetto incerto.

Pietà desti il mio caso in chi l'ascolta e vede:

Serva d'esempio altrui l'onor mio, la mia fede;

E ognun che ha cuore in petto, pria che d'amor s'accenda,

A esaminar le fiamme, a paventarle apprenda.

Belle in man di Cupido sembrano le catene,

Veder non lascia un cieco quel che a noi non conviene;

E quando fra' suoi lacci stretti siam dal tiranno,

Allor di noi si ride, mostrandoci l'inganno.

Intendami chi puote: spiegano i detti miei

Ch'io tal bellezza adoro, che adorar non dovrei.

Ma tali e tante sono quelle del nobil sesso,

Che per se stessa ognuna può interpretar lo stesso.

GHE.

(Torno ad esser dubbioso).

MAR.

Torquato, i vostri detti

Che spieghino non poco parmi gli occulti affetti.

Rimorso voi provate al vostro cuor fatale.

Donna Eleonora è moglie.

GHE.

(Affé, non dice male).

TOR.

Interpretar si tenta gli occulti sensi invano.

D.EL.

V'ingannate, Marchesa. Io spiegherò l'arcano.

Sa che del Duca sposa voi sarete a momenti;

È pieno per il Duca d'onesti sentimenti;

Però...

TOR.

Che? la Marchesa sposerà il suo signore?

D.EL.

La parola gli ha data.

TOR.

Quando?

D.EL.

Saran poch ore.

TOR.

È ver? (alla Marchesa.)

MAR.

Maravigliate?

TOR.

Dite s'è vero.

MAR.

Sì.

TOR.

(Ah, soffrirlo non posso).

MAR.

Volea...

TOR.

Basta così. (ammutolisce.)

GHE.

(Zitto, che ora si scuopre).

D.EL.

(Dubito ch'ella sia).

MAR.

(Si svelerà l'arcano, se di me ha gelosia).

TOR.

(Son fuor di me).

D.EL.

Torquato, che vuol dir? Vi dispiace

Ch'ella si sposi al Duca?

TOR.

Deh, lasciatemi in pace.

MAR.

Se avete di me stima, se ragionevol siete,

Ciò vi darà conforto.

TOR.

Deh per pietà, tacete.

GHE.

(La Marchesa senz'altro).

TOR.

Qual dal mio cuore ascende

Fiamma insolita, atroce, che la testa m'accende?

Dove son? chi mi regge?

D.EL.

Ohimè! diventa matto.

MAR.

Deh, pensate a voi stesso.

GHE.

(Voglio scoprirlo affatto).

TOR.

Donne... pietose donne... ohimè... Torquato è pazzo.

GHE.

Mi rallegro con voi. (a Torquato.)

TOR.

Vattene, o ch'io t'ammazzo. (impugna la spada contro don Gherardo.)

GHE.

(Fugge via.)

SCENA QUATTORDICESIMA

Torquato, la Marchesa e donna Eleonora.

MAR.

Numi!

D.EL.

Ohimè! (timorosa.)

TOR.

Non temete; non è Torquato insano.

Odio chi del mio cuore cerca saper l'arcano.

D.EL.

Questo di già è palese.

TOR.

Chi l'ha svelato?

D.EL.

Voi.

TOR.

Non è ver, l'avrà detto il cuor coi moti suoi.

Voi non sapete nulla. (alla Marchesa.)

MAR.

L'intesi a mio rossore.

TOR.

Il cuor l'averà detto: voglio strapparmi il cuore.

MAR.

Deh, la ragion vi freni; calmi ragione il foco.

D.EL.

Sì sì, voi lo potete calmare a poco a poco.

Ammirerà ciascuno della bellezza i vanti:

La marchesa Eleonora fa delirar gli amanti. (parte.)

SCENA QUINDICESIMA

La Marchesa Eleonora e Torquato.

MAR.

Rido de' suoi motteggi; colpevole non sono.

Questo basti al cuor mio.

TOR.

Ah, vi chiedo perdono.

MAR.

Di che?

TOR.

Non saprei dirlo. Dubito avervi offesa.

MAR.

Capace non vi credo.

TOR.

Siete voi la Marchesa?

MAR.

Deh, per amor del cielo, deh tornate in voi stesso.

Svegliatevi, Torquato.

TOR.

Sì, mi risveglio adesso.

Felice me, se nel morir non reco

Questa mia peste ad infettar l'inferno.

Restine amor, venga sol sdegno meco,

E sia dell'ombra mia compagno eterno...

Sani piaga di stral piaga d'amore,

E sia la morte medicina al cuore. (parte.)

SCENA SEDICESIMA

La Marchesa Eleonora sola.

MAR.

Misero! qual mi desta pietà del suo cordoglio?

Tutto quel che far puossi, far per suo bene io voglio.

...Essere a me conviene,

Se fui sola all'onor, sola alle pene. (parte.)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Sior Tomio ed il Cavalier del fiocco.

TOM.

La diga, caro sior, xe vero quel che sento?

Xe vero che Torquato i l'abbia messo drento?

CAV.

Non metto il becco in molle; vuole il dover ch'i' ammutole;

Quello che ha fatto il Duca, reputo giusto ed utole.

TOM.

Utole? no v'intendo.

CAV.

Bocabolo è antichissimo.

Dir utole per utile, è parlar toscanissimo.

TOM.

Tutto quel che volè. Domando de Torquato.

Me diseu dove el sia, Sior Cavalier garbato?

CAV.

Per ordine del nostro Signor molto magnifico,

Credo sia allo spedale il poeta mirifico.

TOM.

All'ospeal? per cossa?

CAV.

Per esser cagionevole,

Babbeo, squasimodeo, bietolon miserevole.

TOM.

Coss'è sto strapazzar? Tasè, sior boccazzevole,

O ve dirò anca mi qualcossa in venezievole.

Torquato all'ospeal? creder nol posso ancora;

Ma se el ghe fusse, el Duca lo farà vegnir fora.

Lo pregherò per grazia lassarlo vegnir via;

Se el lassa sto paese, ghe passa ogni pazzia.

El goderà a Venezia zorni assae più felici,

E el farà magnar l'aggio a tutti i so nemici.

CAV.

Vadia dove gli pare, formato è il vaticinio:

Fia sempre scardassato de' Toschi allo squittinio.

Non è per tal bucato il cencio suo lordissimo.

Mena l'oche a pastura: proverbio antiquatissimo.

TOM.

Anca nu dei proverbi gh'avemo in abbondanza;

Se dise: la superbia xe fia dell'ignoranza;

No se mesura i omeni col proprio brazzolar;

Per esser respettai, bisogna respettar;

Travo in nu no se vede, se vede in altri el pelo;

Dei aseni, se dise, la ose no va in cielo.

Coi proverbi toscani vu ne l'avè sonada;

Respondo in venezian. Botta per zuccolada.

SCENA SECONDA

Don Fazio e detti.

FAZ.

Scheavo de vossoria. Ditemi a me no poco:

Torquato dov'è ito? non c'è chiù in chisso loco?

Domanno a chisso, a chillo, nessun no me responne,

Chi chiacchiera, chi chiagne, chi tace e se confonne.

TOM.

Mi no so gnanca mi cossa de lu sia stà;

Domandèlo a sto sior, che lu lo saverà.

FAZ.

Famme chisso piacere, dimmelo, bene mio;

Commaneme; se pozzo, te serviraggio anch'io.

CAV.

Domine! quai smodate parolaccie ridicole!

Castronerie cotali mi scroscian nelle auricole.

Per carità, tacete. Starmi non posso al pivolo,

Udendo chi non bebbe l'acqua del tosco rivolo.

FAZ.

Che mallora de tiermene? (a sior Tomio.)

TOM.

El parla sdruzzolato,

Perché co una verìgola i gh'ha sbusà el gargato.

FAZ.

Dimme dov'è Torquato; no me tormentà chiù.

Me lo bo dire a me?

CAV.

Siete caparbio.

FAZ.

Ahù! (con esclamazione.)

SCENA TERZA

Don Gherardo  e detti.

GHE.

Padroni stimatissimi, m'inchino a questo e a quello.

Che si fa, che si dice, che parlasi di bello?

TOM.

Se cerca de Torquato. Da vu saverlo spero:

All'ospeal xe vero che i l'abbia messo?

GHE.

È vero.

TOM.

Poverazzo! per cossa?

GHE.

Perch'è un po' pazzarello,

Perché diè qualche segno di debole cervello.

TOM.

Se ognun che ha cervel debole, s'avesse da serrar,

Un ospeal grandissimo bisogneria formar.

FAZ.

E fra li pazzarelli, de tutti lo sovrano

Saria chisso citrullo che chiacchiera toscano.

CAV.

Parlate con rispetto d'un uomo che s'annovera

Fra quei che della Crusca il frullone ricovera;

D'uno che del buon secolo seguace zelantissimo,

Farà le fiche al vostro poeta scorrettissimo;

E proverà ch'ei dice in tutti i venti cantici

Cose da dire a vegghia allo soffiar dei mantici.

TOM.

De defender Torquato sarà l'impegno mio.

FAZ.

L'onor de sì Torquato defenderaggio anch'io.

GHE.

Bravi. Starò a sentirvi con un piacere estremo.

Or or nelle mie stanze a rinserrarci andremo.

CAV.

Essi diran covelle; io parlerò coi termini:

Farò che il lor Goffredo si laceri, si stermini.

De' fogli di colui, che ha rozzo scilinguagnolo,

Potrà pel salsicciotto servirsi il pizzicagnolo.

SCENA QUARTA

Sior Tomio, don Fazio, don Gherardo.

TOM.

Mo siestu maledetto! chi diavolo l'intende?

Coss'è sto pizzicagnolo?

GHE.

Quel che il salame vende.

FAZ.

Chillo che vende in chiazza la carne d'annemale,

Salsiccia, cotecchino, prosciutto e capezzale.

TOM.

No se perdemo in chiaccole, che un bagattin no val:

Chi ha fatto che Torquato se metta all'ospeal?

GHE.

L'ha comandato il Duca.

TOM.

Perché?

GHE.

Perché Torquato

L'amor, ch'era dubbioso, finalmente ha svelato.

E al Principe, che freme perciò di gelosia,

Servito ha di pretesto quel po' di frenesia.

TOM.

Donca, per quel che sento, sto amor s'ha descoverto?

FAZ.

Lo core 'nnamorato de chi se sa de cierto?

GHE.

Sè discoperto alfine; con fondamento il so.

TOM.

Contème...

FAZ.

Dimme schitto.

GHE.

Tutto vi narrerò.

Saran due ore appena...

SCENA QUINTA

Donna Eleonora e detti.

D.EL.

Siete qui?

GHE.

Che comanda?

D.EL.

In nome di Torquato, un messo vi domanda.

GHE.

Andrò quando potrò.

TOM.

Fenì ste do parole. (a don Gherardo.)

GHE.

Ritornando al proposito... si sa che cosa vuole? (a donna Eleonora.)

D.EL.

Il messo non l'ha detto, ma so cosa vorrà.

FAZ.

Scompeta. (a don Gherardo.)

GHE.

Son con voi. (a don Fazio.) V'è qualche novità? (a donna Eleonora.)

D.EL.

Giunto è testé da Roma l'amico di Torquato,

Da lui, come sapete, da più giorni aspettato.

Seco parlò poc'anzi...

GHE.

S'io l'avessi saputo!

TOM.

(Colla mano tira a sé don Gherardo, perché parli.)

GHE.

Zitto. (a sior Tomio.) Dove si trova il forestier venuto? (a donna Eleonora.)

D.EL.

S'è portato dal Duca.

GHE.

Dal Duca? ed ei l'ascolta?

D.EL.

Parlano insieme.

GHE.

Parlano?

TOM.

E cussì? (a don Gherardo.)

GHE.

Un altra volta. (a sior Tomio, e parte sollecitamente.)

SCENA SESTA

Donna Eleonora, sior Tomio, don Fazio.

TOM.

Tolè su, co sto garbo l'è andà via, el n'ha impiantà;

L'ha sentio el forestier. Tutta curiosità.

FAZ.

Chisso è no lazzarone, chisso è no malcreato;

Co mico non ce parla. Pozz'essere afforcato.

D.EL.

Sparlar de' galantuomini l'onestà non insegna.

S'egli da voi partissi, non fe' un'azione indegna.

Fe' suo dover partendo. La faccia a voi rivolta,

Vi salutò cortese, vi disse: un'altra volta.

TOM.

Sì ben, ma in do parole el ne podeva dir

Quello che ne premeva de saver, de sentir.

D.EL.

Ridere voi solete delli difetti altrui.

E siete, a quel ch'io vedo, curiosi al par di lui.

Ma che saper vorreste? Parlatemi sinceri;

Se posso soddisfarvi, lo farò volentieri.

TOM.

Tanto gentil la xe, quanto graziosa e bella.

FAZ.

Me peace, è de bon core. Viva la picciriella!

TOM.

Se dise che Torquato abbia svelà el so cuor:

Voressimo saver chi xe el so vero amor.

D.EL.

Vi dirò: non ha molto, v'era Torquato ed io,

Eravi la Marchesa, ei ci diceva addio.

Staccandosi da noi, dolente tramortì;

Pianse, svelò il suo affetto; ma non si sa per chi.

FAZ.

Dice lo sì Gherardo, che smamara la gnora.

TOM.

Che l'ama la Marchesa.

D.EL.

Ei non l'ha detto ancora.

Parve che nel sentirla vicina ad esser sposa,

Spiegasse i sentimenti dell'anima gelosa.

Ma rivolgendo i lumi nel tempo stesso a me,

Ei sospirando andava, né si sapea perché.

TOM.

Ma perché don Gherardo dir che l'altra la sia?

D.EL.

Per adular se stesso nel gel di gelosia.

FAZ.

Sì, sì, t'aggio caputo. È 'nn omo ch'è politeco;

Crede nella mogliera, non è marito stiteco.

D.EL.

Già la Marchesa canta per sé l'alta vittoria,

Dell'amor di Torquato facendosi una gloria.

Io potrei disputarle del buon poeta il cuore,

Ma d'una sposa onesta nol tollera l'onore.

Dicasi pur ch'egli ami della Marchesa il volto,

Lo so che non è vero, lo so ch'ei non è stolto.

Ma è meglio che si dica, ama una vedovella;

Anzi che dir, egli ama una sposa novella:

Mentre, quantunque invano sperar da me si possa,

Dal mondo facilmente la critica s'addossa.

Non s'ha da dir ch'io gli abbia fiamma nel seno accesa;

Dicasi, anch'io lo dico: egli ama la Marchesa.

Sia giusto, o non sia giusto, dee credersi così.

Io so pur troppo il vero. Voi lo saprete un dì. (parte.)

SCENA SETTIMA

Sior Tomio e don Fazio.

FAZ.

Maro me! no l'antienno. Me pare una sibilla.

TOM.

Mi, compare, l'intendo. No la xe una pupilla.

La sa el so conto; e vedo, da quel che la ne spazza,

Che ai gonzi la vorave vender pan per fugazza.

La vien co dei partidi, la fa la sussiegada,

Perché no la gh'ha cuor de dir, son desprezzada.

A mi nol me convien, la dise, e ghe lo lasso.

Dirò de sta parona, co dise el nostro Tasso:

Vela il soverchio ardir colla vergogna,

E fa manto del vero alla menzogna.

FAZ.

E a Napole dicimmo, in stil napoletano

Chiù dolce e saporito, chiù bel dello toscano:

Fa che ncesia lo scuorno a tanto pietto,

E lo bero a lo fauzo faccia lietto. (parte.)

TOM.

In quanto a questo po, per dir la veritae,

Tradotto in lengua nostra el xe più bello assae:

E perché no ti pari una sfazzada,

Mostra de vergognarte, e sta sbassada. (parte.)

SCENA OTTAVA

Camera di Torquato.

Torquato e don Gherardo.

GHE.

Mi rallegro vedervi dallo spedale uscito.

Ehi, dite, della testa siete poi ben guarito?

TOR.

Qual sia la mente mia dirvi non so, signore;

So che persiste ancora la malattia del cuore.

GHE.

Sono soggetti i dotti a malattie più strane;

Quanto studiano più, patiscono più rane.

Che hanno che far tra loro il cuore ed il cervello?

Lo stesso che han che fare le scarpe col cappello.

TOR.

Sapreste delle parti l'interna analogia,

Se fossevi piaciuto studiar l'anatomia.

L'origine de' nervi, che si dirama e unisce,

Dal cerebro principia, nel cerebro finisce;

E se una corda istessa la macchina circonda,

Ragion vuol che toccata quinci e quindi risponda.

Ciò che dà moto e senso ai nervi principali,

Chiamasi sugo nerveo, o spiriti animali;

E questi di mal sorte resi dall'uom pensoso,

Si fa l'alterazione nel genere nervoso.

Chi studia, chi s'affanna, chi vive in afflizione,

I spiriti consuma con ria distribuzione;

E nel canal de' nervi tal umor s'introduce,

Che stimola, che irrita, che alterazion produce,

Lassezza, convulsioni, tremor, paralisia,

Vapori ipocondriaci, apprensioni e pazzia;

Poiché gli uomini affetti da tal disgrazia orrenda,

Plus quam timenda timent, timent quae non timenda.

GHE.

Per me non sarò mai ipocondriaco ed egro;

Son stato e sarò sempre senza pensieri e allegro.

Ditemi com'è andata, che il Duca mio signore

Dallo spedal sì presto v'ha fatto venir fuore?

TOR.

Giunse testé da Roma Patrizio, amico mio,

Mandato per giovarmi dal ciel benigno e pio.

Venne a vedermi, e apprese ch'io non passava il segno:

Che m'avea chiuso il Prence non per pietà, per sdegno.

Mi confortò, mi disse che avea lettere tali

Da presentare al Duca de' nomi principali,

Che ben sperar poteva di carcere esser tratto;

Indi alle sue parole ecco rispose il fatto.

Per ordine del Prence mi si aprono le porte,

Però mi si destina per carcere la Corte;

Finché dal nuovo cenno di lui, che umile inchino,

In breve a me si faccia sapere il mio destino.

GHE.

Voi parlate sì bene, sì franco, e sì sensato,

Che fuori di cervello non par mai siate stato.

TOR.

Della manìa non giunsi, grazie al cielo, agli orrori.

Ascendono talvolta al cerebro i vapori;

Ma questi indi sedati dal tempo e da ragione,

Sgombran le nere larve de' spirti la regione,

Tornando l'intelletto più lucido e sereno,

Calmata la passione che m'agita nel seno.

GHE.

Or che far risolvete? che dice il vostro cuore?

Come anderà la cosa del discoperto amore?

TOR.

Ah barbaro, ah crudele! A suscitar tornate

Le smanie del mio cuore dalla ragion calmate. (irato.)

GHE.

Non parlo più. (mostrando timore.)

TOR.

Ma, oh cielo! dunque vagl'io sì poco?

Dunque dovrà ragione cedere al senso il loco?

No, no, parlate pure. Svegliate in me la face:

V'ascolterò costante, sì, soffrirollo in pace.

GHE.

Bravo, Torquato, bravo: così voi mi piacete;

Far veder che siet'uomo, che ragionevol siete.

Porta Eleonora, è vero, amor negli occhi suoi;

È bella la Marchesa, ma già non è per voi.

Il Principe l'adora, la vuol per sua consorte...

TOR.

Basta, ohimè!

GHE.

Cos'è stato?

TOR.

Voi mi date la morte.

GHE.

Non si guarisce mai, quando il cervello è ito.

TOR.

Stolto mi reputate? (con sdegno.)

GHE.

No, no, siete guarito.

SCENA NONA

Targa e detti.

TAR.

Signor, una parola.

TOR.

Parla.

TAR.

Da voi e me.

TOR.

Con licenza. Padrone. (a don Gherardo, accostandosi a Targa.)

GHE.

(Che novità mai c'è?)

TAR.

(La Marchesa vorrebbe favellarvi in segreto). (a Torquato.)

TOR.

(A me?) (con qualche movimento.)

TAR.

(A voi, signore).

TOR.

(Quando?)

TAR.

(Adesso).

GHE.

(È inquieto). (accostandosi un poco.)

TOR.

(Che farò?)

GHE.

(Son curioso).

TAR.

(Risolvere conviene).

TOR.

(Dille...)

GHE.

(Dille!) (ripete la parola udita.)

TOR.

(Che venga).

GHE.

(Non ho sentito bene). (s'accosta ancora un poco.)

TAR.

Verrà, ma è necessario scacciar quell'insolente. (parte.)

TOR.

Che impertinenza è questa? (voltandosi improvvisamente.)

GHE.

Non ho sentito niente.

TOR.

Don Gherardo, vi prego partir per cortesia.

GHE.

Non vuò lasciarvi solo.

TOR.

Mi verrà compagnia.

GHE.

L'ambasciata vi ha fatto?

TOR.

M'ha fatto l'ambasciata.

GHE.

Chi è?

TOR.

Non posso dirlo.

GHE.

State sulla parata.

Non vi fidate, amico. Temer sempre conviene:

Lasciatemi con voi, restar per vostro bene.

TOR.

Non ho bisogno; andate.

GHE.

Venga chi ha da venire.

Vi lascerò poi seco.

TOR.

Vi prego di partire.

GHE.

Di partir non ricuso, ma nel lasciarvi io dubito...

TOR.

Giuro al cielo, partite.

GHE.

Sì, signor, parto subito. (parte.)

SCENA DECIMA

Torquato, poi la Marchesa Eleonora.

TOR.

Quante pazzie nel mondo son della mia peggiori!

Che pazzi tormentosi son cotai seccatori!

Ma vien la donna. Ohimè! saldo resisti, o cuore:

Prevalga la ragione a fronte dell'amore.

E nella ria battaglia sian pronte al mio periglio,

Del dover, dell'onore, le massime e il consiglio.

MAR.

Deh, l'ardir perdonate...

TOR.

Vi prego accomodarvi.

MAR.

Serio affar mi conduce.

TOR.

Son pronto ad ascoltarvi. (siedono.)

MAR.

Vorrei, pria di spiegarmi, essere certa appieno

Che sia in vostro potere delle passioni il freno;

Vorrei mi assicuraste, che la virtù virile

Serbate fra i disastri d'un animo non vile.

TOR.

Quel che prometter posso, a voi giuro e prometto;

Forza farò a me stesso, per soggiogar l'affetto.

Voi colla virtù vostra segnatemi la strada,

Onde trionfi appieno, onde in viltà non cada.

MAR.

Uditemi, Torquato. Vano è celar l'amore,

Che voi per me nudriste con gelosia nel cuore.

Di perdermi sul punto, da fier dolore oppresso,

L'arcano custodito tradiste da voi stesso.

Ed io, nello scoprire la piaga vostra acerba,

D'esserne la cagione andai lieta e superba.

Piacquemi in faccia vostra una rivale ardita,

Scoperto il vostro foco, mirare ammutolita.

Piacemi, e in ogni tempo mi sarà dolce e grato,

Dir ch'io fui per mia gloria la fiamma di Torquato.

Ma più di ciò non lice sperare a me da voi.

Voi, che sperar potete? corrispondenza? e poi?

E poi ambi infelici noi ridurrebbe amore,

Senza conforto all'alma, senza mercede al cuore.

Di me dispor non posso: altrui mi vuol legata

Quella maligna stella, sotto di cui son nata;

E se di sciorre il nodo fossi soverchio ardita,

Potrei a me la pace, a voi toglier la vita.

Onde, qualor da voi penso disciormi e 'l bramo,

Segn'è che vi son grata, che più vi stimo ed amo:

Sì, vi stimo, v'apprezzo, di voi non vo' scordarmi,

Ma deggio a pro comune per sempre allontanarmi.

Se voi di qua partite, io con onor qui resto;

Se qui restar vi piace, quindi partir m'appresto.

Può la partenza mia formar l'altrui martoro;

Può la partenza vostra salvar d'ambo il decoro.

Troppo di voi mi cale; voi nel mio cuor leggete.

Scusatemi, Torquato, pensate ed eleggete.

TOR.

Ho pensato, ho risolto, ho nel mio cuore eletto.

Partirò. (s'alza.)

MAR.

Partirete? (s'alza.)

TOR.

Vinca ragion l'affetto.

Quel ragionar... quei lumi... quella virtute... ohimè!

MAR.

Ah Torquato!

TOR.

Ove sono?

MAR.

Che fia?

TOR.

Son fuor di me. (si getta sopra una sedia.)

MAR.

Ahi, dal dolore oppresso il misero è svenuto.

Sola, che far poss'io? Gente, soccorso, aiuto.

SCENA UNDICESIMA

Eleonora e detti.

ELE.

Che c'è, signora mia?

MAR.

Bisogno ha di conforto

Il povero Torquato.

ELE.

(Vorrei che fosse morto). (da sé.)

MAR.

Cerca chi lo soccorra. Presto, il meschino aiuta.

ELE.

Io non saprei che fargli. Per voi son qui venuta.

Il Duca a voi, signora, manda questo viglietto.

MAR.

Lo leggerò. Tu resta. (si ritira per leggere.)

ELE.

Restar non vi prometto.

Crepa, schiatta, briccone, pieno d'inganni, astuto,

Perfido, senza fede… (strillando contro Torquato.)

TOR.

Chi mi soccorre? (destandosi impetuosamente.)

ELE.

Aiuto. (fugge paurosa.)

SCENA DODICESIMA

La Marchesa Eleonora, Torquato poi sior Tomio e Don Fazio.

MAR.

Che fu? (accostandosi.)

TOR.

Dove son io?

TOM.

Coss'è, cossa xe stà?

FAZ.

Che ave lo sì Torquato?

MAR.

Ei merita pietà.

TOM.

Tórnelo a dar la volta?

FAZ.

Tornammo en ciampanelle?

TOR.

Amici, il morir mio minacciano le stelle.

TOM.

Andemo via de qua.

FAZ.

Annamo in altro stato.

MAR.

Al cuor de' veri amici arrendasi Torquato.

TOR.

Se arrendere mi deggio al doloroso esiglio,

Valgami di voi sola la voce ed il consiglio.

Questa è colei, amici, questa è colei che adoro:

Lascio in lei la mia vita, in lei lascio un tesoro.

Ella, che all'onor suo, che all'onor mio provvede,

Al partir mi consiglia. Freme il mio cuor, ma cede.

TOM.

Bravo...

FAZ.

Mo me fa chiagnere.

MAR.

Questo viglietto aggiunga

Ragion che alla partenza vi stimoli e vi punga.

Il Duca vi minaccia; parla a me da sovrano;

Vuol che sugli occhi vostri a lui porga la mano.

Dunque...

TOR.

Non più, Madama; non più, sì, me n'andrò.

FAZ.

Dove vo ir Torquato?

TOM.

Dove andereu?

TOR.

Non so.

SCENA TREDICESIMA

Targa e detti; poi il Cavalier del fiocco

TAR.

Viene, signor padrone, un altro forestier.

TOR.

Venga, sarà Patrizio. (Targa parte.)

TOM.

Addio, sior Cavalier. (al Cavalier che viene.)

CAV.

Ecco, qual le bertucce cinguettano a proposito:

Dicesi addio, partendo; giugnendo, è uno sproposito.

TOM.

Sior correttor de stampe, mi parlo a modo mio;

Se cussì no ve comoda, tirè el saludo indrio.

Andè quando volè, vegnì quando ve par,

No ve saludo più, ve mando... a saludar.

TOR.

Ma il forestier dov'è?

CAV.

Or or verrà Patrizio:

Quel ch'appo il Duca nostro reca per voi l'auspizio.

Verrà, ma se Torquato non è al partir celerrimo,

Diverrà il Prence allotta col tracotante acerrimo.

MAR.

Sì, partirà Torquato. Sì, partirà a momenti;

Saranno i suoi nemici, saran tutti contenti.

CAV.

Vada a purgar la lingua dove i suoi par si cribrano;

Dove le doppie lettere col doppio suon si vibrano;

Dove farina e crusca con il frullon si scevera;

Dove nel latte gongola, chi d'Arno mio s'abbevera.

TOM.

El vegnirà a Venezia, e el se consolerà.

FAZ.

Napole è deliziusa.

TOM.

Venezia è una città

Bella, ricca, amorosa; tutti el sa, tutti el dise.

FAZ.

Napole è dello munno lo chiù bello paise.

CAV.

Firenze ha consolevole l'acqua, la terra e l'etera.

FAZ.

Vedi Napoli, e mori.

TOM.

Vedi Venezia, etcetera.

SCENA QUATTORDICESIMA

Patrizio e detti.

PAT.

Torquato, a voi ritorno. Amici, a voi m'inchino.

TOR.

Che mi recate, amico?

PAT.

Forse miglior destino.

Roma, de' letterati conoscitrice e amica,

Che nell'amar virtute supera Roma antica,

Se a coltivar in essa le scienze e le bell'arti

Sogliono i rari ingegni venir da mille parti,

Roma Torquato apprezza, loda lo stile eletto,

Il nobil genio ammira, il facile intelletto.

Piace la gentil arte, onde i suoi carmi infiora;

Piaccion le scelte prose, onde l'Italia onora;

E l'opera, per cui giugne alla gloria estrema,

È la Gerusalemme, vaghissimo poema,

In cui de' più famosi non va soltanto appresso,

Ma supera gli antichi, e supera se stesso.

Merito sì sublime, che al Tebro alto risuona,

Giust'è che abbia de' vati degnissima corona.

Questa de' nomi illustri certa gloriosa marca,

Or due secoli sono, incoronò il Petrarca.

Tasso, che al par di lui reso famoso è al mondo,

Dopo il lirico vate, abbia l'onor secondo;

Anzi, se in metro vario ciascun di loro è chiaro,

Cinti d'egual corona seder veggansi al paro.

Ecco, Torquato, amico, ecco l'onore offerto

A te da Roma tutta, che ti prepara il serto.

Vieni di tue fatiche a conseguire il frutto;

Cigni la nobil fronte in faccia al mondo tutto;

Che più d'ogni mercede, più dell'argento e l'oro,

L'alme bennate apprezzano il sempre verde alloro.

Fremano i tuoi nemici, cessi l'invidia l'onte:

Maggior rispetto esiga l'onor della tua fronte.

Vieni del Tebro in riva a ornar la bionda chioma.

Chi ti promove è il mondo, chi vuol premiarti è Roma.

TOR.

Ah sì, veggami Roma grato a sì dolce invito.

Gloria, mio dolce nume, rendimi franco e ardito.

Di due passion feroci, che m'han ferito il cuore,

Una vinca, una ceda; ceda alla gloria amore.

Donna gentil, sa il cielo se nel lasciarvi io peno,

Ma il bel desio d'onore tutto m'infiamma il seno.

Muoresi alfine, e morte toglie il bel che s'adora;

Vive la gloria nostra dopo la morte ancora.

Ah che di fama il pregio, ah che di Roma il nome

Tutte le mie passioni ha soggiogate e dome:

Una serbata solo a pro del mio decoro,

Che anela, che sospira l'onor del sacro alloro.

Vadasi al Tebro augusto. Sappialo il Signor mio.

Corte, Ferrara, amici, bella Eleonora, addio.

MAR.

(M'esce dagli occhi il pianto).

TOR.

Parole più non trovo!

FAZ.

Mo mo, me vien da chiagnere.

SCENA ULTIMA

Don Gherardo e detti.

GHE.

Che cosa c'è di nuovo?

CAV.

Vada Torquato a Roma al suon di fischi e nacchere;

Coronisi il poeta di pampini e di bacchere.

Del romanesco alloro più vaglion due manipoli

Di foglie di gramigna, raccolta in pian di Ripoli.

Cozzar coi muriccioli i Romaneschi sogliono;

Mordere le balene credono i granchi, e vogliono.

Sanno il loglio dal grano solo i Toscani scernere:

Il prun dal melarancio Roma non sa discernere.

Codesti barbassori si stacciano e crivellano;

Fanno baldoria altrove, e da noi si corbellano.

GHE.

Bravo! questi proverbi, questi bei paragoni,

Fan gli uomini talora comparir omenoni.

TOM.

Donca vu avè risolto? (a Torquato.)

TOR.

Sì, non più dubitate.

GHE.

Ehi, che cosa ha risolto? (alla Marchesa.)

MAR.

A lui ne domandate.

FAZ.

Roma è la via che mena allo paese mio.

Annamo, sì Torquato, che veniraggio anch'io.

GHE.

Che? vuol andare a Roma? (a Patrizio.)

TOM.

Co sarè incoronà,

La lite della patria Roma deciderà,

Se de Bergamo in grazia, sia el Tasso venezian,

O in grazia de Sorriento, se el sia napolitan.

Intanto no ve lasso, vegno con vu anca mi.

GHE.

Dunque il Tasso va a Roma? (a Sior Tomio.)

TOM.

(Che seccator!) Sior sì.

GHE.

È ver che andate a Roma? (a Torquato.)

TOR.

Tempo è ormai che tacciate.

GHE.

Per che cosa va a Roma? (alla Marchesa.)

MAR.

Nol so. (adirata.)

GHE.

Non vi scaldate.

Parlo con civiltà, non rubo, ma domando.

(Tanto domanderò, che saprò come e quando).

PAT.

Torquato, ho già fissata l'ora del partir mio;

Sollecitar vi piaccia.

TOR.

Sì, con voi sono. Addio.

Addio, bella Eleonora, che foste un dì mia pena,

Che ognor sarete al cuore dolcissima catena.

Vado alla gloria incontro, mercé il consiglio vostro;

Per rendervi giustizia pien di valor mi mostro.

Ma, ohimè, che nel lasciarvi il piè vacilla, e l'alma

Perder a me minaccia... del suo valor la palma...

Sentomi al capo ascendere dal fondo, ohimè, del cuore

Dell'ipocondria nera un solito vapore...

Ma no, passion si vinca, no, non si faccia un torto

Alla virtù di lei, che recami conforto.

Begli occhi, se partendo più non degg'io mirarvi... (don Gherardo ascolta.)

Uditemi, curioso, voglio alfin sodisfarvi.

Amo costei, la lascio per forza di virtù;

Parto col dubbio in seno di non vederla più.

Combattere finora sentii gloria ed amore;

Or la passione è vinta dai stimoli d'onore.

Imparate, ed impari chi n'ha d'uopo qual voi,

Alla virtù nel seno svelar gli affetti suoi:

Che alle passion nemiche campo facendo il petto,

Perdere arrischia l'uomo il senno e l'intelletto:

E che il rimedio solo, per acquistare il lume,

È la ragion far guida dell'opre e del costume.

Parte per Roma alfine il misero Torquato,

Sperando dell'alloro esser colà fregiato.

Chi sa quel che destina di me la sorte ultrice?

Ma se l'onore ho in petto, vivrò, morrò felice.

Fine della Commedia.


([1]) Tomio in lingua veneziana vuol dir Tommaso.