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1 – GAIA

TRANSFERT

Copione teatrale in un atto unico

(Più epilogo con discussione)

Soggetto: Paola Elena Ferri

Sceneggiatura: Paola Elena Ferri, Alberto Barbagelata

PERSONAGGI PRINCIPALI

-Dottor Alessandro Palermo: Psicoterapeuta, uomo tra i 45 e i 50 anni, di aspetto attraente, look molto curato (stile “smart casual”), alto (1,80 m), snello ma non magro, carnagione olivastra, capelli corti, scuri (brizzolati) e mossi, occhi castano-scuro.

-Gaia De Saint Luc: donna sui 35 – 40 anni, di aspetto ambivalente (a volte trasandato, altre provocante), di media altezza, costituzionalmente magra. Potrebbe indossare due – tre parrucche, occhi scuri.

PERSONAGGI SECONDARI

-Ginevra Lelouch in Palermo: moglie di Alessandro, un paio d’anni meno di lui. Bionda, capelli lunghi, occhi azzurri, alta e piacente, di professione Event Planner. Buona madre.

-Amedeo Palermo: fratello di Alessandro. Di circa 40 anni, molto attraente, capelli scuri e mossi, un po’ lunghi e selvaggi, occhi verdi, incarnato olivastro, maniere accattivanti, tatuaggi alla moda, sportivo.

-Enrica Ferranti: madre di Alessandro. Curata, alta, magra. Capelli argentati, a caschetto e lisci, occhi scuri e occhiali alla moda, come l’abito curato. Dimostra meno della sua età (intorno ai 73 – 75 anni)

TRANSFERT

(Musica. Le luci si attenuano finchè diventa buio e il sipario è chiuso. La musica dura per qualche istante e poi si abbassa; si sente una voce maschile [ALESSANDRO] che dice [con le dovute pause] 🙂

Sì, buongiorno, sono il dottor Alessandro Palermo. Sì, conosco la dottoressa… le ha dato lei, il mio nome? Capisco. Dunque, le mie sedute durano un’ora circa e, durante quell’ora, lei potrà parlare liberamente dei suoi problemi, mentre io l’ascolterò, prendendo appunti. No, non si preoccupi per la questione economica: se ha delle difficoltà, ci metteremo d’accordo. La ringrazio per le parole di stima che le hanno comunicato nei miei confronti. D’accordo, io direi di vederci settimana prossima, magari giovedì, alle diciotto. Per lei va bene? Allora cominciamo così, poi decideremo insieme la durata e la frequenza della terapia. No, il primo colloquio è gratuito, non si preoccupi. Allora ci vediamo la settimana prossima, signora…? Gaia de Saint Luc… Bene, ho segnato. Arrivederci.

(Il volume della musica si alza di nuovo e poi, lentamente, le luci si alzano e il sipario si apre, permettendo di vedere lo studio di Alessandro, molto ordinato e in tinte neutre, sebbene la luminosità sia ovattata. La scrivania è di legno di noce e, sopra di essa, vi sono carte disposte ordinatamente, un portapenne pieno, un libro; c’è una piccola libreria proprio accanto alla scrivania e un orologio tondo, analogico, torreggia sul muro di fronte agli spettatori. Vi sono due quadri appesi alle pareti, entrambi a tematiche naturali. Una donna è già sdraiata sul lettino di fronte alla scrivania e Alessandro entra in scena da una quinta, sedendosi su una sedia che è posta di fronte ai piedi della paziente. La musica si spegne lentamente.)

GAIA

(La donna è stesa sul lettino, e parla con tono neutro, quasi assente. I suoi capelli corti e spettinati sono rovinati dai colpi di sole che non nascondono una forte ricrescita scura. Gaia indossa un maglioncino leggero di colore grigio, scollato, di due taglie più grande, e pantaloni neri, molto aderenti. Ai piedi indossa scarpe da ginnastica molto consumate. Il trucco leggero del suo viso sembra sfatto)

Non ho mai amato il latte. Non so nemmeno perché, dottore. Non mi piaceva e basta, lo vomitavo sempre. Quando ero molto piccola, intendo… Mia madre non mi ha mai allattata al seno e mi dava il biberon. Io lo rifiutavo, così lei mi diceva. E allora si arrabbiava e mi costringeva a berlo e io vomitavo. Così, mia madre mi metteva a letto e io gridavo come una pazza, forse perché avevo fame, non lo so… Ero troppo piccola, questi sono solo ricordi che mi sono stati raccontati. Non ho memoria nemmeno di quando sono stata mandata all’asilo per non disturbare il… lavoro di mia madre. Ecco, no, a dire la verità, qualcosa di quegli anni affiora alla mia mente. Sì, le maestre mi davano da bere il latte e io lo vomitavo, sempre, tutte le volte. Loro si arrabbiavano, proprio come faceva mia madre e mi costringevano a berne dell’altro. Erano suore… sì, lo erano: suore molto severe. (Rivolge ad Alessandro un sorriso malizioso) Sa che molte di loro erano amanti? Lo sapevamo tutte, io e le mie compagne. Eravamo solo femmine. Solo femmine! Capisce? Una volta, alcune di noi – io compresa – ci siamo nascoste in uno sgabuzzino che si affacciava sul corridoio dov’era il loro dormitorio. Per spiarle. Ce n’erano due che stavano sempre insieme, due suore che non si separavano mai. Quella volta, le abbiamo viste mentre si accarezzavano sotto la gonna, guardandosi intorno come se avessero paura di farsi scoprire. Quando hanno cominciato a baciarsi, una di noi ha starnutito e loro stavano quasi per scoprirci! Per fortuna siamo riuscite a scappare tutte insieme, prima che ci vedessero! (L’espressione del viso si fa assente di nuovo e il tono di voce torna neutro, come lo sguardo) Beh, comunque… odiavo il latte. Anche lui cercava di farmelo bere. Diceva che il suo era più buono, ma a me non sembrava affatto: era salato, molto salato. Vomitavo ancora di più, alla fine. Glielo dicevo ma lui mi rispondeva che mi avrebbe fatto diventare le labbra più belle… Prendeva un po’ del suo latte caldo e me lo spalmava sulla bocca e diceva: ecco, adesso sei perfetta, sei bellissima… E poi ha cominciato a spalmarmelo anche sul viso e sul collo (Comincia a toccare i punti di cui parla, con voce lievemente più bassa, quasi infantile) … E poi anche qui, sul petto (Allarga la camicetta, lasciando intravedere parte del seno rotondo sul torace piccolo) … E poi, sempre più giù, più giù, fino a farmelo scivolare qui, tra le gambe. Qui, proprio qui, e io sentivo quel liquido caldo che si raffreddava a contatto della mia pelle… E poi, un giorno, mi ha detto: adesso sei grande per bere il latte, adesso puoi avere il mio amore… Quanti anni avevo? Cinque, sei… Non ricordo. Però ricordo che ha cominciato ad affondarmelo in mezzo alle gambe (Le allarga lievemente, inarcando il ventre) e io pensavo: ma quanto è grosso, mi ucciderà! Sentivo male ma lui diceva che l’amore è fatto anche di sofferenza, proprio come diceva anche a mia madre quando le faceva le stesse cose… Io avevo paura e lui si eccitava ancora di più… (Rimane in silenzio per un breve istante, come in apnea, guardando nel vuoto, poi riprende a parlare con un tono di voce quasi flebile) Mi faceva male e mi piaceva. Lui sudava tantissimo e continuava, ha continuato per anni, finchè il dolore è diventato eccitazione e io godevo con lui quando sentivo male, mi divertiva vederlo ansimare mentre mi scopava e io gli chiedevo di più. Avevo fame del suo sesso. Lo facevo impazzire di piacere! (Si mette a ridere, e la sua risata non nasconde una sfumatura amara). Non so che fine abbia fatto, sa? Mia madre ne ha avuti tanti. Uno più, uno meno… che differenza avrebbe fatto non vedere più un viso? (Lo sguardo diventa pensieroso all’improvviso). Ma sa una cosa, dottore? Io non ricordo come fosse fatto quel viso. Per quanto io mi sforzi… non lo ricordo. Non ricordo nemmeno i suoi occhi. Eppure siamo stati amanti per così tanti anni… (Sorride di nuovo maliziosamente, mentre si accarezza il seno e fissa un punto nel vuoto) E’ strano. Ogni volta che parlo di queste cose i miei capezzoli diventano duri. Sono così duri da farmi quasi male. Gli uomini con cui sono stata mi hanno detto che quando mi diventano duri sono più buoni da leccare. Una volta ho provato a leccarmeli da sola, mentre con l’altra mano mi masturbavo. Ho goduto forse più di quando faccio sesso con un uomo! (Si mette a ridere in modo forzato. Poi, all’improvviso, si rivolge ad Alessandro con un lampo di curiosità nello sguardo) Che cosa prova quando le racconto tutto questo? Anche lei si eccita? Le diventa duro come a tutti gli altri uomini che conosco? (Torna a fissare il vuoto, con lo stesso tono pensieroso di poco prima) No… Forse lei non prova nulla. Lei è un professionista sufficientemente distaccato da poter gestire una puttana come me. Lei scopa a casa sua ma non scoperebbe mai al di fuori del suo matrimonio. Lei è semplicemente perfetto, un prete mancato! (Ride ancora, sempre con la stessa sfumatura forzata. Poi si siede e fissa Alessandro negli occhi, di nuovo con profonda curiosità) Mi dica dottor Palermo: lei crede in Dio?

(Musica. Il buio cala lentamente sulla scena che rimane in penombra, con Gaia che segue con gli occhi Alessandro e rimane ferma in quella posizione. L’uomo si alza dalla sedia e va verso il pubblico, mentre la luce lo illumina e cade il buio sulla scena dello studio. La musica cessa quando lui si ferma e inizia a parlare quasi subito.)

ALESSANDRO

(Abbozza un sorriso amaro) Ci siamo: sono arrivati i luoghi comuni. Beh, almeno tu hai avuto il coraggio di dirmelo in faccia: sono un prete mancato! Perché? Perché per fare bene il mio lavoro dovrei strapparmi l’anima e darla in pasto a tutti i miei pazienti? Da dove nasce questa idea che ti sei fatta, che vi fate tutti? O siamo saggi o siamo matti: i saggi li volete evirati e i matti cannibali, o stupratori, o assassini. Troppo difficile pensare che magari siamo solo uomini e donne, che abbiamo un odore, dei pensieri cattivi, dei dolori che bruciano ancora, delle voglie? (Il tono si altera) Troppo difficile pensare che abbiamo un sesso e che, magari, ci piace prenderlo in quel posto o forse no, chissà, ma comunque qualcosa ci piace, qualcosa ci schifa e di qualcosa non ci frega un cazzo? Troppo difficile? O troppo spaventoso? Avete paura a vedere in me un uomo? Tu… (Indica idealmente Gaia, respirando a fondo per calmarsi) lo so… che ne hai paura: chi, al tuo posto, non ne avrebbe? Ma tu non hai conosciuto degli uomini, hai conosciuto delle bestie… (Il tono è desolato, la mano si abbassa. Fa una pausa, lo sguardo a terra che gira intorno quasi cercasse qualcosa) O forse no… forse no. Forse, anzi no, è così: sono uomini, lo sono tutti e mi fa schifo pensarlo, mi fa schifo dirlo e mi fa schifo sapere che lo sono anche io… Un uomo. "Quello che ti dà fastidio ti riguarda"… Dio… (Cammina per il palco, quasi tormentato) Grazie di avermelo ricordato! Sì lo so che sei il mio analista e fai il tuo dovere, ma cazzo! Mi dà fastidio… Devo pensare che potrei farlo anche io? No! Io no, mai! Mi dà fastidio, perché sono un padre, e ogni sera metto a letto i miei figli, li bacio e sorrido uscendo dalla loro camera. E se penso che potrebbero…. Che potrei… (Si ferma e scuote la testa) No! Non potrei, di questo sono certo. Però… ti odio quando hai ragione e mi vedi anche se voglio nascondermi. Dammi tregua ogni tanto. (Respira profondamente, di nuovo, e cerca di riprendere il controllo. Poi, si rivolge di nuovo a Gaia, idealmente, poiché la scena è già immersa nell’oscurità. Il tono è forzatamente neutro ma non nasconde un’emozione interiore) Dicevi che eri brava a fare sesso… Sì. Mi sono sempre piaciute le donne che amano farlo. (S’incupisce) Ma a te… non piaceva. Non realmente. Però eri brava lo stesso a fingere e chissà quante donne, di quelle che ho incontrato, magari, fingevano bene come te, magari avevano una storia come… no. Non come la tua. Non voglio pensarci. Però non ne sono sicuro, ecco la verità. (Allarga le braccia, per manifestare la sua impotenza) Non posso esserne sicuro… perché non mi importava, non doveva interessarmi, non volevo che mi interessasse. Volevo solo godere e far godere, questo è quanto. (Ricomincia a camminare per il palco, stavolta più lentamente, con sguardo pensieroso) La prima volta… sì, mi ricordo: è stato in gita scolastica, con una ragazza di quinta, di due anni più grande. Ho scoperto di piacere e quando piaci puoi essere stronzo. Io, uno psicanalista affermato, un professionista che tutti prendono come esempio… Ho più di mille segreti che mi seguono ovunque io vada, i motivi per i quali ho deciso di diventare ciò che sono. E… sì: il sesso è sempre stata la mia droga e il modo migliore, per me, di farmi amare. L'amore platonico non esisteva, per me. Non è mai esistito. (Si ferma e guarda il pubblico) Sì, lo so che lo avete notato, lo so che avete sentito quello che ho detto, una verità nascosta da mille altre parole: farmi amare. Non amare, farmi amare. Avevo paura di non essere amato, proprio come te (Indica idealmente Gaia). Sono solo stato più fortunato. Temevo di perdere l'amore che mi era stato dato, ed è stato tanto, forse troppo. Così ne cercavo ancora e poi ancora, senza fermarmi mai. È stata la parte più difficile della mia analisi. Parlare del sesso che facevo, del valore che aveva per me. E parlare di Ginevra… (Sospira) Parlare della donna che hai sposato vorrebbe poter dire che hai scoperto un mondo nuovo, che finalmente ha placato la tua inquietudine, la tua sete. Cazzate. La differenza è che con lei ha funzionato, con le altre no. Entrambi curiosi e insaziabili anche a letto, ecco cosa ha funzionato, cosa mi ha fatto restare; ecco cosa mi ha stimolato ad andare oltre il sesso: la voglia che non si esaurisce, che si riaccende dopo ogni incontro. Dopo… è arrivato tutto il resto. In fretta, come in fretta ci siamo amati. Così abbiamo deciso di sposarci dopo appena sei mesi di conoscenza. (Dopo un attimo di triste consapevolezza, alza lo sguardo e lo posa sul pubblico, come se volesse spiegare) Ecco, se dovessi proprio definire l'unicità del nostro rapporto, direi questo: abbiamo rotto gli schemi. Da me, dal figlio perfetto, ci si aspettava un fidanzamento standard, un paio d'anni di frequentazione sempre più assidua, le vacanze, qualche cena in famiglia, un natale tutti insieme e poi l'annuncio tanto ufficiale quanto prevedibile: ci sposiamo. Invece no. Lo abbiamo fatto di nascosto, da cospiratori. In Comune, senza dirlo a nessuno, con due amici come testimoni. Un atto liberatorio, dirompente e assolutamente liberatorio. (Abbassa lo sguardo e socchiude gli occhi, come se pensasse a molte cose insieme, le mani sui fianchi. Poi, mentre le luci ritornano lentamente sulla scena dello studio, parla con voce professionale) Se credo in Dio, Gaia? Come tuo terapeuta… mi interessa in che cosa credi tu.

(Musica, mentre lui si avvicina alla sedia, posta sempre di fronte al lettino. Si accomoda lentamente, riprendendo in mano il blocco degli appunti e assumendo un atteggiamento professionale, quasi altero. La musica diminuisce fino a cessare)

GAIA

(La donna è stesa sul lettino, indossa un abito dai motivi floreali, tutti tendenti al rosso fuoco, su sfondo bianco. E’ un abitino molto corto che lascia intravvedere anche gran parte delle cosce depilate in modo imperfetto. Ai piedi, indossa sempre le stesse scarpe da ginnastica consumate. Il trucco del viso è meno sfatto ma non valorizza quel viso un po’ smunto, dagli occhi sgranati e quasi infossati nelle occhiaie. Mentre parla, Gaia gioca molte volte con i lembi della gonna, sollevandoli spesso in modo pericoloso. Ma il suo tono è sempre neutro e lo sguardo è fisso nel vuoto)

Il mio cognome è De Saint Luc perché il mio vero padre era di famiglia nobile. Strano, perché non ho mai letto nulla di loro… Lui ha voluto riconoscermi ma non ne ho mai capito il motivo: era solo uno dei clienti di mia madre e loro non si amavano. Tra l’altro, lui era pure sposato e aveva già dei figli. Era ricco, ricchissimo: se avesse potuto farlo, mi avrebbe mantenuta senza problemi per tutta la mia vita. Forse voleva scaricarsi la coscienza, dandomi un cognome che mi salvasse dalla strada! (Ride forzatamente e si rabbuia all’improvviso) Ma mia madre si è opposta, così lui ha potuto darmi solo il suo cognome. Nulla di più. Per quanto ne so, potrebbe anche avergli detto che ero morta o che me ne sono andata con altri parenti, anche se non ho conosciuto i miei nonni: sono morti quando mia madre era piccola e poi lei ha vissuto con degli zii che, a quanto pare, l’hanno stuprata diverse volte, finchè non se n’è andata. (La voce assume un tono pensieroso) Non so perché mia madre non avesse voluto nessun tipo di aiuto economico: eravamo sempre alle prese con mille spese da pagare e i soldi non bastavano mai. Lei se li sputtanava insieme ai suoi amici e, ogni tanto, pagava una baby sitter per me. (Fa una pausa e poi riprende) Non sono la sua unica figlia, sa? Ho altri due fratelli che non ho mai conosciuto. Eppure, mia madre ha tenuto solo me. Comunque… ho potuto vedere il mio vero padre solo un paio di volte quando ero molto piccola e, sa… non ricordo nemmeno il suo volto. Non ricordo il volto degli uomini che hanno avuto un significato particolare nella mia vita. E’ strano, non trova? Ma non ricordo. Ricordo solo che, quando ho trascorso del tempo con lui, mi sono sentita…  Felice? Non so se sia il termine più appropriato. Però ci va molto vicino. Ricordo, questo sì, di essere stata al Luna Park, ai giardinetti, a prendere il gelato, e il tempo è trascorso senza che nemmeno me ne accorgessi… (Fa una piccola pausa, durante la quale le sue mani stringono convulsamente il tessuto della gonna, sollevandolo ancora di più) Non so se lui abbia deciso di smettere di cercarmi quando… Quando è successa quella cosa… Una cosa strana, sì, strana… Mi ricordo… Ricordo che avevo sei anni, forse sette, e che lui mi aveva presa in braccio, tenendomi sdraiata sulla sua pancia, al parco. (La voce diventa più bassa, quasi un sussurro) Ricordo che mi stavo divertendo ma lui era silenzioso. Così, gli ho chiesto se fosse arrabbiato con me e lui mi ha detto che no, io non c’entravo nulla, ma che presto avrei avuto un fratellino. Dalla sua vera moglie, intendo. Mi sono arrabbiata moltissimo e lui ha cercato di calmarmi. Non volevo perderlo, non so perché. Gli ho detto: che cos’ha, lei, che io non ti possa dare? E… ho aperto le gambe, scivolando sul suo… beh, lo sa. Mio padre non ha detto nulla: dopo un istante di silenzio, mi ha allontanata da lui e siamo andati via. In silenzio. Da quel giorno non l’ho più visto. (Rimane zitta per un po’, immersa nei pensieri; le sue mani continuano a stringere il tessuto della gonna che sfiora l’attaccatura delle cosce. Poi, all’improvviso, reclina il capo verso Alessandro, piegando le gambe con i piedi sul lettino e mostrando le mutandine bianche, con lo sguardo rivolto verso l’uomo. Mentre parla, fa ondeggiare le gambe, come se stesse cullando se stessa e, al tempo stesso, compiacendosi di mostrare la sua intimità) Avrei sempre voluto finire gli studi ma non c’erano mai abbastanza soldi. Sa che cos’avrei voluto diventare? Un medico. Sì: avrei voluto prendermi cura delle persone e farle guarire dalle malattie. Anche mia madre era malata ma non ho mai capito di che cosa. Lei diceva di avere bisogno di medicine costose e, quando non le prendeva, si chiudeva in casa per giorni interi, senza mangiare. Dormiva e basta. Non si alzava nemmeno per pisciare. Se la faceva addosso e io le cambiavo il letto, tutte le volte. Non volevo vederla così. Per questo, ho cominciato a far pagare i miei pompini. Sono molto brava a fare i pompini, lo sa? Sono sempre tornati tutti, perché sono brava a fare i pompini. Sì, sono davvero brava. (Rimane in silenzio per un breve istante, smettendo di ondeggiare. Poi, come seguendo un pensiero, lontano, si allunga di nuovo sul lettino, sistemandosi la gonna e tornando a parlare con tono neutro e sguardo spento) Ero molto brava anche a scuola. Ero tra le più brave. Ero la più brava. Mi dicevano che avrei potuto fare grandi cose, se solo… se solo non avessi avuto una madre così. Dicevano che avrei fatto la sua fine. Io non li ascoltavo. Volevo solo prendermi cura di mia madre, così come sapevo fare. Quando ho scoperto di essere incinta, avevo quindici anni. Non l’ho detto a nessuno, nemmeno a mia madre. Conoscevo alcune persone che mi hanno portata nella casa di qualcuno e lì… hanno fatto tutto. Ho sentito male… molto male. Ho vomitato dal dolore e dalla puzza di sangue che non se ne voleva andare. Ho vomitato per una settima di seguito ma mia madre non si è accorta nemmeno che stessi male. Nascondevo gli assorbenti zuppi di sangue e mi truccavo persino di notte per non sembrare troppo pallida. Poi, tutto è tornato normale. (Un’altra breve pausa di silenzio, con lo sguardo sovrappensiero) Non ho mai capito chi fosse il padre del bambino: frequentavo alcuni degli uomini che stavano con mia madre e poi mi promettevano dei soldi se avessi scopato con loro e io non pensavo di dovermi proteggere da gravidanze. Nessuno me ne aveva parlato. Comunque… non mi son mai ammalata di nulla e non so perché, davvero, non lo so. (Fa un’altra pausa) Solo quando, a scuola, parlavamo di educazione sessuale, io mi chiedevo a che cosa servisse l’amore tra un uomo e una donna per avere un bambino. Bastava solo scopare, nient’altro. Io avevo scopato ed ero rimasta incinta. Che senso aveva parlare d’amore? Che senso aveva parlare di genitori? Mia madre mi ha fatta nascere dopo una delle sue scopate e mi ha tenuta per sfida verso l’uomo con cui non avrebbe mai potuto costruire una famiglia, perché lui ne aveva già una. Per tanti anni, non ho capito il senso di quello di cui si parlava persino nei film. Eppure, tutti quei discorsi mi tormentavano e diventavano pensieri che non mi lasciavano in pace, mai… perché, se in tanti ne parlavano, qualcosa doveva pur essere vero, no? (Si siede, all’improvviso, e fissa Alessandro negli occhi, di nuovo con profonda curiosità) Mi dica, dottore: lei crede che esista davvero? L’amore, intendo. Esiste davvero l’amore tra due persone? (Si sporge di più verso l’uomo) Lei crede che io sia stata amata? Crede che io possa amare qualcuno così come lei ama sua moglie? (Si mette a sedere, con le gambe vicine e composte, quasi come una scolaretta) Perché lei la ama, non è così? (Lo guarda per un attimo, quasi senza respirare. Poi, senza dargli il tempo di rispondere, gli parla di nuovo e la voce è poco più di un sussurro) Se lei è davvero in grado di amare una persona… Potrebbe amare anche una come me?

(Rimane in quella posizione, mentre la luce si abbassa sulla scena e la musica accompagna Alessandro. L’uomo si alza dalla sedia e si dirige verso il centro del palco, illuminato dalle luci che seguono i suoi passi. Quando inizia a parlare, la musica cessa.)

ALESSANDRO

(Cammina avanti e indietro, pensieroso, con il capo chino) Sono in grado di amare? Credo di sì, dopotutto… L'ho sempre creduto con fermezza, di essere in grado di amare ed essere amato… Troppo fermamente, forse, così tanto da risultare stonato. (Si ferma e guarda lievemente verso la scena in ombra, senza voltare le spalle al pubblico) Per capire davvero qualcosa su cosa volesse dire amare, qualcosa di vicino a quello che intendi tu, mi sono dovuto sporcare, ho dovuto accettare il rischio di mandare tutto a puttane, ho dovuto rompere quello specchio che mi voleva impeccabile agli occhi di tutti. (La voce si altera) Mi ci sono tagliato, ho sanguinato, urlato, mi sono sentito inutile e meschino! E in quella figura patetica… (Abbassa la voce e il viso e il tono è desolato) Ho visto chi ero. E ho perdonato chi non mi vedeva, pur guardandomi sempre… Ho perdonato me stesso per essermi nascosto pretendendo a tutti costi di essere scoperto. (Alza di nuovo lo sguardo verso il pubblico, come se stesse raccontando qualcosa agli spettatori) Ginevra ha avuto un ruolo importante in questo. Potrei dire che quello specchio lo abbiamo rotto insieme, forse in modo diverso. Oggi posso dire che sì, la amo. Non è stata lei a farmi scoprire cosa volesse dire amare ma è con lei che l'ho vissuto. E lo vivo. Ma sento di poterlo dire perché è un amore imperfetto, è un amore che ha le mani sporche, che a volte puzza, che a volte è scomodo. (Si volta lievemente verso la scena buia, senza voltare le spalle al pubblico) Non è quello che pensi tu, non ha niente di ideale, di impeccabile. (Si rivolge di nuovo al pubblico, continuando a raccontare) Però è così che lo vivo, con tutte le nebbie e i rischi che comporta. A partire dall'essere padre. (Comincia a camminare avanti e indietro e, nel frattempo, indica la scena immersa nell’oscurità) Tu, Gaia, tu mi chiedi dell'amore tra due persone ma io non posso più scinderlo da questo, non da quando è nata Alice. Si supera un confine, un punto di non ritorno. Hai la strana sensazione di avere uno sguardo doppio, orientato al futuro e al contempo fisso sul tuo passato, sulla tua storia di figlio. (Si ferma e sospira) Papà era morto da un anno… non ha potuto conoscere i suoi nipoti. E io non sono riuscito a dirgli che lo avevo perdonato. Ginevra era incinta e io ero gonfio di dolore per la morte di papà. (Il tono diventa amaro) Bella gravidanza del cazzo che le ho fatto passare…. Tutto perché quando è morto non c'ero. Lavoravo. (Declama con sarcasmo e allargando le braccia) "Del nascere e del morire non ci possiamo occupare, noi ci prendiamo cura di tutto quello che si trova tra questi due eventi". (Abbassa le braccia lentamente, in silenzio, e, dopo una piccola pausa, il suo tono si fa amaro) Per i pazienti è una massima meravigliosa dato che, ovviamente, si trovano tutti nel mezzo. Ma Dio solo sa quanto ho pagato quell'alibi. (Ricomincia a camminare avanti e indietro) Avevo così paura che non avesse una buona morte da infliggergli la peggiore. Il silenzio del figlio, l'assenza… Così, invece di stringergli la mano e lasciarlo andare, ho stretto il mio dolore, la mia rabbia e il mio senso di colpa per quasi un anno. (Si ferma al centro del palco e accompagna parola con i gesti e con emozioni manifeste) È stata Alice a farmi sciogliere il nodo che avevo dentro: quando l'ho presa in braccio per la prima volta, in sala parto, ho pianto come mai in vita mia, senza ritegno. E l'ostetrica e Ginevra e nessuno avrebbe mai potuto immaginare che in quelle lacrime ci fosse non solo la gioia di tenere mia figlia tra le braccia ma anche, e soprattutto, il distillato di tutta la mia vita con papà. Tutto quello che non ero riuscito a sciogliere fino ad allora e che temevo fosse troppo tardi da sentire, da dire: ti ho perdonato papà, perché mi hai sempre chiesto troppo. E mi perdono per non avertelo mai detto. Ti ho perdonato per le carezze che non mi hai fatto, per i silenzi inaccessibili, per essere stato fiero di me quando rispondevo alle tue aspettative ma non essere stato capace di superare le delusioni che ti ho offerto. Perché i figli nascono per questo papà, per deluderci. Perché noi non siamo loro, perché loro non sono noi. Ora lo so papà, ora posso perdonarti. Ma so anche che adesso sono al tuo posto e mi domando cosa accada quando invece siamo noi, i padri, a deludere loro. Me lo chiedo adesso e per la prima volta questa domanda mi brucia dentro. E ho paura.

(Nasconde il viso tra le mani per un istante e poi, mentre la musica riprende e la luce torna sulla scena dello studio, respira profondamente, riprende il controllo e torna a sedersi di fronte al lettino. Non appena riprende in mano gli appunti, la musica cessa)

GAIA

(Sdraiata sul lettino, la donna è vestita insolitamente in modo elegante, con un tailleur grigio che, tuttavia, non valorizza il suo esile corpo e il suo viso truccato senza gusto. I capelli sono in ordine e il colore sbiadito è stato ricoperto da una tinta uniforme castano-dorata. Ai piedi indossa delle scarpe nuove, dello stesso colore dell’abito, scarpe basse e lucide, aperte. E’ molto composta e tiene le mani sulla pancia, l’una sull’altra. Lo sguardo è sempre fisso su un punto indefinito e, stavolta, è triste, come il tono della sua voce)

C’è stato un periodo in cui ho tentato di essere all’altezza del mio cognome. Mi sentivo in colpa per quello che era successo tra di noi, l’ultima volta che ci siamo visti. Pensavo: se mio padre dovesse tornare, come vorrebbe vedermi? Volevo essere diversa dall’immagine che si era fatto di me, così, con i soldi che guadagnavo prostituendomi, compravo tutti gli abiti più belli che potessi trovare. Quando ho abbandonato la scuola… Anzi… mi hanno allontanata per cattiva condotta – si era sparsa la voce che non ero proprio una ragazza come le altre – mia madre mi ha obbligata a cercarmi un lavoro. Ho fatto davvero di tutto e, quando mi venivano dati i soldi, spendevo tutto ciò che guadagnavo, e solo per essere pronta per quel giorno che non è mai arrivato… Pronta, elegante, perfetta… per mio padre, sì. Ma, come le ho detto, lui non si è più fatto vivo. Ho passato anni, cercando un contatto con lui ma nessuno sapeva dove fosse. (Sospira e rimane in silenzio per un lungo istante, poi ricomincia a parlare) Ho sentito mia madre, sa? Non so perché lei abbia interrotto il suo ennesimo viaggio per telefonarmi. Ma l’ha fatto. Mi ha chiamata e mi ha detto: non c’è più bisogno che cerchi tuo padre E’ morto. Dieci anni fa. Cancro ai polmoni. (Si gira verso Alessandro, per un breve istante, parlando con voce molto bassa) Lui è morto da dieci anni… e lei me l’ha detto solo ora... Sa che cosa significa, dottore? Sa che cosa si prova? (Torna a guardare un punto indefinito di fronte a sé, e la sua voce è lievemente alterata) Forse no. Lei non prova nulla. Lei non dice nulla. Lei si limita a fare il lavoro per cui è pagato. Sì: mi ha concesso un prezzo di favore, solo perché fare le pulizie non dà di che vivere… E poi… è ormai da diverso tempo che non mi prostituisco… Ci provo, almeno, perché un’abitudine radicata… beh, lo sa. (Fa una breve pausa, sospira e poi riprende) Non avrò una laurea ma non sono stupida: so come funziona il mondo. E’ per quello che avevo pensato al suicidio ma poi non sono riuscita a portare a termine il mio progetto. Forse avrei dovuto farlo… (Muove la mano, con palese fastidio) Oh, non cominci a parlarmi delle cose belle della vita, perché potrei elencargliene tante altre schifose che potrebbero far desiderare anche a lei, di morire! (Sospira di nuovo e fa ancora una lunga pausa, prima di tornare a parlare, con voce bassa) Per esempio… Potrei raccontarle di come mia madre non si sia fatta nessuno scrupolo nel dirmi che, in realtà, mio padre mi aveva cercata e che lei gli aveva detto che ero stata adottata da un’altra famiglia. Lui aveva i soldi: avrebbe potuto rintracciarmi ovunque fossi ma lei si era già messa d’accordo con chi le avrebbe parato il culo affinché mentisse e sostenesse le sue stronzate. Mio padre mi ha cercata nei luoghi che mia madre gli aveva indicato, facendogli perdere molto tempo, molti anni… E poi… Poi gli ha detto che ero IO a non volerlo più vedere, perché stavo bene dov’ero e non avevo bisogno di altro. Credo… credo che mio padre, nel sentire queste parole, si sia arreso. Altrimenti, perché non continuare a cercarmi, perché dare credito alle parole di una… (abbassa la voce, quasi con vergogna) … Di una puttana? (Fissa Alessandro e lo guarda a lungo, senza dire nulla, come se si aspettasse una risposta da lui. Poi, continuando a guardarlo, riprende a parlare) Parlavamo d’amore, la volta scorsa, e non ho fatto altro che pensare a questo, soprattutto quando ho scoperto della morte del mio vero padre. Ho pensato a mia madre, alla vita che si è rifatta con l’uomo che le ha promesso onori e ricchezze, a condizioni di lasciare l’Italia e di trasferirsi definitivamente con lui, in Francia. In Francia… Non le sembra buffo? Parigi non è il luogo in cui gli innamorati si sono sempre giurati amore eterno? Quindi, che attinenza aveva, con mia madre, l’amore? Lei si è sposata con uno che non ho mai nemmeno visto in foto e che l’ha portata via con sé, senza nemmeno un saluto. I giochi sono stati fatti senza nemmeno interpellarmi. Mi ha lasciata sola e sola rimango ancora adesso. Ma, quando mia madre mi ha lasciata per fare la sua bella vita, senza nemmeno passarmi un soldo, avevo venticinque anni e già vivevo una vita al limite della moralità… Anzi, no: l’avevo già oltrepassata. Mi sono ritrovata a vivere in quel buco di casa in cui mia madre portava i suoi clienti, sì, quella casa dove sentivo cose che nessuna bambina dovrebbe sentire. Perché non sono stupida, dottore: io lo so che cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma non posso cambiare il passato e non posso nemmeno gestire il presente. (Fissa di nuovo un punto di fronte a sé, nel vuoto) Lei è pagato per ascoltare cose di cui ha già sentito parlare, nella sua carriera di psicologo stimato. Lei non è minimamente coinvolto in quello che le dico. L’assistente sociale che mi ha dato il suo numero ha creduto di potermi fare un favore, dopo il mio secondo aborto… spontaneo, questa volta, ma ancora senza un padre. Altro sangue, altra sofferenza… Forse, il prezzo da pagare per aver ucciso il bambino che aspettavo quando avevo quindici anni… la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che mi ha fatto pensare: perché non provare a fidarmi? Magari, questa volta, mi va bene! (Sospira) Ma non è così. Non è così. Anche lei, in qualche modo, fa prostituire i suoi pazienti. Ma loro non le vendono il corpo: le vendono l’anima. Anzi: la pagano affinché lei la gestisca come meglio crede. Anche lei è un burattinaio impeccabile. Anche lei si fa scudo del suo nome, solo per aggiungere un successo alla sua lunga lista. Perché dovrebbe importarle di qualcuno? Lei ha studiato, per questo: per erudire se stesso e accrescere la sua cultura. Io sono qui, in sudditanza, come la sua schiava. Oh, non certo fisicamente, anche se il suo cazzo funziona come quello di tutti gli altri: io l’ho visto, non sono cieca. (Lo guarda negli occhi) Forse lei è solo più bravo degli altri a nasconderlo ma anch’io ho un’esperienza, nel mio campo, e vedo ogni più piccola reazione che il corpo di un uomo cerca di nascondere invano. Lei ha visto il mio seno. Ha visto le mie mutande. Ha visto la mia… sì, l’ha vista, non finga il contrario! Il cuore le pulsava più velocemente, alla base del collo. Forse non se n’è accorto ma io l’ho visto. Le sue pupille si sono dilatate impercettibilmente. Ha sospirato lievemente, quando le ho aperto le gambe sotto gli occhi. Un sospiro breve che a molti sarebbe passato inosservato. Ma a me no. Io l’ho visto. E non posso nemmeno fargliene una colpa. (Sospira e smette di guardarlo) Non posso dare la colpa a lei, se io sono una puttana. (Senza aggiungere altro, si alza, paga e, in silenzio, se ne va, sparendo tra le quinte).

(Alessandro si alza lentamente dalla sedia e si appoggia alla scrivania per un attimo, in silenzio. Poi, senza fare un passo, comincia a parlare con voce mesta)

ALESSANDRO

Sì. Ti ho guardata. Ti guardo sempre. Ti osservo attentamente, ogni tuo gesto, ogni minimo particolare. Potrei dirti che è normale, che fa parte del mio lavoro e sarebbe anche vero... Ma è altrettanto vero che ti ho guardata da uomo. (Abbassa lo sguardo e il tono di voce) E non è la prima volta... (Sospira, si stacca dalla scrivania e comincia a vagare per lo studio, come se parlasse a se stesso) Oggi, però, ho fatto di più: ho seguito le tue provocazioni, mi sono lasciato accompagnare dove tu volevi che andassi, a incontrare il mio desiderio. Ti desidero? Mi ecciti? Se ti incontrassi per strada avrei voglia di scoparti? Non lo so, sinceramente. È diverso da quanto mi è capitato altre volte. Ho avuto pazienti delle quali ho pensato subito che erano attraenti, che mi sarebbero piaciute tra le lenzuola. Ho anche incontrato pazienti delle quali avrei potuto sinceramente innamorarmi, se le avessi incontrate nel mondo e non in questa stanza, in questa veste. (Si ferma, incrocia le braccia sul petto e si guarda intorno, quasi con smarrimento) Ho sofferto. Soffro spesso per questo privilegio terribile che è fare il mio mestiere: incontrare persone meravigliose delle quali condivido le cose più intime e non dire loro che sarebbe bello prenderci un caffè, andare a un cinema, vivere, amarci anche. Potrei farlo, sarebbe facile. Allora sì che sarebbero in mio potere, come dici tu sarei il loro burattinaio. (Si ridesta dal momento di debolezza e ricomincia a camminare, muovendosi e parlando come se le labbra seguissero i pensieri) Ma non funziona così; magari per qualcuno sì ma non per me. Non sul lavoro, non più nella vita. È una seduzione potente la parola, la più potente delle seduzioni, forse. (Cammina verso il centro del palco e poi si ferma, come colto da un’illuminazione) Ho usato questo potere, è vero, appena ho capito di possederlo. L'ho usato con gli altri, l'ho usato con me stesso. Sono stato indulgente nei confronti delle mie cazzate, mi sono compiaciuto delle mie ombre. Danno spessore a una persona, mi dicevo. E riuscivo a convincere gli altri che fosse davvero così. (Scuote la testa, sorridendo amaramente) Non è stato facile abbandonare questo gioco, chiuderlo in un cassetto e dirmi che sì, è una parte di me ma non sono solo questo. Non sempre mi riesce. Con te, ad esempio, ho paura di non riuscirci. A volte, di fronte alla tua paura, al tuo dolore, temo di riaprire quella scatola e tirar fuori le parole giuste per tirarti a me, per convincerti a fidarti. Non lo faccio e temo di deluderti, di non riuscire ad aiutarti. (Si volge verso il lettino, per un istante, mentre il buio cade lentamente sullo studio e rimane la luce puntata su di lui) E in questo vicolo cieco, di fronte a questo scacco, ecco che provo a scoparti, a essere ciò che mi chiedi. Mi hai raccontato così tante cose di te che non ho nemmeno bisogno di sforzarmi di immaginare cosa potrebbe succedere. Mi sbottono i pantaloni e ti aspetto così, seduto sulla mia poltrona. (Passa una mano sulla fronte, respirando velocemente) Ti chini verso di me, guardandomi negli occhi con un sorriso malizioso, mi accarezzi il sesso e un attimo dopo lo prendi in bocca… E… (Con un gesto di stizza, mostra la sua insofferenza) E non succede niente! Tu succhi, accarezzi, ti prodighi… ma niente! Sono paralizzato, non ho pensieri, non ho sensazioni, lo sguardo nel vuoto. (Il respiro affannoso prosegue e poi, ad un tratto, si ferma. La voce sembra sospesa nell’aria) Ecco che… improvvisamente… ti interrompi… ti passi una mano sulla bocca… il tuo sguardo carico di disprezzo su di me… (Sarcastico) "Lo sapevo che non valevi un cazzo dottore". (Chiude gli occhi per un attimo, poi li riapre e sembra destarsi da un sogno) Poi… ti alzi e te ne vai senza aggiungere altro. Sono solo. Sconfitto. Impotente.

(La musica riprende e Alessandro vaga verso lo studio immerso nel buio. Nella penombra, è come se non trovasse più la direzione. Oscilla molto spesso quando incontra un ostacolo e la musica incalza finchè l’orologio puntato sulle 6, comincia a muoversi velocemente [azionato da lontano], le lancette dei minuti sembrano volare. Alessandro fruga nella tasca della giacca e guarda ripetutamente il cellulare, dapprima con calma, poi con maggiore impazienza. La musica giunge al suo culmine quando l’orologio rintocca le 7. Tutto cessa. C’è silenzio e la luce diventa quasi un tenue bagliore puntato solo sulla figura di Alessandro seduto sul lettino)

ALESSANDRO

(Con voce neutra, quasi cantilenante) Gaia. Hai fissato un appuntamento e non ti sei presentata. Non hai nemmeno avvisato. Sei tu che non ce l'hai fatta? Sono io che non sono stato in grado? Quest'ora vuota suona già come una condanna. Il vuoto…. Vuoi farmi sentire il tuo vuoto, me lo stai offrendo come una richiesta muta? Quante volte ho lasciato io nel vuoto, in sospeso, le cose che mi venivano a noia, o le situazioni scomode… ma starci, nel vuoto, io mai. Sempre pieno di cose da fare, di relazioni da costruire, di richieste pressanti da portare, di attenzioni da offrire. E le pause? Solo qui dentro ho imparato ad ascoltare, ad attendere. Nella vita no, molto, molto meno. Mi stai dicendo questo? Tutti i miei pazienti mi entrano dentro, mi lasciano qualcosa. Ora tu mi offri il vuoto. Mi sento punito. Mi condanni al vuoto che non ha trovato posto in me quando era necessario ci fosse, quel vuoto che diventa spazio, possibilità, rinuncia anche. A cosa ho rinunciato io? Ho la vita che desideravo, la famiglia che desideravo…ma loro, in fondo, nella verità che è in fondo alle cose, desideravano quello che sono diventato?

(Buio. Il sipario si chiude insieme alla scena.)

GINEVRA

(Buio sul palco. Una sola luce si accende su una figura femminile dall’aspetto elegante, con i capelli lunghi, biondi, curati, trucco impeccabile, pelle non eccessivamente abbronzata, abito celeste smanicato e con scollo a V, lungo fin sotto le ginocchia. Le scarpe nascoste dalla penombra sono di color panna e hanno un tacco medio che slancia le gambe affusolate della donna. Indossa dei braccialetti ai polsi e anelli preziosi ma non eccessivamente vistosi; al collo ha una collana sottile di perle. Quando parla, la sua voce è melodiosa, dolce ma decisa)

Starò dai miei a Roma per qualche giorno, per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. Come facciamo tutti gli anni. E tu… non ci sarai… (Fa una piccola pausa in cui il sorriso scompare per un breve istante ma poi il suo tono torna normale) Porto con me i bambini: saranno felici di rivedere i nonni che sono rientrati dalla Costa Azzurra. Non li vedono da un po’: incontrarsi virtualmente non è come vedersi dal vivo. E’ ciò che dici sempre anche tu e io sono d’accordo con te. Ho lasciato alle mie collaboratrici gli eventi su cui sto lavorando: siamo già a buon punto e manca solo qualche dettaglio. Possono farcela senza di me. (Esista solo per un attimo) So che sei molto impegnato ed è per questo che non ti obbligherò a seguirci. Mi sembri anche pensieroso, ultimamente, e spero che non sia per tuo fratello… sai bene come la penso e non voglio litigare un’altra volta. Ti prodighi per lui più di quanto dovresti: non è che un adolescente cresciuto in un corpo di uomo e, alla sua età, si attacca ancora alle gonne di tua madre! (La sua voce dolce si altera lievemente ma senza oltrepassare il limite) La rispetto, lo sai, e non voglio giudicarla: non spetta a me farlo. Ma posso condividere la mia opinione con te che sei mio marito, e l’ombra di Amedeo è continuamente tra di noi, come se lui fosse più importante dei tuoi stessi figli… di Francesco, soprattutto! Non fai che ripetere quanto assomigli a tuo fratello, sia fisicamente che caratterialmente e non mi piace che tu faccia questi paragoni: così, rovinerai il rapporto con tuo figlio che si sente costantemente giudicato da te! Forse non lo dimostra… ma io so che è così! (Fa una piccola pausa per riprendere il controllo di sé e la sua voce torna ad essere dolce) Non voglio litigare proprio adesso che sto per partire. Risolvi i tuoi casi problematici cui ti dedichi con molto impegno e poi, magari, ne riparleremo. Ora vieni qui, da me, tra le mie braccia. Voglio ricordare il tuo sapore, prima di andarmene. Vieni, Alessandro. Vieni da me. Vieni… (Allunga le braccia in avanti e le luci si spengono. Cala la penombra e inizia la musica mentre Ginevra esce di scena)

(Il sipario si apre lentamente, accompagnato dalla musica. Ritorna la scena dello studio.)

GAIA

(Stesa sul lettino. I capelli sono più lunghi e ancora di colore castano dorato, sciolti sulle spalle. Indossa dei semplici jeans e una polo bianca senza disegni, lievemente aperta sul collo. Ai piedi indossa le stesse scarpe da ginnastica consunte e logore. Il viso è poco truccato e ha solo un velo di cipria. La donna si rivolge spesso ad Alessandro che è seduto sulla sedia di fronte a lei e la sua voce, a tratti, assume un tono più normale rispetto all’ultima seduta anche se, alcune volte, è quasi aggressivo)

Grazie per avermi permesso di tornare, dopo sei mesi di silenzio. Le chiedo scusa… se non mi sono fatta viva per comunicarle la mia assenza, l’ultima volta. Non stavo bene con me stessa. Non mi fidavo di nessuno, tantomeno di lei. E, sinceramente… ancora non so se mi fido… Non so perché sono tornata. Lei non fa nulla per aiutarmi a capire: sono solo io, con la mia testa, a riflettere sulla mia vita. Ho pensato tanto, davvero tanto, a quello che è successo, soprattutto a mio padre. L’ho cercato ancora ma non è servito a niente. In compenso… un’assistente sociale si è messa in contatto con me per dirmi che il mio fratellastro, il figlio minore del mio vero padre, aveva urgentemente bisogno di un trapianto di midollo. Soffre di leucemia da tanto tempo, così mi è stato detto, e si è tentato più volte un trapianto di midollo, perché il cancro si è ripresentato costantemente. Sembra che i miglioramenti più evidenti avvenissero solo quando mio padre donava il suo… l’ha fatto finchè ha potuto, poi si è ammalato anche lui, della stessa malattia, e non è stato più possibile… (Non finisce la frase. Fa una breve pausa e poi riprende a parlare) Non conosco il nome di mio fratello: non mi è stato detto. La famiglia di mio padre ha sempre saputo della mia esistenza ma sono stata interpellata da loro solo perché, forse, potevo essere altrettanto compatibile per un nuovo trapianto. Non avrei dovuto fare altro che eseguire un test e poi donare parte del mio midollo. Questo… in teoria… Perché, in pratica, la moglie di mio padre ha raccontato ai medici lo stile di vita di mia madre e il mio, dopo aver cercato informazioni su di me. (Fa una pausa) Capisce, dottore, cos’è successo? Io non ho mai trovato NULLA su mio padre, non ho nemmeno una sua foto e questa donna… è riuscita a raggiungermi! Comincio a pensare che lei e mia madre fossero d’accordo nel non farmi mai incontrare l’uomo che, nonostante tutto questo schifo, mi ha permesso di avere il suo cognome. (Respira profondamente e poi riprende a parlare) La moglie di mio padre si è accuratamente accertata che io non potessi scoprire nulla, su mio fratello, nemmeno dove fosse ricoverato. Ho firmato documenti di fronte ad avvocati che controllavano ogni mio gesto. Ho donato il mio midollo, sì, ma il prezzo da pagare è stato alto: avrei dovuto limitarmi a fare il mio dovere, nulla di più… e poi sparire. Mi sono stati dati persino dei soldi, pur di avere la certezza che io non indagassi sulle mie origini! (Ride amaramente e poi torna seria) Come se per me contassero solo quelli… Come se non potessi farne a meno… Come se io… fossi uguale a mia madre. (Guarda Alessandro) Sa… io le ho mentito. Non sono una puttana. Non lo sono mai stata. Non decidevo io di farmi pagare: lo facevano gli altri, senza che io potessi fare nulla. Forse non volevo… non lo so. Credevo che loro sapessero quello che stavano facendo. Che, in qualche modo, fossero davvero interessati a me. D’altra parte… io credevo che l’amore si esprimesse solo così: col sesso. Non conoscevo altri modi per comunicarlo. (S’intristisce e abbassa lo sguardo) Non l’avevo mai conosciuto davvero, se non per quel poco che ho sentito per mio padre. E anche quando ho perso il mio secondo bambino: il mio ex mi ha lasciata non appena gli avevo detto che ero incinta, ma non ho sofferto. Era solo uno dei tanti. Questo bambino, però… (Lascia la frase incompiuta e sospira di nuovo, restando in silenzio per un attimo. Poi ricomincia a parlare e la sua voce sembra aver dimenticato la tristezza di un attimo prima) E’ passato. La vita è così, no? Ciascuno paga il prezzo delle sue colpe. Forse, io ne ho troppe. Ma non sono una puttana. Non ho mai voluto esserlo. Gli uomini che hanno scopato con me… beh, sono sempre stati gli stessi, dopotutto. Non li ho allontanati io: alcuni sono stati arrestati solo quando la Polizia ha scoperto che molestavano altri bambini e li costringevano a fare sesso con loro. Ma sono stati rilasciati! (Ride amaramente) Io… non ero più una bambina ma avevo sempre un corpo che piaceva più di quanto io piacessi a me stessa. Ho provato disgusto per ciò che ero, tante e tante volte. L’ho provato anche quando sono stata costretta a sottopormi agli esami che verificassero il mio stato di salute… per mio fratello. Non mi sono mai drogata, dottore, mi creda: mai una volta. Forse… sì, ho preso delle pillole che mia madre teneva nell’armadio dei medicinali e che la aiutavano a dormire… Quelle sì, le ho prese. E ho dormito per quasi tre giorni, ininterrottamente. Questo deve aver fatto credere ai miei vicini di casa che io avessi voluto farla finita… Non mi hanno vista uscire – non si fanno mai i fatti loro! –, sentivano il mio telefono squillare a vuoto e qualcuno è venuto a suonare al mio campanello… E non ho sentito nulla. Sono stata prelevata dai soccorritori dell’ambulanza e persino dai carabinieri che mi hanno sfondato la porta di casa. Credevano davvero che avessi tentato il suicidio ma i medici che mi hanno ricoverata non hanno trovato nulla che potesse confermare quest’assurdità. Mi hanno mandata a casa dopo tre giorni, facendomi parlare con l’assistente sociale che mi ha dato il suo nominativo e così… eccomi di nuovo qua, non so nemmeno perché. Io volevo morire: volevo solo dormire, dimenticare il dolore per la perdita del bambino, nulla di più… E la moglie di mio padre sapeva anche questo. Sapeva tutto. Non mi parlava mai direttamente: solo attraverso i suoi legali e non so chi altro. Quando i medici hanno verificato che il mio sangue era pulito, ho potuto farmi bucare le ossa per donare il midollo a mio fratello. (Fissa nel vuoto per un lungo istante e il suo sguardo diventa pensieroso, mentre fissa il vuoto di fronte a sé) Continuo a chiedermi che cosa significhi avere una famiglia ma, per quanto io mi sforzi di immaginare, non faccio che pensare alla mia vita fino ad oggi. Una famiglia… (Guarda Alessandro) Suppongo che la sua sia perfetta, dottore. Perfetta, come quella dei film romantici e delle pubblicità. Perfetta, come non saprei mai spiegare, perché la mia non è mai esistita e, nonostante io abbia trentotto anni, non sono riuscita a crearne una diversa da quella in cui ho trascorso gran parte della mia vita. (Fissa di nuovo il vuoto, in silenzio, per un lungo istante) Dottor Palermo… (Si mette a sedere e lo guarda negli occhi) Vuole fare l’amore con me?

(Rimane in quella posizione, mentre una luce rossastra illumina la scena. Alessandro la guarda per un lungo istante, poi comincia a parlare, seduto sulla sua sedia)

ALESSANDRO

(Mormora quasi a se stesso, distogliendo lo sguardo da Gaia) No, non voglio. Non voglio perché non sono perfetto, perché la mia famiglia non è perfetta, perché non so litigare con Ginevra, non so cosa voglio per mio figlio Francesco, non gli perdono di ricordarmi quello stronzo di Amedeo… E non so liberarmi di lui, di mio fratello. (Si alza in piedi e cammina lentamente verso il pubblico, e una luce molto tenue lo segue, mentre quella rossastra sullo studio si attenua fino a scomparire mentre lui parla) Io quello intelligente, lui quello più scaltro. Io che realizzo i miei sogni, lui che non sogna e che si lascia vivere, che si approfitta della mamma… (Avanza ancora di più, fino a trovarsi al centro del palco) Ma non ci riesco. Anche se so da dove arriva il mio senso di colpa… non ci riesco. E non riesco nemmeno ad allontanarlo da me perché, per farlo, dovrei dirgli che il suo stimato fratello non è proprio come lui se lo immagina. E mi pesa dovermi mettere a nudo con lui. Dovrei dirgli che lo capisco, non lo giustifico ma lo capisco. Ci sono passato anche io, me la sono cercata anche io una vita come la sua. E forse se non ci sono caduto dentro senza rimedio è stato solo per… non so nemmeno perché. (Alza lo sguardo come se pensasse e sospira) Fare l'amore? Come potrei, se anche oggi, ogni tanto, non sono presente a me stesso? Ho mai fatto l'amore con qualcuna delle donne che ho avuto? E con Ginevra? Se fare l'amore è quello che intendi tu (Si volta brevemente verso la scena ormai buia), a questo punto… non lo so. O forse sì, se, per amore, intendi il sesso, se vuoi che ti scopi. Quello, so farlo molto bene… ma… (Lo sguardo si abbassa e la voce s’incupisce) Oggi che sono solo, oggi che Ginevra è partita… vorrei tanto saperlo fare. Fare l’amore, intendo. Vorrei che fosse così, sì. (Indica la scena sa nell’oscurità) Vorrei fare l’amore e poi portare a te la mia risposta, Gaia. Perché, se ti scopassi… (Rimane in sospeso per un attimo e poi ritrova il controllo) No. Vorrei darti fiducia. Niente giochi erotici, la complicità degli amanti, il desiderio, il piacere della carne. Solo un abbraccio, infinito. Oggi vorrei questo, vorrei offrire questo… vorrei scoprire questo.

(Musica. Torna verso la scena dello studio, dove una luce ovattata rivela un ambiente vuoto e un orologio che segna le 6 e, di nuovo, si muove velocemente. Alessandro è in attesa evidente e continua ad osservare le lancette dei minuti che corrono e, ogni tanto, tira fuori anche il cellulare dalla giacca. Dapprima sembra in controllo, poi è sempre più pensieroso, infine cerca di nascondere una malcelata impazienza. Si siede nuovamente sul lettino, con lo sguardo rivolto verso il pubblico e l’orologio indica le 7, quando la musica cessa.)

ALESSANDRO

(Sospira) Ancora il vuoto, ancora attesa, ancora domande. Io per te, come per tutti i miei pazienti, funziono come uno specchio: ti rimando a te stessa, ti aiuto a vederti attraverso le tue parole, i tuoi gesti, quello che provi. Ma per farlo devo essere sicuro di non deformare l'immagine che devo rimandarti, devo tenere pulita la superficie nella quale puoi vederti, unica e vera. È quello che faccio adesso, in questo silenzio, nella tua assenza: faccio le pulizie, faccio i conti con me stesso. Le tue richieste, le tue provocazioni, le continue allusioni alla mia vita senza ombre mi feriscono. Mi portano dove non vorrei, dove ho paura di andare, in quegli angoli bui dove si annida lo sporco. È questo che vuoi dirmi? Che finché non mi avrai visto nella mia verità non potrai vedere la tua? Io non devo essere vero con te, devo esserti utile. Per farlo però devo essere vero con me stesso, questo sì. E allora vedrò di usare questa cazzo di ora vuota per sporcarmi un po' le mani! (Il viso si alza, la voce si altera) Sono incazzato Gaia, sì, mi fai incazzare! Non so litigare e mi sfogo con la tua ombra, ti urlo di starmi lontana, tu e tutti quelli che mi chiedono di essere come sono e poi se ne lamentano! (Si alza e avanza verso il pubblico, continuando a parlare e a muoversi con concitazione, illuminato da un faro, mentre il buio cala di nuovo sulla scena dello studio) Andate a farvi fottere! Odio che abbiate pretese su di me! E odio me stesso… perché ho paura di dirvelo. (La rabbia si placa, la gestualità si attenua) Paura di cosa poi… di deludervi… E credo che sia già successo: io vi ho già deluso. In segreto, solo per me stesso, per salvarmi, ho deluso le vostre aspettative, mi sono gettato fango addosso, mi sono arrogato il diritto di essere libero di… di cosa, non lo so. Forse… di essere ciò che tutti dicono che io sia… (Ha un moto di stizza) Ma voi non lo sapete, questo è il punto! Per questo vi odio e mi odio! Pensavo fosse sufficiente concedere solo a me stesso la mia verità…. Che presuntuoso del cazzo! (Respira a lungo, profondamente, poi è come se si fosse liberato di un peso) Sapete una cosa? Non ci riesco più. Mi sono costruito una gabbia e ve ne ho dato le chiavi. Ora basta, dovessi segare le sbarre con i denti, ora… basta.

(Musica. Alessandro si dirige si nuovo verso lo studio che si illumina. Gaia è già lì e lui si siede sulla sua sedia, come sempre, senza mostrare alcuna emozione. La musica si attenua fino a scomparire quando la donna inizia a parlare)

GAIA

(La donna è stesa sul lettino. L’orologio appeso al muro segna i minuti che scorrono attraverso la lancetta dei minuti che corre velocemente. Gaia non dice nulla per quasi tutto il tempo e Alessandro continua a guardarla, in silenzio. La donna rimane immobile sul lettino, fissando un punto nel vuoto, con lo sguardo molto serio. Indossa sempre dei jeans e una maglietta molto semplici e i capelli sono raccolti in una piccola coda. Non è truccata e tiene le braccia incrociate sul petto, senza mai muoversi. Solo quando manca poco al termine dell’ora, comincia a parlare, quasi con noncuranza e senza guardare Alessandro)

Ho trovato un nuovo lavoro. Ora faccio le pulizie presso una famiglia dove sia lui che lei sono medici. Non sono praticamente mai a casa e io mi devo occupare anche dei loro figli. Hanno un maschio e una femmina. Lui ha sette anni, lei ne ha nove. Il bambino ha un carattere molto vivace ma è intelligente e si diverte con poco. Sua sorella è più tranquilla, forse troppo: a volte devo staccarla dai libri con la forza, per farla giocare come una bambina della sua età… Non so se siano felici: i loro genitori continuano ad affidarli ad estranei perché i nonni non abitano vicini. Hanno una villa immensa e mi ci perdo continuamente. I bambini ridono di me… e io li lascio fare, perché, dopotutto, hanno ragione: sono così ingenua da non capire neppure quale sia la strada giusta… e… beh... (Respira profondamente e poi rimane in silenzio per un attimo, sovrappensiero) Mi è capitato di dormire lì, perché i signori fanno anche dei turni di notte. Non so perché ma, per il momento, sono l’unica persona che sia riuscita a durare più di una settimana, in quella casa. Sembra che se ne siano andati tutti prima della fine del mese. Questo me l’hanno raccontato i bambini. Non so perché si siano fidati subito di me: nemmeno mi conoscevano... Comunque… non avevo capito. Ma poi… (Una breve pausa e un attimo di esitazione) Due giorni fa, la signora mi ha chiesto di dormire da loro, come le ho detto, e io ho accettato: mi avrebbero pagata di più, quindi, perché rifiutare? Ho cucinato e messo a letto i bambini, ho raccontato loro le favole preferite – le ho lette dai libri che ho visto appoggiati sui comodini, perché io non ne conoscevo nemmeno una! – e poi sono andata nella stanza che i signori avevano riservato per me. Era grande come il mio intero appartamento… davvero grande… Non riuscivo a dormire: continuavo a guardarmi intorno, a toccare le coperte, ad accendere e spegnere la TV, a cercare di capire come funzionasse il bollitore o sulla piccola scrivania vicina alla parete… C’era così tanto, ancora, da vedere… Così tanti quadri… No, forse non così tanti ma io non ne possiedo nemmeno uno. Mia madre voleva solo immagini del… come si chiama? Kamasutra, sì. Non lo ricordo mai. Ne parlano tutti ma io mi dimentico sempre quella parola. Quelle posizioni… le vedevo quando ero piccola e non capivo… (Guarda Alessandro) Voglio allontanare queste cose da me, non è così? Una volta ho avuto una relazione con uno psichiatra che tradiva la moglie cercandomi quando ne aveva voglia e, mentre scopavamo, mi raccontava i segreti del suo lavoro. Mi parlava spesso della “rimozione” e cose del genere e io ascoltavo, perché si eccitava di più quando faceva la parte del dottore. E… beh… (Distoglie di nuovo lo sguardo, stringendo ancora di più le braccia contro il petto) Quella notte… La notte in cui sono rimasta dai signori… Credo… di essere rimasta sveglia fino alle tre di mattina, quando la signora è rientrata. E’ venuta subito da me. Ha bussato alla mia porta. Ho pensato che avesse bisogno di aiuto: mi sembrava sconvolta e non si era nemmeno cambiata d’abito. Le ho chiesto… Le ho parlato… ma lei… Lei ha chiuso la porta alle mie spalle e ha cominciato a baciarmi e io non sapevo che cosa fare. Mi ha baciata e mi ha spinta verso il letto e poi ha cominciato a spogliarmi. Avevo paura ma mi sentivo… eccitata… al tempo stesso. Mi baciava, mi accarezzava come nessun uomo ha mai saputo fare, mi toccava e io… mi eccitavo… Cercavo di mandarla via ma non ci riuscivo. Poi mi ha aperto le gambe e mi ha infilato dentro la lingua. Leccava e… dio, com’era brava! Eh… (La voce cambia all’improvviso, si abbassa di tono, e una vaga di espressione di vergogna si dipinge sul suo viso) Dio… Ho fatto sesso con una donna…  L’ho fatto e forse lo desideravo… Lo desideravo da tempo, credo... Sono così nauseata dagli uomini che… (Riprende il controllo di sé, improvvisamente) Ad ogni modo, ad un certo punto, dalla camera dei bambini si è sentito un rumore e abbiamo dovuto smettere di scopare. Lei mi ha chiesto di non dire nulla a suo marito e di continuare a lavorare per loro… e… non solo questo. (Guarda Alessandro) La sto scandalizzando, vero, dottore? Lei… un professionista di cui nessuno conosce la vita privata, come se fosse tenuta sotto chiave dai custodi del tempo… Lei… che cura i suoi pazienti con abile maestria e non conosce lo scandalo perché non ne ha bisogno: la credibilità è già dalla sua parte. (Distoglie di nuovo lo sguardo) Metta in conto la possibilità che la sua terapia con me possa fallire. (L’orologio suona la fine dell’ora e Gaia lo guarda, quasi indugiando) Mi dica, dottor Palermo: come ci si sente a scopare con una sola donna? Come ci si sente ad essere normali? Come ci si sente ad essere uomini?

(Il buio cade sulla scena e una luce sola illumina Alessandro seduto sulla sedia. L’uomo rimane in silenzio per qualche istante e poi respira profondamente, cominciando a parlare)

ALESSANDRO

Ho messo in conto tutto, il fallimento, la delusione, tutto. Cosa vuole dire essere normali? Come posso spiegarlo davvero? Io odio il concetto di normalità. Ho iniziato ad odiarlo da poco e proprio grazie a te in modo particolare, anche se non lo saprai mai. Quello che saprai, quello che vivrai, almeno spero, sarà piacere a te stessa, accettarti, assumerti la responsabilità di ciò che hai vissuto e perdonarti, se sarà necessario. Sarà voltare pagina, avere fiducia, sperare. E se tutto questo per te vorrà dire essere normale, allora sia, andrà bene così. Io ho sempre preferito guardarmi in termini di equilibrio. Adesso com'è il mio equilibrio? E come l'ho raggiunto? Ho sperimentato, ho rischiato, ho vissuto eccessi, me ne sono compiaciuto e mi sono vergognato; non mi sono fatto mancare proprio niente, mi sono ubriacato di vita, ho smaltito la sbornia e adesso bevo con moderazione. Soddisfatto? Appagato? Credevo di sì. Non ho più la tensione dei vent'anni, la ricerca spasmodica di me stesso, la smania di andare sempre oltre, di rompere gli schemi. Certo, oggi… (La voce si fa incerta) Non mi lascerei più sedurre da Fabio… Non avrebbe più nessuna attrattiva per me, credo. Ma mi è stato utile vivere la mia sessualità con lui. (Alza lo sguardo e chiude gli occhi, ricordando e lasciandosi travolgere dall’emozione di ciò che racconta) Scoprire l'eccitazione alla vista di un corpo uguale al mio, la sua pelle liscia, i suoi muscoli definiti e tesi su di me, intorno a me... Dentro di me. Essere posseduto, io, proprio io che mi volevo maschio dominante, innamorato dell'universo femminile, lasciarmi esplorare dalle sue mani, conoscere il suo sesso, scoprire il piacere della confusione di due corpi identici che si perdono e si ritrovano, uguali e diversi, semplicemente maschi senza doverlo dire, dimostrare. (Riprende il controllo di sé) È durata sei mesi e mi sono domandato spesso se non lo avessi lasciato per timore di dover ammettere di essere omosessuale. Fabio lo era, io ero il suo gioco preferito. Poi, però, ha iniziato a parlare di sentimenti, di amore e lì, in quel momento, mi sono sentito soffocare. M è parso di essere rinchiuso in uno stanzino buio, senza luce né aria. E l'ho lasciato. È stata la prima volta che mi sono sentito in colpa per aver lasciato qualcuno. Ho sentito di averlo tradito, di averlo usato. Non ci siamo più rivisti da allora ma ho sempre avuto il bisogno di sapere come stesse, se finalmente avesse trovato chi amare, riamato... Ora vive a Miami, gestisce una palestra con il marito e, dalle foto che pubblica su Facebook, sembra felice. La mia colpa è scomparsa nella sua realizzazione. (Guarda verso la direzione in cui era Gaia, ora immersa nell’oscurità) Non so se intendessi questo quando mi hai chiesto come ci si sente ad essere uomini: sono un uomo, Fabio è un uomo. Lo siamo tutti, in un modo o nell'altro. Il mio modo è questo e mi sta bene così. L'equilibrio? Beh, quello… è un altro discorso. Sento il bisogno di guardare l'abisso, lasciarmi cadere per trovare un altro equilibrio. Ho proprio voglia di farlo… di… sbilanciarmi. È come una vertigine che mi attrae e mi terrorizza, ma so che ormai è inevitabile. Sto per lasciarmi andare, ancora non so dove ma sia quel che sia… lo accetterò.

(Buio)

GINEVRA

(Buio sul palco. Solo una voce femminile e una maschile che si parlano, ansimando.)

Serge: Je te désire...

Ginevra: Je t'appartiens

Serge: Dieu, comme je t'ai manqué!

Ginevra: Je voulais tellement cette fois...

Serge: Ginevra...

(I sospiri diventano più veloci, finchè le voci soffocate sembrano trovare appagamento. Poi, mentre il palcoscenico rimane immerso nella penombra, presso un lato esterno di esso vi è la figura di Ginevra illuminata da una luce molto tenue; ha i vestiti sgualciti e i capelli spettinati. E’ accasciata a terra e si tiene sollevata dal pavimento appoggiandosi su un braccio. I suoi sospiri diminuiscono lentamente finchè alza lo sguardo verso il pubblico, mostrando il trucco del viso sfatto. Il suo sguardo è pieno d’angoscia, come la sua voce)

Sì, Alessandro: ti ho tradito. Non volevo lasciare in sospeso questa storia che non ho concluso anni fa. Per questo… tu non saprai mai nulla.

(Buio e musica mentre Ginevra esca di scena)

ALESSANDRO

(Il buio sul palco continua. Solo una piccola luce è puntata su Alessandro che è seduto sulla poltrona del suo studio. Si guarda intorno, come se cercasse qualcosa e osserva l’orologio al polso un paio di volte. Poi, si accorge che il suo cellulare sta vibrando [suono amplificato] ma non fa in tempo a rispondere. Giunge un segnale di notifica. L’uomo digita sulla tastiera e sente il messaggio in segreteria. La voce di Gaia è alterata dalle emozioni che esprime con le sue parole)

Sono giorni che la chiamo e lei non risponde! Mi ha dato il suo numero ma non si è mai degnato di richiamarmi! Ho sbagliato qualcosa? Non ha nemmeno le palle di dirmelo al telefono? E come mai ha le segreteria attiva, oggi? Un errore, eh? Bell’errore del cazzo! Questo la costringe ad ascoltarmi, finalmente! Se vuole scaricarmi, lo faccia e basta! Non mi lasci qui, come una cogliona, nella mia angoscia! Scommetto che lei nasconde la sua, così come faceva lo psichiatra che mi scopava! Siete tutti uguali! Tutti uguali! Vi credete i migliori solo perché potete giocare con la mente delle persone e prenderle per il culo e poi le fate fesse con il vostro silenzio! Mi fate schifo! LEI mi fa schifo! Io sono sola e a lei non frega un cazzo! Vada a farsi fottere, dottor Palermo! Vada a farsi fottere! (La chiamata si conclude bruscamente).

(Alessandro guarda il cellulare per un istante, in silenzio. Passa una mano sul viso, controlla i suoi appunti, rimane per un attimo sovrappensiero, scuote la testa e poi si ferma ancora a pensare. Quando parla, il suo tono tradisce un’amara consapevolezza)

Non sono migliore di te e, credimi, non ho proprio intenzione di nascondermi. Sto cadendo, sto andando dove non ti è dato sapere. Ma è lì che mi troverai ad aspettarti. Odiami pure, la cosa non mi stupisce. Devo abituarmi all'odio, al risentimento. Lo sto cercando. Vendicati, ti sto lasciando tutti gli indizi per trovare le prove della mia colpevolezza. È necessario, adesso lo so. Fa male ma è necessario. E non è per espiare, non cerco condanne né perdono. L'unico che deve perdonarsi per la sua idiozia sono io. Ho cercato di dare qualcosa di buono e, con molti… quasi tutti… ci sono riuscito, ma… per farlo… mi sono arrogato il diritto di sapere che cosa fosse giusto e cosa, invece, no. Io che mi vanto di saper ascoltare, capire, cogliere sfumature invisibili ai più, stavo per non accorgermi di essermi messo su un piedistallo e ho pure creduto che fosse il mondo a volermi lassù. Ecco la mia rivoluzione copernicana. Ora scendo. Mi metto di lato, periferico. E, magari, finalmente riesco a fare quello che, veramente, è giusto fare. Per me e per tutti.

(La scena si illumina di luci che sono colorati come le emozioni: rosso, giallo, verde, blu, bianco, in alternanza, mentre Alessandro si aggira per lo studio e l’orologio sulla parete accelera ancora i minuti, in un crescendo musicale che si chiude quando suonano le 7)

ALESSANDRO

(Nel silenzio, cammina lentamente verso il centro del palco, illuminato da una luce bianca, mentre l’oscurità cala sulla scena dello studio) La pazienza… è un esercizio difficile la pazienza. Ti mette a nudo, ti dice che potresti essere inutile. Potrebbe essere. Quindi? Quindi niente. Aspettare è come digerire. Da fuori non si percepisce nulla, ma dentro tutto si muove, tutto si trasforma. Ginevra… dove sei? Hai ancora la pazienza di aspettarmi? Mi vuoi ancora? Io ti voglio amore mio, ti voglio come non mai, voglio scoprirti, voglio scoprirmi, voglio che andiamo insieme dove non abbiamo mai osato. Voglio avere paura, litigare, ridere, preoccuparmi ma vorrei poterlo fare tenendoti per mano. Lo vuoi anche tu? Lo vuoi ancora? Dimmelo, ti prego. Oggi, più che mai, ho bisogno di te.

(Buio su di lui. Una sola luce si accende su Gaia.)

GAIA

(La donna indossa una tuta molto accollata e i capelli sono raccolti in una coda di cavallo. Il viso non è truccato. Le scarpe da ginnastica sono lasciate sul pavimento e lei è seduta sul lettino, con le ginocchia strette al petto, le braccia incrociate sulle gambe, in posizione fetale. La sua voce è flebile e angosciata)

Non so perché io continui a tornare qui, dottore. Non so perché io non riesca a farne a meno. Se mi allontano… è come se la stessi tradendo e non ne comprendo i motivi. Non faccio che sentirmi in colpa, ultimamente. Per tutto. Mi sento in colpa per essere stata sgradevole con lei, mi sento in colpa per aver ceduto a quella donna, mi sento in colpa per aver lasciato quel lavoro per non avere più nulla a che fare con quella che è stata la mia amante per alcune settimane, mi sento in colpa perché odio mia madre, mi sento in colpa perché ho cercato di sedurre lei, dottor Palermo, più di una volta, mi sento in colpa per aver buttato via il mio corpo per così tanti anni, mi sento in colpa per essermene resa conto solo ora che avrei desiderio di un figlio ma che, per averlo, dovrei fare ciò che ho sempre fatto e senza aver mai provato amore e, anche per questo, mi sento in colpa… Mi sento in colpa per non essere stata capace di dire di no, quando ero piccola, di fronte alle richieste di chi mi voleva solo usare e io credevo volesse darmi il suo affetto speciale... Ma più di tutto… (Un attimo di esitazione e poi la sua voce si altera) Mi sento in colpa perché sono arrabbiata con mio padre, molto arrabbiata: perché non ha lottato per me? Perché ha lasciato che mia madre mi tenesse lontana da lui? Perché non mi ha protetta quando gli altri uomini mi hanno presa con l’inganno e io, come una stupida, ci sono cascata? Se lui mi fosse rimasto accanto, io non sarei caduta così in basso. Se lui avesse usato tutto il potere che aveva a sua disposizione, avrei potuto assisterlo, mentre moriva. E mi sento in colpa perché lo odio doppiamente, proprio per questo: perché mi ha lasciata più volte, da vivo e da morto, senza nemmeno avvisarmi. Non importa come: avrebbe dovuto farlo. (Sospira e la sua voce è tormentata) Lo odio e non dovrei: è l’unica persona che mi abbia dato davvero qualcosa in cambio di nulla, nella mia vita. Un cognome. Avrei potuto usarlo, in qualche modo: i De Saint Luc sono una famiglia molto in vista e, se fossi stata meno ingenua, non avrei vissuto come ho fatto fino ad ora, nell’indigenza, nell’ignoranza, nell’abuso, nella mancanza d’amore… Mi sento fragile, ora, vulnerabile. Spaventata. Anzi, no: sono terrorizzata. Ho paura di tutto, persino di uscire di casa. Per venire qui, ho dovuto cambiare tre taxi e scendere per tre volte, perché mi sembrava di soffocare. Per questo ho tardato. Non sapevo nemmeno se sarei riuscita a oltrepassare questa porta. Mi sentivo il suo giudizio addosso, non volevo affrontarlo. Ma è ciò che merito. Merito disprezzo. Merito odio. Merito di essere punita. Merito l’indifferenza. (Rimane in silenzio per un attimo, sovrappensiero e, quando parla, la sua voce è ancora più flebile) Vorrei sparire, vorrei che nessuno mi vedesse perché è come se tutti leggessero la mia mente, come se vedessero la mia vita come attraverso una lente che ingrandisce tutti i miei errori… Farla finita… Sì… Ci ho pensato. Avevo anche pensato a come fare. Ma poi… ho ricevuto una lettera inaspettata: era mio fratello, il figlio di mio padre e che è riuscito a trovarmi. Mi ha ringraziata per avergli donato il mio midollo. (Sorride lievemente e la voce si anima) L’operazione è riuscita e lui ha voluto a tutti i costi sapere chi ringraziare, così, sua madre è stata costretta a dirgli quello che avrebbe voluto nascondere per il resto della sua vita, anche perché lui ha fatto davvero di tutto, per cercarmi. Si chiama Claude, ora so anche il suo nome. Mi ha anche scritto dove vive e mi ha chiesto di vederci, una volta che si sarà ristabilito… e i medici sono ottimisti. (Il sorriso svanisce) Ma non so se accetterò la sua richiesta: come potrebbe presentarsi una come me, una che non ha avuto il coraggio di cambiare le cose, prima che fosse troppo tardi? (Fa una pausa e la sua voce torna ad essere flebile) Ho fatto una sola cosa buona, nella mia vita, ed è stata restituire speranza a mio fratello. Questo mi ha impedito di mettere in atto ciò che avrei voluto fare. Non pensavo che un legame così sottile e lontano potesse avere un’influenza così forte su una decisione così netta. (Alza il viso, lentamente e guarda Alessandro) Mi dica, dottore: che cos’è la famiglia?

(Buio su Gaia. Luce su Alessandro)

ALESSANDRO

(Rimane sovrappensiero per un istante, prima di respirare a fondo e parlare) Bella domanda. Sembrerebbe scontato avere la risposta in tasca. Non è così. Per nessuno. La famiglia è un'idea e di questa idea si potrebbe parlare per ore o liquidarla in una frase. E non farebbe nessuna differenza, suonerebbe tutto falso. Parliamo del sangue piuttosto, quello che ci viene trasmesso, quello che sentiamo scorrere sotto la pelle, quello che ogni tanto versiamo. Parliamo della realtà. L'unica realtà che si possa enunciare, dichiarare vera senza ombra di dubbio, è che la famiglia sia l'origine, il punto di partenza. Di chiunque, anche degli orfani. È dopo che le cose si complicano. (Fa una pausa) Ho avuto… la famiglia ideale, agli occhi del mondo. Il casino è accettare che gli occhi del mondo non sono i tuoi. I tuoi hanno visto cose diverse. I miei hanno visto le crepe sul muro, chissà da quanto tempo. Però solo adesso le hanno messe a fuoco, solo adesso mi è venuto il bisogno impellente di metterci il dito dentro, a quelle crepe. Di allargarle, scrostarle, di prenderle a pugni per vedere se magari una parete crolla, se magari può cambiare aria e luce in qualche stanza. (La voce si altera) Cosa ci tiene insieme? Lo stesso sangue? Lo stesso cognome? Cosa ti devo, madre? E tu, Amedeo, cosa vuoi da me? Ho sbagliato, adesso lo so. Ho sbagliato ad accettare il vestito che mi avete cucito addosso. Era bello, mi stava proprio bene, l'ho indossato con orgoglio. Ma non lo avevo scelto io. Anche se adesso magari ne indosserei uno identico, la differenza è tutta qui: poter scegliere. Non posso darti la colpa mamma. Però devo dirtelo. Mi hai stancato. Mi hai stancato con i tuoi sguardi di approvazione, con i tuoi silenzi imbarazzati quando qualcosa ti indispone, con il tuo atteggiamento sempre così perbene, così impeccabile. Sei stata presente, amorevole, è vero. E papà è stato una guida, uno stimolo, un modello da emulare. Avete fatto quello che dovevate, quello che avete potuto. Vi ringrazio per questo. Mi avete fatto sentire amato, accettato, mi avete dato la possibilità di diventare l'uomo che sono diventato. E adesso, anche se vi sembrerà strano, anche se magari sono in ritardo, mi avete fatto capire un'altra cosa, forse l'ultima come genitori, forse la più importante: io non vi devo niente.

(Buio sulla scena.)

AMEDEO

(Sul lato destro del palco, una luce illumina una figura maschile dall’aspetto attraente, abbronzato e dall’espressione molto sicura di sé. Vestito come un modello in stile sportivo, parla con voce decisa e, a tratti, sarcastica)

Tua moglie continua a guardarmi come se fossi scarto della società. Scommetto che discutete ancora a causa mia. Nostra madre ha notato come ti irrigidisci, quando parla di me di fronte a Ginevra: proprio questa situazione non vi dà tregua, eh? Non è che sei geloso, mio caro fratello? Geloso di me, intendo. Della mia libertà, mentre tu sei costretto a recitare la parte della perfezione che ti sta a pennello: un marito presente, un padre premuroso, un professionista stimato… Non è tutto troppo bello per essere vero? La gente crede alle favole che racconti, sempre e comunque? Oppure le racconti a te stesso per convincerti te stesso? Mi hai giudicato tante volte per il mio stile di vita ma, alla fine, non mi hai mai fatto mancare il tuo appoggio quando avevo bisogno di te. Perché? Volevi lavarti la coscienza? O, forse, volevi vivere attraverso di me quella trasgressione che non hai più voluto mostrare al mondo, dopo la tua redenzione che ti ha reso perfetto agli occhi di nostra madre? Dimmi la verità: quanto ti pesa apparire per ciò che non sei?

(Buio su Amedeo)

ENRICA

(Una luce illumina il lato opposto del palco dove c’è Enrica, curata nel suo aspetto impeccabile e senza eccessi, quasi austera e insolitamente giovanile. Il suo tono di voce è deciso e non tradisce alcuna emozione particolare)

Tu sai che cosa provo per te. Sai che cosa provava anche tuo padre. Sai che abbiamo sempre fatto affidamento sulla tua forza e su ciò che sei diventato nel corso degli anni. Le nostre speranze sono state ripagate e ti chiamano da ogni parte del mondo solo per conoscere la tua opinione sui casi più difficili. Sono fiera di aver cresciuto un figlio esemplare su cui posso contare sempre. Sono fiera di averti dato un’educazione che ti ha permesso di ottenere tutto quello che vuoi, dalla vita. Sono fiera dei tuoi successi, come se fossero i miei. Avrei voluto che anche Amedeo fosse uguale a te ma, sfortunatamente, sembra che lui non sia in grado di vivere da solo. Finchè i panni sporchi si lavano a casa… io non ho nulla in contrario. Ma, ti prego, continua a fare ciò che hai sempre fatto: non raccontare ciò che potrebbe macchiare ciò che io e tuo padre abbiamo costruito con te e per te. Anche se lui non c’è più, tu porti e rappresenti sempre il suo cognome. Quindi… non deluderci. Me lo prometti, Alessandro?

(Buio su Enrica)

GINEVRA

(Una luce illumina la figura femminile posta al centro di esso. Ginevra indossa lo stesso abito celeste dell’inizio e il suo aspetto è altrettanto elegante e curato. La voce tradisce le emozioni delle sue parole)

Non hai solo una figlia, Alessandro: c’è anche Francesco oltre ad Alice. Lui ha bisogno di te ma tu non ci sei. Perché? C’è qualcosa che mi sfugge ma non capisco… Mi stai dicendo la verità su tutto? Oppure, come al solito, c’è di mezzo tuo fratello e tu non vuoi parlarmene per evitare di litigare? Noi siamo la tua famiglia, ora: io e i bambini. Quando sei a casa, le tue attenzioni sono quasi sempre per Alice ma con Francesco non riesci ad instaurare un dialogo normale da padre a figlio. Perché? Lui è solo un bambino, che cosa ti ha fatto? Ultimamente, poi, la nostra vita intima è cambiata e non so se tu mi voglia ancora o no. Ci sei, non ti tiri indietro, eppure la tua testa è altrove. Che cosa stai pensando? Che cosa non mi stai dicendo? Abbiamo comunicato così poco, in questi anni, per arrivare a questo? Tu che lavori dalla mattina alla sera e io che comincio a sentire il peso della tua assenza, così come lo sente tuo figlio che ha la sola colpa di essere così simile ad Amedeo? Simile, forse sì, ma non uguale: Francesco è nostro figlio. E’ TUO figlio. E’ parte di te come parte di me. Ma tu non lo vedi. Perché?

(Buio)

ALESSANDRO

(Dal buio giunge la voce di Alessandro e, man mano che parla, la luce torna ad illuminare lo studio dov’è l’uomo, appoggiato alla scrivania, con lo sguardo di chi ha un grosso peso nel cuore) Il punto di non ritorno. Far esplodere una bomba è uno scherzo. Basta un clic e il detonatore fa il resto. Il difficile è confezionarla: stare attenti a che non ti esploda tra le mani, calibrare la quantità di esplosivo perché il risultato sia quello voluto, assicurarsi che i collegamenti siano al loro posto. E poi sperare che funzioni. Dio… (Distoglie lo sguardo per un attimo e poi fissa un punto nel vuoto in cui prima era sua moglie) Ginevra, perdonami: so che sono più distante del solito ed è vero che sto attraversando un momento di crisi. Sì: crisi… trasformazione, in qualcosa che mi chiedi da tempo. Qualcosa che Francesco, soprattutto, mi chiede da sempre. Ci sono, Ginevra, sono qui, anche se ancora non mi vedi. Sono pronto. Sono dalla tua parte. Avrai notato l'inquietudine di mia madre l'altra sera, quando eravamo a cena da lei. Ho iniziato a parlare. Scusa se ti lascio per ultima, non è per paura di affrontarti. Con te voglio affrontare la vita, con te e con i nostri figli. Con la mamma ed Amedeo devo affrontare quel pezzo di passato che ancora mi teneva lontano da te. Che mi ha fatto vivere distante da Francesco senza capire fino in fondo perché. Francesco, avrei voluto dirti tante cose, parlarti di come sono stato stupido a pensare di volerti allontanare da un fantasma che vedevo aleggiare intorno a te come un'ombra inquietante. Credevo fosse lo spettro di Amedeo che potesse contaminarti. Volevo proteggerti da lui. Avrei voluto dirti che ho capito che quello spettro ero io, era l'ombra che mi porto appresso. Mi ero dimenticato che le ombre non possono sparire, né le mie né quelle che scoprirai di te stesso. Tutto quello che possiamo fare è lasciarle camminare accanto a noi, entrarci in confidenza, andarci a braccetto incontro alla vita. Ma avevo bisogno di ben altro per farti capire tutto questo, le parole non potevano bastare. Tu avevi bisogno di ben altro. Ecco perché ieri, quando siamo andati in piscina, non abbiamo fatto la nostra solita lezione di nuoto. Non sono stato il solito papà-istruttore a cui tu cerchi di far capire quanto vali. Abbiamo fatto i tuffi. Ci siamo divertiti a schizzare tutto e tutti, ci siamo fatti cacciare fuori dal bagnino indispettito, come due bambini maleducati. Non avevo mai visto un sorriso così sul tuo volto, lo stupore dopo il mio primo tuffo a bomba, non ti avevo mai sentito ridere così. Non avevo mai pianto così, lacrime di commozione sotto la doccia a confondersi con il getto d'acqua sul mio viso. Non mi avevi mai abbracciato così. Forse… io non ti avevo mai abbracciato.  Non voglio più andarmene. Non me ne vado più.

(La musica lo accompagna mentre prende gli appunti sulla sua scrivania e si siede sulla sua sedia. Guarda l’orologio appeso sul muro le cui lancette si muovono velocemente, fino a fermarsi quando l’uomo avverte la vibrazione del suo cellulare posato sulla scrivania. La musica cessa, lui prende in mano il cellulare, digita e, mentre legge, si sente la voce di Gaia)

Ti cerco nelle mie notti insonni e ti sogno per avvolgermi di protezione. Tu mi sei padre, amico, fratello, e io sono un burattino tra le tue mani che si lascia plasmare come creta. Sei il mio scudo nella tempesta e la quiete che cerco nella mia anima. Ogni nostro saluto è un addio che non vorrei mai vivere ma che mi lacera quando la tua mano stringe la mia. Il mio peccato è amarti, nel desiderio di un nuovo incontro.

(Cala la penombra e, sulla destra del palco, appare Ginevra illuminata da una sola luce. La sua voce è triste e angosciata)

GINEVRA

Da tempo, ormai, ricevi messaggi sul tuo cellulare e io non posso più fingere. Ho letto quello che ti scrivono e quello a cui, forse, tu vorresti rispondere. Perciò, ti prego, sii onesto e dimmi: mi hai tradita, Alessandro? Mi hai mai tradita con qualcuna delle tue pazienti? Mi hai tradita… con qualcuno?

(Buio su Ginevra)

ENRICA

(Una luce illumina la figura della madre di Alessandro, in piedi, presso il lato opposto del palco)

Che cosa sta accadendo? Perché tua moglie è così frustrata? Perché sei sfuggente? Io conto su di te. Noi tutti contiamo su di te. Non puoi permetterti di fare ciò che vuoi, proprio adesso. Non puoi deluderci così. Tu sei il dottor Alessandro Palermo, uno stimato psicanalista che porta lustro alla nostra famiglia e alla sua. Di che cosa ti stai macchiando, ora? Qualunque cosa tu abbia fatto, non dimenticare mai quanto contino le apparenze: sono il biglietto da visita che tutti noi porgiamo all’inizio di ogni relazione. Che cosa vuoi che ci sia scritto sopra?

(Buio su Enrica)

AMEDEO

(Una luce illumina l’uomo che sta al centro e che, lentamente e con sguardo assente, arrotola uno spinello e poi lo accende. Fuma una prima boccata, poi una seconda, quindi, come se si sentisse osservato, alza lo sguardo)

Sono io, la voce della tua coscienza? Sono io, la voce della tua trasgressione? Che cosa vuoi, da me, Alessandro? Che cosa speri che io ti dica? Che sapevo già come fosse la vita, fatta di scelte che servono ad ingannare solo noi stessi? Le voci corrono, sai? Sembra che tu non ti stia comportando come un santo, nella tua vita perfetta. Sembra che tu non abbia mai risolto davvero il tuo passato, quello a cui cerchi di dare risposte attraverso la vita dei tuoi pazienti… Che cosa vuoi, da me? Comprensione? Oppure vuoi che ti dica quanto tu sia ingrato nei confronti di una moglie così devota? Credi che lei sia una santa, dunque? Credi che lei non ti abbia mai tradito, nella vita? Credi che lei non sia una puttana, come tutte le altre donne?

(Buio su Amedeo, mentre una leggera penombra si posa sulla scena dello studio, simile al tenue bagliore di una lampada posta sulla scrivania dietro la quale è seduto Alessandro.)

ALESSANDRO

(La voce e la gestualità manifestano tutte le emozioni dell’uomo che si volta verso la direzione in cui ciascuno dei tre personaggi precedenti ha parlato) Ginevra… Come posso spiegarti ciò che il mio ruolo mi impone di mantenere come segreto professionale? Come posso rassicurarti su qualcosa che non è avvenuto, se, in passato, ti ho tradita? Ti confesso, che i messaggi di Gaia mi lusingano, è vero. Ed è una lusinga potente e pericolosa. Non cederò, perché lei mi dice ciò che vorrebbe io fossi ma io mi domando se, nella mia vita, io lo sia stato davvero o se lo abbia dimenticato. Ed è una domanda che porta a guardarmi dentro, a giudicarmi, a soppesare ogni mio errore. E Gaia mi costringe a fare i conti con me stesso e con tutti quelli che mi stanno attorno, come se lei psicanalizzasse me e non viceversa. Ginevra… L'uomo che ero ti ha tradito come non avrebbe mai dovuto fare, l'uomo che sono stava per tradirti ma si è lasciato attraversare dall'inquietudine che lo ha messo alle strette. Ha riconosciuto le ombre che lo tormentavano senza che se ne accorgesse, le ha lasciate parlare, le ha ascoltate. Forse lo avevi già capito… forse… Sì. Anni fa, dopo la nascita di Francesco ti ho tradito ed è stato come tu temi adesso. Ho vissuto quelle due esperienze come facevo anni prima, quando ci siamo conosciuti, una trasgressione che voleva essere scoperta, novità, ebbrezza. Così è successo, con una collega ad un convegno e, poco tempo dopo, con una coppia ospite dello stesso albergo dove alloggiavo a Venezia per quella famosa consulenza che sai. Una coppia, Ginevra. Non solo una donna o solo un uomo: tutti e due insieme. Terribile, vero? Lo so. Avevo rimosso ogni cosa come se qualcun altro avesse sbagliato al posto mio ma il passato riemerge. Avevo chiuso i miei segreti così, dentro di me, togliendo loro il peso e il valore che mi avrebbero disturbato. Sono ritornati ora, nella memoria, a dirmi il senso che avevano avuto, a farmi sentire il loro carico, a parlarmi della mia angoscia di padre che avrebbe dovuto confrontarsi con un figlio maschio… Che avrebbe dovuto confrontarsi con se stesso. Non è buffo che oggi, di fronte al mio cambiare, al mio tornare verso di te, mia madre ed Amedeo mi puntino il dito contro? Temono lo scandalo, la mamma con orrore, Amedeo con il compiacimento dell'invidioso che aspetta la sua rivincita. Tentano l'una di congelarmi all'immagine che le viene comoda e l'altro di sporcarmi con il fango nel quale razzola da anni. Buffo e tragico, come se i traumi della mia adolescenza volessero risolversi solo adesso. Mamma… Di cosa hai più paura? Di un figlio che disonora il tuo nome o di avere due figli identici? Un nuovo Amedeo, oltre a quello che c’è già… Da quando è morto papà, non hai fatto altro che cercare in me un suo prolungamento. Ma io non sono papà e non sono tuo marito. L’ho compreso troppo tardi, forse, ma è così. E io e Amedeo non siamo nati per compiacerti, perché siamo diversi come il giorno e la notte. Non saremo mai abbastanza perfetti: lui, perché è uno scapestrato; io, perché vi ho dato sempre più di quanto potessi e, adesso, tutto questo è scontato. E anche tu, Amedeo… Tu che mi provochi… Pensi davvero che tutto si risolva nel terrore di perdere un'immagine perbenista a cui sarei così attaccato? Non è così. Mi assumo ogni responsabilità di ciò che sono ma anche di ciò che non sono. Mi chiedi se io non abbia mai pensato che Ginevra possa avermi tradito? Sì. L’ho pensato e, a volte, mi sono detto che, se fosse successo, me lo sarei meritato. Perché ho sbagliato troppe volte, con lei, e non avrei potuto condannarla, sebbene il tarlo s’insinuasse nella mia mente ancora prima che lo insinuassi tu. Sì, ogni tanto sono patetico anche io, hai ragione. Non so cosa accadrebbe, se io e Ginevra scoprissimo di esserci traditi reciprocamente.  Ci faremmo del male, forse. Ci perdoneremmo, magari, o forse no. Ma adesso l'unica cosa che mi interessa è quello che posso scoprire di Ginevra stando con lei, perché ho rischiato di tradirla ma non nel modo che pensi. Ho rischiato di tradirla nella fiducia. Ma non potevo fare altro. Perché uno psicologo deve mantenere il segreto anche quando potrebbe fare male a chi gli sta accanto.

(Musica, mentre la luce si intensifica e Alessandro accoglie Gaia che entra e si siede sul lettino dopo avergli stretto la mano. Lui rimane sulla sedia di fronte a lei, tenendo sempre il suo blocco per gli appunti tra le mani. La musica svanisce lentamente, cessando quando la donna inizia a parlare)

GAIA

(Gaia non è sdraiata sul lettino: è seduta, con i piedi appoggiati a terra e dà il fianco ad Alessandro. Indossa sempre una tuta più grande di lei e i suoi capelli sono raccolti in una piccola coda di cavallo. La sua voce è sempre incerta ma anche emotivamente distaccata)

Ha compreso subito che ero io… Sapevo che ci sarebbe riuscito. Non ho fatto altro che tentare, in tutti i modi che ho creduto possibili, di smuovere qualcosa in lei… ma ho fallito. Il suo cuore è fatto di ghiaccio e io mi sono illusa di qualcosa che non è mai esistito. Ogni più piccola sfumatura del suo sguardo, ogni suo gesto… era un inganno. Lei mi ha ingannata per farmi cadere nella sua trappola, in quel transfert di cui tutti parlano e che, in fondo, nessuno sa spiegare. L’ho odiata… sì. L’ho odiata per avermi lasciato credere che tutto fosse vero… e non lo era. La mia fiducia in lei è scomparsa, dottore: non è che l’ennesima delusione in questo mio mondo fatto di bugie. Riponevo in lei le mie speranze… ho commesso un altro sbaglio. Ho cercato in lei ciò che non avrebbe potuto mai darmi: un'altra me. E’ una magia che nessuno può compiere, perché, ovunque io vada, la mia anima mi seguirà e non potrò farla tacere. Per questo… ho deciso di interrompere la terapia. Stavolta ho voluto dirglielo di persona: niente più fughe, né giochi, neppure ricatti e minacce, perché non la odio come non provo alcun rancore. E comincio a non sentirmi più in colpa per tutto quello che ho fatto: almeno io sono stata umana. Lei… no. Ma che cosa potevo pretendere da qualcuno che mi ascolta solo perché è pagato per farlo? A lei non è mai importato nulla di me. E non ha alcun senso che io cerchi in lei ciò che non potrà mai darmi: la felicità.

(Il buio avvolge la scena dello studio)

GINEVRA

(Una luce illumina la figura della donna, in piedi, su un lato esterno)

Ricominciamo, Alessandro. Ricominciamo in un modo diverso, io e te e la nostra famiglia. Ricominciamo e nessuno più deve intervenire nel nostro rapporto, nemmeno tuo fratello. Siamo solo io e te, ora.

ENRICA

(Un’altra luce illumina la donna, in piedi, sul lato opposto del palco, mentre Ginevra è ancora visibile e rimane in silenzio)

Resta ciò che sei, Alessandro. Non cambiare. Continua sulla strada che ti ha dato soddisfazioni e onori, la stessa che ne ha date a noi che abbiamo sempre voluto il meglio per te. Continua ad essere il nostro figlio prediletto, la nostra vittoria.

AMEDEO

(Un’altra luce illumina l’uomo, al centro del palco, mentre Ginevra ed Enrica, ancora visibili, stanno in silenzio)

Ho bisogno di soldi, Alessandro. Non fare quella faccia: lo sai. Mi conosci. Vuoi che chieda sempre a nostra madre? Non mi hai sempre accusato, per questo? Allora fai il fratello maggiore: dammi una mano. Economica, è ovvio: io non ho bisogno di strizzacervelli né di consigli falsamente perbenisti. Togliti la maschera e aiutami.

GINEVRA, ENRICA, AMEDEO

(Insieme, con tono diverso)

Non mi deludere.

(I tre rimangono illuminati ma immobili, mentre Alessandro avanza verso ciascuno di loro, uscendo dal buio.)

ALESSANDRO

Le cose hanno un inizio e una fine. Tutte. Anche quelle che non vorremmo finissero mai. La delusione è il centro di tutto, per alcuni tragica, per altri salvifica. (Si volta lievemente verso la scena dello studio in ombra) Deludo te, Gaia, che te ne vai perché non voglio amarti, perché non posso dirti quello che mi hai fatto provare, perché il mio essere uomo non sarà mai per te. (Si rivolge agli altri personaggi che non interagiscono con lui) Deludo voi, Ginevra, Alice e Francesco, smontando la mia immagine perfetta e terribile e so che attraverso questa delusione potrete amarmi e lasciarvi amare da me. Deludo te, mamma, perché smetto di giocare al figlio buono che lotta contro quello cattivo, solo per coprire le tue difficoltà ad accettarci diversi da te. La mia vittoria non è per te, né per papà, né per nessuno. La mia vittoria è riuscire a vivere, andare, restare, soffrire, gioire; è riuscire ad affrontare quello che mi aspetta, nel bene e nel male, è riuscire a dare quello che posso, quello che sono. La mia vittoria è riuscire a dirtelo, mamma. E, alla fine, deludo anche te, Amedeo. Ti deludo perché proprio togliendomi la maschera ho deciso che no, non avrai più soldi né aiuto, da me. Deludo tutti. Tutti voi che mescolate le emozioni e ne fate carta da bruciare nel camino dell’oblio e, forse… per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sento leggero. Per la prima volta, sono io.

EPILOGO

(Sipario quasi completamente chiuso. Gaia attende. Il suo aspetto è più curato: trucco leggero, capelli sciolti sulle spalle, un vestito floreale, lungo fin sotto le ginocchia e sobrio che esalta la sua figura. Alessandro esce dal sipario e si pone accanto a lei che gli parla)

Grazie per aver accettato di vedermi, dottore. Grazie soprattutto per aver accettato di incontrarci fuori dal suo studio. E’ passato un anno dal nostro ultimo incontro e non posso dirle di stare bene… ma qualcosa è cambiato. La mia vita? Non completamente: non posso cancellare tutti questi anni trascorsi nella paura e nell’inganno, né riesco a comprendere ancora la mia sessualità. Continuo a fare le pulizie, sempre dalle stesse persone: sono un paio di famiglie che mi trattano bene e mi rispettano e, con i soldi che ho messo da parte, sono riuscita a lasciare l’appartamento di mia madre e prenderne in affitto uno solo mio. Non aveva senso continuare a vivere nell’attesa di un ritorno: mia madre non tornerà mai più. Ha fatto la sua scelta di vita e ora io devo fare la mia. Con Claude continuo ad avere un rapporto fraterno ed è la prima volta che accade nella mia vita. Lui sta molto meglio e la malattia sembra essere regredita. Non ho alcuna relazione da sei mesi e, per me, è davvero strano vivere senza il bisogno di fare sesso. Voglio dire: sì, a volte mi capita di pensare di cedere all’abitudine che conosco molto bene ma poi mi chiedo se ne valga davvero la pena… e, solitamente, la risposta è “no”. Sono sola ma è come se questa solitudine fosse qualcosa di diverso dalla gabbia in cui ero prigioniera: nonostante sia difficile, a volte, l’idea che qualcuno possa abusare della mia libertà mi porta a scegliere il silenzio e la riflessione. Mi limito a poche scelte che so di poter affrontare. Una di queste è la ragione per la quale le ho chiesto di incontrarci, dottore. Ora che non sono più la sua paziente e che non credo di aver più bisogno di lei… che ne dice di conoscerci al di fuori di tutta questa merda che ho lasciato alle mie spalle? Vorrebbe essermi amico? Un amico vero, intendo. Vuole farsi conoscere da me, dottore, come un uomo si fa conoscere ad una donna?

ALESSANDRO

(Le mette una mano sulla spalla e rimane così, in silenzio, col capo chino e lo sguardo pensieroso per circa un minuto. Poi, sempre con lo sguardo chino, le parla con dolce fermezza) Mi è sempre importato molto di lei, Gaia. Ma non potevo permettermi di dimostrarglielo. Lei mi ha messo a dura prova, mi ha suscitato emozioni intense, mi ha fatto tenerezza, mi ha fatto arrabbiare, spaventare, inorridire. Mi ha portato una sofferenza profonda, che mi è entrata dentro e mi ha obbligato a confrontarmi con una parte di me che forse non volevo vedere. Per questo, la ringrazio del transfert che tutto ciò ha operato su di me, come uomo e come terapeuta. Non sapevo se accettare il suo invito o no… Alla fine, ancora una volta, sono qui per lei. (Alza lo sguardo) Ma non posso essere suo amico. (Si allontana lentamente da lei, scomparendo nel sipario; Gaia cerca di trattenerlo per il braccio, inutilmente e rimane da sola sul palco, mentre le luci si abbassano).

FINE

(Segue possibile discussione della durata di mezz’ora con gli autori)

TRANSFERT

Paola Elena Ferri – Alberto Barbagelata

©SIAE – 2016