Un matrimonio esemplare

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“Un matrimonio esemplare”

di Antonio Sommella

Liberamente ispirato a “Una coppia ideale” di Tadeusz Rozewicz

personaggi:

Amalia Cozzolino

Ciro Ferrante

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L’azione si svolge a Napoli in un’estate qualunque.

La scena: scatola nera, una sedia, una poltroncina (meglio se a dondolo), un attacca-panni (possibilmente di quelli in legno curvato), un piccolo tavolo.

Sul tavolo: un vassoietto con dentro una caffettiera napoletana a capovolgimento, una tazzina col cucchiaino e una piccola zuccheriera.

Gli altri oggetti: un lavoro a maglia iniziato, un giornale, una busta con dentro una let-tera, due paia di occhiali da presbite.

Amalia Cozzolino e Ciro Ferrante sono al loro cinquantesimo anno di matrimonio: quindi saranno o dovranno apparire entrambi sulla settantina. Lui è ancora in buona forma, i movimenti non sono appesantiti dall’età; gli atteggiamenti e la parlata lascia-no intuire il carattere forte e disinvolto. Lei ha un viso poco intaccato dal trascorrere del tempo ma i suoi movimenti stanchi lasciano trasparire una vita monotona e rasse-gnata.

Il sipario è aperto. Palcoscenico in penombra. Spente le luci di sala parte un brano di Cimarosa (la durata è di 1’48”)

Domenico Cimarosa - Sonata N 55 In La Minore.mp3:

dopo circa 20 secondi entra AMALIA, con passo piuttosto lento, recando il vassoio con tazzina, cucchiaino, caffettiera e zuccheriera. Li appoggia sul tavolo, si siede, prende dal tavolo il lavoro a maglia che appoggia in grembo, poi prende uno dei due occhiali, li inforca e comincia a sferruzzare.

Dopo circa 15 secondi entra Ciro; indossa un abito chiaro ed un panama, reca in mano un giornale piegato che conterrà una lettera. In silenzio va verso l’attaccapanni e vi appende prima la giacca e poi il panama spostando il giornale con la lettera da una mano all’altra. Va verso il tavolo; la musica sfuma lentamente a zero.

CIRO – Ci stava questa lettera nella cassetta, (appoggiando la lettera sul tavolo) tiè, guarda nu’ poco da dove viene che pure stamattina mi sono scordato gli occhiali a casa (appoggia anche il giornale dall’altra parte del tavolo dove poi siederà).

AMALIA - (ironica, senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro a maglia) Che bella novità; se io tenessi 1000 lire per ogni volta ca tu te scuorde e’ lente, a quest’ora saressi ricca. (Voltandosi ed indicando il tavolo) Tiè, stanno lloco gli occhiali.

CIRO – Ma è possibile ca tieni sempre qualche cosa ‘a dicere!? Io sarò pure un poco distratto, vabbene, ma fosse ‘na vota ca te staie zitta e fai finta di niente. Tu ti diverti a criticare. (Dopo una pausa piena di intenzione) E mo’ se po’ sapè chi ha scritto sta lette-ra?

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AMALIA – E io che ne saccio! (prendendo la lettera) Tu pigliate o’ café ca se fa frid-do. (Esamina con curiosità l’esterno della lettera) E’ del Comune. Questi qua sicura-mente vogliono soldi; avita murì accise! Innervosita apre la busta estraendone un fo-glio. Ciro avrà intanto versato il caffè, zuccherandolo e rimestando col cucchiaino). AMALIA – (legge con una certa esitazione) Gentile signora Amalia Cozzolino in Ferrante, preg.mo...... (rivolgendosi a Ciro) ma che significa preg.mo...?

CIRO – Ma quanto sei ignorante; preg.mo!! Pregiatissimo significa! (didattico) È un modo educato che si usa nelle lettere per rivolgersi alle persone importanti; come dire egregio, spettabile, esimio. Hai capito?

AMALIA – Ho capito. Allora qui c’è scritto pregiatissimo ragioniere Ciro Ferrante. (fa una pausa intenzionale, poi, ridendo) E il pregiatissimo saresti tu...?

CIRO – Sissignore, sarei io; e allora? Vai avanti, piuttosto; vediamo di capire cosa vuole il Comune da noi.

AMALIA – (continuando la lettura) Gentili coniugi... (a Ciro, stupita) ma allora scrive veramente a noi!!

CIRO – Ma insomma, vuoi andare avanti si o no?

AMALIA  –  (riprende)  ......  “Nel  quadro  delle  iniziative  programmate  da  questa

amministrazione per la rivalutazione del tessuto sociale della città nella tradizione che contraddistingue”.......(si interrompe, con l’aria meravigliata e triste di chi non capisce,

rivolgendosi a Ciro)...Cirù, ma noi che ci trasiamo con i quadri, con le stoffe dellacittà...?

CIRO – (irritato e con aria di superiorità le prende la lettera) Damme ‘sta lettera. Ma è possibile che non capisci mai niente!?. Il quadro delle iniziative...il complesso, l’insieme insomma. E poi quali stoffe e stoffe? Il tessuto... come dire....la

struttura...il...il... (non sapendo essere esauriente) Ma andiamo avanti che è meglio (legge velocemente borbottando incomprensibilmente fino ad arrivare alle frasi per lui significative) eccetera eccetera...Questa Commissione, presieduta dal Sindaco, hadeliberato di conferire alle Signorie vostre una medaglia per i 50 anni di matrimonio esemplare.

AMALIA – (lo interrompe) Maronna mia, che emozione! O’ Sindaco ci dà una medaglia a noi!? Ma come è possibile? Chillo nemmeno ci conosce. (incalzante) Quando, quando? Sicuramente fanno una cerimonia al municipio. Mamma mia...

CIRO – (interrompendola) Calma, non essere precipitosa, (non manifesta alcuna emozione o entusiasmo; è seccato piuttosto) la cerimonia c’è: sabato mattina alle 10.

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AMALIA – (Si alza e comincia a camminare nervosamente per il proscenio torcendosi le mani). E cumme se fa? Oggi è venerdì e io nun tengo niente da mettermi. (parla come con sé stessa) Quelle quattro pezze che tengo nell’armadio è tutta roba vecchia; è unavita che non mi compro niente. (rivolgendosi a Ciro) Però tengo quel vestito blu a pallini bianchi – è bellino, l’ho messo solo al matrimonio di tua nipote Rosaria: ti ricordi? Tiene pure lo jabbò di pizzo, è proprio elegante. Me l’aveva cucito quella sarta che stava alla Riviera, costava un poco di più ma era proprio brava. Poi dalla cognata della signora del piano di sopra ho saputo che era diventata vedova. Puverella. CIRO – (approfittando della divagazione, con fermezza) Io non ci vengo!

AMALIA – Ma tu fusse pazzo!? Il Sindaco vuole darci una medaglia e noi non ci presentiamo. Ce figura ci facciamo?

CIRO - (impuntato) Non noi, IO. Tu ci puoi pure andare da sola. Dici che tuo marito tiene l’itterizia, la polmonite. Dici che sei vedova da una settimana, ecco. Ma io nun vengo: non tengo nessuna voglia di mettere in piazza i fatti miei.

AMALIA – Ecco qua, il solito spirito di contraddizione. Che c’entrano mo’ i fatti nostri? Che gli dobbiamo dire? Noi andiamo là, ci assettiamo, quello il Sindaco fa il discorso, ci dà il premio, noi salutiamo e ce ne andiamo. Eh? Che dici? Jammo?

CIRO – (Che dall’inizio della discussione ha - a tratti – fatto finta di leggere il giornale) Ah, ma si proprio capatosta. O’ vuò capì che a me di quella medaglia non mene fotte niente? Te lo devo dire ballando ballando? Non-me-ne-fot-te-nien-te!! Io me ne vado a fare la mia solita passeggiata di metà mattina, mi compro il giornale, torno a casa mi prendo il mio caffè fatto con la napoletana e me metto a leggere. O’ sindaco può pure andare........(omette intenzionalmente il seguito).

AMALIA – (implorante e convincente) Cirù, jamme, tu sabato mattina ti metti una bella camicia azzurra col vestito color coloniale che ti sta na meraviglia e io ti faccio diventare lucide come uno specchio quelle scarpe inglesi che ti comprasti a Firenze. Ce ne usciamo tranquillamente verso le 9, ci prendiamo un caffè da Caflish e quando sono quasi le 10 ci presentiamo a Palazzo San Giacomo dal Sindaco. Eh? (si arresta con aria di attesa, speranzosa in una risposta positiva. Ciro è impassibile e legge o finge di leggere. Dopo una pausa Amalia incalza, implorante) Cirù è una vita che non usciamoinsieme, passiamo settimane senza parlare ad anima viva.

CIRO – (irritato) E tu parla cu’ mme! Io non ho bisogno degli estranei. Tu vuo’ a medaglia? E allora vattella a piglià: da sola.

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AMALIA – (non alza la voce, con calma collera, lentamente) Cirù, ‘a vuò sapé na cosa? Si’ ‘nu strunzo! Sei stato, sei e sempre sarai... ‘nu strunzo! (in un drammatico crescendo) Tu nun si’ maie cagnato. Mi hai sempre voluto lasciare a casa. Una gita, uncinema: ogne morte ‘e papa. Le volte che siamo andati al ristorante me le ricordo tutte; sì, pecché ogne vota hai trovato qualcosa pe’ fa storie col cameriere o col proprietario: ‘na vota ‘a pasta non era al dente, n’ata vota ‘o pesce feteva, una volta, addirittura, hai litigato con l’orchestrina pecché non teneva la canzone che volevi tu. Che vita che m’hai fatto fare! Gli altri uomini escono con le mogli: tu no. (sarcastica) L’eterno scapolo! E io stevo ‘a casa: a cucenà, a llavà, a pulezzà (pausa) a farti la serva. (pausa) Cinquant’anni a fa ‘a serva a tte e a deventà scema per arrivare alla fine del mese. E le amiche che mi dicevano “Amà, che ciorta che hai avuto!” Che fortuna! Ma qua’ furtuna!? Quelle pensavano ai tuoi soldi. Quei quattro soldi che tuo padre ti aveva lasciato e che ti ti sei mangiato con gli amici, col gioco...... e cu’ ‘e puttane! Che ti credi

ca nun ‘o saccio? Tutto il quartiere lo sapeva. Quando tornavi a casa dai tuoi spassi, a qualunque ora, bisognava farti trovare pronto in tavola; allora ti ingozzavi in silenzio o addirittura non mangiavi niente con la scusa del bruciore di stomaco ma io sapevo che ti eri già strafocato da qualche altra parte. A letto se ti dicevo una parola mi rispondevi ”Lassame sta, ho sonno”: e te mettivi a runfà comme ‘a nu’ puorco. E io, scema, mi tenevo tutto dentro e chiagnevo tutte ‘e juorne. Pe’ tte: pe’ chistu strunzo.

CIRO – (che finora ha fatto finta di leggere alzando lo sguardo di tanto in tanto e lanciando occhiate torve, ora sbotta urlando) Statte zitta! Ma che t’ha muzzecato naserpe stammatina? A’ vuò fernì e’ sputà veleno? (abbassa il tono ma è acido) Vabbé, ho cercato compagnia di tanto in tanto, e allora? Che avev’ ‘a fa? Passare il mio tempo con te? Tu nun saie arapì ‘ a vocca. Fare conversazione con te? E di che potevamo parlare? Tu tiene ‘a cerevella e’ ‘na gallina; parlare con te era come parlare alla statua di Gioacchino Murat che sta a palazzo reale. Quando ero giovane ero brillante, piacevo, tenevo il mondo in pugno...tu m’ e’ fatto ammuscià. Si songo addeventato ‘nu viecchio senza chiù carattere la colpa è tua. Tu parle e’me. Ma tu? Non ti interessavi a niente, parlare con te era come seminare un fiore nel sale. Tu eri solo mangiare e dormire, dormire e mangiare: cumme ‘a ‘na bestia. (pausa) I soldi. E allora? I soldi erano miei e li ho spesi come mi pareva, me li sono goduti. Tu invece? Che dote m’e’ purtato? Tenive solo ‘a cammisa qiuando ti ho sposata. Si era parlato di una casa. Ma quale casa? Un appartamentino di 3 miseri vani a via Duomo con 4 cani a spartire l’osso. Ma fammi il piacere. (pausa) Poi mi rinfacci che mi vedevo con gli amici. E che mi dovevo

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vedere con te? A guardarti digerire? In cinquant’anni m’avessi detto una volta una parola carina, una frase intelligente. Si, per parlare parlavi, ma solo per criticare... tu criticavi qualunque cosa facevo. (Spossato, tace. Prende il giornale e finge di leggere. Cade un lunghissimo silenzio riempito solo dalla musica di Cimarosa in sottofondo. Amalia piange con silenziosi singhiozzi,)

AMALIA – (Si riprende lentamente, lo scontro l’ha prostrata, la voce è incrinata dal pianto, implorante. La musica sfuma a zero) Cirù..., Ciruzzo... (lui la guarda)... Allorasabato mi porti a prendere la medaglia? (Sipario o buio)

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