Tullia
Di Lodovico Martelli
PERSONAGGI
Lucio Tarquino
Demarato
Tullia
Coro di donne
Nutrice
Regina
Nunzio
Servio
Ombra
Romolo
ATTO I
Lucio
O più degli occhi miei caro fratello,
Che del nostro avo antico il nome serbi
E la speranza ancor d'ogni nostr'opra,
Or puoi tu ben veder l'alta Cittade
Di che mostravi aver tanto disio.
Questa è la bella Roma, ove mio padre
Regnò molt'anni, et ove poi perdeo
Sì crudelmente il bel regno e la vita.
Quella è la selva, ove le dotte Dee
Figlie di Giove con Egeria spesso
Partiano i santi suoi pensieri ascosi.
E quello è 'l colle, ove l'alpestre Cacco
Ascose il fatto furto al grande Alcide,
Et ove ei fu da lui di vita casso.
Ivi fur poi nodriti i duoi fratelli,
Nati di Marte; ivi il beato augurio
Ebbe Romol da Dio, per ch'ei fu rege,
E diede a Roma sua le leggi e 'l nome.
Questa è la trista casa, ove spogliato
Fu mio padre di vita, et ove or vive
Securo e lieto il mio mortal nemico,
E non sa qual per lui s'ordisce impresa,
Che finir deesi in questo giorno ancora,
S'a mie voglie il destin non s'attraversa,
E non fa vane sue promesse il Cielo.
Demarato
Gradisce Iddio sopra le forti stelle
Gli uomini saggi, e quando il saggio e 'l dritto
Son giunti in uno come in te si vede,
Non bisogna temere. Or perch'io veggio
Che l'alte stelle il sol di luce isgombra
E muove i dolci canti mattutini
De' vaghi augelli, anzi che fuor sen vegna
De' chiusi alberghi a travagliar la gente,
Senza qui consumar più tempo in vano,
Dimmi quel che dir dèi, che forte e fido
Compagno avra'mi a terminar tue imprese.
Lucio
Ben sei nato di stirpe alta e pregiata,
Ben sei di gloria amico, e ben ne mostra
L'animo altero tuo tua sicurtate
Ne' più dubbiosi fatti. Or drizza alquanto
L'orecchie intente a queste mie parole:
Tu vedesti in Corinto i sacrifici
Devoti e santi, e come fur felici
Tutti gli auguri, e come l'ostie ancise
Fur di lor parti interne amiche e larghe;
Et odisti l'antico sacerdote
Dirmi: “Vatten beato, ch'ora è 'l Cielo
Ai tuoi disii più che mai fusse amico”.
Sì che noi semo in questa terra or giunti
Celatamente, per oprar che 'l regno
A me ritorni, e che 'l tiranno rio
A le bramose fere il corpo lasci,
E vadia anima sciolta ai bassi regni,
E dopo molto error patisca pena
Da le severe Dee de' suoi gran falli.
Quando tempo ti pare, a questa casa
Va' coi compagni tuoi girando intorno,
E fa' sembiante d'aver gran disio
Di veder la cittade: egli che teme,
E sa ch'io mi fuggii nel bel paese
Ove nacque il nostr'avo, tosto ch'egli
Di tua venuta e del sembiante greco
Avrà novella, ti vorrà davante,
E vorrà pria saper donde tu sei,
E chi t'ha scorto ne la sua cittade,
E poi di me vorrà novelle udire.
Di te di' pur che vuoi, basta a me solo
Che tu gli dica ch'io furioso e crudo
Fui di me stesso micidiale un giorno
Dopo certi finiti sacrifici,
Che mi togliean d'ogni salute speme.
Non dir d'aver di me contezza a pieno,
Né de l'alta cagion perch'io m'uccisi
Et io con questi duoi compagni in quella
Devotamente a l'alta sepoltura
Del mio buon padre e di mia madre pia
Di questi miei capei farò corona,
E d'altri doni ancora, e i liquor sacri
Spargerò d'ogn'intorno, e lagrimando
Chiamerò le 'nfelici anime sciolte.
Poi men verrò a trovar la mia consorte,
Ch'avrà di me triste novelle udite,
E porterolle questo vaso, dove
Dirò che sian le mie reliquie accolte,
Come sent'io sperar l'alma che questa
Di me falsa novella porti seco
Segni di gloria e di gioiosa vita!
Che ben ch'io parli di mia morte rea,
Altri di me più saggi al mondo furo
Che di lor morte fer parlare altrui,
E poi tornaro a le lor case vivi
Colmi di molto onor, così bram'io
Dopo tal di me fama a' miei nemici
Come stella apparir ch'annunzie il giorno.
O dolce terra amica dove io nacqui,
O domestici Iddii non mi negate
Grato ricetto in le contrade vostre.
E tu casa paterna, per ch'io vegno
Puro e devoto, sol per tua cagione,
Con la scorta secura degli Dii,
Fa' ch'io non aggia a far da te partita
Colmo di scorno, anzi m'accogli in guisa
Che di te sia signore, e ch'io ricovri
Del mio buon padre le ricchezze e 'l regno.
Io non vo' più parlar, caro fratello;
Fa' quel ch'io dico, e non avere a sdegno
Di portar tai di me false novelle,
Che s'un falso parlar salute reca,
Non se ne dee temer vergogna o scempio.
Tullia
O chiara luce, se recando il giorno
Dal pigro sonno gli animali svegli,
Et al diurno travagliar gl'inviti,
Pur poi partendo, e del bel proprio raggio
Tua sorella accendendo, e l'altre stelle,
Nei cari alberghi dolcemente quegli
Voli d'ogni pensier riponi in pace.
Manca a me sola tua pietate adunque.
Che per ore cangiar, non cangio stato:
Tornami giorno e notte ne la mente,
Anzi v'è sempre l'infelice caso
Del gran Prisco Tarquino, e la sua morte,
Che l'uno ordìo, e l'altro a fine addusse.
Ei fu pur padre, ohimè, del mio marito,
E di mia madre cruda, ch'ebbe il nome
Solo di figlia, e di nimica l'opre:
Che la sua madre e lui del mondo tolse,
Ch'era stata cagion che Servio in alto
Era poggiato in le romane menti,
Per portarne da lui questa mercede.
Ella dico il condusse a tanta altezza,
Ch'era nato di serva, e per pietate
Era da lor nodrito egli e sua madre
E come avvien che la fortuna scorge
A sua voglia i mortali a male o bene,
Senza fallo o valor di buono o reo,
Accesa fiamma sovra 'l capo apparve
Di questo ingrato, e fu da quella vera
Amica di pietate un segno tale
Per beato e divin subito eletto,
Perch'ella il feo de la sua figlia sposo;
E non sapeva, ohimè, che quel mal foco
Lei far doveva, e 'l caro suo marito,
E la sua stirpe ancor cenere et ombra.
Che poi che i figli d'Anco ebbero ardire
D'ordir la morte di quel giusto veglio,
Cui da Romolo e Dio fu dato il regno,
Senza molto favor di sangue o d'oro,
I rei consorti stabiliro insieme
Di posseder liberamente il regno,
Presa l'occasion che l'empio fatto
Fea lor più destro, e immantenente dienno
Mortal veneno a l'infelice donna,
Che per troppa pietà troppo s'offese,
E poi l'antico Re trasser di vita
Che morir non devea per le ferite
Che dai gioveni arditi avute avea;
E celar tanti giorni la sua morte
Quanti bastaro a stabilirsi il regno,
Et usarsi i favor dei fidi amici
Del morto Rege, e le ricchezze, e l'armi,
E quei che volser esser micidiali
Con legitima scusa perseguiro,
Fin ch'ei fuggiro in sempiterno esiglio.
Poscia perché sapean dentro a se stessi
Con quanti inganni e quanta crudeltate
Dei veri eredi possedean l'impero,
Si fer generi quegli, che per questo
Credean purgare il gran peccato orrendo,
Et acquistarsi eternamente il regno.
Due sorelle eravamo, ei due frategli,
Per ch'a l'uno io, e mia sorella a l'altro
Sposate fummo, e come volse il Cielo,
O 'l fato avverso a le più giuste imprese,
Furon contrarie menti insieme accolte.
Era la mia sorella troppo amica
D'ociosa e vil pace, e 'l suo marito,
Di ch'io sono ora sposa, ardito e fiero;
E 'l mio primo marito non volea
Le mie parole odir, folle, quand'io
Lo confortava a gloriosa impresa.
Così la notte e 'l dì si stava in guerra
Tra le donne e i mariti: in quella il tempo,
Che col suo corso eterno il tutto annulla,
Sen portava di noi gli anni migliori.
Si ch'io pensando e ripensando pure,
Senza più sofferir giogo sì vile,
I miei pensier securamente aprii
A quel ch'or m'è marito, e trovai ch'egli,
Sì com'io, disiava il proprio regno.
Quel che fusse tra noi contar non deggio:
Basta ch'io fui sua sposa in pochi giorni,
E morì mia sorella e mio marito.
E l'impresa fu giusta, perché nulla
Si puote oprar per acquistarsi un regno,
Che le leggi divine o l'altre varchi.
Dopo le nuove nozze il mio marito
L'avversario vedendo ne l'impero
Fermato e saldo, che con doni avea
L'instabil volgo a le sue voglie volto,
E che de' suoi pensier già s'era accorto,
E biasimando le novelle nozze,
Facea parlar di lui per la cittade
Accerbamente, perché 'l popol tutto
Lo temesse et odiasse, come quello
Che de le sante leggi, e de la pace,
E del publico ben nemico fosse,
E ch'ei feo sì, che noi perdemo speme
Di poter contra lui drizzar la testa
Con palese tumulto e forze aperte,
Celatamente fee quinci partita,
E mi promise di tornarci, tosto
Ch'ei n'avesse dal Ciel segno felice.
Sì son vivuta anni ventuno in speme,
E solea pria di lui novelle udire
Che si stava in Corinto, ond'è discesa
La sua stirpe paterna: or son passati
Due anni (ahi, come temo) e corre il terzo
Che pur una di lui non ho novella.
Sì ch'io mi truovo qui misera e sola,
E vedo il padre mio perfido e crudo
De l'empia preda sua godersi in gioia;
E la mia fera madre, e 'l popol tutto
Odo di noi parlar con tanto scorno,
Che s'ei non fusse ch'io attendo ancora
Il mio caro consorte, io chiederei
Che 'l fido messo dei gran Re del Cielo
Pur mi guidasse ai bassi regni ombrosi:
Ov'io dessi novelle ai vecchi occisi,
Come sia stato pronto il voler nostro
A vendicargli e ricovrarne il regno,
E come sante e degne fur le morti,
Ch'interrompeano i nostri fatti alteri.
Ohimè, con cui favello ohimè, chi m'ode?
Nessuno ascolta (ahi lassa) i tuoi lamenti,
Morta è per te pietate, et è ben dritto.
Non si deve aiutar chi vive in pena.
Sia felice chi vince, e mai non pera.
Coro
Quante lagrime, ohimè, quanti sospiri
Escon degli occhi vostri, e del bel seno!
Voi ne mostrate veramente a pieno
Che noi potem soffrir troppi martiri.
Io non vorrei, ma pur convien ch'io giri
Gli occhi de l'alma in voi,
E quei del corpo, e poi
Vinta d'alta pietà molto sospiri;
E da me stia divisa in pensar quale
(Sendo sì fatto il mio) sia 'l vostro male.
Prendete omai, prendere alcun conforto,
E di voi stessa divenite pia:
Non credo io già che 'l pianger vostro sia
Utile o caro a l'uno o a l'altro morto.
Deh non cercate di condurvi al porto
Di questa frale vita.
Vostra doglia infinita
Farà 'l soffrire in voi debile e corto;
E pur meglio saria lasciar vostr'anni
Gir con natura al fin di tant'affanni.
Folle è quei che con suoi lamenti spera
Di mutar fato (ahi lasse), il Ciel ne sforza
A soffrir tanto l'ostinata forza,
Che cogli anni s'avanzi o se ne pera.
Nessun mai fu che la sua vita intera
Senza doglia menasse,
Ma di picciola fasse
Con allentarle il fren perfida e fera,
Che doglia ognor novella doglia adduce
Ove mort'è speranza et ira è duce.
Già non poss'io negar che la fortuna
Assai non v'aggia per a dietro offesa;
Ma se d'oblio nasce al martir difesa,
Da l'eterno girar di sole e luna,
Sarete dunque voi donna quell'una
Cui non soccorra il cielo?
Dopo le pioggie e 'l gielo,
E dopo i negri venti e l'aria bruna,
Tornano erbette verdi e i fior novelli,
E l'aure dolci e i dì temprati e belli.
Ebbero i vecchi occisi sepoltura,
Debiti pianti e debita pietate:
Forse è per via chi punirà le 'ngrate
Opre di lui, che 'l bel regno vi fura.
Il gran Giove è su 'n cielo, e ben ha cura
De la salute nostra;
E se talor ne mostra
Da gran forza ragion poco sicura,
Giunge poi pena, e sia s'ei sape avante,
Ogni avversario di sue leggi sante.
ATTO II
Tullia
Nobile schiera amica,
Che vieni a consolarmi in tante pene,
Quante grazie ti rendo
De le pietose tue parole et opre!
Ma non consente il Cielo
Ch'io mi conforti, ancor che i tuoi consigli
Avrian virtute a pieno
Di consolarmi, come avuta l'hanno
Di far che queta ascolti;
Né mai tanto fallii, ch'egli è gran fallo
Di chi si lagna, e vuole
Morir di pianto, udir parole amiche,
Conoscendo che vano
È loro oprare, e l'ascoltare è nulla.
Coro
I casi avversi sono
Quei che palesi fan gli stolti e i saggi.
Ne le cose felici
Non si può mai fallir, ché 'l fato insegna.
Tullia, cessin gli Dii
Che tu pruovi che in noi sovr'ogni cosa
Puonno dolore et ira,
Ch'a noi doglia, a te fora alta rovina.
Tullia
Qual mai rovina estrema
Giunger potrebbe altrui,
Ch'agguagliasse pur una
De le minori mie tante fatiche?
Che di due fere nacqui,
E nei miei primi giorni
Vidi le morti indegne,
Ch'in un punto mi fer pietosa e fera;
Poscia fui data ad uno
Degli eredi del regno,
Non per pietà ma solo
Per addolcir tra lor l'ascoso fele.
Folle, come credea
La mia madre ch'io fusse
Al mio morire avversa,
S'ella uccise pel suo la madre e 'l padre?
Il mio fero parente
Non sapeva che Dio
Assai più d'altro stringe
Il maritale amor con santi nodi.
Quinci nacquer le morti
Del mio marito vile,
E de la mia sorella,
Che benché giuste pur mi diero affanno.
Quinci l'aspra partita
Del secondo marito,
E 'l badar longo e 'ncerto,
E forse il danno, lassa, ond'io sì temo.
Coro
Per le cose passate
Non si dee già nodrir tanto dolore.
E del lungo soggiorno
Non dèi tal doglia aver del tuo marito.
Troppo si disconviene
Lamentarsi del mal, prima ch'ei vegna.
Lassa, sempre potrai
Vivere in pena, ma non sempre in gioia.
Tullia
O dolce compagnia,
Più de la vita, ch'io gradisco solo
Per rivedere il mio
Caro consorte, s'ei verrà mai 'l giorno
Felice, almo e sereno,
Che lo mi renda e lo riponga in pace,
Tu m'addoppi il martire,
Ch'io ti vorrei piacer, lassa, e ti spiaccio.
Come poss'io por fine
Al gran dolor de' miei passati danni,
S'ei fur trista radice
A tutte l'altre mie rovine tante?
Come fia ch'io non pianga,
Sendo de l'uno e l'altro empio parente
Così misera preda?
E sì lontano avendo il mio soccorso?
Nuovo martir rinfresca,
L'antiche doglie si son giunte insieme,
Perché di par mi vanno
Le cagion e la doglia entro la mente.
Coro
Il gran disio che d'acquetarti avea
Così mi fea parlar, donna gradita.
Or s'io t'offendo, taccio e piango teco.
Tullia
Qual fu mai donna, o donne, sotto il sole
Che per troppo languir peccasse meno
Di me? Pur troppo affreno
Gli occhi e la lingua, e i miei gravi sospiri.
Lassa, i pianti, i sospiri e le parole
Son comune soccorso a chi si dole,
Nel disfogarsi appieno.
Ma si passan tutt'altri i miei martiri,
Che perch'io parli, ohimè, pianghi e sospiri,
Mostro a pena il dolor ch'al cor d'intorno
Mi fa duro soggiorno,
E lascio a dietro quel che 'n lui s'indonna,
Sì ch'io non aggio ond'io possa sfogarmi,
Ché sovr'ogn'altra donna
Ho dentro empi avversari, e pari ho l'armi.
Deh, perché non potea pietoso Giove
Serbarmi anima sciolta o tormi al mondo
Il dì primo o 'l secondo
Ch'io scesi per l'altrui travaglio e 'l mio?
O farmi alpestra fera, e pormi dove
Prede empie e morti non mi fusser nuove?
Fora assai più giocondo
Ogn'altro stato a me di questo, ov'io
Ogn'amico pensier post'ho in oblio;
E contra l'uno e l'altro mio parente
Ho 'nfiammata or la mente;
E mio marito uccisi, e mia sorella,
Per esser vera di pietate amica.
O venenosa stella,
Non fos'tu in ciel. che sì mi se' nemica!
E s'io deveva esser pur donna in terra,
Serbata avess'io sempre castitate
Come quelle beate.
Che del divino immortal foco han cura:
Non saria l'alma in la penosa guerra
Che la via di salute ognor le serra.
Sola di me pietate
Vinta m'avrebbe, e tema, e star secura
Di tutt'altro devea, ahi rea ventura:
Ove or alto ho disdegno, angoscia e tema,
E 'nfino a l'ora estrema
Avrò di tanti altrui danni e rovine,
Libera e santa solitaria vita,
Senza misura o fine,
E tua felicitate alta e gradita.
Poi ch'io non ho dal Ciel grazia pur una,
E tutto è quello in me, ch'io men vorrei,
Aggiano i pianti rei
Il fine, che col mio marito attendo.
O bell'occhio del giorno, o fredda luna,
Sotto lo cui rotar tutto s'aduna,
Finite i dolor miei,
Finite il mal, che mi fa gir piangendo
La notte e 'l giorno, ond'io pur troppo offendo
Chiunque m'ascolta, et a me stessa spiaccio.
Rompete il duro laccio,
Ond'avvinta è giustizia: ch'ella vada
A chiamar mio marito a far ch'ei vegna,
Dandogli in man la spada,
Che può sola adempir pruova sì degna.
Coro
Egli è nato di tal, che saprà bene
Prender l'occasione, il loco e 'l tempo
Di recarti salute e vendicarsi;
E vederlo mi par, tanto il disio.
Tullia
Se 'l tempo è quel che voi chiamate morte,
Certo io l'attendo; ma s'ei son diversi,
Morte verrà lasciando il tempo a dietro,
Che può solo appagar l'anima stanca.
Coro
Ornamento è 'l badar, a l'uom ch'è saggio,
Ne le più perigliose imprese grevi.
Tullia
Taci, che 'l sol precipitato ardire
A' valorosi spirti acquista fama.
Coro
Sì, ne le cose che si puonno in uno
Volger d'occhio operar; et a quelle anco
Si dovrebbe pensar non picciol tempo.
Tullia
Tanto omai l'ha pensato il mio marito,
Che si truova esser veglio; e s'ei più bada,
E le forze e l'ardir gli torran gli anni.
Coro
L'oprare estremo a chi ben guida il tutto
È quel che meno in ogni impresa è greve.
Tullia
Io vorrei pur saper da te che giova,
Poscia ch'un sa quel ch'ei far deve e vuole,
Il menar vani i suoi giorni migliori.
Coro
Chi vuol fuggir vergogna e danno eterno,
E forse morte assai più d'altra vile,
Oprar dee sì, che la vittoria sia,
Anzi ch'ei vegni a far, certa e secura.
Credi che Lucio tuo non bada indarno,
Anzi deve aspettar che Dio di cielo
Mostri felice augurio e coi buon voli,
E con le voci degli augelli amiche,
E con l'occise bestie ai santi altari,
E che Nettunno gli assecuri il corso
Ch'ei dee far pel mar d'Adria, e i venti avversi
Eolo affreni in le caverne antiche.
Com'egli è giunto in questa terra, ei puote
In un punto appagar molti e molt'anni.
Allor dic'io ch'ardir tacito e presto
Solo il può far vittorioso e lieto;
Et egli è tal. ch'ogni salute spero
Da suoi consigli saggi e da sue mani.
Tullia
Lassa, col tuo parlar però non fai
Ergermi a speme, o scemar pur l'affanno,
Che dal mal soggiogata attendo peggio.
E sol pensando in me che la mia vita
Omai corta esser deve, ho qualche pace.
Coro
Tullia, non parliam più, ch'io vedo fore
Venir la tua nodrice, ch'olocausti
E vasi, e cose sepolcrali ha seco.
Nutrice
Lassa, ch'io vedo qua Tullia infelice
Con altre donne ragionar dolente,
E mi si svelle per pietate il core.
Tullia, figliuola mia, troppo m'addoglia
Il tuo languir mai sempre, e 'l tuo far teco
Piangere e ragionar chiunque t'ascolta.
Quanto dèi tu nudrir ne l'alma ancora
L'antica doglia? Or come sei tu viva,
Come non t'have per pietate il Cielo
Mutata in altra forma, come quella
Che, petra, in petra eternamente piange?
Deh, non muovere in te l'ira del Cielo,
Dolce mia figlia, che mi fai molesta,
Più che per sé non è, l'antica etate.
Ben sai che pien d'affanni è 'l viver nostro.
Chi più n'have e chi meno, e spesso muta
Il nostro stato il Ciel, i soli Dii
Non mutan gli anni: ogn'altra cosa a tempo
Cangia sua qualitate, e però in pace
Porta il tanto dolor, fin ch'ei s'annulle,
Mercé di morte o di pietosa stella.
Tullia
Non mi chiamar più figlia, o vecchia amica,
Che 'l nome solo mi spaventa e 'naspra:
Che seco il nome cria di padre e madre,
I quai sempre odio, e de' miei mali incolpo.
Nutrice
Ah, di' parole oneste: ei pur son quegli
Che ti diedero al mondo, e questo solo
Appagar doverrebbe ogn'alta offesa.
Tullia
Taci, cara nutrice, mai non fia
Ch'io renda grazie a chi m'ha posto in doglia:
Il mal chiede vendetta e non mercede.
E sovr'ogn'altro danno il cor m'affligge
L'esser nel mondo; or poi che pur ci sono,
L'esser nata di lor m'è grave.
Nutrice
Tu non aresti parte in sì bel regno?
Tullia
Ch'ho io di questo regno altro che pianto?
Nutrice
Rechi che vuole il fato, tu pur sei
E figlia e sposa del Signor di Roma.
Tullia
L'un m'è nemico e l'altro è sì lontano,
Ch'io temo di morir prima ch'ei torni.
Nutrice
L'un t'hai fatto nemico, e l'altro è lunge
Per sua troppa fierezza e troppo sdegno.
Tullia
S'io fussi crudel contra mio padre,
In contra mio marito sarei cruda.
E se 'l marito mio si fusse in pace
Vivuto in Roma, ei saria stato fero
Contra la madre e 'l padre, e contra Dio,
Che n'ha dato pietà, perché noi siamo
Più degli altri animai di bene amici.
Nutrice
Nati semo mortali, e i pensier nostri
Deon esser uguali al poter nostro.
Tullia
Se noi cerchiam di far quel ch'altri ha fatto,
Come dee questo mai vietarne il Cielo?
Nutrice
S'ei fusse stato a vostre imprese amico,
Non avria poste in voi le voglie avverse,
Che fur cagion de le seconde morti.
Tullia
Se le prime empie furo, le seconde
Furon pietose e sante, che ben face
Chi i rei falli punisce, e tanto è reo
Chi non lascia punir, quanto chi pecca.
Se vero è che giustizia in Cielo alberghi,
S'ei potette soffrir tai morti indegne,
Come non soffrirà queste sì sante?
E non farà che torni il mio marito?
Or s'amico destin ne feo pria vaghi
Di ricovrarne il regno, in cor ne pose
D'uccider quei ch'a ciò fussero avversi.
Nutrice
Fera stella sovente ha forza tale,
Ch'ella ne fa bramar nostra rovina,
S'animo saggio il suo furor non tempra.
Tullia
Duque mi vuoi tu dir che questo fia
Nostra rovina estrema: or se fia questo,
Non fia senza mia morte, e forse altrui.
Torni pure mio marito, e poscia segua
Quel che seguir ne deve, o morte o vita:
Viva sarò regina, e morta nulla;
Così porrò pur fine ai miei lamenti.
Nutrice
Deh, non t'armar di tanta asprezza il core,
E s'a tempo miglior tornar pur dèi,
Aspetta in pace: e sì ti fia men grave
L'interna doglia, e doppierai lo sdegno
Ai tuoi nimici, e scemerai 'l martiro
A chi più t'ama, et io n'andrò lieta
(Ch'omai posso star poco) a l'altra vita.
Tullia
Come può starsi in pace una che guerra
Sen portò da le fasce e da la culla,
Sol per lasciarla in su 'l funereo rogo?
Nutrice
Non t'è grave l'offesa de' nimici
Ne la parte millesima ch'è quella
Che 'n contra te medesma accresci ognora.
Tullia
Allor m'offenderei ch'io m'acquetassi:
Che gli spirti gentii s'amano allora
Ch'ei son volti a languir per giusto sdegno.
Erra quei che de' suoi danni non piange,
Come chi non gradisce i ben del Cielo.
Nutrice
Dimmi, che ti fanno ora i tuoi parenti?
Tullia
Or che mi puon far peggio i miei nemici,
Che non fare altro che godersi in gioia?
Non hai tu inteso ancor che la lor pace
M'è guerra eterna e servitute il regno?
Tu gran torto mi fai, che sì nemica
Per lor preghiera nel parlar mi sei:
Che poi ch'altro non puoi pe' tuoi molt'anni,
Pur devresti operar con tue parole
Sì ch'io sapessi i lor pensieri ascosi.
Nutrice
Non per altrui preghiera o sdegno mio
Teco Tullia ragiono in questa guisa,
Ma così vuole amor ch'io parli teco,
Accompagnato da gelata tema,
Che m'ha messa nel cor certe parole,
Che di te dire udii dai tuoi parenti.
E perché so ch'assai salute han seco
I penosi rimedii, ho detto cose
Che le piaghe del cor pungono assai.
Facciti fede il sommo re del Cielo
Con quanta pena mia vorrei far lieve
La mortal soma che lo cor t'aggrava.
Credi tu ch'io aggia a mente ancora
Che queste man mi ti stringeano al petto,
Che ti fui gioco lungo tempo et esca?
Io risi già per te più volte, e piansi,
Or d'alta gioia vinta, or d'alta pena,
Che non mostra la notte stelle il cielo.
E so quanto dolor mi strinse il core
(Ch'era forse presago dei tuoi danni),
Quando dal petto amico mi ti tolse
Chi ti volea cibar d'altra esca omai.
Tullia
Deh, che mi torna a mente: o dolce etate,
Che non hai senso di dolor pur uno!
Deh, perché non finir miei giorni allora?
Non nodria l'alma ohimè l'amaro cibo,
Che l'ha stancata e sazia, et or l'ancide,
Anzi per crudeltà la tiene in vita.
Ma dimmi or brevemente, quai parole
Fur quelle onde tu sei paurosa e trista?
Nutrice
Ei ragionano in casa accesi ognora.
Tullia
Il ragionar non è quel che m'ancide.
Nutrice
Di trovar modo che tu taccia omai.
Tullia
Io non vo' più tacer, pur troppo taccio.
Nutrice
O con tenerti eternamente in casa.
Tullia
Non potrò io gridar mai sempre in casa?
Nutrice
O con legarti in chiusa tomba oscura.
Tullia
Pur odiran le genti i dolor miei.
Nutrice
O con mandarti in perigliosa selva.
Tullia
Io chiamerò le fere a pianger meco.
Nutrice
O con farti morir, s'altro non giova.
Tullia
Io non spero da lor tanta pietate.
Nutrice
Tu ti lasci accecar da troppo sdegno.
Tullia
Anzi giusta pietate a ciò m'adduce.
Nutrice
Ov'è la mente tua, dolce mia vita?
Tullia
Mai non fu quanto or meco, né sì saggia.
Nutrice
Credi a chi t'ama, et è canuta e bianca.
Tullia
Più 'nsegna spesso un dì, ch'infiniti anni.
Nutrice
Grave ti fia soffrir nuovi martiri.
Tullia
Io non chiamo martir quel che mi sana.
Nutrice
Morir per picciol fallo è cosa vile.
Tullia
Come poss'io fuggir chi m'have in preda?
Nutrice
Il tacer solo, Tullia, t'assicura.
Tullia
Più m'è grave silenzio assai, che morte.
E loro è la viltà, se per lor moro.
Ma egli han vita da la morte altrui,
Coppia rabbiosa, che m'ha fatta cruda,
Et hammi data in preda a doglia eterna;
Né vuol ch'io sfoghi l'anima, che muore.
Così m'è dolce in questo stato il pianto,
Com'a loro il regnar, poi ch'ei son regi,
E ch'ogni mio sperar sen porta il vento.
Nutrice
Tu 'mpetreresti ancor da lor pietate?
Tullia
Tu m'offendi or vie più che i miei nemici.
Nutrice
Piaccinti, Tullia mia, queste parole.
Tullia
Come poss'io lodar parlar sì reo?
Nutrice
O Tullia, o Tullia, ad or vorrai lodarle,
Che più tempo non fia, credemi, taci:
La tua doglia m'ancide, e te tien viva.
Coro
Tu ti vedrai cader morta davante
Questa vecchia angosciosa: dille almeno
Che vadia a terminar l'ordita impresa.
Tullia
Se tu mi porti, come mostri, amore,
A te dee pur piacer quel ch'a me piace,
Cara nutrice mia. Molto è men grave
Di nimica allegrezza, amica doglia.
Tu m'hai veduta tanto in questi pianti,
Che parer ti dovria pietoso chiunque
Fusse cagion ch'io m'acquetassi omai:
E far questo non puote altri che morte,
Poi che non fa ritorno il mio marito.
Partiti omai da me, ma dimmi pria,
Per cui si fanno i santi sagrifici?
Nutrice
La Regina mi manda al gran sepolcro
Di suo padre e sua madre, e vuol ch'io facci
Sepolcral sacrificio per placarli.
Tullia
Da' suoi crudi nemici vuol mercede?
Nutrice
Da quei (poi che tu vuoi ch'io così dica)
Ch'ell'uccise, là vado a far quest'opra.
Tullia
Fa' pria ch'io sappi qual pietà novella,
O consiglio d'amici a ciò l'adduca.
Nutrice
Non già consiglio altrui, non pietà nuova,
Ma notturno spavento n'è cagione.
Tullia
Fate, seguite il resto, o Dii del Cielo!
Non potre' io saper che cosa è questa?
Nutrice
Tanto non ne so io, ch'altro che poco
Dir te ne possi, ch'un'oscura fama
Me ne giunse a l'orecchie dianzi in casa.
Tullia
Poche parole altere imprese spesso
Han fatto fare altrui; dimmi quel poco.
Nutrice
Io 'l ti dirò; ma ben che questo
Tra te restasse e me, ch'altri nol sappi,
Che molto può punir, chi molto puote.
Tullia
Io vo' che questa amica schiera il sappi,
Che m'è fida compagna; or dillo adunque.
Nutrice
Presso al mattin de la passata notte,
Orribil sogno ha fatto la Regina,
Paurosa e trista. Or odi, il sogno è questo:
Da le parti ond'il sol prima si mostra
A lo nostro emispero, e quello alluma,
Venir vide una nube oscura e densa,
Che contendeva a Servio et a lei sola
I bei raggi d'Apollo; e te sentìo
Quella lodar, come divina luce.
Et udìo 'l padre suo più che mai lieto
Chiamarli a pena sempiterna e pianto,
E tua sorella e tuo marito primo
Sparger voci alte, dolorose, e piene
D'un non so che noioso pentimento.
Questo m'ha detto un, che presente udìo
Mentr'ella al sol narrava il sogno fero.
Più non so già, se non che questa tema
È la vera cagion de l'andar mio.
Tullia
Se tu sei di pietate amica, e mia,
Odi, sostegno mio, queste parole.
Io priego te, per la tua vita stessa,
Pe' domestici Dii, pel dolce latte
Che tu me desti, e pe' miei tristi danni,
Che puonno oggi scemar per tua mercede:
Non cercar di placar gli occisi Regi,
E non por di coteste cose alcuna
Sovra 'l sepolcro; anzi le spargi a' venti,
O sotterra l'ascondi, o dàlle al Tebro.
Non piaccia a Dio che così cruda donna,
Di suo padre e sua madre micidiale,
Purgar mai deggia il suo peccato orrendo,
Se non col sangue e con la propria vita.
Vedi quel che tu fai: tu sei ministra
Di rinfrescar l'antiche piaghe a l'alme,
Che sì miseramente andaro a Stige.
Già per pietà di lor questo non opra,
Ma per gelata tema, e tu tel vedi.
A te lascio or pensar se i morti sono
Per accettare a l'alta sepoltura
Benignamente questi sagrifici,
S'ei fur morti da lei con tante frode.
Muover potresti in te l'ira del Cielo,
Procacciando a colei vita e perdono,
La cui morte è de' buon vita e mercede.
Cangia, cangia voler, porta lor queste
Mie treccie e questa povera cintura;
E per me priega umilemente quelli
Che sen vegnan tra noi dai campi Elisi,
A darne aita e far gran forza al Cielo,
Che 'l mio marito omai salvo ritorni
Forte a finir le gloriose imprese,
A vendicar lor morti, a porre in pena
I rei nemici, e sé nel regno e 'n pace;
E ch'io, sì come veri miei parenti
Gli adoro e 'nchino, e però questi doni
Mando al sepolcro lor, bench'ei sian vili,
Ché tempo attendo, ov'io più riccamente
Appagar possi il mio desir pietoso.
Questa grazia ti chieggio, o vecchia amica,
E se tu la mi fai cortese, a pena
Potrà far morte che già mai l'oblii.
Coro
Tu non le puoi negar quel ch'ella chiede,
Se tu le sei (come tu mostri) amica,
E com'esser devresti: io so ben quanto
Sempre è vivo l'amor de le nutrici.
Nutrice
Chi m'assecura, ohimè, ch'ella nol sappi,
E non facci patir nuovo martire
A Tullia, e me per disleale uccida?
Coro
Chi ti può mai veder? Noi taceremo.
Tullia
I freddi sangui e le 'mbiancate tempie
Fanno costei temer quel ch'è securo.
Nutrice
Tullia, io 'l farò per contentarti; voi
Tacete. O Dio, chi vive ha pur talora
Ond'ei molto paventi, et ogni etate
Ha pur qualche valore. A pena credo
Ch'io potessi altro far che questo, ond'io
Consolassi costei con molta offesa
De la madre e del padre. Or perché deggio
Negar questo a colei che più che figlia
È da me amata, e ch'io spero ch'un giorno
Sia degli affanni miei dolce riposo,
Ov'or son serva? Ahi, questa servitute
I giovin forti inaspra e i vecchi stanca.
Coro
Quando noi semo in dolce sonno involti,
E che la mente si riposa in pace,
Senza 'l martir che 'l dì l'afflige e stanca,
E che sì come morto il corpo giace,
E riprende i ristor ch'a lui son tolti
Dal travagliar che lo consuma e 'mbianca,
L'alma, che non è stanca
Pel suo vegliare eterno,
Libera dal governo
De la sua soma quanto il sonno dura,
Or con chiara sembianza, or con oscura,
Cria novella imagine, che noi
Spaventa od assecura,
E son mai sempre veri i pensier suoi.
Ma non son sempre chiaramente intesi,
Per lo peso terren, che fa 'mperfetto
Il suo puro valore, e 'l tiene a freno:
Qindi par poi che i sogni abian difetto
Di veritate, i quai non son palesi
Sì ch'ogn'uom possi imaginarli a pieno.
Ma s'avvien ch'in sereno
Involti, e chiaro velo,
A noi vegnan di Cielo,
Ne guidan tutti, che sol un non falle,
A verità per dritto aperto calle.
Questo sogno, ch'ha fatto la Regina,
A ragion pena dàlle,
Perch'aperta le mostra alta rovina.
L'esser moglie del Re di questa terra
Acquista al sogno suo non poca fede,
E l'averlo veduto in su 'l mattino:
Il sommo Cielo quel segno le diede,
E l'alme che per lei n'andar sotterra,
De l'infelice suo saldo destino.
Certa son che vicino
È 'l fin de' nostri mali:
Son vani i sogni, e frali,
Non essendo per noi questo felice.
Non son messi di Dio, come si dice,
Né puote ingegno uman saperne il vero,
S'a me saper non lice
Che non può mai fallir questo ch'io spero.
So che gli occisi Regi ancor non hanno
La cruda morte lor messa in oblio,
Ch'a l'uno il tosco, a l'altro il ferro porse;
Anzi gli vedo aver saldo disio
Di vendicarse, e trasmutare il danno
Ne la coppia crudel, ch'empia gli scorse
A' bassi regni, u' forse
Hanno vera novella
De l'ardit'opra e bella
Che si spera per noi dal tuo marito
E che ne mostra il santo sogno a dito.
O Lucio nostro, che salvar ne dèi,
Qual fia 'l giorno gradito
Che finirà 'l tuo esiglio e i dolor miei?
Durar non puonno lungamente i regni
Tolti con crudeltate ai giusti regi
A cui dona la mente e 'l scetro Giove.
Servio nemico ai cittadini egregi,
Sì come avversi ai folli suoi disegni,
Ognor gli offende con asprezze nuove.
E sol par che gli giove
Che 'l volgo empio e mendico
A lui si mostri amico:
Ahi fallace credenza, vana e 'nferma!
Spera nel volgo povero et inerme,
Che non ha fede, e come al vento polve
Sta con sue voglie ferme,
Ch'ad ogni fiato si trasmuta e volve.
La Regina vien fore,
Tutta turbata in vista:
Il suo sogno l'attrista,
E noi fa liete. O luci alte e divine,
Deh, finite sue altezze, e mie rovine;
Né vi sdegnate, se tal grazia chieggio:
Che per vederne il fine,
Fora somma pietate il chieder peggio.
ATTO III
Regina
Ahi figlia, ahi figlia folle! Ancor non vuoi
Por fine a' tanti tuoi vani lamenti,
Che ti fanno menar noiosa vita
E gir cercando acerba morte ognora?
A me pur converrà lasciar tuo padre
Darti de' falli tuoi giusto martire.
Io ho provato già tant'anni e tanti,
Minacciando e pregando, ad acquetarti,
Né per mille rivolte ancor sei mossa.
Tu t'hai fatti nemici i tuoi parenti,
Che ti diedero al mondo, or vedi come
Tu puoi sperar dal Ciel grazia o mercede.
E quei sono i signor di questa terra,
Che ti puonno punire, e puniranti
Acerbamente: che trovar pietate
Non dee chi, come tu, la schiva e fugge.
Io ti vo' ricordar che tardi mai
Là non s'arriva, onde non mai si torna.
Vana speranza ti mantien del tuo
Poco saggio marito, che potea
Esserne amico, e governare il regno
Come figlio di Servio, or ch'egli è veglio;
Et ha voluto andar tra genti strane,
Ov'a nostro voler sarebbe anciso,
Ma la troppa pietà ne tiene a freno.
Io son venuta for per saper quale
È la tua mente, e poi tornarmi dentro,
E rispondere a Servio, et a te dare
Perdono o pena di sì lunghi falli.
Che se tu non vorrai vivere in pena,
O morire aspramente, tu potrai
Come nostra figliuola starti in vita,
Come devresti star co' tuoi parenti.
E quando morto il tuo marito fusse,
Sì come esser potrebbe, e come io credo,
E come fora estrema tua salute,
Prender potresti ancor nuovo consorte,
Che ti facesse un dì madre beata
Di nuova stirpe. Or fammi conti adunque,
Anzi ch'io parta, i tuoi pensieri ascosi.
Tullia
Poi ch'io posso parlar come a me piace,
E so in che stato or mi mantiene il Cielo,
E quel ch'innanzi il tuo parlar mi reca,
Io parlerò, se tu vorrai lasciarmi
Compitamente dir le mie ragioni.
Io non son folle a lamentarmi, e vani
Non sono i miei lamenti, e vivo in pace
Più ch'io non viverei sendoti amica.
Morte non cerco poi, ch'io sono in vita
Pria che lo spirto queste membre lasci.
Ma se 'l tuo micidial costume antico
Vuol che sen vadi innanzi tempo al Cielo,
Caro mi fia morir per le tue mani
Come l'esser di te nata mi spiace.
E non fia mai ch'io creda che cagione
Stata con Servio sii ch'io viva ancora,
Che chi fu micidial di padre e madre,
Non mostra seme di pietate alcuno;
E chi non ha pietà, non puote usarla.
Se 'l mio fusse fallir (che mai non fue,
Se non è fallo esser del dritto amica),
Mi puniresti a torto, poi che 'l Cielo
De' tuoi falli sì rei non ti dà pena.
I tuoi fur tradimenti e morti indegne,
Il mio giusto languir, com'ognun vede.
Le tue minaccie e gli tuoi preghi ingiusti
Fur sempr'esca, non acqua al foco ardente
De l'onorato sdegno, ond'io sfavillo.
Non aspettan che i prieghi siano sprone
Gli spirti egregi a' valorosi gesti,
Né quei piegano al mal minaccie o doni.
Ora sper'io dal Ciel grazia e mercede,
Ch'io sono avversa ai rei, de' buoni amica.
Come posso onorar coppia sì rea
Come parenti? La pietate è quella,
No 'l nascimento, che fa figli e padri.
Tu m'hai 'nsegnati i feri tuoi costumi:
Ma io son grata e pia ne la ferezza,
Tu fusti ingrata sovr'ogn'altra, e cruda.
Dat'avete martiro ad altri giusti,
Che per ben operar da voi fur morti:
Ben potrò morir io per quelle mani
(Bench'indegna ne sia), ch'ucciser quelli,
Ch'io vedo spesso in sogno, et odo spesso
Chieder vendetta umilemente al Cielo.
Mai non fia presta la mia morte, s'io
Andrò libero spirto a ritrovargli.
E tu vedrai (se qua si fa ritorno)
Quand'io non lascerò sol una notte
Posarvi in pace, dispietata coppia!
So ben ch'io spero indarno, se fortuna
Sola deve condur questa vendetta;
Ma se pietà del Cielo a lei s'aggiunge,
Forse uditi saranno i giusti prieghi,
E vinceranno ancor quei che fur vinti.
Ma non merta già nome di vittoria
L'orribil vostro dispietato inganno:
Del mio marito è giustamente il regno,
E voi temprar devevi il giovin core,
E regnar tanto ch'ei potuto avesse
Saggiamente regnar, se 'l padre fusse
Morto per altre man, ch'ei non morìo.
Ei fu solo figliuol del santo Rege,
Che fu simile a lui d'animo altero;
E fee gran senno a dipartirsi allora
Ch'ei conobbe il suo oprar vano e fallace.
Tu sai ben ch'ei non è tra genti strane,
E che per non poter con l'empie mani
Come col reo desir, non gli sei cruda.
Porta questa risposta al tuo marito,
E di' ch'io chiamo vita un morir bello,
E più fuggo viltate assai che morte;
E che le dolci tue false parole
Avrian con lui più forza, al qual più piano
Stato sempre è 'l camin ch'al mal conduce.
Io non son vostra figlia, figlia sono
Di tuo padre e tua madre, e quegli onoro
Et a quei son simil. Se 'l mio marito
È morto (ahi lassa), com'io non vorrei,
Che ciò sarebbe estrema mia rovina,
Saran consorti ancor l'anime sciolte,
Ch'io l'andrò a ritrovar ne' bassi regni,
Non venend'egli a ritrovarmi vivo.
Questo fia 'l nuovo sposo, e queste fiano
Quelle nozze novelle; e i figli nostri
Saran quei sogni feri, che da noi
Avran radice, e voi faran paurosi
Sempre tra 'l sonno; e quei faran vendetta,
Poscia che 'l farla a noi sarà conteso
Con le mani e col ferro. Or son palesi
Gli nascosi pensier ch'aprir si puonno;
Io ho ben anco altri pensier nel core,
Che mai dir non potrebbe umana voce.
Regina
Io sarei più di te del senno in bando,
S'io credessi parlando acquetar ora
La tropp'ardita tua perfida voce.
Vana cosa è punir con le parole
Quei che punir si puon coi fatti ognora.
Poche cose or dirò, per purgar solo
Le morti, che non fur, come tu dici,
Date da noi per usurpar l'impero,
Ma per salvarlo a' figli di mio padre:
Fa' di ciò fede, o Sol, che vedi et odi
Tutte le cose con la tua sorella.
Tu, Giove, odi il mio dir, teco ragiono.
La notte che finìo l'odioso giorno
Che vide il sangue pio del mio buon padre
Macchiare il nudo ingiurioso ferro
Dei figli d'Anco, al re ferito apparve
Anco, che con furor gli tolse il scettro,
E de l'antico suo seggio lo trasse;
Et a lui parve allor volgersi in fuga
Chiamando i cittadin de la sua terra
Che gli dessero aiuto; e fu più presto
Il nemico a ferir, che 'l volgo amico
A dargli aita: ond'ei ferito e tinto
Del proprio sangue, e sottosopra volto,
Parea rendere il spirto al Re del Cielo.
E fu tanto il dolor con tema misto
Che 'l grave sonno travagliato ruppe.
E con la voce sospirosa et alta
Tanaquile svegliò, che gli era appresso,
E da lei domandato il sogno disse.
Ella, ch'era d'Etruria, e sapea bene
Tutta la santa etrusca disciplina,
Senza molto pensar, conobbe scorto
Che venut'era il fin degli anni suoi;
Per ch'a sé fatti allor chiamar noi due,
Silenzio impose, e sospirando molto,
Disse al marito suo queste parole:
“Non fia vana l'orribil visione
Che t'ha svegliato, o caro mio consorte,
E non sei solo, a cui dimostri il Cielo
I manifesti segni del tuo fine.
Non è passata ancor la quarta notte
Ch'io udii voce dir (vegliando ancora):
Vienne agli inferni Dii lasciando il corpo
A la gran madre antica, o Re di Roma.
Ma ciò misera tacqui, e non temea
D'altro morir, che del soave e piano
Ch'accompagna natura, e gli ultim'anni”.
Dette queste parole, il padre mio,
Lei prendendo per mano, a noi si volse
Vinti d'alata pietate, e disse: “Poi
Che questa morte mi destina il Cielo,
E che 'l voler di Giove in ciò s'adopra,
Odi, figliuola mia, col tuo marito
Queste parole estreme ch'io vi dico.
Benché 'l corso d'ogn'uom prescritto sia,
Non si può prevederne il come e 'l quando.
Il Ciel mi fee signor di questa terra,
E gran segno ne diè l'augel di Giove,
Or infelici augurii mi fan chiaro
L'ultimo dì di mia perfetta etade.
E se mi fee certa speranza altero,
Non mi dee far pauroso il certo male.
Poi ch'io deggio morir, sia la mia morte
Poco cara a' nemici; e se i miei figli
Di me privi saranno, abbiano il regno.
Noi non semo per noi venuti al mondo,
Altri venne per noi, noi per altrui.
Pon fine a la mia vita, o coppia amica,
Questo a te fallo, a me non fia vergogna.
Non fu vergogna al valoroso Alcide
Farsi 'l funereo rogo ergere al cielo
Dal proprio figlio, per fuggir la morte
Per man di donna, e dell'inganno rio
De l'occiso centauro; anco a me lice
Brutta morte fuggir con bella morte.
S'i' ho saputo mantenermi in vita
Gradito imperador tant'anni, io spero
Dimostrar anco il mio valor natio
In questo breve et ultimo momento.
Sian lontane da voi fin ch'io sia morto
Le dolorose lagrime e i sospiri.
Pochi giorni son quei che mi son tolti.
Ricordate a' miei figli a tempo e loco
Ch'io fui lor padre, e perch'io vegno a morte,
E chi fur miei nemici. O sommo Giove,
Manda il tuo fido messo, che mi scorga
Ai disiati elisii campi. Voi
Siate ministri omai del morir mio.
E se questa vi par tropp'empia impresa,
Fate di tanti mali il minor male:
Se per voi moro, a voi la cura resta
Del regno, e de li miei piccioli eredi;
Ma se per l'altrui man perdessi il regno,
E gli miei figli e voi sareste occisi”.
E qui mise in silenzio le sue labbia.
Dopo queste parole, alti sospiri
Mosse la sua consorte, come quella
Che vedea molto mal senza riparo.
Poscia mosse ver noi, cui parea grave
Troncar la vita di sì caro veglio,
E consiglionne a far quel ch'ei chiedea.
Poi si volse al marito, e disse: “Anch'io
Voglio teco venirne a l'altra vita.
E priego ch'un sepolcro ambo noi chiuda.
A Dio, caro Tarquino, a rivederne
In più tranquilla vita, e più serena.
Io vo' portar di te presta novella
Al gran Plutone inferno”. Et andò via
A ber l'empio veneno. Noi piangendo
Pur pregavamo il Re, che non volesse
Di sì reo fallir porci la soma.
E conoscemmo al fin che gran pietate
Era a trarlo di vita, e 'n un momento
Con destra morte i suoi giorni finimmo;
E tenemmo celata la sua morte,
Fin che fu salvo dai nemici il regno,
Che fur cacciati in sempiterno esiglio.
E se non fusse stato il furor vostro,
Or sareste signor di questa terra.
Ma come fanno i rei, tolto ne avete
A noi ogni pietate, et a voi il regno.
Tullia
Già non sei giusta e pia, come tu vuoi
Ch'altri pel tuo parlar, perfida, creda.
E non sei figlia de la coppia ancisa.
Caucaso alpestro infra i suoi duri massi
Te generò, a cui l'ircane tigri
Diedero il fero latte. Or come credi
I tuoi falli sì rei chiamar pietate?
Voi volete scusarvi, et onorare
Tarquino, e fate voi crudi e lui vile
Perché deveva a voi chieder la morte,
S'ei non potea schifarla? Or non sapea
Ch'ei non potea negar che i figli d'Anco
Fusser stati cagion de la sua morte?
E non sendo mortai le sue ferite,
Sperar devea di poter sano ancora
Farne piena vendetta. Ecco, se voi
V'assicuraste ne l'ingiusto seggio,
La sua morte celando, or non potea
Più facilmente quei, vivendo ancora,
Cacciare i suoi nemici in lungo esiglio?
Se voi volevi a noi rendere il regno,
Perché lasciaste mai passar tant'anni?
Voi pur saggi vedeste i veri eredi,
E d'onorata giovinezza adorni:
Quell'era il tempo, quello a fargli regi.
Voi voleste aspettar ch'alto furore
L'un de l'altro facesse micidiale,
Et usurpaste il regno a lor malgrado.
Non lo vi diede il buon popol di Roma,
Se non poi che 'l timor vi fee con doni
Placare il volgo, e domandargli il regno,
Perché vi furo, e sono, e saran sempre
Nemici i padri e l'altra nobiltate.
Ma che bisogna pur che vanamente
Spenda tante parole? E Sole, e Luna,
E Giove, a cui drizzasti il parlar falso,
Sanno di ciò la veritate intera.
Quei ne faccin vendetta, e dian la pena
A chi fur pria cagion di tante morti.
Io non so già come tu sei sì ardita,
Che tu rimiri il Sole e chiami Giove,
Donna de Dio nemica, e dei mortali,
Ch'hai fatt'opra sì rea, ch'hai padre e madre
Morti, che ti crearo, e tradit'hai
La bella patria tua, che ti nodrica.
Orsa, non donna, assai più cruda et empia
Che la tirrena Scilla! Or diati il Cielo
Quella vita e i martir, ch'a noi dati hai,
Che piangiamo i tuoi, e tu n'hai gioia.
Coro
Questo molto furor, che 'l suo dir mostra,
Esser potrebbe ancor la sua rovina.
Ma di che dee temer, chi morte sprezza?
Regina
Io non vo' che tu creda al mio dir vero.
Credi quel ch'a te piace, e me pur chiama
Orsa, e più fera assai che Scilla, quanto
Ti fia concesso il dir, che fia ben poco.
Io torno a Servio a procacciarti morte.
Lassa, il mio sogno, ohimè, troppo m'addoglia,
E mi spaventa, e pur convien ch'io celi
Il martiro e la tema ai miei nemici.
Placasse il sagrificio sepolcrale
L'anime sciolte almeno! Io farò forza
Oggi devota al Ciel, ch'i miei spaventi
Tornin dolce et amica sicurtade,
Che nel regno n'eterni, e lungamente
Ne tegna in vita; et offrirò legumi
Varii, quanti puon mai nascerne al mondo.
Coro
Tullia, s'io ti vedessi a sperar volta,
Io ti direi che la Regina teme,
Per quel ch'io vidi in su la sua partita.
Tullia
Io son volta a sperar: sai quel ch'io spero?
Spero che 'l sdegno suo morte mi rechi;
Tu non conosci quanta falsitade,
Quanto fero disio de l'altrui sangue
Nel cor sempre a lei vive, et al marito,
Che di vil serva nacque, et ora è rege.
Chi vuol veder la crudeltate intera
Venuta a noi da l'arenosa Libia,
Miri un signor che di vil sangue sia.
E questo mostro è di vil madre nato,
Di padre incerto: in lui morta è pietate,
Morta la fede, e vivo odio et inganno.
Già sapev'ella ben ch'ogni suo detto,
Ogni umiltate, ogni 'mpromessa fora
Un rinfrescare in me gli sdegni e l'ire:
Et attendea da me questa risposta,
Per poter poi scusarsi di mia morte,
Come di quella dei buon vecchi occisi.
Chi ved'io qua venir, donne mie care?
Coro
Greci paiono a me, se 'l ver ne mostra
La vista e i panni, e 'l portamento altero.
Tullia
Deh, porterebber mai qualche novella
Del mio caro marito? Io vo' saperlo.
Coro
Affrena il tuo voler, ch'a donna onesta
Non è bello il parlar con genti strane.
Stiamo in disparte, et ei se qui verranno
Saranno i primi a domandarne, ch'io
Vedo ch'ei van mirando esta cittade,
Come ne mostra il passo lento, e gli occhi
Girati in alto in questa parte e 'n quella,
E l'additare e 'l lor parlar segreto:
Allor fia cortesia dar lor risposta,
E potrai domandar del tuo marito.
Tullia
Ohimè, quanta paura il cor m'agghiaccia!
Io non posso sperar ch'ei portin bene,
Sì vedo avaro il Ciel de' miei martiri.
Coro
Io vedo Servio giunto in su la porta
Et un che i forestier gli mostra a dito.
Tullia
State d'avanti a me, ch'ei non mi scorga,
E drizzate al suo dir l'orecchie intente.
Nunzio
Questi son, signor mio, quei Greci ch'io
Dicea d'aver veduti in questa terra.
Servio
Qual fato, qual disio, qual vento spinti
V'ha ne la mia cittade, e di qual parte?
Demarato
Le tue parole e l'alta nobiltade,
di ch'è tua vista adorna, ne fan chiaro
Che tu se' 'mperador di questa terra.
Per ch'umilmente t'inchiniamo, et anco
Preghiamo il Ciel ch'a te dia gioia eterna,
Et ai popoli tuoi tranquilla pace.
Odi il mio ragionar, che fia risposta
Ai tuoi giusti dimandi. E fato, e voglia,
E vento, e speme a voi condotti n'have:
Noi sem (come tu vedi) uomini greci,
E Corinto n'è patria, antico et alto
Capo di tutta Acaia ai tempi addietro,
Or da vil servitude oppressa e vinta
Di tiranno crudel, mortal nimico
De' valorosi spirti e di virtute,
E de la vera nobiltà natia.
Servio
Perché fuggite i dolci patrii lidi?
Demarato
Quella doglia mortal, che si rinfresca
Nel contar le cagion di nostra fuga,
È quasi vinta dal piacer ch'io sento
Nel contentare un Re di tant'altezza.
Poscia che quel crudel, di ch'io ragiono,
Fu de la patria mia fatto tiranno,
Vinto e scacciato un prencipe benigno,
Che ne facea men grave servitute,
Non ebbe il mio paese ora tranquilla,
E le ricchezze nostre e i nostri onori
Tutti fur volti a sua commoditate.
Quei che godean di così fatto impero
Eran pochi e malvagi, e preda vile
D'ocio e di povertade, in cui 'l bisogno
Tutti aduggiava i semi di virtute.
Le voglie di costoro erano leggi
In marmo scritte, e i cittadini egregi
Senza trovar pietate eran soggetti
Ai rabbiosi pensier di questa turba.
E per non gir col mio parlar più lunge,
Il giusto padre mio trasser di vita,
Perch'a lor voglie consentir non volse,
Le quai voglio tacer per minor pena,
E perché a te 'l saper nulla rilieva.
Io mi fuggii con questi amici fidi
Celatamente, e lassai 'l dolce nido,
E la mia genitrice, e i miei fratelli,
E le sorelle mie, cui molto nuoce
L'alta bellezza. Ahi, che mi torna a mente?
Come può stare in uom voglia sì rea?
Come noi fummo al lido e in un punto avemmo
Un picciol legno, disegnammo pria
Di farne i venti amici e 'l gran Nettunno,
E pregar Febo, che ne desse un segno
U' drizzar si devesse il corso nostro;
Sì ch'a Nettunno un toro, un a te Febo
Sacrificammo, et ai rabbiosi venti
Una pecora negra, et una bianca
A l'aure quete al fuggir nostro amiche.
Fatti questi devoti sagrifici,
Sovra questo paese il sommo Cielo
Ne mostrò luce agli occhi nostri amica:
Per che noi lieti, e di tal segno alteri,
Drizzammo il corso in queste parti vostre,
Ov'è nostro disio di star mai sempre,
Se con l'usata tua pietà natia
Ne vorrai far di questa grazia degni.
Vola fama di te per ogni clima,
Tal che 'nfiammar devrebbe ogn'alma eletta
A sottoporsi a le tue sante leggi.
Ricevi adunque noi, signor cortese,
Che con la scorta fida degli Iddii
Sem venuti a pigliar patria novella.
Servio
Libera è la mia terra, e fa securo,
Chi ch'ei si sia, qualunche in lei s'accoglie,
E dà mercede ai giusti, et a' rei pena.
Quant'ha che voi partiste di Corinto?
Demarato
Otto giorni, signor, ché i venti amici
Hanno empiute le vele, et hanci a volo
Fatto solcar le salse onde tranquille.
Servio
Saprestemi voi dir vera novella
D'un Lucio Tarquino, che là vive?
Coro
Io ho sentito dir Lucio Tarquino.
Demarato
S'altro segno non aggio, in non ho a mente
Di conoscer colui che nomat'hai.
Servio
Ei fu figliolo d'un, che fu già signore
Di questa terra, e la sua stirpe vera
È di Corinto anticamente scesa;
E vent'anni e più son, ch'ei fee partita
Di questa terra per celato sdegno;
E me lassò ne l'onorato seggio,
Che tenne il padre suo molt'anni in pace.
Demarato
Piacciati, signor mio, di non far forza
Di voler or saper di lui novelle.
Servio
Altro non cerco, che di lui novelle:
Dimmen senza temer quel che ne sai.
Demarato
Nessun ama chi porta empia novella.
Servio
Né per l'empie novelle assai m'attristo,
Né per le buone assai divegno altero.
Tu mi farai pensar, tacendo, peggio
Di quel che puon le tue parole dirmi.
Demarato
Io sarò forse giunto in porto (ahi lasso),
Che sarà porto ancor de la mia vita.
Servio
Sarebbe mai costui di vita casso?
Demarato
Se tu n'avrai gran doglia, a me fia grave:
Ben sai, ch'ei non è più tra' vivi in terra.
Coro
Lassa, ch'è quel ch'io sento? Ascolta, taci!
Servio
È morto adunque? Or come? Or di che morte?
Coro
Ohimè. Ch'io sento ragionar di morte.
Demarato
Poco so io del suo caso infelice:
Ch'io ne senti' parlar per la cittade
Confusamente, e so per vero appunto
Ch'ei più non vive, e non posso altro dirti.
Servio
Entriamo in casa, io vo' da te sapere
Il confuso parlar ch'udito n'hai.
Tullia
Or come fia mai vero? O sommo Giove,
Vedi tu queste cose? O pur te indarno
Tememo allor che 'n noi saette avventi,
E 'l balenar incerto entro le nubi
Paventosi ne face, e sottosopra
Volve le menti nostre il tonar vano?
Debb'io servir mai sempre a queste fere?
Se vero è che sia morto il mio marito,
Lassa, a che debb'io più vivere al mondo?
O io m'anciderò con queste mani,
O io girò piangendo in ogni clima,
Biasimando del Ciel le torte leggi,
E lamentando il mio fero destino.
Nutrice
Quanta dolcezza, avventurosa donna,
Ebbe nel mondo unquanco, non agguaglia
La millesima parte di mia gioia.
Tullia
Non mi parlar, nutrice, ch'io non voglio,
Mentr'io vivo, parlar con gente allegra.
Nutrice
Io ti reco riposo, e pace eterna
Agli angosciosi tuoi pianti e sospiri.
Tullia
A tal son giunti i miei penosi giorni,
Ch'io avrò morte omai con questa noia.
Nutrice
Ascolta, Tullia mia, poche parole.
Tullia
Quella fia la mia pace e 'l mio riposo.
Coro
Al tuo grave martir non puon mai pena
Giunger poche parole; ascolta, peggio
Udir non puoi di quel che dianzi udisti.
Nutrice
Io ho trovato che novellamente
Son stati fatti santi sagrifici
Sovra 'l sepolcro degli uccisi Regi,
Coronato di treccie e fior novelli:
E potrebb'esser stato il tuo marito.
Tullia
Ahi, quanti strazii mi destina il Cielo!
O felice colui che muore in fasce!
Levatela di qui, donne mie care,
Mandatela a gioir con quei di casa,
E non stia qui chi non vuol pianger meco.
Coro
Vanne in casa, o pietosa vecchiarella,
Et udirai novella per costei
Peggior che morte: ahi lassa, il suo marito
Non può far sagrifici, anzi gli chiede,
S'aver puon tal disio l'anime sciolte.
Nutrice
Ohimè, ch'è quel ch'io odo? Adunque è morta
Ogni nostra speranza? O sommo Giove,
Deh, ché pur mi riserbi a tanti affanni?
Come poss'io mutar senza gran danno
Subito in tristi i miei pensier sì lieti?
Ond'è venuta a noi sì rea novella?
Coro
In casa intenderai quel che tu cerchi:
Partiti omai, ch'a Tullia sei molesta.
Nutrice
Io son pur giunta a tal, che più non posso
Pregare il Ciel, o far cosa che sia
Utile o cara a Tullia, ahi lassa, ahi lassa!
Tullia
Troppo dolce sarebbe il morir ora,
Et io cosa non vo', che dolce sia.
Lassatemi languir, donne mie care,
E non piangete meco, ch'io non voglio
Aver compagne in così tristi pianti,
Perch'agli afflitti assai conforto adduce
Il trovarsi a languir con altri afflitti,
Et io non vo' conforto. Alcun non speri
Di far cosa già mai senza la voglia
Del motor de le stelle. Or fiano udite
L'empie voci nemiche altere e liete
Ragionar de' miei scorni, e fian vedute
Mostrarmi a dito le nemiche genti;
E dir: “Questa è colei ch'aveva speme
D'esser regina ancor di questa terra,
E da questa speranza accesa, uccise
La sua sorella e 'l suo marito primo;
E l'uno e l'altro suo parente ancora
Trar di vita volea, se fea ritorno
Il secondo marito. Or ch'egli è morto,
Faccisi re de le tartaree piaggie
E mandi per costei, ch'al nuovo impero
Gli sia compagna, poi che tal disio
Hanno nel cor di governar imperi.
E chi non può regnar dov'ei disia,
Regni ove il Cielo il seggio gli prepara”.
Né mancherà chi sarà tanto ardito
Ch'ei mi chiedrà novelle del meschino
Mio marito, ch'è morto, e quand'ei torna.
Lassa, che deggio fare, altro che sempre
Tacer piangendo il resto de' miei giorni?
ATTO IV
Coro
Tutta lieta vien fuor l'empia Regina,
E ben mostra d'aver novella udita,
Che l'assecuri e la riponga in pace.
Regina
Amico avemo il Cielo, e l'alme sciolte
(Per quanto io vedo) han giù posto ogni orgoglio
De l'inimica coppia: e quegli è morto,
Di cui più si temea; questa, che vive,
È qual pianta rimasta, a cui l'umore
Tutto vien men, che la teneva in vita.
Io voglio ire ad offrir quel ch'io promisi
Al biondo Apollo, poi che 'l sogno mio
Agli nimici miei rovina porta.
Coro
O figliuol di Saturno, e Re del Cielo,
Più non si può sperar per noi salute,
Morto colui che sol potea salvarne.
Misera stirpe, or sei condotta a tale,
Ch'altri non hai de' tuoi ch'anime sciolte.
Tullia infelice, or quando avran mai fine
Le tue tante miserie? O spirti egregi,
Non aspettate, ohimè, che Lucio vegna
A far pruova giamai del valor vostro.
Piangiamo, o donne, i nostri eterni danni
E l'eterna gravosa servitute
De li nostri mariti. Ahi, tanto è duro
Servire a reo signor, quanto soave
L'esser soggetto ad un signor benigno.
Lucio
Donne, che di pietà m'empiete il core
Con l'angosciosa vista in cui si vede
Nobiltate di sangue e di costumi,
Sarebbe questo mai l'alto palagio
Del sommo imperador di questa terra?
Coro
L'alto palagio che tu cerchi è questo.
Ma dinne, o forestier, se Dio ti facci
Vie più di noi beato in ogni impresa:
Onde sei tu venuto in questa terra?
E qual porti novella al signor nostro?
Lucio
Donne cortesi, di Corinto vegno:
Cara novella al signor vostro porto,
Ma non già cara a l'infelice donna,
Ch'ha 'l suo marito in questo picciol vaso.
Tullia
Ohimè, infelice, ohimè!
Coro
Che fai, Tullia, che fai?
Tullia
Più non son viva, o donne,
Perché l'alma si parte.
Coro
Deh, sollieva te stessa,
Tullia, io ti porgo aita.
Tullia
Più non ho membro (ahi lassa)
Ch'aggia parte di vita.
Lucio
Io son presago omai
De l'alta doglia vostra.
Coro
Quest'è quella infelice
Di cui morto è 'l marito.
Lucio
Quanta pietà mi stringe
L'alma de' suoi martiri!
Aiutatela, o donne,
E rendetele vita,
Ch'anzi che da voi parta
Vorrei parlarle, ch'io
Promisi al suo marito
Di ragionar con ella,
Prima che con altrui,
De la sua morte, e dirle
Per lui poche parole.
Coro
Deh torna, anima vaga,
In queste membra lasse.
E tu, sangue, che sei
Ne le vene di ghiaccio,
Riprendi il tuo calore.
E voi occhi, che molli
Sete stati tant'anni,
Riprendete la luce,
Benché vi sia nemica.
Ancor tornar non sento
Le smarrite virtuti.
Tu vedi, o Giove, quanto
A gran torto si perde
Così cara compagna.
Io sento, io sento al core,
E per le vene e i polsi,
Tornar l'alma affannosa.
Tullia
Ohimè 'nfelice, ohimè!
Quant'è men reo 'l morire
Di questo mio martire!
Coro
Tullia, reggi te stessa,
Et ascolta costui.
Tullia
Troppo s'è udito, o donne:
Che ascoltar più si deve,
Se morto è 'l mio marito?
Già le costui parole
Nol torneranno in vita.
Lucio
Donna, io promisi al suo partir di vita
A Lucio vostro di portarvi questo
Vaso, ove son le sue reliquie accolte,
E lassarlovi in man tanto che voi
Debiti pianti gli donassi, e poi
Di darlo al Re di questa gran cittade,
E pregarlo per lui che non negasse
Di mandarlo in l'antica sepoltura
Che degli suoi parenti il cener serba.
E benché assai mi doglia il veder voi
Largo fiume versar pegli occhi lassi,
Et udir gli angosciosi alti sospiri,
Che porrian far pietosa ogni aspra fera,
Per non far vane le promesse ch'io
Feci al vostro marito, eccovi il vaso,
Ch'esser molle da voi di pianto deve.
Tullia
Deh, lassatemi sola,
Donne pietose. E voi,
O forestieri amici,
State da me lontani,
E lassatemi il vaso,
Che 'l cener caro serba
Del mio marito, ch'egli
Dopo i debiti pianti
Aggia l'anima ancora
Che queste membra regge.
Coro
Andiam tutte in disparte,
Ma non sì che si perda
La costei vista, ch'io
Temo no 'l troppo affanno
A furiar la sforzi,
Ch'ad altra è stato il duolo
Cagion di morte rea.
Tullia
O ricetto infelice
De la più cara cosa
Ch'io avessi giamai dal dì ch'io nacqui!
Così la minor parte
E la men degna, ahi lassa,
De la mia vita e del mio ben mi rechi?
Ov'è 'l spirto gentile,
E l'onorate membra
Ond'io viveva in speme?
Così m'hai tolto, morte,
Quel che mai non mi desti, e ch'or non puoi
Rendermi? O falsa e fera,
A sì gran torto d'ogni ben mi spogli?
Caro marito mio,
Io non pensai già mai
Di riaverti in questo picciol vaso.
U' son le forze, u' sono,
Ch'esser devean mercede
Al servir nostro e pena al fero rege?
È questo il tuo ritorno,
Ond'io sperai già tanto?
Son io femina viva,
E tu cenere et ombra,
Ch'eri sostegno a la mia vita stanca?
Piangete occhi miei lassi.
E chiudetevi poi mancato il pianto.
Deh, come morta è teco
(Lassa) ogni mia salute,
E i miei saggi pensieri, e la mia speme.
Io vivea perch'a tempo
Le mie fatiche ardenti
Fusser fido soccorso a le tue 'mprese.
Non è bastato al Cielo
Ch'empio tiranno rio
T'aggia tolto il tuo regno,
Ch'ei t'ha tolto la via
Di ricovrarlo. Ohimè, gli alteri fatti
Sono interrotti sempre,
E son nemici al Ciel gli spirti egregi.
O buon fratel di Giove,
Re de le inferne piagge,
Deh manda eterno sonno agli occhi miei!
O terra, o vita odiosa,
Quando sarò con l'alma
Come col buon pensier da voi divisa?
Deh, perché non potea
Sovra tue care membra
Partir teco di vita,
O caro mio consorte,
O chiuder gli occhi tuoi vivendo ancora,
E con la bocca accorre
Tuoi spirti estremi erranti, e morir poi?
Deh vieni, anima sciolta,
A parlar meco alquanto
Anzi ch'io venga a te, che starò poco.
Fa' ch'io t'ascolti, e ch'io
Teco ragioni, e dica
Come son lieti gli avversarii nostri.
Ohimè 'nfelice, ohimè,
Che dirò prima o poi
Per disfogar la mente
Dal penoso furore
Che le sta sopra? Or non farò vendetta
De la tua morte? Or fia
Ch'io non facci languir chi n'ha disfatti?
Or vedi, o sole, or vedi,
A che perfida gente
Fai dei bei raggi tuoi sì largo dono!
O cittadini amici,
Non caccerete fore
Sì crudei mostri de la terra vostra?
Non prenderete l'armi,
A pregiat'opra intesi?
Non sprezzarete morte
Per ricovrar la vita
Stata peggior di morte omai tant'anni?
Ohimè, Tullia infelice,
Or tocca sei da destin forte et empio.
Lassa, vedova e sola
Fuggi morendo, fuggi
Gli eterni danni, che fuggir mal puoi.
Piangete occhi dolenti,
Uscite alti sospiri,
Sì che v'oda il mio Lucio e vi risponda.
Ricevi, o cener caro,
Queste lagrime salse
E questo spirto lasso.
Prendi vita novella
E torna a far l'altere imprese sante.
Lassa me morta, ch'io
Di te vivo sperando sarò lieta.
ATTO V
Semicoro
Io vedo Tullia, io vedo
Da tanta doglia oppressa
Ch'ella non può temprar gli orditi pianti.
Semicoro
Andiam tosto, ch'io credo
Ch'a l'uccider se stessa
Vicina sia, s'io scorgo i suoi sembianti.
Lucio
Donne, correte avanti,
Ch'a voi più si conviene
Ch'a noi porgerle aita.
Tullia
Folle chi resta in vita,
Morto il dolce sperar che 'n pace il tiene.
Coro
Che fai, Tullia, che fai?
Tullia
Cerco fine a' miei guai.
Coro
Non è fine di doglia,
Ma radice di pena
Il finir gli anni suoi per fero sdegno.
Lucio
Lasso, tanto m'addoglia
Veder costei, ch'appena
Il pianto e 'l nome mio celato tegno.
Tullia
Io vegno, Lucio, io vegno.
Deh, lassatemi gire
Là 've chiamar mi sento.
Coro
Ben è grave il tormento
Che sa far l'uomo vago di morire.
Tullia
Poco mi sete amiche
A nodrir mie fatiche.
Coro
Affrena il gran furor che ti trasporta,
Et ascolta il mio dir: se i tuoi nemici
Allegra il tuo dolor, che farà morte?
Benché femina sia, vedova e sola,
Nascer di te potria (chi saper puote
Quel che dee darne il Cielo?) chi vendetta
Farebbe ancor de' tanti affanni nostri.
Folle è quei ch'assecura i suoi nemici
Eternamente, e sé nei danni eterna.
Poscia sai tu per ver che 'l fero rege
Doni al marito tuo la sepoltura
Che questi oggi per lui chieder gli deve?
Ei porria pur negarla: or vòi tu pria
Partir di vita, che saper lo stato
Ove tu lasci quella parte estrema
Ch'è restata tra noi del tuo marito?
S'ei da Servio non ha quel ch'ei disia,
Potrai pur far celatamente in guisa
Ch'ei si riposi in pace; e quand'ei fusse
Dall'avversario suo contento, pure
Far potrai sagrificio, e portar doni
Al suo sepolcro. O Tullia, o Tullia, i vivi
Puonno a tempo operar, ma non i morti.
In questa il tuo dolor grave infinito
Ti recherà la disiata morte;
E porterai novelle al tuo marito
Di quel ch'ei forse avrà veduto pria,
E star potrà in santa pace eterna.
Tullia
Poi che l'empio martire
Dee far di me sì dolorosa preda,
Ecco mio mal grado
Non finisco i miei giorni; ecco ch'io deggio
Veder misera ancora
Gli empi avversari miei beati e lieti,
E me schernita, e tale
Ch'io dia largo conforto ad ogni afflitto.
O forestiero amico,
Avanza il mio morir col dirmi appieno
L'aspro caso infelice
Che m'ha tolto il mio Lucio, et or men rende
Così picciola parte.
Forse il tuo ragionar sarà più pio
Ch'io non son di me stessa,
Ch'ei finirà i martir, ch'io tegno in vita.
Lucio
S'ei si puote alleggiar, donna, il dolore
Che senza fallo esser ti deve eterno,
Credo ch'io 'l potrò far col parlar mio.
Poi che ognun morir dee, molto è men reo
Onorato morir che brutto e vile.
E tu, che piangi il tuo marito morto,
E non hai modo di tornarlo in vita,
Ti devresti acquetar, sapendo come
Mostrando alto valor partìo di vita.
Lucio con un antico sacerdote,
Puri e devoti a l'apparir del sole,
In bianca vesta d'ogni laccio sciolta,
Entrar nel tempio del gran re del Cielo
Con due ministri fidi; e di quei l'uno
Badar deveva ai sagrifici intento,
L'altro affrenar con una sagra verga
La gente ardita, che non desse impaccio
Al sagrifigio santo ch'ei voleva
Fare al gran padre Giove, ond'ei sapesse
Se venut'era il dì gradito ancora
Che 'l devea far tornar beato in Roma.
E poi che 'l santo altar coverto fue
De la fronda de l'ischio a Giove amica,
E che i santi liquori in punto furo,
Poi che le faci de la santa teda
Accese furo, col costume stesso
Che si tien qua bei sagrifigi vostri,
E che due bianche elette pecorelle
Fur davanti a l'altar libere e sciolte
Dal capo ai piei di bianche bende adorne,
E coronate de la sacra fronde
Ch'era sovra l'altare, e che silenzio
Chiesto umilemente, et impetrato fue,
Col comune favor del popol tutto:
Lucio in la destra man tenendo un vaso,
E coronato d'ischio, e posto un velo
E bianche bende al suo capo d'intorno,
Salutò riverente il biondo Apollo,
Che ne recava il nuovo giorno; poi
Umilemente chiamò Iano e Vesta;
Poi disse: “O sommo padre, ottimo Giove,
Per cui s'empion gli altari in questo giorno
Di questi santi don, per cui si libano
Devotamente i dolci onor di Bacco,
Ascolta i giusti miei preghi, e le giuste
Querele antiche, e fa' ch'io veda scorto
Il tuo saldo volere, e 'l mio destino.
Tu pur sei quello onnipotente padre,
Che con un cenno sol governi il mondo
E 'l fai tremare a tua voglia e l'acqueti,
E le nugole accogli, e le dispergi.
Tu dai le leggi a l'amicizie sante,
E dai giusto martiro a chi le sprezza.
Tu sei quel sol, per cui si teme e spera.
Opra, giusto Signor (ch'ei n'è ben tempo),
Che 'l mio crudo avversario il regno perda,
Ch'ei tolse al padre mio con tanti inganni,
E con sì nuova et empia crudeltade.
Questa fu, sommo Dio, quella mercede
Che riportar di lor pietosi offici
De l'averlo nodrito, e de l'averlo
Fatto genero loro, egli e sua madre.
Questo or si gode in l'usurato impero
A mal mio grado, e degli spirti egregi
De la città del buon figliolo di Marte,
Che tu mostrasti, e promettendo desti
A la madre d'Amor pel tuo figliuolo,
Che portò seco il santo foco eterno,
E i domestici Dei de l'arsa Troia.
Fa' ch'io trionfi nel bel patrio seggio,
E bastiti di me sì lungo esiglio,
Ov'io son visso già tant'anni e tanti;
Fa' che l'occise bestie ai santi altari
Mostrino il tuo voler largo et amico.
E s'io ritorno nel gradito impero,
Offrirò ai tempii tuoi ne l'alta Roma
Quel che potran mai far le vigne e i campi
In quest'anno presente, o sommo padre”.
E poi chiamò tutti gli Dii per nome,
E Iano ancor, che fu primo et estremo,
Ch'a le preghiere sue piegasser Giove,
E gli dessero aita; e poi si volse
Volgendo gli occhi da man dritta in giro,
Basciandosi la destra; indi s'assise
E pose infra le corna farro e sale
De le due pecorelle, e maschi incensi.
E libò nuovo vino, e poi lo porse
A quei d'intorno, che 'l libasser tutti;
Poi 'l versò tra le corna a quelle due,
E videl' atte al sagrificio santo.
Poscia svelse con mano infra le corna
Velli, e quei pose ne le fiamme ardenti.
Volto poi in ver lo sol che d'oriente
Spuntava allora, dal capo a la coda
Un adunco coltel condusse, e fece
A quelle dar da' duoi ministri morte,
Invitandogli a far l'antica usanza:
Ei così fero. In questa il sacerdote,
Vedendo i petti de le bestie aperti,
Col coltello atto a ciò, devoto e 'ntento
Andò toccando et incischiando quelle
Interne parti, che gli fean palese
Il divino volere: e trovò quelle
Manche infelici, e di color maligno.
Per ch'ei si volse a Lucio, e disse: “Amico,
Appaga il tuo disio, portando in pace
Quel ch'è saldo voler di Giove omai,
A cui non piace che tu torni in Roma”.
Lucio, senza cangiar punto sua vista,
Spogliò la bianca veste, et uscì fore
De l'alto tempio, destinando omai
Di finir gli anni suoi per viva forza.
E perch'io era quell'amico, quello
Con cui partiva i suoi pensieri ascosi,
Non mi poteo celar le voglie sue,
E dopo molte assai giuste querele,
Mi fee palese il suo correre a morte;
E non mi valse il consigliarlo, e 'l dirgli
La pena e 'l disonor, ch'eternamente
Scempiar deveva a lui l'anima e 'l nome.
Ch'ei mi rispose ch'avea fatto omai
Saldo pensier di più non star tra' vivi,
E con alte ragion tacer mi fece.
Poi mi condusse in solitario loco,
Entro una selva assai vicina al mare;
E disse: “Qui voglio io lassar la vita,
Poi che morir si dee senza vendetta.
Morir si dee così. Così noi giova
Di girne omai ne' bassi regni ombrosi.
E tu, caro fratel, se dentro a l'alma
Spirto ti vive di pietà sol uno,
Non impedir mia morte, et a me lassa
Finire i tanti miei danni e rovine.
Già non potranno dir gli miei nemici
Ch'io muoia come vil fuor del mio regno.
Io non voglio aspettar che 'l corso intero
Porti natura a' miei sì miser anni,
Ch'hanno il valor perduto, e la speranza.
Io mando sciolta in la sua patria vera
L'alma, poi che col corpo andar non puote
Ov'egli è nato, e ritornar dee solo
Poscia che morte avrà questi occhi chiusi:
Ardi le membra mie, come che indegne
Sian di sì fatto onore, e ch'io devessi
Sbramar le fere e gli rapaci augelli;
Ma non erra già quel che si dà morte
Per fuggir vita più di morte rea.
Porta il cenere mio ne la mia Roma,
Anzi del mio nemico, in picciol vaso.
Parla a la mia consorte, e di' che mai
Più non m'aspetti in corpo anima chiusa;
E che 'l cenere mio di pianto bagni.
E poi chiedi per me la sepoltura
A chi m'ha tolto la mia patria e 'l regno”.
Dette queste parole, trasse fore
Una spada lucente, e verso il Cielo
Volse la punta, e sospirando mosse
Questo dolente ragionare estremo:
“Dolce mia speme, infin ch'e' piacque al Cielo,
Or estremo martir fin ch'al Ciel piace,
Già di te non mi doglio, amica spada,
Che per darmi mercé temprata fosti.
Trar di vita devevi il mio nimico
Per darmi pace, et or per tormi guerra,
Ch'essere eterna mi devea, m'uccidi.
Troppo sarei beato se del sangue
Del tiranno crudel macchiata fussi
Pria che di questo. Or poi che 'l Cielo non vuole,
Sciogli quest'alma omai dal tristo laccio,
Che 'n sì rea servitù l'affligge e stanca.
Togli a quest'occhi la noiosa luce,
Et agli spirti miei l'aer maligno,
Che gli ha pasciuti oltra lor voglia tanto;
E tu, motor de l'alte stelle ardenti,
Manda il tuo fido messo, che 'l mio crine
Sagrato porti al gran Plutone inferno.
A Dio terra, a Dio vita odiosa e rea,
Più non sarete de' miei strazii liete”.
Et inchinato sovra il nudo ferro,
La strada fece a l'anima, che sciolta
Se n'andò 'n compagnia di molto sangue.
Io che piangeva le disgrazie sue,
Non potei remediar, perch'ei non volse.
E poi ch'io vidi lui caduto, corsi
Per sostenerlo, e i vaghi spirti estremi
Benignamente sospirando accorre;
E 'l feci, e non vo' dir se molto piansi.
Poscia ch'io lo sentii ghiacciato, e privo
D'ogni spirto vital, rivolto al Cielo,
Dissi queste parole al sommo Giove:
“Plachi il pietoso officio, ottimo padre,
Il fallo ch'io vo' fare, ardendo queste
Amiche membra. Già conosc'io bene
Che quest'onore a lor non si conviene;
Ma perch'io vo' quel ch'a lui vivo dissi
A lui morto osservar, che l'alma amica
Aggia questo contento in l'altra vita,
Arderò queste membra, e 'n picciol vaso
Le porterò ne la lor patria Roma.
Perdonami, Signor, che così scuso
Il conosciuto fallo”. E poscia intento
Feci il funereo rogo, e d'atre frondi
Tutto il coversi, e con l'antica usanza
L'arsi, et accolsi le reliquie ch'io
Di tutto il corpo amico accor potei;
E son venuto per servar la fede,
Ch'io diedi, donna, al spirto alto e gentile.
Or poi che troppo pur vi sete omai
Abbandonata in pianto et in sospiri,
Datemi il vaso, ch'io finisca l'opra
Per ch'io son oggi in questa terra vostra.
Tullia
Ohimè, lassa, ohimè!
Anima folle, or come
Non farai tu partita
Com'io rendo a costui sì caro pegno?
È però vero, ohimè,
Che 'l mio caro marito
In te, vaso, s'accoglia,
E vada in parte u' più veder nol deggia?
O forestiero amico,
Sostien ch'io pianga ancora.
Non puon tutti i mortali
Pianger, quanto devrei pianger io sola:
Lassami pianger, lassa,
E quand'io sono in pianto
Tutta conversa, prendi
Il vaso, e lascia me muscoso fonte.
Fammi petra che stille,
O Giove, eterno rio
Che mormorando inviti
A pianger chi verrà dopo mill'anni.
Lucio
Come soffr'io già mai
L'udir sì rei lamenti?
Donna, finite il pianto,
Ch'alta pietà di voi l'alma m'ancide.
Tullia
Vòi tu ch'io ponga fine
Agli lamenti miei
Al cominciar de' mali?
Quest'è 'l vero principio de' miei danni.
Lucio
Esser potrebbe il fine.
Tullia
Senza morte non puote.
Lucio
Io dico senza morte.
Tullia
E dopo morte ancor voglio dolermi.
O Lucio, o Lucio, ohimè,
Debb'io lassarti mai
Senza mai più vederti?
Lucio
Ohimè lasso, ohimè!
Tullia
Tu hai di me pietate.
Lucio
Donna, tropp'empio petto
Saria quel che pietate
Non avesse di voi.
Tullia
Tu solo sei de' miei martir pietoso.
Lucio
Fors'a me si conviene
Più ch'ad altrui pietate.
Tullia
Chi saresti già mai
Ch'aver possi di me debita doglia?
Lucio
Io potrei oggi in gioia
Tornare i pensier vostri,
E darvi eterna pace,
Et in voi porre oblio de' tempi a dietro.
Tullia
S'a questo cener caro
Non ritorna il suo spirto,
Tornar non posso in gioia,
Né pace aver, né del passato oblio.
Esser non dèi dal Cielo
Messo qui per quest'opra:
Altro da te non spero,
Ch'un subito morir nel darti il vaso.
Lucio
S'io vi dicessi come
È vano il pianto vostro,
E vi tornassi lieta,
Voi m'areste più caro assai che 'l vaso.
Tullia
Esser non può già vano
Il mio sì giusto pianto:
Da sì crude cagioni
Tratt'è de l'alma fuor per gli occhi miei.
Lucio
Perché piangete, o donna?
Tullia
Perché perdut'ho quello,
Che mi fu padre, e madre,
E marito, e tesoro, e pace, e vita.
Lucio
Mal chiamate perduto,
Quel che davanti avete.
Tullia
E questo è 'l mio martire,
Ch'io l'ho davanti, e 'l chiamo, e non risponde.
Lucio
Drizzate in lui le luci,
A lui parlate, et egli
Vi renderà risposta.
Tullia
Come può dar risposta un che non vive?
Lucio
Certo, madonna, ei vive,
Se i vivi già non sono
I morti, e i morti vivi.
E con voi parla.
Tullia
Tu se' Lucio, adunque?
Lucio
Poss'io senza sospetto
Di queste donne aprirti
Il nome e il pensier mio?
Tullia, Lucio son io,
Che vegno a darti pace.
Tullia
Io non spero dal Cielo
Sì fatta grazia, e te non raffiguro.
Lucio
Vedi se questo anello
È quel ch'a mia partita
Di questo dito trassi.
Tullia
O Lucio, o Lucio mio, chi mi ti rende?
Lucio
Affrena il tuo gioire,
Ch'altro vuol questo giorno.
Ben verrà tosto il tempo
Che ne farà il gioir dolce e securo.
Tullia
O Lucio, o Lucio mio,
Chi può tenermi a freno?
O donne, o donne amiche,
Ecco il non isperato Lucio nostro!
Lucio
Fa' che 'l troppo gioir non ne dia pena.
Torninti a mente gli passati mali,
E segui i tuoi lamenti, che noi semo
In loco omai, dove bisogna un'opra
Subita et alta, e non parole vane.
Coro
Io sento venir fuore
Servio parlando: o voi,
Fate ch'ei non vi veda
Alteri e lieti insieme.
Lucio
Addoppia i tuoi lamenti,
Et a me rendi il vaso.
E voi statevi afflitte.
Io voglio ir a far l'opra
Per che venuto sono.
Or su compagni miei,
Mostrate il gran valore,
Che dentro a l'alma avete:
Io vedo il mio nimico,
Ch'alteramente parla
Al mio caro fratel, colmo di gioia.
Servio
Or potranno sperar gli amici miei,
E gli nemici che saranno saggi
Non vorranno provar le forze mie,
E 'nchineranno i colli sotto il peso
Che gli dee soggiogar mentre ch'io vivo.
Chi fia quest'altro greco, che qua viene
E porta un picciol vaso in la man destra?
Lucio
Se tu se' 'l Re di questa gran cittade,
Come il sembiante tuo mi mostra, Dio
Glorioso ti facci in ogni impresa.
Servio
Ben sai ch'io sono il Re. Che vuoi tu dirmi?
Perché ti vedo in questa terra mia?
Lucio
Per fare un'opra pia venuto sono,
Che piacer ti dovrebbe, perché a Dio
Piace l'alta pietà sovr'ogn'altra opra,
E i buon regi han da Dio la forza e 'l senno.
Servio
Io mantegno pietà dov'esser debbe,
Ché non è sempre ben l'esser pietoso.
Ma dimmi brieve omai quel che dir dèi.
Lucio
In questo vaso, o sommo Re, s'accoglie
Il cener freddo del tuo gran nemico
Lucio Tarquino, che nel suo morire
Mi costrinse pregando ch'io venissi
A chiederti per lui la sepoltura
U' post'è l'uno e l'altro suo parente.
Servio
Taci, più non parlar, uom troppo audace.
Più non voglio ascoltar le tue parole.
Sì ch'io deggio far grazia a l'empio e reo
Ch'a me morte chiedea, più ch'a sé vita?
Lucio
Più non è tuo nemico, s'ei non vive.
Servio
Il spirto è vivo, che mi fu nemico.
Lucio
Io non chieggio mercede al spirto sciolto.
Solo il riposo a questo cener chiedo.
Servio
Taci. Io non vo' dar gioia a' miei nemici.
Lucio
Il trionfar de' suoi nemici vivi
È bello e caro, il perseguirli morti
A l'alme altere come brutto spiace.
Servio
Per te vuoi morte, se per lui mercede.
Lucio
Se tu hai tolto a lui la patria e 'l regno,
Ben donar gli potresti sepoltura.
Servio
O superbo, o ritroso!
Lucio
O reo tiranno!
Servio
Offender mi vuoi tu nel regno mio?
Lucio
I' ho di te più parte in questo regno.
Prima che 'l sol col dì da noi si parta,
Avrai negli occhi oscura notte eterna.
Servio
E tu contra mi sei?
Demarato
Contra ti sono,
E son fratel di Lucio: e Lucio è questo.
Servio
Così son preda, ohimè, de' miei nimici?
Così son giunto al fin de' giorni miei?
Lucio
Quest'è l'ultimo dì de la tua vita.
Quest'è la fida spada di mio padre,
Ch'oggi dee far di lui piena vendetta.
Servio
Ohimè lasso, ohimè!
Ohimè lasso, ohimè!
Tullia
Traetel dentro prestamente, et ivi,
Senz'udir sue parole,
Dateli sol la meritata morte.
Servio
Ahi figlia, ahi figlia cruda!
Tullia
Va', va' perfido a morte,
Non padre, empio nimico!
Servio
O volgo, o volgo amico,
Porgimi aiuto, porgi,
Ch'io son per forza tratto
A finire i miei giorni.
Lucio
Più non vedrai la luce.
Or chiudete le porte
Di quest'alto palagio.
Servio
Ohimè lasso, ohimè!
Ohi oh ohi oh oh!
Tullia
Or avrem noi salute,
E per la via già semo
Di trionfar degli avversarii nostri.
O Giove padre di giustizia, o luce
Alma del biondo Apollo,
Or vedo i miei nemici
Giusta pena portar dei falli suoi!
Se lungo è stato il mio martir, pur ora
Vedo 'l porto apparir de' danni miei.
Lucio
Getta sopra le soglie
L'empie nimiche membra,
Sì che 'l popol di Roma a pien le veda.
Poi fa' che, senz'aver mai sepoltura,
E di fere e d'augei diventin esca.
Ombra
A Dio, cara consorte, io vado altrove
Spirito sciolto, e son da te diviso
Per fera morte iniquitosa et empia.
False fur le novelle, e falso il messo,
Che le ci diede sì cortese in vista.
L'armi e le man de l'avversario nostro
M'han da le membra mie pur or diviso.
E l'empia figlia nostra è stata quella
Che gli ha fatti avanzar sì fera impresa,
Pria ch'io potessi pur formar parola.
Non t'appressare al nostro alto ricetto,
Se tu non vuoi morire, e veder prima
Squarciati i membri miei pel sangue sozzi,
Destinati a sbramar fere et augelli.
Io so che deggio andar molt'anni errando,
E star più non vo' teco. A Dio, a Dio.
Regina
Or se' tu 'l mio marito? O Servio, o Servio,
Aspetta, o Servio mio, ch'io parli teco.
Egli è sparito, e più giunger nol posso,
S'io non son sì com'egli anima sciolta.
Ohimè lassa, ohimè!
O terra, o luce, o vita,
Chi mi darà mai pace?
Piova fiamma dal Cielo,
Che mi distrugga et arda!
In qual parte del mondo,
In terra, in acqua, o in foco,
Troverrò presto disiata morte?
Questo mertano i voti,
Questo i sagrati offici,
E le ghirlande e i doni,
O crudo Giove, ond'io t'ho fatto onore?
Leggi torte del Cielo,
Vana potenza, e vile!
Chi mi porge ora il foco?
Chi prende meco l'armi,
Che gli nimici miei
Ardendo ancida e squarci, e sopra quelli
Poscia getti me stessa?
O vil popolo inerme,
Quest'è la speme, questa
Ch'aveva Servio mio
Ne le vostr'alme vili?
Or sete preda, or sete
Degli inimici vostri.
Or servirete a quelli
A cui voi fuste sopra,
Sotto il governo del mio buon marito.
Io voglio ir dentro, et ivi
Agli nimici miei
Chieder subita morte.
E se da lor non viene,
Con queste mani il core
Con lor gridando voglio
Trarmi del petto fore.
O furie ultrici e crude,
Fatevi donne omai
De la mia mente cieca!
Fate tenaci nodi
Coi venenosi crin a l'alma insana!
Coro
Ecco qua cieca e furiosa quella
Che beata pur or colma di gioia
Ne dispregiava: or sapem noi che Dio
A qualche tempo ai buoni aiuto porge,
E con giusto martir persegue i rei;
Or sapem noi per pruova quanto è vero
Quel che ne mostra in sogno anima pura.
Regina
Ove son, donne, i dispietati e rei
Ch'hanno il marito mio di vita casso?
Ohimè, ohimè, ohimè!
È questo Servio mio?
È questo il mio marito?
O mio perduto bene!
O mia perduta vita!
Io vo' restar qui teco.
In quante parte, ohimè,
Hai divise le membra!
O sole, o sole, or come
Non ascondi il tuo lume,
O non divieni oscuro
Per sì spietata vista?
O feri, empi e rubelli
D'ogni costume santo:
Voi morto avete, voi,
A me 'l marito, e 'l Rege
A quest'alma cittade.
Mostrivi il sommo Giove
Quanto la morte d'un buon Re gli spiace.
Tullia
Questo piacer gli dia,
Se la pena de' rei gli porta gioia.
Regina
E tu, perfida figlia,
Come già mai soffristi
Sì dispietata morte al padre tuo?
Tullia
Come tu quelle indegna
De' tuoi giusti parenti.
Regina
O peste iniqua e grave!
Togliati al mondo Giove,
Se non vuol che tra noi pietà si perda.
Io vo' con queste mani
Trarti quell'empie luci,
Ch'han potuto soffrire
Di vedere squarciar lor padre vivo.
Lucio
Non prenderete voi tosto costei?
Non la merrete in parte
Ov'ella elegga o foco, o ferro, o laccio,
Che la traggia di vita?
Regina
Sia corto ogni tuo bene,
Pien di sospetto e d'ira.
Lucio
Chiudetele la bocca.
Regina
Odiar ti possa il Cielo.
Lucio
Toglietemi d'avanti
Sì furioso mostro.
Regina
Oh oh oh oh oh!
Lucio
Poi che costei saput'ha la novella
Del suo morto marito, per la terra
Avrà fama portati i fatti nostri.
Coro
Io vedo, ohimè, correndo a noi venire
Un uom pauroso e travagliato in vista.
Nunzio
Ov', ov'è Lucio?
Coro
È qua dentro.
Lucio
Che vuoi?
Nunzio
Io son venuto a te correndo, ch'io
Vist'ho la plebe a la tua morte intenta.
Prendi partito in un momento, prendi!
Lucio
Se gli nimici miei s'arman, che fanno
I miei fedeli amici, ond'io sperava
Alta difesa a le fortune mie?
Nunzio
O la paura gli tiene a freno,
Od ei non han questa novella udita:
Nessun si vede in tuo favore ancora.
Lucio
O valorosi miei compagni fidi,
Non dubitate, che dal Ciel s'attende
Vero soccorso ai bei segni conforme,
Che far mi fer di Grecia dipartita.
Or voi, nobili donne, umilemente
Pregate il Ciel per la salute nostra.
Io voglio a Giove ricordar devoto
L'alte impromesse, ond'ho sperato e spero.
O sommo Giove, alto fattor del tutto,
Principio e fin d'ogni creata cosa,
Certa speme e timor d'uomini e Dei,
Tu con giustizia a te sempre vicina
Vedi dal Ciel la vita e i pensier nostri,
Tu nei nostri bisogni a noi soccorri
E vinci ognun col tuo valore invitto
Ch'al tuo giusto voler non drizza il core,
Di pace amico, e di tranquilla vita,
Nemico intenso a le sfrenate voglie.
Da te ne vien l'alta vertute e 'l senno,
E i graditi pensieri, e l'alte imprese.
Torniti a mente, o sommo Dio, se mai
Ti fei colmi di carne i santi altari
E di sagri liquori, e se le soglie
Degli alti tempii tuoi mai furo adorne
De la tua cara fronde, e d'erbe, e fiori,
E s'io piangendo, et a man giunte umile
T'ho pregato già mai ch'ai danni miei
Rechi omai giusto desiato fine.
Deh, non porre in oblio l'alte impromesse,
Che m'ha fatte per te la terra e 'l Cielo,
E le vittime occise ai santi altari.
Mai non fur vane le impromesse tue.
Tu promettesti al mio buon padre il regno,
E 'l tuo nobile augel ne può far fede,
E poi mostrasti il foco sovra 'l capo
Del disleal che quel gli tolse, e l'alma.
A me in Corinto non un segno solo
Desti, come tu sai senza ch'io 'l dica,
Ond'io prendei d'ogni salute speme.
Per ch'io ti priego per la sacra testa
Onde Pallade uscìo, per le saette,
Per le vertuti tue tante, e sì gravi,
Onde tu fai tremar la terra e 'l Cielo,
Per le mutate forme, e per gli amori
Che ti fer già venir vago tra noi,
Finisci i danni miei, sostien ch'io viva
Ne la mia patria, e nel mio regno in pace.
E non lassar seguir l'alta rovina
Ch'io vedo oggi per noi rabbiosa ordita.
Odimi, Signor mio, faccendo vane
Le forze e l'armi de l'accesa plebe.
Affrena il gran furor del fero Marte,
Vago di strida e di feroci volti,
E di ferri sanguigni, e d'aspre morti.
Contenda al popol suo sì fatto scempio,
Facci lui vincitor di genti strane,
Et aggiunga al suo 'mpero e l'Indo e 'l Mauro.
Coro
Ohimè, ch'io vedo comparir le genti
Con foco et armi, e con feroci gridi.
Lucio
Tempra l'alto furor, dandone segno,
Alto Signor, de la tua salda voglia,
S'una vera umiltà merta mercede.
Coro
Or vedi, or odi!
Lucio
L'alto beato segno
N'ha dato il Cielo.
Coro
O che soave luce
Ved'io scender tra noi da l'alto Cielo.
Lucio
Quest'è messo di Dio.
Coro
Perfido è bene
Chi non crede che 'n Cielo il fonte sia
Di pietà, di giustizia, e di virtute,
E con diletto e tema non l'onora.
Scesa è la chiara luce in su la piazza,
E la plebe smarrita, e quasi morta,
S'arresta e mira, e con timor s'acqueta.
Romolo
Dall'alte case de' celesti Dei
Vedut'avemo il tuo sfrenato ardire,
Popolo insano; or non sai tu che Dio
Ha la cura de' regi e degli 'mperi?
Quest'è vano furor, non da Dio messo
Dentro a' tuoi petti, furioso volgo!
Io son figlio di Marte, e sono il padre
Di questa terra, e vegno a dirti come
Oggi non dee seguir guerra tra voi.
Non contrastate al buon voler di Giove,
Ch'ei non vi mostri quanto irato puote.
Lassate Lucio omai nel regno in pace,
Fin che ne 'l traggia destinato giorno.
Coro
Troppo saria colui saggio e felice
Ch'antivedesse de' suoi giorni il fine.
Veramente le leggi alte divine
Oprano il tutto in noi, come si dice:
È sempre il fallo di martir radice,
Come 'l ben di mercede.
Non sia chi muova il piede
Per gir in parte dov'andar non lice,
Ch'un giorno avanza con eterni danni
Lo sfrenato gioir d'infinit'anni.
Dedica del ms. Rossiano 918
A
FRANCESCO MARIA
Della Rovera ex.mo Duca d'Urbino
Lorenzo Martelli .S.
L'animo mio era, ex.mo Duca, di redurre insieme tutte l'opere di Lodovico mio figliuolo per fare di quelle un solo volume et consecrarlo al nome di V.ra Ex.tia, sì come io già in Lombardia Le haveva promesso di fare, et quantunque con ogni studio mi sia sforzato di conducere a fine questo mio desiderio, non ho però tanto potuto operare che tutte quelle almeno che egli lasciò nella nostra città habbi potuto fare venire a luce. Di che è stato cagione, oltre alla malignità de' tempi nimici alla mia bella patria troppo più di quello che le sue forze possono sopportare , che sempre si truova chi da invidia mosso, o per godere solo dell'altrui fatiche, quelle si diletta occultare. Laonde vedendo io non potere in tutto sanza intervallo di tempo servare quello che io al Ex.tia V. promessi, ho giudicato convenevole dar principio a satisfare in qualche parte al debito mio, et perciò, essendomi tra l'altre sue operette venuto alle mani una $00Iv$tragedia che egli compose sopra la morte di Servio Tullio poco innanzi che egli partisse di Firenze, mi è parso trascriverla et a Lei mandarla così imperfetta come egli la lasciò, acciò che ella sia come una ricordanza per la quale apparisca che io ho sempre in memoria quello a che volontariamente mi sono obligato. In questo mezo l'Ex.tia V. leggerà questa tragedia dove Ella vedrà la punitione d'uno scelerato tiranno con inganni et astutie pervenuto al principato, et quantunque nelle orecchie di ciascuno, che delle romane historie ha notitia, risuoni Servio Tullio essere stato uno virtuoso principe et Lucio Tarquinio crudele et cattivo, et la p.nte tragedia il contrario dimostri, nondimeno io estimo che V. Ex.tia concederà a Lodovico mio figliuolo quella licentia di variare le cose che è agli altri poeti concessa. La tragedia è chiamata Tullia dal nome della figliuola di Servio Tullio et moglie di Lucio Tarquinio, i lamenti della quale mostrano chiaramente quanto sia misera la vita di coloro che sono costretti servire a quelli $0IIr$a' quali non sono se non violentemente inferiori. Il terzo et quarto choro non ho potuto ritrovare et, per quello che io imagino, egli quando finì la vita sua non gli haveva composti, perché richiedendo la materia trattare in quelli alcune cose che non permetteva allhora la fortuna della città nostra, volle piutosto lasciargli indietro che comporgli in maniera che egli alla libertà dell'animo suo non satisfacesse. Quanto alle altre cose, io credo certamente che se egli fino ad hoggi havesse la sua vita prolongata, n'haria pure assai variate, sì come è costume di qualunque altro componitore. Nondimeno quale ella è io l'ho voluta mandare alla Ex.tia V., sappiendo certo quanto ogni mia cosa, anchora che imperfetta, per l'amore che Ella mi porta Le sia sempre grata. Ella adunque benignamente la riceverà et ne farà quel savio et maturo iuditio che Ella suole di tutte l'altre cose; et così come io sempre mi ricordo degli immortali oblighi che ho con Quella, così prego Lei che havendomi una volta connumerato tra i suoi affettionati servidori, così sempre nella sua buona gratia mi mantenga.
FINE