Un uomo da niente

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UN UOMO DA NIENTE

Commedia in tre atti e sette quadri

di ANTONIO CONTI

                                   

PERSONAGGI

CARLO FREZZA

DINA

CLEMENTE DE ALMA

FABIO ASTEDDU

ENRICO SCARANO

CATULLO GOLDI

ALDA

LA DUCHESSA CANARDO

LENA

GIANNA

ELSA

ZANZI

DODDI

SUA ECCELLENZA

UN SIGNORE

UN IMPIEGATO

L’IMPIEGATO DELLA BIGLIETTERIA

DIRETTORE D’ALBERGO

UN GIORNALISTA

UN CAMERIERE

Commedia formattata da

Prima che s'apra il sipario, a luci spente, si sente l'emissione di una radio collocata presso la ribalta.

La Voce alla radio        - (netta sullo sfondo con­fuso del brusio di una folla) Le gare d'atletica avranno inizio fra pochi minuti. Il grande sta­dio nereggia di folla, mentre altra gente si ac­calca agli accessi, invadendo tutti gli spazi. Fra la moltitudine spiccano i caratteristici gruppi studenteschi delle varie università, che rivol­gono festose acclamazioni ai loro rappresen­tanti. Già gli atleti si allineano sul campo, per ricevere gli ultimi avvertimenti... (La voce è improvvisamente soverchiata da un alto cla­more di folla, da grida di evviva, da scrosci di applausi; fra le acclamazioni si distingue un nome gridato da innumerevoli voci: « Frezza! Frezza! Frezza! ». Finalmente, quando il fra­stuono un po' s'allontana, la voce alla radio può riprendere) Il pubblico acclama Carlo Frezza, il piccolo grande attore cinematografico, che è appena entrato nella tribuna. Issato sulle spalle di un gruppo di studenti, il fanciullo prodi­gioso viene portato in trionfo, fra il delirio della folla balzata tutta in piedi in un immenso sventolio di giornali, di cappelli, di fazzoletti. Il piccolo divo, del quale appunto era annullato il ritorno dall'America, risponde sorri­dendo con i noti atteggiamenti della sua disin­volta e amabile vivacità al grande saluto della moltitudine, suscitandone ancor più l'entusia­smo. (Si sente più alto il fragore delle accla­mazioni. Dopo un po' la radio riprende) L'i­nizio delle gare deve rimanere ancora sospeso, perché in questo momento la folla ha un altro suo idolo, e non si stanca di festeggiarlo (Cla­mori). Per ottenere che ciascuno torni al suo posto e si ristabilisca un po' d'ordine, la dire­zione è riuscita a far sì che Carlo Frezza mede­simo dica qualche cosa all'altoparlante.

Altoparlante                  - Attenzione! Attenzione! Si­lenzio! Il piccolo Charlot vuol parlare! Atten­zione! A posto. (In breve il fragore scema, mentre molte voci vicine e lontane ripetono): «Silenzio! Seduti! A posto!».

La Voce alla radio        - Finalmente il minu­scolo trionfatore è potuto giungere qui vicino al microfono.

La Voce di Carlo Frezza        - (fresca, da adolescente) Ma io non so cosa dire (Risa e applausi della folla). Però... ecco... vi ringrazio tutti e vi stringo la mano (c. s.). Capisco che mi avete fatto tutta questa festa, perché oggi ho messo per la prima volta i calzoni lunghi... (Acclamazioni altissime).

PRIMO QUADRO

Salottino di un albergo di gran lusso. Entrata in fondo; usci laterali. Una finestra sul cielo grigio. Telefono. Pomeriggio invernale.

Doddi                           - (entra dal fondo precedendo i due fac­chini. È energico, preciso e, quando occorre sorridente).

Due Facchini d'albergo - (lo seguono con un baule e valigie cosparse di cartellini multicolori).

Doddi                           - (dà gli ordini, che i facchini eseguono) Il baule e queste valigie nella camera (indica l'uscio a destra). Le altre di là (indica a sinistra).

Un Cameriere                - (in frac, entra dal fondo, con un fascio di lettere e di telegrammi).

Doddi                           - (indica un tavolo) Li.

Cameriere                      - (posa tutto sul tavolo e fa per an­dare).

Doddi                           - (lo ferma) La valigetta?...

Cameriere                      - Quale?

Doddi                           - Dev'essere rimasta nel bureau.

Cameriere                      - Subito. (Esce).

I Facchini                      - (escono dal fondo).

Doddi                           - (apre alcuni telegrammi, ma, dopo un'occhiata, li butta via seccato).

(Dal fondo entra la Duchessa Canardo).

Duchessa                       - (giovanissima, bella, in una ele­gante veste da casa: un po' ansante per l'emo­zione, sorride). Pardon...

Doddi                           - Prego.

Duchessa                       - (con accento lievemente spagnolo)

                                      - Credevo... Mi scusi tanto. (Fa per andare).

Doddi                           - (galante) S'immagini. Anzi... mi dispiace se io non posso...

Duchessa                       - (sorridendo) Credevo di fare una sorpresa, e invece...

Doddi                           - Peccato!

Duchessa                       - (si ferma volgendosi) Mi ave­vano assicurata... che questo appartamento ospi­tava una... celebrità in incognito.

Doddi                           - Mi rammarico che l'informazione... sia sbagliata.

(Sopraggiunge, in fondo, il Direttore d'al­bergo).

Direttore                       - (inchinandosi sull'uscio) Du­chessa. (Sorpresa di Doddi).

Duchessa                       - Entri, entri. (Fa per andare).

Direttore                       - (alla Duchessa) Nel salone c'è il signor Morrison che chiede di lei.

Duchessa                       - Faccia dire che non sono in casa. (Saluta Doddi, chinando la testa da una parte in un sorriso significativo, quasi di cortese sfida) Arrivederci. (Esce).

Doddi                           - (s'inchina) Duchessa. (E appena la Duchessa è uscita si volge al Direttore) Caro Direttore, qui cominciamo con le indiscrezioni.

Direttore                       - Perché ?

Doddi                           - Perché questa signora Duchessa - bella, non c'è che dire, e anche interessante, troppo interessante, lei m'intende - sa già chi sta per arrivare qui.

Direttore                       - Mi dispiace, ma posso assicu­rare che il rigore con cui il nostro personale...

Doddi                           - (tronca) Sì, sì, va bene. Io constato e basta.

Direttore                       - Se mi permette, io penso che, nel gran mondo in cui vive, la duchessa Canardo abbia potuto sapere...

Doddi                           - (sorpreso) Cosa?! La duchessa Canardo?!

Direttore                       - Quella che è uscita ora...

Doddi                           - Lei?!? Abita qui?

Direttore                       - Veniva in questo albergo an­che prima che le morisse il marito: anzi, l'in­cidente automobilistico avvenne un giorno che erano partiti da qui...

Doddi                           - E quel signor Morrison? Non sarà mica il miliardario americano...?

Direttore                       - È il figlio.

Doddi                           - Ah! E fa dire a Morrison che non è in casa?

Direttore                       - (significativo) Eh, sa, la Du­chessa...

Doddi                           - Lo so, lo so che fa girare la testa a parecchi nomi della finanza e della politica. E appunto per questo è più pericolosa. Bisogne­rebbe pregarla, almeno, di tacere.

Direttore                       - Glielo dirò. (Diverso) Ero ve­nuto perché il cameriere m'ha detto che dovrebbe esserci una valigetta...

Doddi                           - ... nera.

Direttore                       - ...ma tutti i bagagli li ho per­sonalmente consegnati ai facchini...

Doddi                           - Noo!

Direttore                       - ... i quali assicurano di non aver visto alcuna valigetta.

Doddi                           - Benone! Ci mancava questa adesso!

Direttore                       - C'erano dei valori?

Doddi                           - Faccia il piacere: intensifichi le ri­cerche. Telefoni alla stazione, all'Agenzia... in­terroghi l'autista. Starei fresco.

(Dal fondo entra Carlo Frezza).

Carlo                             - (aspetto di ventenne, sbarbato, ele­gantissimo, sorridente). Che c'è, Doddi?

Direttore                       - (s'inchina profondamente).

Doddi                           - (contenendosi) C'è, c'è che dalla stazione all'albergo è sparita la valigetta, ove avevo messo i contratti.

Carlo                             - (togliendosi la pelliccia) Oh, ma al­lora, poco male. Cosa ne fanno dei contratti? E noi, se mai, li possiamo rifare.

Doddi                           - Sì, torniamo a Hollywood per que­sto...!

Carlo                             - (al Direttore) Dopo mi mandi qual­che cosa da leggere.

Direttore                       - Giornali?

Carlo                             - No, niente giornali. Riviste amene, per reazione ai libri seri.

(Trilla il telefono).

Doddi                           - (all'apparecchio) Cosa? (Ascolta, cambiando più volte espressione) Ah!... Eh?... Oh!... (Con sopportazione) E va bene, la faccia venir su. (Depone il ricevitore) La valigetta.

Direttore                       - Dove?

Carlo                             - Lo vede? (Accende una sigaretta).

Doddi                           - L'ha riportata una signorina, che pretende di consegnarla personalmente.

Direttore                       - (per ritirarsi) Se non hanno altri ordini...

Doddi                           - S'accomodi.

Direttore                       - (esce).

Doddi                           - (guarda Carlo) Che? fuma un'altra volta?

Carlo                             - Sa che qui c'è la duchessa Canardo?

Doddi                           - Non è vero. Ho accertato io che non è vero.

Carlo                             - (non ci crede e sorride) Cerbero! (Scorre senza interesse un po' della corrispon­denza).

Doddi                           - E poi, è proprio il momento di co­minciare a perder la testa...

Carlo                             - (sorride) Io?! Se non l'ho mai vista...

Doddi                           - Appunto! Non ricominciamo con le donne.

Carlo                             - (scherzoso) Aspetterò che lei si convinca che son diventato un uomo...!

Doddi                           - (lo squadra) Un uomo!?! Ci vuol altro...!

Carlo                             - Se nemmeno a vent'anni...

Doddi                           - (secco) Diciannove. (Guarda l'oro­logio) Ed è ora di prendere il tè.

Carlo                             - (con lo stesso tono energico, scher­zando) Lei ha perfettamente ragione, signor segretario.

(Si picchia all'uscio di fondo).

Doddi                           - (mentre va a suonare un campanello) Avanti.

(L'uscio si apre ed entra Dina, con una va­ligetta).

Dina                              - (tutta vibrante d'emozione, timida, gra­ziosa; poco più di vent'anni) Scusi... (A Doddi, che si è precipitato per toglierle la va-ligetta di mano) È lei? (Trattiene la valigetta).

Doddi                           - Cosa?

Dina                              - No, non è lei. (Vede Carlo che, in disparte, sorride) È lei. Eccole la valigetta che abbiamo rubato.

Carlo                             - (divertito) Rubato?! E chi?

Dina                              - Noi... siamo cinque dattilografe dell'Agenzia. C'eravamo accorte di tutto e abbiamo fatto il colpo. Così son potuta venire a chie­derle cinque fotografie firmate da lei.

Carlo                             - (ride) Ah! ah! ah! Un ricatto! (E guarda Doddi, che sta per scoppiare) Ha visto? Altro che incognito!

Doddi                           - Ho visto che bisogna telefonare in questura. (A Dina) Bel servizio, la vostra si­gnora Agenzia. Mi congratulo. Andate là, che vi farò reclame. Adesso, intanto, avverto la vo­stra direzione. (Fa per telefonare).

Carlo                             - (gli ferma la mano) No. La signo­rina giura il segreto. (^4 Dina) Vero?

Dina                              - (allunga la mano in atto di giuramento).

Carlo                             - (a Doddi) E allora lei mi prenda queste cinque fotografie...

Dina                              - (continuando) ... belle grandi...

Carlo                             - (per rabbonire Doddi, lo accarezza) Via, sia buono. (A Dina) Perché in fondo è buono, sa, il mio carabiniere.

Doddi                           - (sbuffa) Sicuro! tre volte buono. (A Dina) Già, voialtre donne, quando vi mon­tate la testolina per uno, volete subito rovi­narlo.

Carlo                             - Eh, andiamo...! Rovinarmi, poi.

Doddi                           - E va bene. (Avviandosi a sinistra) Vuol dire che proveremo: io lascerò passare tutti, anzi tutte, e poi starò a vedere che bel film scappa fuori. (Esce a sinistra sbattendo l'uscio).

Dina                              - Chi è? suo padre?

Carlo                             - No, è un po' il segretario, un po' il precettore. (Diverso, sorridendo galante) E... le sue compagne? son tutte carine come lei?

Dina                              - Oh, più carine...

Carlo                             - Impossibile!

Dina                              - Le devo dire, a home di tutte, - tanto lui non ci sente (indica a sinistra) che lei non ci lascia in pace.

Carlo                             - Io?!

Dina                              - Eh, sì. Ci ha fatto tanto piangere e tanto ridere... (Subito diversa, guardandolo) Ma come è riuscito a diventare un uomo tutt'in una volta?

Carlo                             - Voleva che rimanessi sempre ra­gazzo?

Dina                              - Sarà perché nei film l'abbiamo sem­pre visto coi calzoni corti.

Carlo                             - Già, per conservare l'età, negli ul­timi anni, dovevo truccarmi maledettamente. Invece, ormai, se Dio vuole, sarà diverso: farò dei film d'amore, finalmente...

Dina                              - (sospira, rubandolo con gli occhi) Chi sa che belli! Allora faccia presto.

Doddi                           - (rientra, e si frappone fra i due, per allontanarli l’uno dall'altro) Ecco. (Porge a Carlo delle fotografie e la stilografica).

Dina                              - Son fotografie da ragazzo o da...?

Doddi                           - (ironico) Assortite: va bene? E' sod­disfatta? Ma guai a loro se fiatano: le faccio subito mandar via dall'impiego. Voi non ci pensate mica che anche lui   - (indica Carlo che sta fumando) ha bisogno di vivere in pace, e non, sempre, con la gente che gli si stringe addosso da tutte le parti. Santo Dio, ma se volete vederlo, andate al cinema, che non c'è nes­suna differenza.

Carlo                             - (porge le fotografie a Dina) Ecco. E mi saluti tanto le sue amiche.

(Entra il cameriere col servizio del tè e al­cune riviste).

Dina                              - Grazie. Son laggiù che m'aspettano.

Doddi                           - Benone. Avranno fatto l'assembra­mento.

Dina                              - No, stia tranquillo. Saremo mute, (indicando Carlo) per amor suo. (A Carlo) Però io dovevo dirle tante cose, che adesso...

Doddi                           - (la spinge fuori) Ah, no! Adesso stop! Tanti saluti.

Dina                              - (a Carlo) Arrivederla...

Carlo                             - (gli dà la mano) Arrivederla.

Dina                              - (s'avvia, si volge sull'uscio a guardar Carlo ed esce a una nuova minaccia di Doddi).

Cameriere                      - Limone o latte?

Doddi                           - Latte. (Prende sul tavolo il fascio di corrispondenza e s'avvia a sinistra) Sbrigo un po' di questa roba... Poi lei dovrebbe riposarsi una mezz'ora, prima di andare allo stabilimento.

Cameriere                      - (appena Doddi è uscito cambia at­teggiamento) Scusi... il signore mi consenta...

Carlo                             - (che sta prendendo il tè, s'arresta sor­preso a guardarlo).

Cameriere                      - Già... non dovrei... Ma mica per niente, sa... Siccome sono un appassionato e... e seguo con molto interesse... i problemi ci­nematografici... così se il signore avesse la com­piacenza di dirmi quando comincerà a girare il suo film...

Carlo                             - Cosa? cosa?

Cameriere                      - (diverso) È inutile: non 60 fare. Permetta che mi presenti nei miei panni: Zanzi, giornalista.

Carlo                             - Noo!?

Zanzi                             - Redattore, fra l'altro, di questa ri­vista. (Indica quella che Carlo ha in mano).

Carlo                             - (sorride) Sssst, parli piano. E come ha fatto?

Zanzi                             - Non ha importanza. (Concitato, estraendo taccuino e matita) Nessuno saprà che lei è qui, se mi darà qualche notizia.

Carlo                             - Oggi è la giornata dei ricatti.

Zanzi                             - (rapido) Dunque, farà un gran film?

Carlo                             - Sì. Per la prima volta farò la parte, come si dice? di amoroso.

Zanzi                             - Come sente questo nuovo aspetto della sua arte?

Carlo                             - Magnificamente. Fino a diciotto anni, sono stato costretto a fare l’enfant prodige, perché a dieci avevo cominciato...

Zanzi                             - ...a sbalordire il mondo...

Carlo                             - (modesto) No, semplicemente a creare il mio tipo di ragazzo sbarazzino, gene­roso e intelligente, che risolveva col suo intuito primitivo le situazioni intricate degli adulti.

Zanzi                             - Poi?

Carlo                             - Poi ho viaggiato il mondo, in questi ultimi due anni, per prepararmi a... diventare un uomo. E adesso ricomincio a lavorare in una veste del tutto nuova, si capisce.

Zanzi                             - Ha molti impegni? progetti?

Carlo                             - Si è costituita una società Italo-Ame­ricana per alcuni film, nei quali io dovrò creare il mio nuovo carattere...

Zanzi                             - Permette. (Gli porge una fotografia) Questa fotografia forse lei non l'ha. La feci io, tre anni sono, vede? allo stadio, quando la folla la riconobbe e la portò in trionfo.

Carlo                             - Ah, sì, ricordo... Nacque una rivo­luzione. Era il primo giorno che comparivo in pubblico coi calzoni lunghi. Grazie.

Zanzi                             - E del mondo di Hollyvood cosa mi può dire? Chi ha conosciuto, laggiù?

Carlo                             - Più o meno tutti... Cosa posso dirle? Per esempio...

(Dal fondo entra la Duchessa).

Duchessa                       - Oh, buenol Usted mi perdoni: vorrei dirle una cosa.

Carlo                             - (si è alzato in piedi, e s'inchina) Con tutto il piacere. (A Zanzi) Allora...

Zanzi                             - (riprende l'aspetto del cameriere) Allora ho preso nota degli ordini e servirò il signore. (S'inchina e s'avvia).

Duchessa                       - (a Zanzi) Se venisse il conte Montevarco gli faccia dire che sono uscita.

Zanzi                             - Va bene. (Esce).

Duchessa                       - (oors^e la mano a Carlo, con gesto franco, sorridendo) Amistad: Margarita Ca-nardo.

Carlo                             - (illuminandosi tutto in un sorriso) Lei ?! (Le bacia la mano in silenzio).

(Si sente la voce arrabbiata di Doddi).

Voce di Doddi              - Ma benone!! Ma andiamo benissimo! Ecco cosa succede...! Lo dicevo io!

Carlo                             - (sorpreso, guarda l'uscio, guarda la Duchessa: non sa cosa fare) Cosa ci sarà, adesso?

Doddi                           - (precipitandosi in scena, congestionato) La gente davanti all'albergo... (S'arresta esterrefatto vedendo la Duchessa) Oh, ma di bene in meglio! Io dico che c'è da diventar matti! Quelle care signorine, laggiù, mostrano le fotografie a tutti, e la gente si raduna... Qui... (Non osa finire) Ma parola d'onore che prendo e vado a spasso. (Alla Duchessa) Scusi, sa... (Afferra la pelliccia, si calca il cappello in testa. A Carlo) E invece provi a uscir lei... Quelli lì faranno la guardia fino a domattina. (Esce furibondo).

Carlo                             - (sorride alla Duchessa, offrendole da sedere) S'accomodi, Duchessa.

Un velario bianco chiude il quadro, a luci spente. Sul velario si proiettano, successiva­mente e rapidamente, scritte colorate e lumi­nose, manifesti, striscioni, disegni, brani di giornali, sul commento di una musica leggera. I manifesti e gli striscioni dovranno apparire in mezzo ad altri manifesti: così si proiette­ranno tratti di muri, staccionate di costruzioni in corso, ingressi di cinematografi, interni di alberghi e di caffè, tabelloni delle affissioni, e qualunque superficie di solito tappezzala di cartelli pubblicitari; anche le scritte lumi­nose dovranno apparire al sommo di alti pa­lazzi, o sui cornicioni dei cinematografi.

SCRITTE

Carlo Frezza.

Frezza.

Frezza.

Frezza.

Nuovo film di Frezza: « Prima avventura ».

Avvenimento.

Cinema Nuovo: Frezza!

Vent'anni di Frezza.

Teatro-Cinema Vittoria: « Prima avventura ».

Paris: Frezza!

-La rivista « Grande Cinema » pubblica ricordi di Frezza.

-

-« Prima avventura ».

-

« ... grande attesa...».

New Jork: Frezza.

«... pubblico enorme... ».

Madrid: «Frezza».

Il film lanciato in tutto il mondo.

Fischi - Tafferugli - Incidenti.

L'insuccesso del film: « Prima avven­tura ».

«...il pubblico ha manifestato la sua de­lusione... ».

Novità: Frezza!

Il nuovo film di Frezza: «Rivincita! ».

« ... Rivincita! ».

Imminente: «Rivincita!».

Frezza sicuro della sua « Rivincita ».

« ... le folle rimpiangono il fanciullo pro­digioso... ».

« Rivincita! ».

«...interpretazione scialba, insignificante,, comune... ».

Ultimo film di Frezza: «L'uomo».

L'uomo! Nuovo cimento di Frezza: L'uomo.

« Insuccesso clamoroso... ».

«... ormai, dopo questo terzo film, l'arte di Carlo Frezza adulto appare definitivamente ben lontana dalla freschezza e dalla sponta­neità del ragazzo che stupiva il mondo, e dal quale tutti attendevano il capolavoro nell'età matura... ».

«... fallimento... ».

SECONDO QUADRO

Nello stesso albergo del primo quadro: piccola sala d'aspetto, vicina all'entrata, donde giun­gono, quando l'uscio si apre, squilli continui di campanelli, passi e voci esterne del per­sonale e di viaggiatori in arrivo o in partenza.

Qualche poltrona e un tavolinetto con gior­nali e riviste. Telefono. Un uscio a sinistra. Mattino d'estate.

Fabio Asteddu              - (ventitré anni, in abito chiaro, gesti febbrili e nervosi, si fa vento con un gior­nale scorrendo distrattamente le riviste; si alza, fa pochi passi, e torna a sedersi).

Voce esterna                 - (al telefono) Pronto... Parla Grand Hotel... No, è uscito, signora... Prego. Riverisco. (Campanelli, voci confuse).

Il Direttore                    - (entra e chiude l'uscio: ha in mano un copione e lo porge a Fabio Asteddu) Il commendatore è dispiacente di non poter riceverla, perché deve prepararsi per la prova di stamane. Mi ha incaricato di restituirle il copione che lei gli aveva mandato, e di farle le sue scuse. Ma non ha potuto trovare il tempo di leggerlo, anche perché ha tanti impegni che per ora...

Fabio                             - (che è rimasto dolorosamente colpito, lo interrompe, acre) Sì, si, ho capito. Grazie.

(Entra Carlo Frezza).

Carlo                             - (in abito estivo; si è lasciato crescere i baffi: due righe sottili; è cupo, pallido, con gli occhi infossati in un alone scuro) Pardon... (Fa per ritirarsi).

Direttore                       - Venga, venga. Ben alzato.

Fabio                             - (ha avuto un moto di stupore ricono­scendo Carlo, e lo guarda con vivo interesse).

Carlo                             - C'è posta per me?

Direttore                       - Niente.

Carlo                             - Nessuno mi ha cercato?

Direttore                       - Nessuno.

Carlo                             - Vuol dire a Doddi che sono qui?

Direttore                       - Subito. (Esce).

(Un silenzio).

Fabio                             - (è rimasto in piedi, assorto, a osservar Carlo),

Carlo                             - (apre un giornale, legge alcune righe e lo sgualcisce con rabbia. Poi compone feb­brilmente un numero al telefono, e intanto si volge a Fabio) Lei voleva me?

Fabio                             - No. Scusi... (Raccoglie lentamente il cappello, i guanti e un giornale che aveva posato su una poltrona, senza staccar gli occhi da Carlo).

Carlo                             - (al telefono) Pronto... Il cavaliere è in casa?... Frezza... Sì, vada a vedere... (Pausa).

Fabio                             - (si avvia a sinistra, apre l'uscio e si volge ancora a guardar Carlo).

Voce esterna                 - Buon viaggio, signor Conte. (Campanelli).

Carlo                             - (a Fabio) Buon giorno. (Al tele­fono) Uscito?... Gli dica che non ci credo. (Rab­bioso, posando il ricevitore) Canaglia.

Fabio                             - Buon giorno. (Esce).

Carlo                             - (apre altri giornali e li butta via fre­mendo di collera).

Voce esterna                 - Un taxi, presto.

Altra Voce                    - Arrivo.

(Entra Doddi, che chiude).

Doddi                           - È inutile insistere: Gavazzi risponde picche, De Martinis s'è squagliato, Bona strilla per le cambiali, nessuno si fa più vivo, e anch'io, diciamo la verità, non ne posso più d'esser mandato al diavolo da tutti, mentre devo pensare a tante altre cose per me.

Carlo                             - (rabbioso, fremente di sdegno) E va bene, no? Me ne infischio della società. Faccio da solo. Vendo tutto. Realizzo quello che posso. Ho già l'appuntamento col notaio. Tutto. Basterà. Vedremo un po' chi ride l'ul­timo. Da solo almeno potrò far di testa mia e non avrò più nessuno fra i piedi a mettermi in testa gli errori. A costo di cader nelle mani degli strozzini. Anche il cavaliere, quel galli­naccio, taglia la corda. Ma io ho già in testa tutto il mio progetto. Oggi vado da Morrison...

Doddi                           - Inutile: ho già tentato io. Niente da fare.

Carlo                             - (con ostinata fiducia) Non importa. Faccio a meno anche di lui. Ma prima di aver la mia pelle devono sospirare un bel pezzo.

Doddi                           - (con circospezione) Io direi che, se la Duchessa...

Carlo                             - (sobbalza) Cosa?!

Doddi                           - (si ritrae) No, dicevo...

Carlo                             - Nemmeno nominarla. Vada all'in­ferno, anche quella là. Sgualdrina! E preghi a mani giunte che non m'incontri, se no...

(Entra il Direttore seguito da Dina).

Direttore                       - Scusino, c'è qui questa signo­rina che... non vuol credere che il signor Conte sia partito...

Dina                              - (ansiosa, sperduta, agitata dallo spa­vento della verità). No, non è possibile... (A Carlo, riconoscendolo). Ah, lei...?! Si è alzato poco prima di me... e m'ha detto che m'avrebbe atteso qui...

Direttore                       - Eppure, ha pagato il conto, e ha preso un taxi per la stazione. (A Carlo e Doddi) Forse loro sanno...

Carlo                             - È partito per Berlino...

Dina                              - (sgomenta) No! No!

Carlo                             - Purtroppo, le assicuro...

Dina                              - (si accascia su una poltrona, singhioz­zando disperatamente) Canaglia! Mi ha messa sulla strada... Assassino! Mi ha lasciata sola, con un inganno... sola... (Continua a piangere desolatamente, mentre gli altri la guardano im­pietositi).

(Durante il passaggio all'altro quadro, per un po' si sentono ancora i singhiozzi di Dina, che s'acquetano mentre comincia a sentirsi, sullo stesso ritmo del pianto, prima fievole e lontano, poi sempre più forte e vicino, il disperato guaire di un violino, che non riesce a superare la ver­tigine di una spirale di aspri arpeggi; ogni tanto il filo del suono si arruffa, si spezza e subito riprende da capo, con monotona ostinazione, continuando anche quando si illumina la scena del

TERZO QUADRO

Sala da pranzo d'una pensione molto modesta. Nella parete di fondo un arco, oltre il quale un corridoio della stessa ampiezza - specie di vestibolo o vano di ingresso che prolunga fino all'uscita la volta dell'arco - termina con la vetrina che dà sulla strada. Nel mezzo della sala un grande tavolo ret­tangolare, disposto in largo, sul quale pende un lampadario dozzinale, con guarnizioni di carta colorala; in fondo, a destra, un tavoli-netto con l'occorrente per scrivere; a sinistra una credenza d'abete, mal verniciata a imi­tazione del noce. A destra due usci; a sinistra un uscio e una finestra. Nel vano d'ingresso: a destra, un bancone di vendita, che serve alla padrona per distri­buire le stoviglie, le vivande, il vino ecc., e che lascia uno stretto passaggio lungo la pa­rete, nella quale si apre un usciolo con ten­dine, per scendere in cucina. Sul bancone: piatti, bicchieri, bottiglie, scatole di carne in conserva, un barile. Lungo le pareti di si­nistra due o tre attaccapanni a muro; sotto, una panca sgangherata.

Nella vetrina di fondo una scritta vistosa:     - (( Pensione Aurora », che naturalmente, si legge da destra a sinistra. Un cartello attac­cato al barile reca un'altra scritta: « Si prega la puntualità ai pasti e a fine mese ». Orribili oleografie della « Tosca » e dell' « Otello », alcune caricature a carbone, car­telli per la pubblicità di vini e liquori. Sopra l'arco, uno di quegli orologi a piatto, che re­cano scritto in cerchio l'elogio di specialità medicinali. Le sedie sono di tanti tipi diversi, parecchie con l'impagliatura malandata o man­canti di traversini e di staggi.. - Mattino d'in­verno.

(Nessuno in scena. Il violino continua a im­pazzire sugli accordi. Dall'usciolo della cucina entra Gianna, padrona della pensione).

Gianna            - (trentacinque anni, prosperosa, ener­gica; parla verso l'interno, sgarbatamente, con persona che è in cucina) Me ne importa un bel po' se il maiale non lo digerisce, il caro signorino de' miei stivali... Che cosa?... Se ne va?... Magari! Pago da bere a tutti. Bada lì, bada lì, se no mi fai bruciare un'altra volta ogni cosa. (Lascia cadere le tendine, butta dentro il cassetto del bancone una manata di soldi, e si mette a fare un conto col gessetto su una piccola lavagna).

(Da sinistra entra Enrico Scarano).

Enrico                           - (venticinque anni, impomatato e ri­pulito, sfoggia un pigiama di lusso che contrasta con l'ambiente: si dirige verso destra, ma ap­pena vede Gianna si ferma, un po' contrariato) Ah!... c'è lei?

Gianna                          - Buon dì, signor Scarano.

 Enrico                          - Buon giorno.

Gianna                          - E come ha fatto ad alzarsi così presto? Non sono nemmeno le undici...

Enrico                           - (indicando verso l'uscio di destra donde viene il suono del violino) Per forza: quello lì comincia all'alba. Come si fa a dor­mire?

Gianna                          - Le assicuro che ha cominciato alle dieci.

Enrico                           - (come per dire: «è lo stesso») Eh, be'...!

Gianna                          - (vedendo che Enrico si aggira come non sapesse cosa fare) Cerca qualche cosa?

Enrico                           - No, non...

Gianna                          - C'era gente a teatro ieri sera?

Enrico                           - Così... al solito...

Gianna                          - E gliel'hanno data, poi, quella parte, nella commedia nuova?

Enrico                           - (con stizza) A me?! Nemmeno per sogno. Se aspetto che mi facciano fare un passo, sto fresco...

Gianna                          - Oh, adesso lei...

Enrico                           - (subito) No, no, è così: ormai l'ho visto tanto bene. Bisogna esser cani, e allora ti fanno fare quello che vuoi, per il vantaggio dei confronti. Ma se uno studia sul serio... (S'in­terrompe per salutare Alda che entra da destra) Oh, signora, buon giorno.

Alda                              - (trent'anni, piacente, un pò9 frivola; vestita per uscire) Ben alzato.

Enrico                           - Come sta?

Alda                              - Così.

Gianna                          - (ha un gesto significativo e fa per andare in cucina).

Alda                              - (a Gianna) Non s'è visto mio marito?

Gianna                          - No, non è tornato. (Esce).

Alda                              - (sottovoce) Avevo un bell'aspettarti...

Enrico                           - Era qui lei, non potevo farmi ve­dere. Anche poco fa c'era quell'ex divo da strapazzo? Dove vai?

Alda                              - Arrivo qui, a un negozio...

Enrico                           - Vieni a prendermi in teatro, verso le cinque.

Alda                              - Taci.

(Dal fondo entra Clemente).

Clemente                       - (poco più di trent’anni, dimesso, remissivo) Ma fa freddo sul serio stamat­tina. Brrr! (A Alda) Esci?

Alda                              - Sì, vado a prendere alcune cosette per te.

Clemente                       - (sorridendo) Ancora altra roba? (Vede Enrico e cambia espressione) Ah...!

Enrico                           - Buon giorno. (Un silenzio) Che ore sono, scusi?

Clemente                       - (lo guarda di traverso e non gli risponde, ma si volge a Alda) Non spender troppo, però...

Alda                              - Vorrei prenderti anche una sciarpa di lana... (Gli raddrizza la cravatta).

Clemente                       - Eh, cos'hai paura?! Non ti basta mai d'infagottarmi...

Alda                              - Anche stanotte hai tossito due o tre volte.

Clemente                       - Figurati!

Alda                              - E poi questa cravatta...

Clemente                       - No, va benissimo.

Alda                              - ... comincia a esser logora.

Clemente                       - Basta spostare il nodo... (Di­verso) Sai quanto ha avuto il coraggio d'of­frirmi, Spazzoli, per il quadretto?

Alda                              - Quanto?

Clemente                       - Trenta lire. E ti prende per il collo, non c'è niente da fare...

Alda                              - Pazienza. Be', addio. (Gli fa una carezza) Torno subito.

Clemente                       - Ciao.

Alda                              - (esce in fondo).

(Pausa: Enrico e Clemente rimangono per un po' in silenzio non sapendo che fare).

Enrico                          - (per vincere l’imbarazzo s'avvia) Speriamo che non nevichi ancora.

Clemente                       - (sprezzante) Ma sì!

Enrico                           - (esce a sinistra).

Clemente                       - (lo segue sogguardandolo di sbieco, con disprezzo; poi scuote il capo e sospira).

(Rientra Gianna).

Gianna                          - (con poco garbo) Sua moglie do­mandava di lei.

Clemente                       - L'ho vista, grazie. È uscita adesso.

Gianna                          - (scende nella sala per prendere qual­che oggetto nella credenza) Stamattina si era tanto raccomandata perché preparassi l'acqua calda per lei, e invece lei è uscito subito...

Clemente                       - Oh, se dà retta a mia moglie... (Le si avvicina, galante) Piuttosto, questa nostra padroncina.

Gianna                          - (si volge, un po' brusca) Che cosa?

Clemente                       - E proprio vero che ci diventa... non so... sempre più... (Azzarda con le mani).

Gianna                          - (recisa) Oh, stia fermo. La finisca.

Clemente                       - Dopo tutto... se le faccio un complimento...

Gianna                          - Pensi ai casi suoi, che è meglio...

Clemente                       - (è rimasto male, ma per darsi un contegno cerca di mandar la cosa in ridere) Eh, le donne...!

Gianna                          - Sicuro, le donne! ce n'è di tutti i colori...

(Dal fondo entra Fabio Asteddu).

Fabio                             - (sottobraccio ha una busta di pelle e un giornale) Buon giorno.

Gianna                          - Desidera?

Fabio                             - Sta qui il signor Catullo Goldi?

Gianna                          - Sì, ma è uscito.

Fabio                             - Tarderà?

Gianna                          - Dovrebbe tornare a momenti. È lei l'avvocato Asteddu?

Fabio                             - Sì.

Gianna                          - Ha lasciato detto che deve aspet­tarlo (Esce).

Fabio                             - Va bene (Si siede e apre il giornale).

 Clemente                      - (tanto per dir qualche cosa) Che neve, eh?

Fabio                             - Già. (Pausa) Toh! L'hanno assolto. Chi? Clemente

Fabio                             - Quell'ingegnere che ha ucciso la moglie.

Clemente                       - Ah, sì?! Perbacco. (Un si­lenzio) Io, sa, li leggo poco i giornali... Per me la migliore pagina è l'ultima, dove ci sono le réclames, che promettono tante belle cose... tutti i rimedi...

Fabio                             - (lo guarda e sorride) Già, già..

Clemente                       - Però, io dico... Lei ho sentito che è avvocato, e va bene: loro fanno la causa, mettono le cose come conviene... non c'è niente da dire. Ma io penso: se non si arriva al dramma, non è forse meglio?

Fabio                             - Si capisce che...

Clemente                       - Metta il caso, per esempio dico così per dire, perché si parlava di quel tale - supponga che uno non voglia arrivare a certi estremi. Anzi, facciamo un'ipotesi: ci può essere, io credo, una moglie che non fa mancar niente al marito, dico niente, che lo cura, lo sorveglia, lo assiste con mille atten­zioni... E se al marito tutto questo basta, io non capisco perché non debba bastare anche agli altri, che invece, sissignore, vogliono avere a che farci, per il gusto di vedere che uno si rovini... Non so se ho reso il concetto...

Fabio                             - Oh, sì, sì: è un'opinione come un'altra...

Clemente                       - Dicono: è un caso interessante, è un bel processo. E va bene. Ma interessante per chi? bello per chi? Per l'imputato? Nem­meno per idea. Per lui è così brutto, che peggio non potrebbe essere. Sarà bello per il pubblico, sarà interessante per gli avvocati, per i gior­nalisti, per tutti coloro che quando capita una tegola di quel genere sulla testa d'un povero diavolo, vanno a spassarsela in corte d'assise come andrebbero a teatro o a una partita di calcio. Ma in definitiva, a quel disgraziato che è capitato sotto non fa né caldo né freddo se il caso interessa mezzo mondo. Anzi...

(Dal fondo entra Dina).

Dina                              - (pallida, elegante) Buon giorno. (Si ferma per togliersi la neve dalle scarpe. Sotto­braccio porta un quadro di media grandezza av­volto in giornali e legato con lo spago).

Clemente                       - Buon giorno, signorina. Fabio) Compermesso. (Esce a destra).

Fabio                             - (continua a leggere il giornale).

(Dalla cucina rientra Gianna).

Dina                              - (a Gianna) Lena è già tornata?

Gianna                          - (con sgarberia) Chi lo sa? In cu­cina non s'è vista...

sa, se gliel'ho

Dina                              - (risentita) Scusi, chiesto...

Gianna                          - Se sto in cucina non posso vedere la gente che entra e che esce.

Dina                              - Ma alle persone gentili si può sempre domandare.

Gianna                          - Quando invece di essere la padrona sarò la portinaia.

Dina                              - Per esserlo ci vorrebbero altre ma­niere...

(Dal fondo entra Lena).

Gianna                          - Oh, mi farò insegnare da lei...

Lena                              - (vent'anni, fresca, vivace, spigliata. Nell'entrare canticchia un motivo allegro che tronca sentendo il bisticcio fra Gianna e Dina. Si volge a Dina) Che c'è?

Dina                              - (con le lagrime in gola) Glielo dico io: altre maniere...

Gianna                          - (ironica, andandosene) Eccola, vede? la sua Lena. (Scompare per scendere in cucina).

Lena                              - Cosa t'ha fatto...?

Dina                              - È sempre più villana.

Lena                              - (vuol mandar la cosa in ridere) E tu, sciocca, ci piangi?

Dina                              - Villana e cattiva.

Lena                              - (allegra) Ma va là, non ci badare. Se tu te ne infischi diventa subito gentile, vedrai...

Dina                              - (con voce in cui trema, represso, un pianto rabbioso) Ce l'ha con Carlo e se la prende anche con me. Basta un niente...

Lena                              - E tu canta... (Accenna di nuovo al motivo troncato poco prima) Vedrai che o si fa dolce o scoppia.

Dina                              - Ormai s'è capita: vuole che ce ne andiamo. Ieri, per la questione del conto, ci aveva aggiunto dei supplementi che non c'en­travano, s'è inviperita che pareva indemoniata. Con gli altri non fa mica così. E noi siamo sempre i primi a pagare...

Lena                              - Male.

Dina                              - ... e lo so io con che sacrifizio...

Lena                              - Malissimo. Lasciala smaniare.

Dina                              - E tutto per i begli occhi del si­gnorino prediletto, quell'attorucolo da quattro soldi, che non è capace di fare un passo avanti e per questo vuol dare ad intendere che tutti gli portano iettatura.

Lena                              - Ma no. Cosa vai a pensare, adesso?

Dina                              - È così, è così, te lo dico io. Se no non si spiegherebbe. Quello lì deve averle detto qualche stupidaggine...

Lena                              - Ragione di più, allora, per dargli sotto. Io mi ci divertirei, vedi...

Dina                              - Ah, già, tu lo dici, ma vorrei ve­dere...

Lena                              - (ride) Altroché! Ci vorrei fare tante di quelle risate!... Se qualcuno credesse ch'io gli porto male, gli starei fra i piedi tutt'il giorno... (Con un riso più aperto) Ah! Ah! Ah! Ci sarebbe proprio da star allegri!

Fabio                             - (che si è seduto in disparte a leggere il giornale, alza gli occhi e sorride).

Dina                              - Beata te, che prendi il mondo per questo verso! (Si avvia verso sinistra).

Lena                              - Allora? Sei andata a prendere l'in­grandimento ?

Dina                              - Sì, vuoi vederlo?

Lena                              - È venuto bene?

Dina                              - (mentre toglie la carta nella quale è avvolta la cornice) Molto. Almeno io li trovo somigliantissimi alla fotografia piccola. Guarda.

Lena                              - Ma davvero...! molto bene.

(Dal fondo è rientrata Alda, con dei pacchetti in mano).

Alda                              - (incuriosita) Cosa c'è di bello?

Dina                              - Un ingrandimento. (Mostrandole an­che una piccola fotografia) Guardi: preciso.

Alda                              - I suoi nonni?

Dina                              - No, sono i genitori di Carlo.

Alda                              - (fredda) Ah!

Lena                              - Gli fa una sorpresa...

Alda                              - Lui non sa niente?

Dina                              - No. Ma da tanto tempo lo deside­rava...

Alda                              - La cornice è magnifica. (Esce a destra).

Lena                              - Adesso glielo mettiamo su. Così, quando torna, apre la porta e là, lo vede pro­prio di faccia...

Dina                              - (lieta) Sì, sì, e lo lasciamo andar solo di sopra...

(Dal fondo entra Carlo Frezza).

Fabio                             - (vivamente sorpreso, si alza, accenna un saluto, del quale Carlo non si accorge).

Lena                              - Toh, è lui. Nascondi.

Dina                              - (in fretta, cerca di avvolgere nuova­mente il quadro e di nasconderlo).

Fabio                             - (si rimette a sedere, osservando Carlo con doloroso stupore).

Carlo                             - (poco meno di trent’anni, un pò sciu­pato, elegante quanto può esserlo chi tiene con molta cura un vecchio vestito di buona fattura. Anch' egli reca sottobraccio un quadro più pic­colo di quello portato da Dina; ha una mano fasciata col fazzoletto. Avvicinandosi in fretta a Dina e Lena è tutto illuminato da un sorriso buono, da una gioia quasi infantile) Ah, siete qui? Sapete che finalmente ho potuto averlo?

Dina                              - Che cosa

Carlo                             - L'ingrandimento. Guardate. (Si ac­cinge a mostrarlo).

Lena                              - Anche tu?

Carlo                             - Che cosa?

Dina                              - (mortificata) Potevi dirmelo...

Carlo                             - Perché ?

Lena                              - Eh, sì! Non vedi?

Dina                              - Se lo avessi saputo...

Carlo                             - (vede il quadro che Dina non si preoc­cupa più di nascondere) Come! Anche tu...?!

Lena                              - Sicuro: è per questo...

Dina                              - Era una sorpresa...

(Al bancone è riapparsa Gianna che sfac­cenda).

Carlo                             - (perde la sua letizia in una smorfia dolorosa, e parla smarrito, fra i denti) Ma no... ma no... ma perché ... (Un silenzio).

Lena                              - Eh, be'! pazienza!

Carlo                             - in un tremito che quasi lo fa balbettare) È inutile, no?... è inutile...

Dina                              - Scusa, come potevo sapere, io... (Un si­lenzio) Che colpa ne hai tu? Anzi...

Lena                              - Su, adesso non dovremo mica an­gustiarci per questo...

Gianna                          - (che ha ascoltato, scende di nuovo in cucina cantando a mezza voce con una certa allegria sguaiata).

Dina                              - (fremendo fra i denti) Vipera!

Carlo                             - Cosa c'è?

Lena                              - Non ci badare: è matta.

Dina                              - (a Carlo) Ma perché non mi avevi detto che avevi ordinato l'ingrandimento?

Carlo                             - Eh, è tanto che era fatto! Non te l'ho detto perché aspettavo di poterlo pagare. Se no tu, lo so come sei, saresti andata a riti­rarlo, chi sa con quante privazioni. Così sono stato zitto, e ogni tanto mettevo da parte qual­che cosa; e mi sembrava di essere così con­tento... Stamattina, poi, alla Nuova Kines mi hanno dato un acconto per quella particina che devo fare e allora... (Con emozione più viva) Ma è inutile, ormai si vede che... anche a farmi il bene...

Lena                              - Oh, adesso non c'entra di pensare tanto in là. Ne hai due? Meglio.

Dina                              - Uno lo terrò io nella mia camera.

Carlo                             - (guardando il quadro portato da Dina) Questo è proprio di lusso...

Dina                              - Ma anche il tuo è venuto bene.

Carlo                             - Abbastanza.

Dina                              - (indicando la mano fasciata) E lì cos'hai fatto?

Carlo                             - Qui? niente... È stato nell'antica­mera del fotografo... C'era un cane... un bel cane, alto così... Ho fatto per accarezzarlo... per poco non mi addenta...

Dina                              - (alludendo a Gianna) Come quella là, che guai a farle una gentilezza!

Lena                              - (vedendo Gianna che rientra, vuole evi­tare un nuovo bisticcio) Be', non ci ripen­sare. Andiamo, andiamo di sopra. (Si avviano) Volete sapere che scherzo ho fatto al bellis­simo Zampieri...? (Ridendo) Figuratevi, l'ho costretto a girare per due ore sotto la neve, e poi l'ho piantato lì... (Dicendo le ultime pa­role esce a sinistra con Dina e Carlo. Si sente, poi, la sua lieta risata).

Gianna                          - (riprende le sue faccende, borbot­tando a denti stretti) « Farle una genti­lezza! ». Te le dò io le gentilezze! (Viene avanti e vede Fabio) Ha visto, eh? che gente!

Fabio                             - (che ha ascoltato con interesse le scene precedenti fingendo di leggere il giornale) Ma come!? Carlo Frezza qui? ridotto a quel modo...?!

 Gianna                         - (sogghigna) Eh! eh!, dovrebbe ve­dere la sua biancheria! Roba di gran lusso, sì, ma ridotta che non le dico. I primi tempi si dava le arie. Io, vede, non sono superstiziosa e non penso nemmeno a certe cose, ma qualcuno ci pensa. Per esempio, fra i miei clienti c'è un bravo giovane, un attore che ha delle qualità e che davvero merita: l'avrà sentito nominare: Enrico Scarano.

Fabio                             - Sì, mi pare...

Gianna                          - Ebbene, non gli posso levar dalla testa l'idea che quello lì non gli porti fortuna. (Si sente, da sinistra, un alterco di voci conci­tate; poi si cominciano a capire le parole).

La voce di Enrico         - Imbecille! Non è altro che un imbecille!

Gianna                          - E adesso cosa diavolo succede? (S'accosta all'uscio).

La voce di Carlo           - Se le dico che è stata una disgrazia.

La voce di Enrico         - Con che cosa me lo paga il vestito, lei?

La voce di Carlo           - Abbia pazienza...

La voce di Enrico         - Macché pazienza! Mi si levi dai piedi, faccia il piacere.

La voce di Carlo           - Se non mi lascia spie­gare...

Gianna                          - (parlando verso l'esterno) Cosa c'è?

Enrico                           - (entra, infuriato, con una giacca in mano) C'è che quell'idiota mi ha rovesciato l'inchiostro qui sopra...

Carlo                             - (entrando) Scusi, cosa potevo sapere?

Enrico                           - (violentò) Lei non sa mai niente, perché non capisce niente, ecco che cos'è.

Carlo                             - Ha lasciato la valigia aperta nel cor­ridoio, che è buio...

Gianna                          - Che buio, che buio...!

Enrico                           - (a Gianna) Preparavo la cesta per stasera, e chi va a pensare che c'è sempre un cretino a portata di mano...

Carlo                             - Ma poteva anche avvisarmi, mentre passavo col calamaio...

Enrico                           - Me lo dà lei il vestito per sta­sera, no?

Gianna                          - Se lo dico, io! E queste son mac­chie che non van via...

Carlo                             - Si può provare...

Enrico                           - Le ripeto: faccia il piacere di levarmisi dai piedi.

Carlo                             - (cercando di trovare un accento di e-nergia) E io le dico che invece di star qui a gridare degli insulti, sarebbe meglio tentare...

Enrico                           - Se ne vada, le ho detto. E non mi venga più davanti, perché una volta o l'altra possono anche volare quattro schiaffi. Imbecille!

Dina                              - (precipitandosi in scena con rabbiosa veemenza) Ah, no! eh? No. L'imbecille è lei.

Enrico                           - (con sarcasmo) Bene! Adesso co­mincia l'altra.

Dina                              - Sicuro, perché lei è un prepotente e un presuntuoso...

Enrico                           - Come si permette...

Dina                              - E se non sa le buone maniere...

Enrico                           - Ma insomma...

Dina                              - ... se non le sa gliele insegno io... (Da destra è entrato Clemente).

Clemente                       - (con comica soddisfazione) Bene.

Gianna                          - Toh! mancava lui... (E se ne va con la giacca di Enrico).

Dina                              - (con maggior forza) È ora di finirla, sa... Stia al suo posto, e misuri le parole.

Clemente                       - (approvando) Oh!

Carlo                             - (che è rimasto avvilito, mortificato, in­terviene) Chi sa chi crede di essere!

Enrico                           - (a Dina) Bella figura fa fare a lui, che si lascia difendere da una donna...

Dina                              - Non se ne preoccupi: segno che è mille volte più buono di lei.

Clemente                       - (annuisce fra se) Sicuro.

Gianna                          - (che è tornata senza la giacca) Ra­gazzi, mi pare che sarebbe ora di farla finita.

Enrico                           - Sì, sarà meglio.

Dina                              - (fremendo) Gli schiaffi! Ci provi, ci provi ancora a minacciarli gli schiaffi.

Carlo                             - Lasciamo andare, non vai la pena.

Clemente                       - È quello che dico io.

Gianna                          - Be', insomma, basta.

Enrico                           - (a Gianna) La giacca l'ha presa lei?

Gianna                          - Sì, l'ho data alla donna, che sta cercando di mandar via le macchie.

Enrico                           - Grazie. (Dà in giro un'occhiata di irrisione ed esce a sinistra).

Dina                              - (fra i denti) Vigliacco!

Clemente                       - Ha fatto bene a dirgli il fatto suo... (Su un uscio dì destra si affaccia Alda).

Alda                              - (con una certa autorità) Clemente, vieni qui.

Clemente                       - Che vuoi?

Alda                              - Vieni qui. (Lo lascia passare, esce e richiude).

Gianna                          - (passando vicino a Fabio, sottovoce) Ha visto? eh? Cosa le dicevo...? (Esce).

Fabio                             - (fa un gesto vago per rispondere, e con­tinua a guardare con interesse Carlo).

Carlo                             - (si accascia su una sedia, avvilito) Come si fa a essere così cattivi...

Dina                              - E poi vuol fare la persona distinta!

Carlo                             - (come riprendendo un discorso inter­rotto) Mi dicevi, dunque, che hai visto De Giazzi.

Dina                              - Già. Gli ho detto che hai scritto a Clausi.

Carlo                             - Ah, sì!? E lui?

Dina                              - Dice che hai fatto bene. Mi ha assi­curato che gli parlerà anche lui, perché ormai il film lo mettono su di sicuro. Sembra che c'entri anche la Davelli. Se proprio non arrivassero a farti fare il « Duca di Chamberg » o un'altra parte in parrucca, almeno ti potrebbero dare «il cantastorie ».

Carlo                             - Ma vedrai che alla fine... Basta che scappi fuori un altro.

Dina                              - Se Clausi ti aiuta, puoi essere sicuro...

Carlo                             - E... per te? cosa t'ha detto De Giazzi?

Dina                              - È quasi sicuro che mi daranno « l'orfanella ».

Carlo                             - Se è vero che « il duca » lo vuol fare quello là (indica a sinistra) vedrai che a furia di gomitate ci riesce.

Dina                              - Di Scarano non ne vogliono più sa­pere, sta' sicuro.

Carlo                             - Eppure, anche ieri l'ho visto uscire dalla direzione.

Dina                              - Certo, bisogna far presto: oggi stesso tu vai da Clausi, perché telefoni al commenda­tore...

Fabio                             - (che si era portato presso la finestra, a guardar fuori, si avvicina a loro) Scusino se mi permetto... Parlano di Clausi? il critico?

Dina                              - Sì.

Fabio                             - Non per niente, sa... (a Carlo) ho sentito che lei avrebbe bisogno di vederlo: l'av­verto che Clausi oggi alle tre parte per Parigi.

Carlo                             - Ah, sì!? (A Dina) Lo vedi? Anche questa, adesso...

Dina                              - (a Fabio) Grazie. (A Carlo) Ancora faresti in tempo, prima di mezzogiorno.

Carlo                             - Ma se parte, chi sa quanto avrà da fare.

Dina                              - Eh! per un minuto, cosa vuoi che sia!? Vai, corri. Gli fai dire che t'ha mandato De Giazzi.

Carlo                             - Sì, sì, proverò. (Esce a sinistra).

Dina                              - Mah! Speriamo. (Come fra sé, a fior di labbra, giungendo le mani) Dio mio, almeno questa volta riuscisse. (A Fabio) Crede che lo troverà?

Fabio                             - Perché no? Se è in casa...

Dina                              - Cosa vuole: ormai non sa più azzar­dare; s'è buttato giù...

(Dal fondo entra Catullo Goldi).

Catullo                          - (sulla cinquantina; miope, molto calvo, barbetta a punta, afflitto da un tic ner­voso; entrando, canticchia): «Viva il vino spu­meggiante...» Buon dì, signorina.

Dina                              - Buon giorno, signor Goldi.

Catullo                          - Sa che l'abbiamo fatto uscire con la condizionale quel furfante?

Dina                              - Ah, sì!?

Catullo                          - Tutto considerato è andata bene: tre furti e una truffa.

Fabio                             - (che, appena sentito il nome, ha cer­cato di avvicinarsi a Catulllo) Permette?... Sono l'avvocato Asteddu.

Catullo                          - (gli dà la mano) Ah, bene! Pia­cere. L'aspettavo ieri. Così almeno m'aveva scritto suo zio.

Fabio                             - Già, ma ieri...

Catullo                          - (subito) Non importa. Ci sbrighe­remo subito. Bene bene. S'accomodi. (A Dina) Lo dico sempre, io, che gli avvocati sono la miglior gente del mondo?

Fabio                             - Qualche volta, in Pretura.

Catullo                          - È lo stesso. Come faccio a dire al mio cliente, in un processo d'impegno, che si metta nelle mani di uno che comincia adesso? Con questo non dico mica che lei non sia all'al­tezza... Ma sa, il cliente certe cose non le può intendere, ed è inutile andare a dirgli che un giovane studia di più e si prepara bene. Ora io non dico, vede, di darle quest'altra robetta andante che ho qui in nota: « ingiurie, eccesso di velocità, contravvenzione alla vigilanza, mal­trattamento di animali» e via dicendo. No, non dico questo. Ma in una causa destinata a far chiasso bisognerebbe, per lo meno, che lei fosse affiancato. Mi spiego?

Fabio                             - Per me, non ho niente in contrario.

Catullo                          - Ma è che costa, capisce? Costa. E il cliente non vorrà saperne.

Fabio                             - Vede, signor Goldi... diciamolo francamente, io non ho molto da spendere...

Catullo                          - (alzando il tono) Per carità, per carità, non mettiamoci in quest'ordine di idee. Guai sottilizzare, quando si incomincia. Dico bene? Guardi qui. (Indica il taccuino) Ho un tenore, che, per poter debuttare, offre una cifra all'impresa... Ora, io non dico, intendiamoci, che lei, caro avvocato, debba rovinarsi. Ma le conviene, dia retta a me, le conviene fare un sacrificio. Il modo non manca mai. Quel che non c'è si trova: basta volerlo. Si lasci guidare da me. Ho servito più avvocati io, che non si sa! Ma alla fine lascio la scelta a lei. Ci pensi, e poi mi sappia dire.

Fabio                             - Se intanto si sapesse la cifra...

Catullo                          - Eh, adesso, su due piedi... Ma credo che il ristretto possa esser questo, (mostra il taccuino) come il tenore.

Fabio                             - (stupito) Noo!

Catullo                          - Eh, caro signore, non dipende mica da me! Se no, ripeto, lei può scegliere un articolo più alla mano, più ordinario...

(Dal fondo entra Carlo).

Carlo                             - (è un po' stravolto, ansante, ma cerca di dissimulare: s'avvia in fretta a sinistra).

Catullo                          - Oé, che hai fatto?

Carlo                             - Niente, niente. (Esce a sinistra).

Catullo                          - (a Fabio) Ci penserà, no? Dico bene?

Fabio                             - Cosa vuol che ci pensi? È impos­sibile.

Catullo                          - (ha seguito Carlo con lo sguardo fin

Dina                              - È vero,

Catullo                          - Tutto considerato, vedono la vita meglio degli altri. Dico male?

(Da sinistra entra Carlo, col cappotto).

Carlo                             - Buon giorno. (Si dirige in fretta verso il fondo, infilandosi i guanti).

Catullo                          - Oh, ciao, Charlot.

Dina                              - Sappi insistere, hai capito?

Carlo                             - Sì, sì (Esce).

Catullo                          - (ha scosso il capo in atto di com­miserazione verso Carlo).

Dina                              - Compermesso. (Esce a sinistra).

Catullo :                          - Sono a sua completa disposizione. La posso servire come vuole. Civile o penale?

Fabio                             - Un po' di tutto.

Catullo                          - Si capisce. Bravo. Lei non ha la fìsima di specializzarsi subito. (Estrae un tac­cuino d'appunti) Segno di giudizio pratico. Quantunque suo zio mi abbia avvertito che lei... sì, insomma, pensa sempre a scriver commedie...

Fabio                             - (sorride amaro) Nello studio non viene mai nessuno...

Catullo                          - Oddio, non guasta mica. Per quanto, se nessuno si decide a rappresentar­gliele... Dico bene? Dunque; ecco qua: c'è tutti i generi che vuole. (Consulta il taccuino, col naso quasi sulle pagine) Vediamo, vediamo. «Furto con scasso». Non le conviene. Guai esordire con un furto. Dunque, dunque... (Legge con monotonia) « Appartamento mobi­liato ». Le occorre un quartierino? Una garqonniere? Ci può portare chi vuole, sa...?

Fabio                             - (declinando l’offerta) Per adesso...

Catullo                          - No? Benissimo. Andiamo pure avanti. «Rapina». Peggio: il furto violento non ha mai le attenuanti. « Automobile usata... prezzo d'occasione». No, vero? «Un Donatello quasi autentico». Lasciamo andare. (Continua a voltar pagine) «Lesioni con arma». Ecco: questa è roba più fine. C'è di mezzo un cava­liere. Potrebbe andare, no?

Fabio                             - Se lei crede...

Catullo                          - Il delitto di lesioni è sempre un bel delitto. Per lo più è dovuto a provocazione o a legittima difesa. Allora ci fermiamo qui? (Indica la pagina del taccuino).

Fabio                             - Mi rimetto a lei...

Catullo                          - Ma se vuole c'è dell'altro. Ve­diamo un po'. (Riprende a scorrere le pafine) «Una scimmia ammaestrata». Venduta. Ih, vede? non butto via niente: tutto serve. Io dico che al mondo sono utili anche le mo­sche, perché ci obbligano a far pulizia.

Fabio                             - (sorride) Certo, per esser pratici...

Catullo                          - Sicuro. (Rimette il naso sul tac­cuino) Se poi vuole un genere di lusso, ho un adulterio indiziario, del quale si occuperà anche la stampa.

Fabio                             - Sarebbe quello che ci vuole.

Catullo                          - Però, però... non so se un esor­diente... Lei non ha mai difeso, vero?

 quando non è scomparso, e ha un sorriso di com­miserazione; poi si volge a Fabio) Quello lì, vede, è uno dei pochi che non han voluto darmi retta. Doveva cambiar mestiere. E invece così è andato a terra, e ormai è inutile che faccia: non si rialza. Gli han mangiato anche la ca­micia, a voler fare di testa sua. L'arte? Eh, l'arte sarà una gran bella cosa, sissignore! Ma poi, tutto considerato, bisogna saper vendere quello che si fa. Sapesse, lei, quant'arte c'è anche dentro questo libriccino. Qui dentro c'è chi soffre, chi spera, chi si nasconde, chi vince, chi perde... (Diverso, scuotendo il capo con ironica commiserazione) Frezza! Poveraccio! Quello lì, vede, lei che scrive, parola d'onore non saprebbe che farne...

Fabio                             - Invece, credo che il suo caso sia inte­ressantissimo...

Catullo                          - Come carattere?

Fabio                             - Come tutto. Col suo passato... ri­dotto a una condizione simile...

Catullo                          - Carattere un personaggio senza vita?

Fabio                             - Oh, ce n'è tanta della vita anche in lui.

Catullo                          - Sarà. Per me è come niente,

Fabio                             - Proprio perché è ridotto come niente. Dopo aver goduto una celebrità im­mensa prima dei vent'anni, mi pare che adesso debba odiare quella figura di ragazzo, che tutti gli rinfacciano...

Catullo                          - (come per troncare) Be', questo, per adesso, non interessa. Dunque, tornando a noi...

(Da sinistra entra Dina seguita da Carlo).

Dina                              - Perdonino... È capitata una cosa...

Catullo                          - Che diavolo c'è?

Carlo                             - Ma no...

Dina                              - Un fatto strano. Niente di grave. Ma già che abbiamo la fortuna che qui c'è un avvocato... se permette...

Fabio                             - Dica, dica...

Dina                              - Anche lei, signor Goldi, forse ci può aiutare...

Catullo                          - Perbacco. Volentieri.

Fabio                             - Sentiamo.

Carlo                             - Solamente per un consiglio, sa... Ha visto? ero andato per parlare con Clausi...

Catullo                          - Ah, il critico...

Carlo                             - Sì. Ma... non mi ha nemmeno rice­vuto...

Fabio                             - Ah, no!? E perché ?

Carlo                             - Non so... S'è messo a urlare. Ha detto che la mia lettera è uguale a tante altre che riceve tutt'i giorni, e che luì non ha tempo da perdere. Insomma non mi ha fatto entrare. E allora me ne son venuto via così... sconfor­tato, così turbato...! Per la strada ripensavo a tutte quelle brutte cose che avevo sentito... Poi... non so... mi son fermato di fronte a una vetrina. Dentro c'era qualcuno che litigava. Allora molte persone si sono radunate per sen­tire e vedere come se fosse uno spettacolo... Sicché a un certo momento mi son trovato che a furia di gomitate e di spinte m'avevano ri­mandato in mezzo alla strada... con tutta la gente davanti... In quel momento vedo per terra, fra la neve, una collana di perle. Non pensavo nemmeno che potesse essere di valore: oggi le portano tutte. Così ma la misi in tasca. Poi, invece, mi venne in mente che si trattasse d'una collana vera... e pensai che, portandola in municipio, avrei potuto avere un compenso. Così volli osservarla meglio. Mentre la soppe­savo, sento dietro di me una voce minacciosa: «Eccolo là». E vedo tre o quattro giovanotti, con una guardia e una signora, che si slancia­vano contro di me. Lì per lì arretrai un po' per sfuggirli, e intanto cercavo di far capire come stavano le cose. Ma quelli non potevano sentire perché urlavano, mentre la signora li incitava strepitando che gliel'avevo strappata di dosso. Tutto questo avveniva in pochi secondi, mentre la gente aumentava, arrestando la circolazione. E poi... e poi non so come può esser successo... Se dovessi spiegare, vedono? adesso non ci riu­scirei... So che tutti mi si scagliarono addosso, e che io, per paura d'esser colpito, mi diedi a correre. Sentii alle spalle tutta quella folla che ingrossava: «È un ladro! È un ladro! Pren­detelo! ». (Amaro) Nessuno, fra tutta quella gente... nessuno che mi riconoscesse o dicesse il mio nome... Svoltai sotto un portico... Te­mevo di scivolare e che tutti mi cadessero ad­dosso. Allora... non so perché , non lo so... presi la collana... la spezzai... e tutti i grani sfilarono via, si sparpagliarono sotto il portico, rimbalzarono da per tutto. Subito sentii un gran urlo più forte e vidi un groviglio di forsennati per terra, che si colpivano, si rivoltavano, im­precavano... Così potei scappare... salvarmi...

Catullo                          - (perplesso) Salvarsi, poi...!

Dina                              - Perché ...? lei non crede...?

Fabio                             - Il brutto è che la collana sarà spa­rita.

Catullo                          - Appunto: bisogna vedere quanti galantuomini c'erano fra quelli che gridavano « al ladro ».

Carlo                             - (a Fabio) Che ne dice? cosa mi con­siglia?

Fabio                             - (che l'ha sempre osservato con fissa attenzione) È un fatto così strano, così...

Dina                              - Io non capisco. Se si vuol compli­care è un conto...

Catullo                          - Ecco: complicare. Appena un fatto entro nell'ingranaggio delle indagini, è allora che si complica.

Carlo                             - Anche se non ho commesso niente di male?

Catullo                          - Il male è di essere fuggito, ecco.

Fabio                             - (a Carlo) Ma lei, vero? non ha avuto la prontezza per spiegare...

Carlo                             - Non so... non potrei ricostruire... Ho seguito un impulso...

Catullo                          - Eh, si capisce...! Questione di ca­rattere. (A Fabio allusivo) Se lei ce lo vede...

Fabio                             - Sempre più chiaro e interessante.

Catullo                          - Beato lei.

Dina                              - (con apprensione, perché non capisce) Che cosa?

Catullo                          - (evasivo) Niente, niente. Era un discorso fra noi. (A Fabio, come per richia­marlo alla sua funzione) Adesso pensi qui.

Carlo                             - Già: mi dica lei, avvocato, quel che devo fare...

Fabio                             - Certo, è un pasticcio un po' com­plicato.

Dina                              - Sicché lei teme...

Catullo                          - (interviene, facendo intendere a Fa­bio che non deve spaventare il cliente) Ma no, è un affare che l'accomodiamo...

Fabio                             - Non vorrei che, da tutte le circo­stanze, cominciassero con un'ipotesi di rapina...

Catullo                          - Il 628? Ma no, non credo. Se mai il 625 numero 4: furto aggravato, con de­strezza...

Carlo                             - Ma perché furto, se io non ho ru­bato?

Catullo                          - Si dice così per prospettare l'ipo­tesi dell'accusa. Ma dopo, al processo, tutto si chiarisce, e l'imputazione può cadere...

Dina                              - Insomma, faranno il processo!?

Catullo                          - E chi lo sa...? Bisogna vedere che prove ci sono, come emergeranno le circo­stanze specifiche...

Carlo                             - (con rabbia accorata) Ma perché? perché devo sempre essere io? Io la folla non la conoscevo mica così...

Fabio                             - Andiamo, via, non bisogna perdersi d'animo...

Dina                              - (a Fabio) Ma lei crede che l'arre­steranno ?

Fabio                             - Chi lo sa!?

Catullo                          - Fin che dura la flagranza, sicuro che lo possono arrestare. Anzi, io direi di fare una cosa: potrebbe darsi che, se qualcuno l'ha riconosciuto, venissero a cercarlo. È bene che non si faccia trovare.

Carlo                             - Già; poi diranno che sono scappato.

Catullo                          - Ma anche prima sei scappato. Adesso, invece, potremo dire che sei fuori per una commissione. (A Fabio) Avvocato, vuol dare l'indirizzo del suo studio?

Fabio                             - (estrae un biglietto di visita) Ecco.

Catullo                          - (prende il biglietto e lo porge a Carlo) Benissimo. Tieni. Fra un'ora trovati davanti allo studio.

(Da sinistra giunge l'allegro canto di Lena che gorgheggia una canzonetta).

Dina                              - Deve andarsene così, senza man­giare?

Catullo                          - Santo Dio, ma queste son scioc­chezze! Può prendere un panino, andiamo...

Dina                              - (a Carlo) To', prendi un po' di questo... (Gli porge un pezzo di pane).

Carlo                             - Ma no...

Dina                              - Sì; poi ti raggiungo...

Fabio                             - (che continua a osservare Carlo con molto interesse) Ha da dirmi qualcos'altro?

Carlo                             - (da una tasca del cappotto dove mette il pane, estrae una perla) È meglio che la restituisca lei.

Fabio                             - Una perla?

Carlo                             - Mi è rimasta qui, non so come... Arrivederla... (S'avvia).

Catullo                          - Ciao.

Fabio                             - Arrivederci. (Lo guarda andar via, poi osserva la perla) rigirandola fra le dita).

Dina                              - (accompagna Carlo verso il fondo) Non perdere quel biglietto... e non prendere freddo; poi, vedremo...

Carlo                             - (esce).

Catullo                          - (a Fabio) Avrebbe mai creduto di trovar subito una causa?

Fabio                             - È una povera figura molto interes­sante. Ha sentito? La folla che una volta lo portava in trionfo...

Catullo                          - Sì, ma adesso pensi a difenderlo bene.-

Dina                              - (dopo aver accompagnato Carlo è an­data vicino alla finestra a guardar fuori; subito ha un moto di sgomento) Ma cosa gli fanno? cosa gli fanno?

Fabio                             - Che c'è, adesso?

Dina                              - (correndo via verso il fondo) Lo por­tano via!... Lo portano via! (E scompare).

Catullo                          - Lo dicevo, io: s'è fatto pescare.

 

Fine del primo atto

PRIMO QUADRO

Il botteghino d'un teatro: nella parete paral­lela alla ribalta gli sportelli dei biglietti con le scritte: « Poltrone e Palchi »; « Poltroncine e numerali ».

Fra gli sportelli il manifesto della recita: « Un uomo da niente » di Fabio Asteddu, data dalla compagnia Giraldi. Di fianco agli spor­telli striscioni e fotografie di attori e di scene. Entrata a destra. Un uscio a sinistra. Pri­mavera inoltrata. Un orologio a muro segna le sei.

Allo sportello delle poltrone si vede un Im­piegato che sta facendo dei conti e borbotta dei numeri, mentre si fa fresco con un ven­taglio. Da destra entra Fabio Asteddu ele­gantissimo.

Fabio                             - (si appressa allo sportello) Buon giorno, Rèpaci.

L'Impiegato                  - Oh, signor Asteddu...

Fabio                             - Be'? Come andiamo? (Guarda la pianta).

L'Impiegato                  - Lo domanda? Quasi esaurito. Già abbiamo fatto più di ieri, e ancora...

Fabio                             - Perbacco! E sì che il caldo non scherza.

L'Impiegato                  - Ma cosa dicevo io?

Fabio                             - Meglio così. (Diverso) Giraldi è venuto ?

L'Impiegato                  - Sì, l'aspetta nel suo came­rino.

Fabio                             - Se mai, non ci sono per nessuno.

L'Impiegato                  - Va bene. Tanti rispetti.

Fabio                             - Addio, Rèpaci. (Esce per la porti­cina di sinistra).

L'Impiegato                  - (si rimette a tirar giù le somme).

(Da destra entra Carlo Frezza).

Carlo                             - (sciupato, triste, un po' dimesso mal­grado il decoro che cerca di conservare nel ve­stire; dà un'occhiata all'orologio e si sofferma a leggere i manifesti e a guardare le fotografie, tormentandosi le mani dietro la schiena. Poi si volge all'impiegato) Scusi, il signor Asteddu...

L'Impiegato                  - (non lo lascia finire) Non c'è.

Carlo                             - L'ho visto entrare...

L'Impiegato                  - È uscito.

(Entra un Signore).

Un Signore                    - (tipo a piacere, molto caratteriz­zato, con fasci di giornali nelle tasche; va allo sportello) Ci sono ancora delle poltroncine?

L'Impiegato                  - Questa sola, ultima fila.

Un Signore                    - (indicando sulla pianta) Me la dia (Paga, ritira il biglietto, saluta con un cenno, si avvia; vedendo Carlo lo squadra di sotto in su, con gli occhi al di sopra degli oc­chiali, si ferma, estrae la pipa dalla tasca) Scusi, avrebbe un cerino?

Carlo                             - No.

Un Signore                    - (accennando alla fotografia che Carlo stava considerando) Ah, il finale del secondo atto! Magnifico. Ma l'ha sentito, lei, fatto da Scarano?

Carlo                             - (evasivo) Non...

Un Signore                    - Stupendo. Cerchi di sentirlo. Per me non l'arriva nessuno: né Morelli, né De Vita, nessuno. Son curioso di sentire questa compagnia.

Carlo                             - (cerca di allontanarsi).

Un Signore                    - (lo ferma, accennando a un'altra fotografia) Ecco, vede? Per esempio quella truccatura lì mi sembra un po' sbagliata. Il pro­tagonista, come Asteddu l'ha concepito, non ha bisogno di apparire così dimesso; anzi... Ne conviene? Il fanciullo prodigioso che diventa l'uomo qualunque, può conservare benissimo tutte le eleganze e i modi della sua effimera celebrità. Ne conviene? Il suo dramma non è nelle apparenza, ma è il grande dramma di un escluso, di un relegato. Ne conviene?

Carlo                             - (si volge dall'altra parte, per nascon­dere un moto di amarezza) Che ore sono?

Un Signore                    - (con una punta d'ironia) Chi lo sa... Sicuro: escluso e relegato fin che si vuole, ma uomo. (Diverso) Capisco: lei, forse, non conosce il lavoro. Ci vada, ci vada. È una cosa grande, veramente umana. Sentirà. (Poi­ché non ottiene risposta, andandosene, con una leggera punta d'ironia) Certo non è roba fatta per coloro che preferiscono gli spettacoli spor­tivi e il varietà. (E, sdegnoso, fa per uscire; ma s'arresta incontrandosi con Elsa che entra) Oh, signorina, anche lei? Brava, brava.

Elsa                               - (venticinque annui, elegante, carina, un po' frivola) Buon giorno. Non ha visto Zanzi?

Un Signore                    - No.

Elsa                               - Dobbiamo trovarci qui per prendere i posti.

Un Signore                    - Sicuro: le persone intelligenti (e sbircia Carlo con un'occhiataccia) non si stancano di veder le cose belle. Ne conviene?

Elsa                               - A proposito: sa cos'ho ripescato? (Dalla borsetta estrae una cartolina illustrata) Un autografo suo.

Un Signore                    - (guarda la cartolina con inte­resse) Ah, di Frezza?

Elsa                               - Avevo in mente d'averlo conservato, e infatti...

Un Signore                    - (leggendo) Otto anni fa? È un cimelio.

Elsa                               - Mi pare ieri. Ero a Pesaro ai bagni... Un giorno, alla stazione, aspettavamo non so chi, appena il treno si ferma vediamo un bel ragazzo al finestrino. Subito lo riconoscono: è Frezza, è Carlo Frezza! Si figuri io! Eravamo invasate. Un salto all'edicola, afferro questa cartolina e gliela faccio firmare, correndo dietro il treno che già si muoveva.

Un Signore                    - E chi sa che, nascosta nello scompartimento, non ci fosse la sua bella du­chessa spagnola. (Indicando fuori) Oh, guarda... Vede quella signora davanti alla gioielleria? Elsa           - Chi è?

Un Signore                    - La famosa De Alma, moglie di quel pittore che l'anno scorso sparò contro lei e il suo amante, mentre passavano in car­rozza.

Carlo                             - (che è rimasto in disparte quasi na­scondendosi, si volge a guardar fuori ed esce in fretta).

Elsa                               - Sì, sì, ricordo. L'amante era un vio­linista...

Un Signore                    - ...che la consolava dell'abban­dono di Scarano. Alloggiavano nella stessa pen­sione, dov'era anche Frezza.

Elsa                               - Ma il pittore non colpì nessuno, mi pare.

Un Signore                    - Li salvò lo scarto del cavallo e forse anche l'emozione dello sparatore, che tirò all'impazzata. (Entra Zanzi).

Zanzi                             - (elegantissimo; ora si dà un'aria di im­portanza che rasenta il sussiego) Eccomi qua. (Al signore) Buon giorno, professore.

Un Signore                    - Riverisco.

Zanzi                             - (a Elsa) È molto che aspetti?

Elsa                               - No. Si parlava della De Alma, che è là fuori.

 Zanzi                            - (guarda) Ah, già.

Elsa                               - A vederla così non si direbbe che possa esser stata l'eroina di un processo pas­sionale.

Zanzi                             - Capirai: un po' gli avvocati, un po' i giornali, tutto s'ingrandisce.

Un Signore                    - E il marito dove diavolo è andato a finire?

Zanzi                             - Finire?! La clamorosa assoluzione lo ha tirato su, tanto che adesso vende bene i suoi quadri e lavora per non so quante riviste.

Elsa                               - (indicando fuori) E quello è il vio­linista ?

Zanzi                             - Macche. È quel Carlo Frezza.

Elsa                               - Noo!

Zanzi                             - Come « no »! ?

Un Signore                    - Scherzerà!

Elsa                               - (delusa) Quello lì!? Lui!?!

Un Signore                    - Incredibile!

Zanzi                             - Si vede che due anni di prigione l'hanno messo a nudo.

Un Signore                    - Ah, certamente! (A Elsa) Si­gnorina... (A Zanzi) I miei omaggi.

Elsa e Zanzi                  - Arrivederla. Buon giorno.

Un Signore                    - (se ne va scuotendo il capo) Incredibile! (Esce).

Elsa                               - (frattanto, quasi involontariamente, lentamente, ha piegato in quattro la cartolina; poi la lascerà cadere tutta sgualcita).

Zanzi                             - (va a guardar la pianta del teatro) Come, non c'è più niente in platea?

L'Impiegato                  - C'è rimasto solo un palco: il tre second'ordine.

Zanzi                             - (a Elsa) Lo vedi? Che si fa?

Elsa                               - Prendiamo quello che c'è, si capisce.

Zanzi                             - Io direi, invece...

Elsa                               - No, no, non ricominciare con le scuse.

Zanzi                             - (sorride) Sei una bell'ostinata, però. Che gusto ci trovi, andare a piangere...

Elsa                               - Oh, se è per questo, anche tu vuoi fare il forte, ma quando sei lì...

Zanzi                             - Appunto. E poi un lavoro che ab­biamo visto e rivisto...

Elsa                               - Segno che non annoia. (All'Impie­gato) Il palco.

Zanzi                             - E va bene. Quanto?

Impiegato                      - Centoventi.

Zanzi                             - Ecco: ho un assegno. (Firma e at­tende il resto).

Elsa                               - Vedi, quand'eri giornalista questa spesa non l'avevi.

Zanzi                             - (galante) Ma non avevo nemmeno te.

(Intanto Carlo è rientrato con Alda).

Carlo                             - Aspettavo il Comm. Visucci. Mi ha dato appuntamento qui.

Alda                              - Visucci? L'ho visto pochi minuti fa per il Corso. Oh, Zanzi! Come va?

Zanzi                             - Signora... (Le bacia la mano) È molto che non la vedo.

Carlo                             - Buon giorno.

Zanzi                             - Buon dì, Frezza. (A Alda) Cosa fa di bello?

Alda                              - Passavo... Frezza mi ha raggiunto e... siamo vecchi amici...

Elsa                               - (frattanto si è scostata, noncurante di Carlo, sogguardando Alda).

Zanzi                             - (all'impiegato, ritirando il resto) Grazie. (A Carlo) E lei? Niente di nuovo? (Campanello interno: l'impiegato se ne va).

Carlo                             - Sto sempre cercando di rimettermi a far qualcosa.

Zanzi                             - Bene.

Carlo                             - Intanto ho potuto avere, dalla So­cietà Libraria, l'incarico di vendere a domicilio la collezione dei libri azzurri. Anzi... mi son permesso di lasciare un avviso anche a casa sua...

Zanzi                             - Ah, si?! Dev'essermi sfuggito.

Carlo                             - È una raccolta di dodici volumi; costa solo sessantatrè lire, compreso lo scaffaletto.

Zanzi                             - Mah! Tutta questa carta stampata non si sa più dove cacciarla.

Carlo                             - Allora glieli mando?

Zanzi                             - No, no: tanto non avrei tempo di leggerli. (A Alda) Signora...

Alda                              - Arrivederla, Zanzi. (Indicando verso l'esterno) È sua quella magnifica macchina?

Zanzi                             - Si, sì. (A Carlo) Addio, eh? (A Elsa) Andiamo. (La prende sottobraccio ed escono insieme).

Carlo                             - (ha risposto con una smorfia amara) Eh, già! Si capisce! Pensare che una volta ci teneva a farmi l'amico. Mi ha persino intervi­stato fingendosi cameriere.

Alda                              - (tanto per dir qualcosa) Cosa vuol mai...? (Diversa) Dunque? c'è qualche bel pro­getto in vista col Comm. Visucci?

Carlo                             - Progetto, no... Gli ho chiesto di aprirmi una strada...

Alda                              - Se vuole, può farlo, e come...! Dopo il dissesto dell'altr'anno ha rimesso le mani in pasta da per tutto...

Carlo                             - Perché gli è andata bene con queste tournées...

Alda                              - Così ha fatto anche la fortuna di Asteddu. (Diversa) Be', mi dica...? E la sua Dina?

Carlo                             - (con amaro sarcasmo) Mia...!? Non ne so più niente...

Alda                              - Ma davvero!?

Carlo                             - Non bisogna andare in galera, ecco perché ... (S'arresta, cupo) E poi... (Un gesto vago).

Alda                              - Cosa mi dice...!

Carlo                             - E poi niente. Ha fatto la sua strada, lei...

Alda                              - Sapevo che s'è messa a recitare e che fa benino...

Carlo                             - (buio) Già. Ma non è per questo... Anzi... Invece è stato che quando ancora aspet­tavo l'appello sono arrivato a sapere che si la­sciava proteggere da Scarano. Già: proprio da lui che... Così non le ho voluto più scrivere; lei non ha più chiesto il colloquio... E anche questa è andata. (Diverso, come per troncare) E a lei come va la vita?

Alda                              - Non mi domandi niente. Più disgra­ziata di me... cosa vuole...? (Diversa) È vero che vi siete ritrovati insieme?

Carlo                             - Con De Alma? Altroché! Siamo stati due mesi anche vicini di branda. Poi lui fu liberato e... qualche volta mi ha scritto...

Alda                              - (con calore) Cosa le diceva di me? Ne parlava mai?

Carlo                             - Sì, era contento che la disgrazia non fosse successa. Così - diceva - se mi salvo io, saremo salvi tutti.

Alda                              - E poi...? Ne parlava con rancore di me?

Carlo                             - No: tutt'altro. Anzi, diceva che lei era l'unica della quale fosse stato davvero in­namorato e per questo, quel giorno, aveva per­duto la testa...

Alda                              - (con tristezza) Eh, sì...! Se tante cose si potessero prevedere...!

L'Impiegato dei Biglietti        - (riappare allo sportello, e si sporge per chiamar Frezza) Scusi, è lei il signor Frezza?

Carlo                             - Sì.

L'Impiegato                  - Ha fatto telefonare ora il Comm. Visucci per incaricarmi di dirle che da stamane egli si trova fuori di Torino per af­fari, e che non tornerà né oggi, né domani...

Carlo                             - (quasi fra se) Fuori da stamane!?

L'Impiegato                  - Già.

Carlo                             - E non ha fatto dire se potrò vederlo un altro giorno?

L'Impiegato                  - No; questo solo.

Carlo                             - Grazie.

L'Impiegato                  - Prego. (Si ritira, mette fuori il cartello: « Esaurito », chiude gli sportelli).

Carlo                             - (con amara tristezza, a Alda) E lei l'ha visto in giro, vero?

Alda                              - Mi ha detto che andava a far due passi.

Carlo                             - Allora... (Scuote il capo, avviandosi per uscire). Lo vede? Tutti così. Non c'è nien­te da fare. Niente. È peggio della condanna che m'avevano dato...

Alda                              - Andiamo... Che dice?

Carlo                             - (con accorata crescente concitazione) Peggio! Peggio! Là, almeno, dopo due anni si son decisi a riconoscere che ero innocente... Ma adesso! Non vede che si divertono a con­dannarmi per sempre?...

Alda                              - Non lo pensi nemmeno, via.

Carlo                             - Ma sì, ma sì. Lo devo capire per forza. (Con un gesto verso le fotografìe) Ah!...

Alda                              - (subito) Frezza!

Carlo                             - Ha ragione. È che di me se la ri­dono, se ne infischiano, mentre... con quello lì si commuovono e s'ingrassano... L'arte? Ma sì, la rispetto fin che vuole. Ma almeno non mi prendessero anche in giro... È questione di vi­vere...! Il gran Visucci!? Figuratevi! S'è ri­fatto, s'è rimpolpato, è ridiventato il padre­terno degli impresari, ha la macchina fuori della porta come Asteddu, del resto, come tanti - la commedia è imbroccata, va sempre più, gira il mondo: cosa gliene importa, a lui, di tutto il resto? Anche l'altro ieri m'ha fatto fare due ore d'anticamera e poi non s'è degnato di ricevermi. Sa cosa facevano? Eran tre o quat­tro che contrattavano per il film. Già: perché adesso ne fanno anche un soggetto per il ci­nema. Tiravano sul prezzo, barattavano impe­gni, scrivevano nella carta bollata. E io... Non le dico... A un certo punto gli occhi mi son ca­duti su una scarpa sdrucita... Non so perché quel taglio mi s'è ingrandito... Ho avuto una vampata... Pazzo, pazzo... le dico che ero paz­zo, dunque... perché se no non poteva venirmi la tentazione d'urlare che il soggetto potevo venderlo io; sissignori, io, per tanto... Ma for­tuna che subito il senso del ridicolo... ecco, pro­prio del ridicolo, che... (Dalla porticina di si­nistra è rientrato Fabio Asteddu).

Fabio                             - Toh! Chi rivedo insieme! Come sta, signora De Alma? (A Carlo) Carissimo (Stringe la mano a entrambi).

Alda                              - Non c'è male. E lei, signor... come devo chiamarlo, adesso, maestro?

Fabio                             - Per carità! mi vuol giubilare? (A Carlo) Come vanno i libri?

Carlo                             - Non ne parliamo(Un silenzio).

Fabio                             - (guarda l'una e l’altro) Cos'è suc­cesso?

Carlo                             - Niente.

Alda                              - Mi diceva di Visucci, che non ha riguardo...

Carlo                             - Per carità! Riguardo?! Basterebbe un po' d'educazione. Lui come gli altri.

Fabio                             - Mi dispiace che lei...

Carlo                             - (subito) Oh, non pretendo mica niente. Ma mi dicano tutti un bel « no » da principio, invece di traccheggiare con tanti irre e orre. Almeno lo saprei, e sarebbe finita. In fin dei conti, non son mica lo zimbello di nes­suno.

Fabio                             - (subito adombrato) Zimbello?! Co­me sarebbe a dire?

Carlo                             - (deciso) Ma anche lei lo sa benis­simo...

Fabio                             - Io?! E in che modo avrei...

Carlo                             - Oh, per questo... non è ch'io scor­di tutto quanto lei ha fatto per me...

Fabio                             - Che c'entra...!

Carlo                             - Non lo scordo, anche se i suoi sforzi per salvarmi dalla galera sono stati quasi inu­tili. Ma crede che non lo capissi? La mia situa­zione... tante cose contro di me... Lo so: tutto quello che c'era da fare tentare allora lei lo ha tentato... Andava più in là, più in là... Io ero qualcuno, per lei... e non mi dispiaceva, vede? di sentire che lei non fosse solamente il mio di­fensore...

Fabio                             - Cosa va a ripescare, adesso...

Carlo                             - ... ma che era anche la persona che mi capiva di più, ecco, che mi cercava... E que­sto, non lo nascondo, mi faceva bene. Lei ve­niva spesso a trovarmi e, si ricorda? io le rac­contavo tutto di me, tutto... Quand'uno si trova in quelle condizioni, si capisce che non va a pen­sare tanto in là. Ed io non pensavo che un gior­no avrei dovuto patirne, perché ormai, è inu­tile nasconderlo, con quello che s'è risaputo son diventato ridicolo al punto che nessuno...

Fabio                             - Risaputo?! Ma se son fandonie.

Carlo                             - (negando) Fandonie, sì...!

Fabio                             - Proprio sì. Non confondiamo: l'arte è una cosa, la vita è un'altra. Tutt'al più la vita può offrire degli spunti, che l'artista, lo intenda bene...

Carlo                             - No: io direi che la vita si esprime meglio con l'arte...

Fabio                             - Ma non vorrà, spero, cianciare an­che lei, proprio lei, di situazioni copiate, o d'al­tro... come se io avessi, non so, plagiato uno come lei... Questo sì che è ridicolo...

Carlo                             - Non parlo dei fatti che lei ha messo nel lavoro... veri, o trasformati, o inventati, non importa...

Fabio                             - (seccatissimo, come per troncare) E allora, scusi...?

Carlo                             - È che dentro c'è la mia pena, la mia anima...

Fabio                             - (a Alda) Ma capisce, lei, che razza d'idea?!

Carlo                             - Sì, c'è quello che davvero io ho sofferto... la mia rovina...

Alda                              - Oh, adesso...

Fabio                             - Insomma, finiamola con questa as­surda storiella, se no...

Carlo                             - È così, le dico... Tanto che quando si diede il lavoro... e io con un sotterfugio riu­scii ad avere i giornali e poi il libro, in fondo ero ancora contento, perché dicevo così che fi­nalmente c'era chi aveva saputo cogliere dentro di me... il mio mondo... quello che davvero sento, la mia aspirazione... insomma la mia vita... e che questo aveva potuto farlo un arti­sta, ecco: un artista... che commoveva tutti...

Fabio                             - (come per troncar netto) Be', senta, egregio signore...

Carlo                             - ... Sicuro: ero illuso e sciocco fino al punto di pensare che qualcuno si sarebbe al­meno interessato di me... insomma che non sa­rei stato più abbandonato di prima...

Fabio                             - Io dico che lei non ragiona, ecco. Cosa pretende? E sopratutto che diavolo vuole da me? Dopo la panzana che ha lasciato cor­rere in giro, anche se io potessi aiutarla, si di­rebbe che lo faccio, non so, per mettermi in pari...

Carlo                             - (amaro) Eh, già! Non possiamo in­tenderci, perché , senza volerlo, l'uomo... da niente - (indica sé stesso) sta recitando, si può dire, una delle sue scene...

Fabio                             - Faccia uno sforzo per essere meno idiota: allora ne riparleremo... Signora... (Esce rapido).

Carlo                             - (ha un breve moto come se volesse in­seguirlo, ma si trattiene; un sorriso gli si con­trae in una smorfia) Quasi le viene da ri­dere, vero, signora?

Alda                              - No; che dice?

Carlo                             - Eh, sì...! Perché ... ha visto? Lui alle prese col suo personaggio. Anche per lui l'importante è cavarsela... cavarsela così, tanto da far ridere, in modo che non sembri una cosa seria... (Si avviano. Carlo vede la cartolina la­sciata dalla signorina, la raccoglie; ha un sor­riso penoso)... così, come questa roba... (E con­tinua a camminare verso l'uscita).

(Si spengono le luci per il passaggio all’altro quadro: durante il cambiamento di scena co­minciano a sentirsi le varie emissioni di una radio tormentata da un inesperto, e le voci al­legre della brigata di gitanti, che continuano a scena aperta).

SECONDO QUADRO

Una terrazza sul mare, al piano rialzato di un albergo di lusso, la cui entrata è a destra. A sinistra l'entrata del bar, e, verso il fondo, una scaletta che scende alla spiaggia. In fondo una balaustrata, che descrive tre lati di un esagono, agli angoli dei quali sorgono due colonne, che reggono la copertura della ter­razza e le tende scorrevoli. Alle colonne due tabelle, ove sono attaccati da una parte uno striscione disposto diago­nalmente e dell'altra un manifesto, che an­nunciano una serata di gala al Teatro del Lido con la millesima rappresentazione del dramma « Un uomo da niente » - protagonista Enrico Scorano - e con un discorso di Domenico Clausi. Dalle tabelle pendono anche due planches col ritratto di Enrico Scorano, truc­cato per la commedia, in atteggiamento di grande sofferenza.

Tavolini, sedie e poltrone di vimini. Due o tre dei tavolinetti sono circondati da vasi con piante fiorite o cariche di verde, che formano piccoli angoli separati. Al di là della balaustrata, in basso, verso il lato di sinistra, si indovina uno spiazzo a pianterreno, frequentato dagli avventori, dei quali ogni tanto si sentono voci confuse; da quella parte giungono, anche, le emissioni della radio.

Sullo sfondo, verso sinistra, si vedono un tratto di spiaggia lontana e i tetti di alcune ville affondate fra il verde. - Il tramonto.

Clemente        - (è solo in scena: tutto liscio, sbar­bato, elegantissimo, sembra ringiovanito: cami­cia aperta, senza giacca, calzoni e scarpe bian­chi, portasigarette d'oro, bocchino d'avorio, oro­logio al polso, anello con brillante. All'aprirsi del sipario è presso la balaustrata, in fondo, v saluta, con una ceri'aria stanca, qualcuno che passa in barca sul mare, da dove giunge lo scop­pio di risa argentine, di trilli allegri, di piccoli gridi giocondi: voci di donne e di uomini, che soverchiano un fox-trott suonato dalla radio).

Le Voci                         - No.

Così affondiamo.

Meglio!

Magari!

Lei non sa remare.

Un campione come me?!

Peggio d'un principiante.

È meglio tornare.

Venga anche lei.

Clemente                       - (risponde di no con un cenno della mano, sorridendo).

Le Voci                         - Siamo già in troppi.

Così facciamo il bagno.

Forza!

A sinistra.

No.

Voga.

Stia fermo.

Avanti.

Cantiamo?

Sì, sì, cantiamo.

Intona.

Che cosa?

Intoni lei.

Cosa cantiamo!

«La donna è mobile». (Proteste generali delle donne).

Nooo.

Bene.

Sìii.

                                      - Forza.

(La voce di un uomo intona « La donna è mo­bile», ma il canto, sostenuto subito da altre voci maschili, è in un attimo soverchiato da un coro di scherzevoli contumelie femminili).

Basta.

Calunniatori.

Libertini.

                                      - Cascamorti. (Le parole si perdono fra le risate. Si sente la voce di un uomo, che risponde ironicamente).

                                      - Sirene! Sirene! Sirene! (Le voci femminili attaccano, in contrasto, un'altra canzone; poi tutto si scioglie in risate, mentre la barca s'allontana e a poco a poco ogni voce si perde).

Clemente                       - (con aria elegantemente annoiata si butta a sedere presso un tavolino, sul quale c'è già un bicchiere vuoto; fa un cenno per chia­mare il cameriere).

Cameriere                      - (correndo dal bar) Comandi.

Clemente                       - Un'altra porcheria.

Cameriere                      - Subito. (Via).

(Da sin. entra Elsa, in costume da spiaggia).

Clemente                       - (senza scomporsi) Oh, sei qui di nuovo?

Elsa                               - Chi salutavi?

Clemente                       - Il mare.

Elsa                               - Voglio saperlo, perché ...

Clemente                       - (flemmatico) ... C'è da fare uno studio magnifico dei colori che si formano...

Elsa                               - Del resto ho capito: salutavi la Fio­rai di.

Clemente                       - (accendendo una sigaretta) Ah, c'era anche lei?

Elsa                               - (stizzosa) Lo vedi come sei idiota...

Clemente                       - Siediti.

Elsa                               - Non capisco cosa ci stai a fare, qui.

Clemente                       - Per me... ci sto egregiamente. Figurati che il tramonto mi rende bello per­sino questo fox-trott della radio...

Elsa                               - Sì, anche il poeta, adesso...

Clemente                       - Almeno un'ora al giorno bi­sogna essere anche poeti.

Elsa                               - (mostra una forcina da capelli) E allora di', è un arnese da poeta questa?

Clemente                       - Bada che la battuta non è tua. C'è nella « Tosca ».

Elsa                               - L'ho trovata sotto il tuo letto, sai.

Clemente                       - Lo dico sempre che in quell'albergo la pulizia lascia a desiderare.

Elsa                               - Guarda, se non la smetti la riporto al marito...

(Entra il cameriere che versa una bibita per Clemente).

Clemente                       - Vuoi prendere qualche cosa?

Elsa                               - No.

Clemente                       - (al cameriere) Un'altra bibita per la signorina.

Cameriere                      - Va bene. (Via).

Elsa                               - Io non so, vedi, perché ti si debba voler bene. E non lo meriti mai...

Clemente                       - « Mai », no, non lo puoi dire.

Elsa                               - È vero che farai il ritratto alla Fèlsini?

Clemente                       - Vedi: se sarai buona farò ta­cere anche la radio...

Elsa                               - Ah, non vuoi sentire? Eppure di­cono che...

Clemente                       - ... se invece hai intenzione di fare un'altra scena, stasera prendo e vado via in macchina.

Elsa                               - (rabbiosa) Ma perché non si può ragionare un momento con te?

Clemente                       - Ragionare con le donne?! Ci mancherebbe altro!

Elsa                               - Sei anche prepotente, ecco, oltre che presuntuoso; credi che tutte siano disposte a subire i tuoi capricci per un po' di condiscen­denza, che poi non è nemmeno gentile. De! resto, vuoi lanciare la Fèlsini? Fa pure. Ma la prima volta che canterà sarà un fiasco, te lo garantisco io.

(Da sinistra, salendo la scaletta, entrano En­rico Scorano e Dina, entrambi in costume da spiaggia; si dirigono verso destra, per entrare in albergo).

Dina                              - (parlando a Enrico, fa un lieve cenno di saluto a Clemente, che le risponde sorri­dendo) ... Vedrai, se Clausi domani verrà alla prova...

Enrico                           - Ma cosa vuoi? un critico, si ca­pisce, pretende di trovarci anche quello che l'autore non ha pensato.

Cameriere                      - (tutto cerimonioso e scodinzo­lante viene dal bar con in mano alcune carto­line e una penna stilografica; s'appressa a En­rico) Commendatore, sia indulgente...

Enrico                           - Ancora?! (Con soddisfatta degna­zione) Beh! (Firma rapidamente le cartoline).

Cameriere                      - Cosa vuole...? Insistono e...

Enrico                           - Ecco qua. (Restituisce la penna e s'avvia).

Cameriere                      - Infinite grazie... Ossequi. (Ri­mane chino fin quando Dina e Enrico non sono entrati in albergo; poi esce a sinistra).

Clemente                       - (con irrisione) Pf! Anche gli autografi...!

Elsa                               - (come se d'improvviso si ricordasse d'una cosa del tutto diversa) A proposito: che smemorata! Ti dovevo dire...

Clemente                       - Che c'è, ancora?

Elsa                               - Niente; se non mi chiedi scusa di tutte le sgarberie...

Clemente                       - E tu taci.

Elsa                               - È una cosa che ti interessa, però.

Clemente                       - Sarà!

Elsa                               - Oggi, all'albergo, è venuta una per­sona a chieder di te.

Clemente                       - (indifferente) Ah, sì?

Elsa                               - Un tuo amico.

Clemente                       - (che guarda a sinistra come se non ascoltasse Elsa, all'improvviso ha un moto di sorpresa e si alza) Toh! Eccolo là.

Elsa                               - T'ha visto.

Clemente                       - (fa un gesto di saluto) Evviva!

Elsa                               - (fa per andarsene) Capperi! È con la Duchessa. Io scappo.

Clemente                       - (a Elsa) Ciao. (Esce a sinistra).

Elsa                               - Non farti aspettare, però... (Esce per il bar).

Clemente, Carlo e la Duchessa Canardo       - (entrano insieme da sinistra).

Clemente                       - (a Carlo) T'aspettavo per do­mani... Ma meglio così.

Carlo                             - (tutto illuminato di letizia) La Duchessa ha avuto la bontà di ricevermi subito, e così son rimasto con lei.

Duchessa                       - (sedendo) Abbiamo fatto una bella passeggiata.

Carlo                             - (alla Duchessa) Stupenda.

Clemente                       - (a Carlo) Andiamo bene, no?

Carlo                             - Almeno... L'altro ieri ho fatto il provino, e ora aspetto la decisione.

Clemente                       - Vedrai, vedrai... Non aver paura. La Duchessa è infallibile.

Duchessa                       - Tacete, voi, che non date pace. (A Carlo) Non mi lasciava nemmeno più il tempo di riflettere. (Al cameriere) Volete sen­tire se Sua Eccellenza è in casa?

Cameriere                      - Subito (Attraversa la scena ed entra nell'albergo).

Carlo                             - (a Clemente) Sei stato un vero amico: l'unico.

Clemente                       - Ma no, cosa vuoi...

Duchessa                       - (a Carlo) Oh, potete dirlo... (A Clemente con intenzione) E poi dite delle donne...

Clemente                       - (subito, allusivo) Giusto. Ma alla fine non deve dispiacervi se ho potuto su­scitare anche in voi questo entusiasmo per una persona...

Duchessa                       - Tacete.

Cameriere                      - (rientrando) Sua Eccellenza non è rientrata; ma ha lasciato detto che se la si­gnora Duchessa avesse telefonato, si dovesse av­vertirla che Sua Eccellenza sarà di ritorno verso le otto.

Duchessa                       - (per congedarlo) Va bene.

Cameriere                      - (esce a sinistra).

Clemente                       - (guardando l'orologio) Manca poco. (A Carlo) Tu lo conosci?

Carlo                             - No.

Duchessa                       - (a Clemente) E così? Cosa di­cono le male lingue?

Clemente                       - Vi interessano le maldicenze?

Duchessa                       - Qualche volta mi divertono. Chi sa quante ne troverebbero da dire, se sa­pessero che mi son cacciata in quest'impresa...

Clemente                       - A cose fatte ce li godremo. (A Carlo) Io, poi, li stuzzico...

Carlo                             - Cosa vogliono, ancora?

Clemente                       - Eh, capirai, darsi l'aria di pro­feti. « Lo dicevo io, dieci anni fa, che Frezza era un bluff? ». « Ma no, l'ho detto io». « No, il primo sono stato io». Così, magari, litigano.

Carlo                             - (fremendo) Eh, canaglie! Se po­tessi vederli ridiventare miei amici...

Clemente                       - È il meno che ti potrà capitare, quando riavrai il tuo posto.

(Da destra entra Enrico Scorano in abito da sera).

Enrico                           - (con un grande inchino) Oh, ri­vedo la signora Duchessa...

Duchessa                       - Buona sera, Scarano.

Clemente                       - (per andar via, bacia la mano alla

 Duchessa) Scusate, mi viene in mente che ho un appuntamento...

Duchessa                       - (con scherzoso ammonimento) Giudizio.

Clemente                       - A più tardi.

Carlo                             - Ciao.

Clemente                       - (esce).

Duchessa                       - (a Carlo e Enrico) Voi vi co­noscete, no?

Carlo                             - Già...

Enrico                           - (dà la mano a Carlo) Sta bene?

Carlo                             - Sì, grazie.

Duchessa                       - (indicando una sedia) Se vuole accomodarsi...

Enrico                           - No, guardi, scappo a teatro, è quasi ora di andar su...

Duchessa                       - Ma prima non c'è il discorso di Clausi?

Enrico                           - Appunto, devo esserci.

Carlo                             - (con una punta d'ironia) E poi dovrà avere il tempo di truccarsi...

Enrico                           - (contraendo la stizza in un sorriso) In compenso credo di riuscire a non essere insi­gnificante.

Duchessa                       - (cerca di conciliare tutto col suo sorriso) Andiamo, adesso non vorrete mica infliggermi una discussione sull'arte di cam­biare i connotati?

Enrico                           - (sorridendo) Ha ragione. L'arte è una cosa seria, vero, Duchessa?

Carlo                             - D'accordo. Tanto seria che io ho sempre creduto, non so se ingenuamente, che per essere artisti bisognasse sentire più degli altri quello che la gente soffre, per poter poi comunicarla, questa sofferenza...

Enrico                           - (per troncare) Perfettamente: più degli altri. (Alla Duchessa baciandole la mano) Duchessa...

Duchessa                       - Sì, sì, arrivederla, Scarano.

Enrico                           - (a Carlo) Buona sera.

Carlo                             - (acre) Buona sera. E mi saluti tanto Clausi.

Enrico                           - Certo. (Esce).

(Ormai sono svaniti gli ultimi colori del tra­monto ed è caduta la sera: sulla spiaggia sboc­ciano le luci; lontano, s'accende e si spegne a intermittenza una reclame luminosa, con la scritta: «Un uomo da niente»).

Carlo                             - Scusate se, in presenza vostra...

Duchessa                       - No, non vi rimprovero. Anzi... L'umiltà non serve che a fare la superbia degli altri.

Carlo                             - (sorridendo) E poi vicino a voi... ridivento superbo io...

Duchessa                       - (indulgente) Ragazzo...!

Carlo                             - Eh, già, ragazzo... perché ... che salto all'indietro...! Ragazzo...! Me lo dicevate sempre... e ora nel sentirvi ripeterlo, è come se tutto quello che c'è stato dopo... non fosse più niente...

Duchessa                       - (come se volesse attenuare l'im­pressione prodotta in Carlo) Se vi fa pia­cere... ma non vorrei con questo... (Brevissima sospensione).

Carlo                             - ...che io mi illudessi?

Duchessa                       - Per quello che ho cercato di fare, non dovete credere che io...

Carlo                             - Lo so, ma io vi dovrò raggiungere... risalire fino a voi, e allora...

Duchessa                       - (sorridendo) No, che bisogna essere persone di spirito...

Carlo                             - Siete stata voi il mio orgoglio...

Duchessa                       - Ma no, non...

Carlo                             - (con crescente chiusa emozione) ...il mio sogno vissuto...

Duchessa                       - Ma non divagate...

Carlo                             - ... l'altezza raggiunta... e ora mi sento pieno di fede accanto a voi...

Duchessa                       - Vi prego...

Carlo                             - ... sento che da voi mi viene la certezza di poter ridare al mio nome più di quello che ha perduto...

Duchessa                       - (senza asprezza) Ciò non vuol dire che dobbiate farmi temere d'essere stata imprudente...

Carlo                             - Lo vorrei, se l'imprudenza vi fa­cesse temere di voler più mandarmi via. (A un gesto di lei) No, tacete. So quello che mi di­reste: che avete ceduto alle insistenze d'un amico, così, per accondiscendere...

Duchessa                       - Appunto...

Carlo                             - Ma è bastata la passeggiata con voi, stasera, per mandare all'aria tutti i miei propo­siti. (Coti accorata semplicità) Che so...? La fioraia che ci ha fermato sul viale, m'ha fatto subito rivedere quella piccola fioraia di Via­reggio, ricordate? che ci inondò di fiori la mac­china, e poi non volle niente, perché ... era­vamo noi...

Duchessa                       - (sorride al ricordo, ma vuol dis­toglierne il discorso) Oh, adesso, dove an­date a pensare...

Carlo                             - ...come oggi... che eravate assopita quando mi feci annunciare, e subito diceste che in sogno, poco prima, v'eravate rivista con me a Bruxelles, in quel palazzo...

Duchessa                       - Invece bisogna saper anche di­menticare...

Carlo                             - Non è possibile, se ogni nome di città, direi ogni itinerario è un ricordo della felicità d'allora. Quelle vostre esplosioni di gaudio quasi infantile nel vedere le strade tap­pezzate di manifesti col mio nome, e le réclames luminose dei miei film... (Con crescente concitazione) Ma se io ritorno, se posso ancora vincere... se arriverò a offrirvi più di quello che potevo allora... e basterà che voi mi stiate un po' vicina...

Duchessa                       - Non fate così... La vostra mano brucia.

Carlo                             - Dovrò soffrire, lo so, per esprimere la mia vita... la mia vita... Ma giuro che tutti dovranno inchinarsi di fronte alla sofferenza che mi si accumulata nell'anima con le avversità di questi anni. Diventerò un altro, diverso... non più « un uomo da niente ». Sarò io! Io! Risor­gerò, sorriderò, potrò vivere! Nominate un sola artista al mondo, uno solo, che potrebbe inse­gnarmi. Nessuno. Non credete? Ma guardate quel che sarò io, io, quando verrà la mia ora. Ecco, sì, zitta zitta, lì in disparte... Vedrete. Basta che mi sorridiate... Pronto? Pronto. La macchina comincia a girare... Finalmente! Sem­bra che parli sottovoce, come un'amica ritro­vata dopo tanti anni... che mi dica un suo se­greto... quello che io solo devo conoscere... Un momento...! Direttore, a questo punto, così... Ecco. Bene. Avanti! Magnifico... Così... così... Com'è facile! Cosa?! Eccessiva?! Eccessiva que­sta espressione di felicità...? Ma era questa la felicità...! Era questa! Avanti, allora. Girare... Luci, ruote, carrelli, telai, io, io, io: una gi­randola di colori, di facce, di suoni, un sogno che s'arrotola come un pazzo...

Duchessa                       - (che era come toccata dal delirio di Carlo lo tronca, vedendo entrare il came­riere) Tacete. (Un silenzio. Si volge al ca­meriere, con voce che lievemente tradisce l'in­tima emozione) Fate telefonare al mio autista... che venga a prendermi qui.

Cameriere                      - Va bene. (Accenna a destra) Sua Eccellenza sta scendendo dalla macchina. (Esce a destra).

Carlo                             - (ha un sussulto e si volge) Ah!

Duchessa                       - Aspettatemi qui. Gli domando solo se ha saputo niente. Torno subito. Non vi fate accorgere. Dopo andremo via...

Carlo                             - Rimarrò con voi, stasera?

Duchessa                       - Sì. A pochi chilometri c'è il Ristorante delle Torrette... Un luogo delizioso, sul mare...

Carlo                             - (si illumina di gioia, trattenuta dall'ansia) Ma davvero...?

Duchessa                       - (accenna di sì) Mi offrite il pranzo, e poi... mi riaccompagnate a casa... (Sorridendo, esce a sinistra).

Carlo                             - (rimasto solo, tutto pervaso da una contentezza che non sa come sfogare, gesticola, si tormenta la testa, si stringe le mani. Al ca­meriere che ripassa da destra a sinistra) Un cognac... No: un caffè...

Cameriere                      - Va bene. (Servirà, poi uscirà a destra).

(Dalla scaletta di sinistra salgono la Duchessa e Sua Eccellenza).

Eccellenza                     - Come?! Davvero non verrete stasera dai conti di Cangiano?

Duchessa                       - (rapida) Non posso... Dunque, che notizie...?

Eccellenza                     - Peccato: se mancate voi, il ricevimento...

Duchessa                       - (mal dissimula l'ansia) Oh, che importa...! E allora? Avete parlato col com­mendatore ?

Eccellenza                     - Una telefonata senza fine... Purtroppo, però...

Duchessa                       - (con viva tensione) Beh?!

Carlo                             - (è tutto proteso, con gli occhi sbarrati, e fa un gesto nervoso per far scansare il came­riere).

Eccellenza                     - In conclusione: niente da fare.

Duchessa                       - (dominando un moto di sgomento) No!

Carlo                             - (atterrito, fa per alzarsi, ma un breve gesto della Duchessa lo ferma).

Eccellenza                     - Assolutamente niente. Imma­ginate voi, se ho insistito in tutt'i modi...

Duchessa                       - Ma perché ...? cosa dicono...?

Eccellenza                     - Dicono tante cose: che le scene di prova non vanno; che per quella parte così ardua ci vuole un grande artista, ecco, un grande artista... uno che sappia soffrire...

Carlo                             - (si è abbattuto sul tavolo, coi pugni alle tempie, smorto).

Duchessa                       - E non considerano che...

Eccellenza                     - Ma sì, tutto quello che vuole. Gliel'ho detto, ripetuto, sottolineato che il caso del Frezza è specialissimo data l'origine dello spunto, o, se si vuole, anche soltanto dell'ispi­razione... Ma ho capito che questo, forse, più che giovare, in un altro senso nuoce... Non vi accomodate un momento? (Conduce la Du­chessa verso destra).

Duchessa                       - Si capisce, dei pretesti...

Eccellenza                     - (camminando) Non credo... Anzi, hanno dimostrato la migliore buona vo­lontà, e protestano di aver fatto di tutto per accontentarci. Ma, insomma, giurano che si son trovati di fronte a un artista dai mezzi inade­guati, privo di vibrazioni, forse anche poco mo­derno... non so... certo non tagliato per un'im­presa di così grave impegno... (Parlando, esce a destra con la Duchessa).

Carlo                             - (rimasto solo rialza la testa, gli occhi senza sguardo: col gomito su un ginocchio, ac­cenna a girare macchinalmente una mano da­vanti a se, come se seguisse una ruota).

Voci Esterne                 - Sentiamo la radio.

                                      - No.

                                      - Cosa c'è?

                                      - Proviamo.

                                      - Auff!

(Qualcuno cercherà di « pescare » nella radio, che emetterà voci e suoni spezzati, fra le appro­vazioni, le risa e le proteste della comitiva al­legra).

(Da destra appare Dina in abito da sera).

Dina                              - (vede Carlo che non s'è accorto di lei,

 va verso di lui, chiamandolo con dolcezza) Carlo...

Carlo                             - (la guarda di sotto in su, e accompagna con una smorfia il gesto che fa per mandarla via) Lasciami andare, va là... lasciami an­dare...

Dina                              - Dio mio! che t'è accaduto?

Carlo                             - (con un sorriso spento) Niente... Hanno ragione tutti: non so soffrire...

Dina                              - (gli prende una mano) Ma spie­gami... Perché sei così...?

Carlo                             - (irridendo verso se stesso) Un grande artista...! Io! Per ridere... Non posso fare nem­meno la mia vita. Ci vuole un altro... uno che non sa niente... un grande artista...

Dina                              - (intuisce, e lo guarda con tenera pietà) Non ti vogliono...?

Cameriere                      - (rientra da destra: a Carlo) La signora Duchessa le manda a dire che è tratte­nuta a pranzo da Sua Eccellenza, e che dopo devono recarsi dai conti di Cangiano. (A un gesto di Carlo, s'inchina ed esce a sinistra).

Carlo                             - (lo segue con lo sguardo torvo, poi si volge a Dina) Sicuro. Non mi vogliono. Non so soffrire.

Dina                              - Scusa, se io...

Carlo                             - No. Sta' zitta.

Voci Esterne                 - Il discorso di Clausi.

Sì.

Bene.

Dina                              - T'accompagno io da De Alma.

Carlo                             - No. Ormai... (Pausa) Questa paz­zia... che ci ha divisi...

La Radio                       - «...Ecco dunque il dramma umano di tutt'i giorni, il dramma dell'uomo che non riesce a consistere... ».

Carlo                             - (irridendo con spasimo) Senti? Clausi.

La Radio                       - « ... che ha con sé un gran sogno, e non sa esprimerlo. Voi lo vedete partire dalla sua casa... ».

Carlo                             - (balza in piedi) Ah, no! non vo­glio... (S'avvia).

Dina                              - (lo trattiene) Dove vai?

Una Voce                      - Silenzio.

La Radio                       - « Pensate al destino di questo escluso... ».

Carlo                             - (a Dina) Ma va giù, fallo tacere...

La Radio                       - «... nutrirlo dentro, un grande disegno... ».

Dina                              - Non si può, c'è tanta gente... An­diamo via. (Lo conduce fuori a sinistra mentre giungono le ultime parole della radio).

La Radio                       - « ...e sentirlo solo, talmente solo da non lasciare altra vera grandezza che quella della sventura... ».

Fine del secondo atto

PRIMO QUADRO

La pensione del prim'atto ripulita con pretese di lusso e arredamento nuovo: invece della grande tavola rettangolare, alcuni tavolini quadrati, con paralumi colorati e piccoli vasi di fiori.

Nel vano d'ingresso, invece del bancone col barile, alcune poltroncine di vimini, un ta-volinetto con delle riviste, e l'attaccapanni nuovo. Dalla vetrina è sparita la scritta. Un tappeto stretto e lungo conduce dall'entrata di fondo alla sala da pranzo. Alle pareti, molte fotografie di attori, per lo più truccati, con dediche autografe; alcune delle fotografie rappresentano scene teatrali; campeggia la scena della morte fatta da En­rico Scorano nel dramma Asteddu, del quale pure si vede un ritratto. Sera inoltrata di Carnevale.

Gianna                          - (sola, ben vestita, seduta a uno dei tavolini, è intenta a ripassare i conti della gior­nata, e confronta le matrici di un bollettario con le cifre di un libro contabile).

(Da sinistra entra Dina, abbigliata per uscire).

Dina                              - Che ore sono, signora Gianna?

Gianna                          - Le dieci passate. Esce?

Dina                              - Sì, arrivo un momento a teatro: devo mettere alcune cose nel baule. Di sopra ho preparato quasi tutto.

Gianna                          - (complimentosa) Perbacco! Ha fatto presto.

 Dina                             - (avviandosi) Allora, il facchino...

Gianna                          - Non si preoccupi. Per le dieci?

Dina                              - Sì.

Gianna                          - Penso io a telefonare all'agenzia...

(Dal fondo entrano Catullo Goldi e Clemente).

Goldi                             - Buona sera.

Dina                              - Ah, il signor Goldi...

Clemente                       - Come mai, non recita la signo­rina?

Dina                              - No, stasera non c'entro. Dovevo pre­parar tutto...

Goldi                             - Dunque si parte domani, eh? Bene bene.

Dina                              - Eh, sì, finalmente...

Goldi                             - Bene, bene: leggeremo anche i suc­cessi americani...

Dina                              - (sorridendo) Mah!... Speriamo.

Clemente                       - Durerà molto la tournée...?

Dina                              - Fino a giugno. Poi, forse, c'è un altro contratto in vista, per l'America del Sud.

Goldi                             - A proposito: sa chi ho preso per il cravattino, oggi, in corso Vittorio? Indovini! Il nostro caro Charlot!

Dina                              - (con vivo stupore) Carlo?!

Goldi                             - Ma già... Lo dicevo a lui, qui... (In­dica Clemente).

Dina                              - Carlo qui!? Ma da quando ?

Goldi                             - Non lo so.

Gianna                          - Se era a Milano...

Goldi                             - Appunto: è venuto via.

Dina                              - E cos'ha detto? Lei ci ha parlato?

Goldi                             - Come no?! Passavo, e me lo vedo lì davanti al Cinema Nuovo, col naso per aria, che guardava quei grandi manifesti del film...

Dina                              - E non è venuto da me? Gliel'ha spie­gato perché non s'è fatto vedere?

Goldi                             - (con indifferenza) Sì... garantisce che lui adesso la pensa a modo suo...

Dina                              - Cioè?

Goldi                             - Chi lo sa!? M'è parso mezzo sbi­lanciato, non so... Buttava là mezze parole. Però ha detto che l'altra sera è venuto a teatro, per sentir lei in quella novità. ,

Dina                              - E non ha aggiunto altro...?

Goldi                             - Dice che voleva venire in camerino, ma poi... non so se ho capito bene... è dovuto andare con un altro, con un tale che ha cono­sciuto non so dove... uno come lui, insomma, a quel che m'è sembrato...

Dina                              - (come fra se, con inquietudine) Chi sa, poi, perché ...

Clemente                       - Ha parlato del film?

Goldi                             - No, e nemmeno io gli ho accennato, perché non so come l'avrebbe presa, proprio lì mentre entrava tanta gente.

Dina                              - Insomma non ha fatto capire perché si trova a Torino, se riparte...

Goldi                             - Borbottava che era venuto per ri­vedere quello che pare a lui. Poi mi ha pian­tato.

Dina                              - (inquieta) Non capisco davvero. La­sciare il suo lavoro... E all'aspetto, come le è sembrato?

Goldi                             - Mah...! Veramente è un po' giù...

Clemente                       - Vedrà che capita...

Dina                              - Tutto questo, però, mi fa pensar male...

Gianna                          - Male perché , poi?

Goldi                             - Ma no, se aveva quel suo amico... chi sa? forse combinavano qualche affare...

Dina                              - Mah! Speriamo... Buona sera.

Goldi e Clemente          - Arrivederla. Buona sera.

Gianna                          - (accompagnandola un poco, premu­rosa) Devo far niente per lei? Me lo dica...

Dina                              - No, torno presto.

Gianna                          - Arrivederla.

Dina                              - (esce).

Goldi                             - (sorridendo, come di cosa senza impor­tanza) Quella lì ha paura che s'ammazzi...

Clemente                       - Già... Poveraccio!

Gianna                          - Ci mancherebbe anche questa!

Goldi                             - (allusivo a Gianna). Dica un po', la signora è di sopra?

Gianna                          - Sì.

Goldi                             - Le faccia sapere che ci siamo.

Gianna                          - Subito. (S'avvia, poi si ferma) Non devo dirle altro?

Goldi                             - (rivolto a Clemente) No, vero?

Clemente                       - Ma... non so... sentiamo cosa risponde...

Goldi                             - Cosa vuol che risponda...!? Ormai si sa...

Clemente                       - Non vorrei che...

Goldi                             - Ma no, non ricominciamo coi dubbi.. Siete curiosi, veh! tutt'e due: avete in corpo una voglia matta, e vi gingillate con tante piccolezze...

Gianna                          - (sorridendo) Ma si capisce: come fanno gli innamorati...

Clemente                       - (sorride, compiaciuto) Lasci an­dare, anche lei...

Goldi                             - (a Gianna) Ma glielo ripeta, avanti, che cosa le diceva la signora anche stasera...

Clemente                       - (schermendosi) No, che c'en­tra...

Goldi                             - (a Gianna) Allora, vada, vada... Non voglio mica fare, poi, anche da... Beh, insomma...

Gianna                          - (esce a sinistra).

Clemente                       - (si siede) E va bene! in fondo cerco un po' di pace, ormai...

Goldi                             - Ma sì: una bella pietra sopra e chi s'è visto s'è visto. Tutto il resto non conta.

Gianna                          - (a Clemente, con un sorriso signifi­cativo) La signora l'aspetta di sopra...

Goldi                             - Tombola!

Clemente                       - (un po' imbarazzato, ma lieto) Mah! Sentiamo un po'...

Goldi                             - (burlone) Sì, sì, vada a sentire...

Clemente                       - (sul punto di uscire, a Gianna) Grazie, sa.

Gianna                          - Eh, mi deve ringraziare davvero...

Clemente                       - Compermesso. (Esce).

Goldi                             - Eli, beh! anche questa è fatta.

Gianna                          - Speriamo che non si pentano.

Goldi                             - Perché ?

Gianna                          - Ma, non so... quando si spargerà la voce che si son riconciliati, chi sa le chiac­chiere...

Goldi                             - Oh, non ci fanno caso: sono più innamorati di prima. Lei, poi... dopo che ha visto il marito diventare fatale...

Gianna                          - Va bene; ma adesso tornano come prima...

Goldi                             - Non vuol dire, perché , alla fin fine, lui ha saldato il conto, e anzi! è dalla parte del credito, e si può permettere anche questo lusso. Perché? Ma perché lo strappo è fatto in modo da scansare il ridicolo. Vede, per esempio: se io ho uno strappo qui, nella calza, sul davanti del piede, bah! non c'è da far caso: è una cosa insignificante; può essere una maglia caduta, quello che vuole... nessuno bada... Ma sup­ponga che lo strappo sia qui dietro, nel cal­cagno, e che il buco affiori dall'orlo della scarpa. Allora...

(Dal fondo entra Carlo).

Carlo                             - (dimesso, sciupato, alticcio) Oh, oh, che tappeto...! (Richiude la vetrina a fatica).

Goldi                             - Toh! eccolo lì!

Gianna                          - (accennando al gesto di chi beve) Altro che ammazzarsi!

Carlo                             - (viene avanti un po' incespicando) Si può?

Gianna                          - (sarcastica) Avanti, avanti...

Carlo                             - (la guarda e non le risponde. Vede Goldi) C'è anche lei...?

Gianna                          - La signorina ha detto che deve aspettarla.

Carlo                             - Che signorina?!

Gianna                          - Venga qui, si metta a sedere...

Carlo                             - No, no... Sto in piedi. Che signo­rina?

Gianna                          - Chi vuol che sia? Dina.

Carlo                             - Ah!

Gianna                          - Ha bisogno di qualche cosa?

Carlo                             - Io?! No. (Volto a Goldi, alludendo a Gianna) Adesso è diventata così...?

Goldi                             - Dove sei stato? Perché sei venuto via da Milano?

Carlo                             - Io!? Io niente... Milano o qui, fa lo stesso... Se sono qui è come se fossi a Mi­lano... (Diverso) C'è quei due mascheroni, da­vanti al teatro... Uno ride e uno piange. Chi sa perché ...?! uno ride e uno piange. Non fini­scono mai... (Ha un tremulo riso da ebete, poi torna serio, buio, girando lo sguardo attorno) Che lusso! (Pausa) È tutta roba mia, qui... (Un silenzio) Sicuro... Tutti fanno quattrini alle mie spalle...

Goldi                             - Ma lascia andare. Vieni qui, mettiti a sedere. La signora, adesso, ti porta un caffè...

Gianna                          - Subito; un caffè caldo le farà bene... (S'avvia).

Carlo                             - (aspro, fermandola) No. (Un silenzio) Cosa c'entro io...?! Io non voglio niente. Sapete che cos'è niente? Sono io. Io! (Diverso) Il mio dramma vale... Che dramma!? Mah! (Mutevole) E poi sì, un caffè lo prendo... Un altro e poi basta, (buio) poi... più...

Gianna                          - (a un gesto di Goldi, esce in fondo, a destra, per andare in cucina).

Carlo                             - (accennando a Gianna) Proprio gen­tile è diventata... Chi sa perché ?

Goldi                             - Hai dei compagni?

Carlo                             - Uno. Quello e basta.

Goldi                             - Dove sta?

Carlo                             - Non lo so. Ci troviamo insieme, sulla panca dei giardini... Quand'uno ha il su­dore freddo, si capisce che ha bisogno di bere... Quelli lì, (indica le fotografie) fanno la morte... ma non hanno il sudore freddo, sulla fronte...

Goldi                             - (rabbuiato) A che pensi?

Carlo                             - Mah... Penso penso... e sento sem­pre un brivido...! (Diverso) Dico io: almeno una panca, no? E noi ce la godiamo...

Goldi                             - « Noi » chi ?

Carlo                             - Io e lui, il mio amico, che è solo come un cane... come me... (Torna a guardare le fotografie; quasi sogghignando) Ma quello del film non ha capito niente... Dicono che fa piangere anche lui... ma la morte... (Irridendo) Eh, sì, non è mica uno scherzo la morte! Quelli lì non lo sentono il brivido...

Goldi                             - (per scoprir meglio il pensiero di Carlo) Che cosa?

Carlo                             - Un sudore come questo, (si terge la fronte) che sembra una coperta ghiaccia, la sera, quando va giù il sole, e uno dice: « Ecco, sarà l'ultima volta che lo vedo, il sole... l'ul­tima... ».

Goldi                             - Ma che diavolo farnetichi?

Carlo                             - (senza rispondere, diverso, con un sor­riso di grottesca commiserazione) E la gente, poi, va a teatro...! Stupidi! Più teatro di così?! Quando non c'è rimedio... cosa importa più di sapere se quella luce che brillava, sul fiume, era una stella o una lampada...? Il dramma...! Ho visto ridere perché uno non era riuscito ad ammazzarsi. Il dramma! L'hanno salvato, e poi si son messi a ridere... Dice: non ha fatto sul serio, e per questo è un buffone... Ma, dico io, anche quello che recita non muore, ma però tutti piangono...

Goldi                             - Senti, adesso te ne vai a letto, e do­mattina concluderemo il discorso; va bene?

Carlo                             - Domattina?! Ma domattina...

Goldi                             - Be'?

Carlo                             - ... domattina sarà quel che sarà...

(Rientra Gianna).

Gianna                          - (portando una tazza) Ecco il caffè.

Carlo                             - (prende la tazza e beve).

Goldi                             - (in disparte a Gianna) Gli dia un letto: mi pare davvero che non sia tanto a po­sto... (Indica: con la testa) È meglio che vada a dormire.

Gianna                          - Proverò... E poi tra poco tornerà la signorina.

Goldi                             - (a Carlo) Dunque hai capito? La signora, qui, ti preparerà una camera...

Carlo                             - No, no, io vado via.

Goldi                             - Non vuoi nemmeno aspettar Dina?

Carlo                             - Ah, be', per questo...

Gianna                          - (gli prende la tazza) E poi di sopra c'è Lena, se la ricorda?

Carlo                             - (con lieta espressione) Lena?! Mo' guarda... E cosa fa? Ride e canta ancora?

Gianna                          - (scuote il capo, sospirando) Eh, poverina...!

Carlo                             - Cos'ha?

Gianna                          - Ha che... (fermata da un gesto di Goldi, attenua) ... ha un po' di febbre...

Goldi                             - Ci vediamo domani, eh?

Carlo                             - (vago) Mah!

Goldi                             - « Mah » cosa? (Gli batte una mano sulla spalla) Ciao, va là. (Esce).

Gianna                          - (continua a sbrigare qualche faccenda).

Carlo                             - (rimane lì, con l'occhio sperduto, fisso in un pensiero; si asciuga il sudore dalla fronte, scuote il capo, ferma lo sguardo sulle fotografie, ha un sorriso di amara irrisione, poi si volge a Gianna) Mi darebbe la carta e la penna per scrivere ?

Gianna                          - (indicando il tavolino che è nel vano d'entrata) Là sopra, guardi, c'è tutto...

Carlo                             - (si alza e si avvia lentamente verso il tavolino) Lei l'ha visto il film?

Gianna                          - Sì.

Carlo                             - E ha pianto?

Gianna                          - (evasiva) Eh, certo che...

Carlo                             - Oh, lo dica pure, che tanto non me ne importa... (Vago) Ormai... (Si siede).

Gianna                          - La carta è dentro la cartella.

Carlo                             - Ce ne va della gente, eh?

Gianna                          - (cerca di non rispondere) Mah...!

Carlo                             - Sempre zeppo, anche a Milano...

Gianna                          - Lei, però, ha un impiego, no?

Carlo                             - Impiego!?... Facevo il fattorino... Ma ormai, anche là non mi lasciavano stare; ci ridevano... E poi, tutto l'insieme... (Scrive qualche parola, poi rialza la penna e rimane a guardarla; come se completasse il pensiero mormora) È una storia che... se non si arriva a concluderla... (Lascia sospeso il discorso; poi, per asciugarsi il sudore, piega il capo e passa più volte la fronte su una manica; infine na­sconde il volto nel cerchio delle braccia e ri­mane fermo così).

Gianna                          - (dopo averlo guardato, esce per an­dare in cucina, scuotendo il capo in atto di commiserazione).

(Poco dopo entrano da sinistra Alda e Cle­mente).

Alda                              - (ridendo) Ma sì, ma sì... ci penso remo. Sei un bel tipo, però!

Clemente                       - Sarà una specie di viaggio di nozze...

Alda                              - (scherzevole, col tono cadenzato di chi ripete un ordine) Io esigo prove continue e sicure...

Clemente                       - (affettuoso, ammonendola) E questo, secondo te, significherebbe che mi vuoi bene...

Alda                              - Io te ne ho date tante, in questi mesi...

Clemente                       - Oh, non dico... Ma adesso...

Alda                              - Adesso non vorrei che tu cercassi semplicemente di levarti un capriccio... uno dei tuoi capricci... M'intendi?

Clemente                       - No, perché non è un capriccio.

Alda                              - (tenera, trepidante) Ho paura, sai?... Ho paura....

Clemente                       - Ma sei una bambinona, te lo dico io...

Alda                              - (con emozione) Guai se domani do­vessi accorgermi... non so... che in fondo alla tua anima fosse rimasto un punto... un'ombra... che, passato questo momento...

Clemente                       - (l'abbraccia) Ma no, ma no! che assurdità!

Alda                              - Eppure, può essere una febbre, la tua, e passata questa febbre forse ti resterà il rammarico...

Clemente                       - (come se d'improvviso prendesse una decisione) Hai detto che vuoi delle pro­ve? Ebbene guarda: te ne dò una, una sola, che basta per tutte... Sai, non volevo dirtelo, ancora... Perché , guarda, è una cosa che non ho detto a nessuno, a nessuno... Tu sai, Alda, se ti volevo bene... Ma il mondo, la gente, non permetteva che io mi accontentassi così... Ho cercato di concludere, perché in fondo non ti odiavo nemmeno quando feci quel gesto, là, sulla strada, alla presenza di tanta gente. Si trattava di risolvere, e nient'altro... Ebbene, Alda, senti bene cosa ti dico: quel giorno, quando spianai l'arma contro te e quell'altro... quel giorno non volevo farti alcun male: ho spa­rato a salve, perché ...

Alda                              - (è balzata in piedi, fremente, con una smorfia di sdegno e di irrisione; tronca la con­fessione con una frustata) Sciocco! (E se ne va rapida, uscendo in fondo).

 Clemente                      - (colpito in pieno, accenna un ge­sto, come per riafferrarla, ma le mani gli rica­dono lungo i fianchi, e rimane lì sbalordito, smorto. Dopo un po' ha un sussulto e si volge: Carlo, in piedi, lo guarda e ridacchia. Con voce torbida, sorda) Ah, sei tu? Cosa fai, lì? Che ti piglia?

Carlo                             - (irridendo) Non m'avevi visto?

Clemente                       - Cos'hai da ghignare?

Carlo                             - Io?! Niente... (Pausa. Ride sottil­mente).

Clemente                       - Finiscila.

Carlo                             - (quasi con rancore, a denti stretti, ve­nendo avanti) La gente vuol l'emozione, ca­pisci? L'emozione. Ma non gliela dà il primo che passa. Ci vuol altro. Bisogna fingere, reci­tare...

Clemente                       - Fa il piacere, smettila; se no...

Carlo                             - Tu avevi recitato una parte, e t'era andata bene... Ma adesso ti sei lasciato prendere la verità, e il fondale è caduto.

Clemente                       - (con sordo sarcasmo) Proprio tu!?

Carlo                             - Hai ragione, sì, anch'io... Dillo pure. Non ho saputo fare la scena madre nella vita vera...

Clemente                       - E allora basta, va, non mi sec­care.

Carlo                             - Ma vieni qui, non inquietarti. (Gli mette le mani su una spalla) Tanto, quello che si patisce non conta niente. Dà fastidio agli al­tri e basta, perché impedisce d'esser contenti. Per questo, quando si soffre, conviene esser soli. Ti domando scusa... Però ridevo di me, sai... (Pausa). Adesso capisco perché mi sei stato amico. L'amico. Sta sicuro che, invece, ti voglio più bene.

Clemente                       - (si è seduto, buio, chiuso, e gli prende una mano, come per una muta ricono­scenza).

Carlo                             - Addio.

Clemente                       - (lo trattiene) Dove vai?

Carlo                             - Chi lo sa...? Da una strada all'al­tra... o a bere. Quand'è la sera mi sento così distante da tutti, così staccato...

Clemente                       - (senza guardarlo, tenendolo per la mano) Sta qui. (Un silenzio). In fondo siamo degli idioti. (Dopo un silenzio) A bere?

Carlo                             - Sì, ma anche quella è una medicina che non fa più niente. Ci vorrebbe che la sera non venisse mai...

Clemente                       - (si stringe nelle spalle, guardando a terra) Cosa conta la sera...!

Carlo                             - Eh, già, tu non la vedi... quella baraonda di lumi, di manifesti, di livree, di fari, di toilettes, di gioielli....

Clemente                       - I teatri?

Carlo                             - Vanno a finire tutti dentro il cer­vello, diventano, uno accanto all'altro, come una gran città che si mette a girare...

Clemente                       - Ma va là, non ci pensare più.

Carlo                             - Qualche volta, per scacciare dal cer­vello quei teatri, entro io in un teatro... e ri­mango lì... come gli altri. Ma gli altri fanno gli occhi lucidi, s'asciugano le lacrime... e poi per reagire alla commozione applaudono: al­lora devo scappare, per paura che mi ricono­scano, che mi ridano dietro... perché la cosa più tremenda è di sentirti solo mentre tutti ti guardano...

(Da sinistra entra Lena).

Lena                              - (emaciata, diafana, sofferente, rimane sorpresa nel veder Carlo e s'illumina in un sor­riso) Ma tu sei qui?

Carlo                             - (molto affettuoso, ma turbato nel ve­derla ridotta così) Oh, Lena... Lo vedi che ci ritroviamo? (Le stringe le mani).

Lena                              - Come va? Sei venuto per rimanere?

Carlo                             - Quante volte volevo scriverti, e poi...

Lena                              - Sicuro, chi sa dove pensavi! Ma adesso ti costringerò a raccontarmi... Sei qui, domani? Passiamo un'ora insieme.

Clemente                       - Ma perché , signorina, s'è al­zata?

Lena                              - Non fa niente, mi muovo un po'... Scusate, vado a prendere dell'acqua calda... (Esce per andare in cucina).

Carlo                             - Ma cos'ha? È stata malata?

Clemente                       - (scuotendo il capo) Eh...!

Carlo                             - È malata?

Clemente                       - (indica il petto) Finita.

Carlo                             - Lei?!

Clemente                       - Taci.

(Lena rientra).

Lena                              - (ha in mano un termos) Mi dispiace, Carlo, di non poterti fare accoglienza, adesso... Ho da sbrigare qualche cosa. Ma domani t'a­spetto.

Carlo                             - Sei sola? Non hai nessuno?

Lena                              - No. Ho una brigata d'amici. Alcuni stanno qui. Altri vengono a passar la sera, e così giuochiamo, chiacchieriamo, insomma stia­mo un po' allegri. Stasera son sola, perché sono andati tutti a vedere « La signora dalle Came­lie»; dicono che quella Petruskaia ne faccia una gran cosa.

Carlo                             - (è rimasto impietrito nell'udire le pa­role di Lena; la fissa e balbetta, cercando di sorridere) Ah...! la Signora... dalle Ca­melie...?!

Lena                              - (con un sorriso smorto) Già. Sono andati un po' a divertirsi, per divagarsi, che la­vorano sempre. (Gli porge la mano). Allora, ciao, eh? fatti vedere domani...

Carlo                             - Addio, Lena. (E con grande pena la guarda uscire).

Lena                              - (a Clemente) Buona sera, De Alma.

Clemente                       - Arrivederla, signorina.

Lena                              - (esce a sinistra).

Carlo                             - (con desolata amarezza) Hai sen­tito...?! Sono andati a divertirsi... a divagarsi... (Sorride in una smorfia). Ma guai se la Signora dalle Camelie scendesse giù, in platea: addio incasso. (S'avvia verso il fondo per andarsene, scuotendo il capo, piegato dallo sconforto). Cosa vuoi far più...? È inutile: non c'è scampò...

(Si spengono le luci per il passaggio all'altro quadro e durante il cambiamento di scena si sentono i rumori della strada. Questi rumori - dapprima molto attutiti, come se fossero degli echi, poi sempre più forti e vicini, - devono rendere la sintesi di quello che si può sentire percorrendo rapidamente una strada; basteran­no le scampanellate di un tram, qualche segna­lazione di automobile, poche note di un'orche­strina, voci confuse e indistinte di strilloni, bra­ni di discorsi diffusi dalla radio e, alla fine, solo un lungo fischio di locomotiva).

SECONDO QUADRO

Un piccolo ufficio della Morgue, con pochi mo­bili vecchi, fra cui un tavolo con delle carte, disposto verso destra in modo da ricevere la luce dalla finestra di fondo. Uscio in primo piano a sinistra. Telefono.

Impiegato                      - (attempato, un po' curvo, coi ve­stiti logori, gli occhiali quasi sulla punta del naso, sta smontando un orologio: pretende di accomodarlo. Interrompe il lavoro per rispon­dere al telefono) Pronto... No, signora, (sor­ride) non posso essere il suo tesoro, perché lei ha chiamato la Morgue... (Ridendo depone il ricevitore, ma non fa in tempo a riprendere il lavoro, che il telefono suona nuovamente) E dagli! (All'apparecchio) Sì, signor ispettore. I dati antropometrici, dico, sono stati trasmessi... dico subito... Nient'altro... Nel verbale di iden­tificazione, dico, manca la sua firma... Se vuole,, dico, che salga io... Ah, va bene, allora domat­tina... No, non è più, dico, in sala anatomica. Ha fatto metter da parte la testa, dico, perché vuole fare altre esperienze... Sì, anche gli stu­denti sono andati via. Riverisco. (Depone il ri­cevitore e riprende a smontare l'orologio).

Giornalista                    - (trentenne, vivace, frettoloso e rapido, quanto l'impiegato è tardo e calmo) Si può? Buon dì.

Impiegato                      - Ah, lei?

Giornalista                    - Novità?

Impiegato                      - (bonario, estraendo con le pin­zette una ruota dell'orologio) Eh, voialtri, ogni ora, dico, pretendete delle novità! Come se la gente dovesse crepare per far uscire il giornale...

Giornalista                    - (si siede) Ma ancora è lì con quell'orologio?

Impiegato                      - Pensi che avevo finito, dico, di rimontarlo, quando m'accorgo che m'era avanzata una ruota.

Giornalista                    - (sorridendo) E quasi quasi andava anche senza quella ruota, vero?

Impiegato                      - (convinto) Come lo sa, lei?

Giornalista                    - (scherzando) Immagino... Non mi son mai convinto che le ruote di un oro­logio siano tutte, proprio tutte necessarie. (Di­verso) Ebbene, mi dica, per questo famoso Frezza, non è capitato più nessuno?

Impiegato                      - Sì, c'è stata la padrona della pensione...

Giornalista                    - (si accinge a scrivere) Ah, bene. Cos'ha detto?

Impiegato                      - Piangeva.

Giornalista                    - Si vede che ha dei rimorsi.

Impiegato                      - Il cadavere l'avevano già por­tato via...

Giornalista                    - Perché non era venuta prima?

Impiegato                      - Ha cercato delle scuse, di­cendo, dico, che il pensiero di entrare alla Morgue la terrorizzava, e che per questo stava male...

Giornalista                    - (continuando a scrivere) Ma di lui, di Frezza, cos'ha detto?

Impiegato                      - Oh, un mondo di bene. Dice che era come un figliuolo, per lei... anche se qualche volta, per scuoterlo, dico, da quella sua apatia, doveva per forza trattarlo un po' male... L'ultima sera che capitò nella pensione, dice che le ha fatto un senso... un senso... perché si capiva, dico, che aveva in testa quell'idea di finir male... Fu lei a persuadere quell'altra, l'amante, che, dico, non voleva più nemmeno partire...

Giornalista                    - A quest'ora avrà saputo la notizia, sul piroscafo...

Impiegato                      - Sì, gliel' hanno telegrafata quelli della pensione: si era tanto raccoman­data...

Giornalista                    - Cosa dev'essere il mondo! C'è una curiosità così diffusa, un interesse per questo fatto...

Impiegato                      - Sfido! con tutto quello che an­date scrivendo sui giornali... Anche a casa mia, dico, e dove si va, non fanno altro che doman­dare. Del resto si capisce: il film ha fatto pian­gere anche me. Ma intanto, dico, quel pove­raccio s'è ammazzato, e non c'è commozione che possa farlo tornare al mondo...

(Trilla il telefono).

Giornalista                    - Eh, lo so, ma è molto inte­ressante...

Impiegato                      - (all’apparecchio) Pronto... Sei tu, Teresina?... Ma sì, ma sì, dico, fammi la testina d'agnello... (Come se dicesse: « se pro­prio lo vuoi ») E va pure al funerale, anche tu, santo cielo!... Ciao. (Depone il ricevitore).

(Frattanto l’uscio di sinistra si è aperto ed è apparso Carlo).

Carlo                             - (vestito con eleganza, sbarbato, con una busta di cuoio: ha la fisionomia un po' alterata da un"espressione quasi di spavalderia, dall' atteggiamento freddo, un po' cinico e un po' mordace, di chi ormai si lascia andare alle estreme conseguenze di un'avventura: nelle pa­role ha una sentita venatura di irrisione e di ironia) Pardon, credevo che... È permesso?

Impiegato                      - Cosa volete?

Carlo                             - (fermo sull'uscio, di traverso, con la testa un po' piegata e gli occhi socchiusi) Non è qui che... portano gli sconosciuti?

Impiegato                      - Sì, dico, ma voi...

Carlo                             - (lento, mordendo le parole) Volevo rivedere, se si può... volevo... visitare i resti di...

Impiegato                      - (tronca, seccato) Ho capito: di Frezza... Anche voi, dico...

Carlo                             - (chiude gli occhi, ma li riapre tramu­tando un sospiro in un leggero sorriso) Già. Anch'io.

Giornalista                    - Lo conoscevate?

Carlo                             - (sogguarda il Giornalista, tra la diffi­denza e il sarcasmo) ... Io ?!

Giornalista                    - Lo conoscevate bene?

Carlo                             - (deciso) Eh! Altroché!

Giornalista                    - (con interesse) Venite avanti. Non sareste voi, per caso, quel suo famoso com­pagno, quello che si trovava con lui ai giardini?

Carlo                             - (esita un momento, fissa l'interlocu­tore, poi conferma, abbassando il capo) Si­curo.

Giornalista                    - Perbacco, finalmente vien fuori questo famoso amico.

Impiegato                      - Sicché, dico, il biglietto era diretto a voi?

Carlo                             - Che biglietto?

Giornalista                    - (che prenderà ogni tanto degli appunti) Quello scritto nella pensione, che fu trovato in una fessura della panca, ai giar­dini...

Carlo                             - (evasivo) Infatti, eravamo soliti darci gli appuntamenti così, con dei biglietti...

Impiegato                      - Ah, un bell'appuntamento, quello lì...

Carlo                             - Lo so: un addio... Era... (si arresta) era solo come me... sperduto... senza casa... (Per troncare) Potrei rivederlo? Così... per sa­lutarlo...

Impiegato                      - Ma come! non sapete che non è più qui?

Carlo                             - Non so niente, io... Sono arrivato adesso...

Giornalista                    - Dove siete stato? Vi cerca­vano...

Carlo                             - Ero... in giro... in giro per affari. (Apre appena la busta e lascia scorgere alcune teste di marionette) Faccio il viaggiatore, ades­so, vendo marionette. (All'impiegato) Ma dove l'hanno portato?

Impiegato                      - Al Circolo degli Artisti, circa un'ora fa...

Carlo                             - Ah! Nientemeno.

Giornalista                    - Di li partirà il corteo, fra poco...

Carlo                             - (irridendo) E... gli hanno fatto anche la camera ardente?

Giornalista                    - Magnifica... (Passando al « lei ») Ma, mi dica un po'...

Carlo                             - (lo interrompe) Va a finire che ci saranno anche i discorsi.

Impiegato                      - Eh, diamine!

Giornalista                    - S'accomodi            - (Gli offre una sedia).

Carlo                             - No, no, grazie. Allora, poveraccio, fa furore. Non l'avrebbe mai sognato.

Giornalista                    - Lei, forse, può dirmi qualche cosa di interessante, di nuovo, per il giornale.

Carlo                             - Io?!

Giornalista                    - So che si trovavano insieme, quasi tutti i giorni...

Carlo                             - Eh, vede? si sarà buttato sotto il treno, perché non lo vedessero più: così la faccia sparisce, e nessuno potrà dire che non ha saputo fare la morte... Non ci saranno confronti con quella che fanno in teatro.

Giornalista                    - (scrive) Ecco, ecco, questo è vero. Lo diceva lui?

Carlo                             - Ma ne diceva tante, e si intestardiva per farsi capire. Adesso lo capisco.

Giornalista                    - Mi dica, mi dica, quali erano le sue idee...

Carlo                             - Che idee vuole che avesse!? Per me aveva torto. Quegli uomini lì non dovrebbero mai nascere, perché guai mettersi in testa una grande meta, quando non si sa mordere... Si rimane «un uomo da niente ». Eh, lo so: l'en­fant prodigè. Ma è terribile, sa? è feroce il destino di chi a vent'anni ha già consumato tutto, e non può dare di più, mentre la gente aspetta chi sa che cosa, aspetta il miracolo... Aver goduto la celebrità, quasi direi la gloria, e vedersela distruggere proprio quando co­mincia la vita, quando comincia l'amore. Si fa presto a scrivere, a mettere in scena... Ma questa sofferenza nessuno te la perdona nella vita; in teatro sì, ma nella vita no, nessuno. E non è possibile nemmeno essere un uomo come tutti gli altri, inosservato. Allora si capisce tutto: si capisce anche perché , quando un cadavere è qui da tre giorni e nessuno sa dire chi sia, scappi fuori uno, sul giornale, a sostenere che non può essere altri che lui... Per forza! chi deve essere se non lui?... quello che tutte le sere è destinato a morire? Come può vivere un nomo così? È impossibile... E allora... (con un sorriso amaro) allora non c'è dubbio... quei resti non possono appartenere ad altri... (Di­verso, come fra se) Eppure... è stato proprio lui a salvarmi...

Giornalista                    - (che ha scritto tutto) Perché?

Carlo                             - (evasivo) Niente niente...

 Giornalista                   - E... tutto questo era lui che lo diceva?

Carlo                             - (evita la domanda) Lasciamo an­dare... (Fa per avviarsi verso l'uscita) Ormai... Non guastiamo il suo successo.

Giornalista                    - Perdoni... (Carlo s'arresta) Se era suo amico... così tanto amico... penso che non debba dispiacerle di dire qualche cosa per lui sul giornale...

Carlo                             - (amaro, sogguardandolo) Il necro­logio?

Giornalista                    - Quello che vuole... Con lei si confidava: lei solo, si può dire, gli era vi­cino negli ultimi giorni...

Carlo                             - No, sa... Quello che io, ormai... avrei la sincerità di dire di lui... non son cose che oggi si potrebbero scrivere sui giornali. Guai: tutti protesterebbero indignati.

Giornalista                    - Non so davvero perché si do­vrebbe dir male di un uomo che è stato un grande artista e che per questo ha tanto sof­ferto...

Carlo                             - (con una smorfia di amarezza) Sof­ferto!? Questo sì che è vero. Immensamente! Adesso lo sentono tutti. Prima invece... Perché? Ma perché non lo incontrano più, e lui non chiede più niente.

Giornalista                    - No, è perché il suo dramma ha commosso tutti.

Carlo                             - Il suo?! Quale? Quello che lui, per non convincersi d'essere un artista finito, si inte­stardiva a voler recitare nella vita? No, sa... È l'altro, quello di Asteddu, quello del film, che ancora ha successo.

Giornalista                    - Non vuol dire: è pur sempre il suo, di Frezza.

Carlo                             - No, Frezza non arrivava a mettersi in testa che la vita non ha scene di carta e così non comprendeva perché il suo ritratto destasse tanta commozione, mentre lui non sentiva in­torno a sé che scherno, irrisione e fastidio; ecco: fastidio, e qualche volta solo un po' di compassione umiliante. Guardi: se noi fossimo, ora, su un palcoscenico, e un artista chiamasse degli spettatori qualunque a rivivere un'ora della loro vita sulla scena, stia certo che, in un modo o nell'altro, interesserebbero tutti. Però, tornati laggiù, fra la gente, sparirebbero subito e nessuno li guarderebbe più.

Giornalista                    - Si capisce: in scena può avere i suoi applausi anche un pazzo o un ubriaco...

Carlo                             - Ma guai se scendessero in platea. Ed è giusto. Sono i diritti dell'arte che, oltre tutto, appaga anche il nostro desiderio di allon­tanare il dolore da noi, facendolo sentire a tutti. L'uomo da niente? L'uomo finito? Ma lei può incontrarne tanti, può incontrarlo appena uscito di qui, uguali a Frezza, che passano non visti, in silenzio, con un gran sogno deluso, o si accalcano laggiù, nelle platee, a commuoversi del loro stesso dram­ma colto da un artista come una realtà lontana. Frezza, invece, che in fondo era rimasto un testardo...

Giornalista                    - Eh, no! non è consentito giudicare così a cuor leggero, Ci vuol altro, egregio si­gnore...

Impiegato                      - (che frattanto, pre­parandosi per uscire e togliendosi le mezze maniche, s'è avvicinato alla finestra, ha un esclamazione di meraviglia) Ma guardate quanta gente!

Carlo                             - (trasalisce) Dove?

Impiegato                      - Al funerale...

Giornalista                    - (va a guardar fuo­ri e si volge a Carlo, rimasto tri­ste in disparte) Venga, venga a vedere che folla. Altro che quello che dice lei!

Impiegato                      - Non finisce mai: anche la piazza è piena. Guarda­te, guardate lungo il corso.

Carlo                             - (guarda fuori, con in­tensa emozione: quasi subito si ritrae, con le mani sugli occhi, e leggermente barcolla come per una vertigine) Che spettacolo!

Giornalista                    - Perbacco, vede dove è riuscito a salire quell'ope­ratore cinematografico?

Impiegato                      - Ecco il feretro. Andiamo, andiamo anche noi...

Giornalista                    - (a Carlo) Beh? ha visto? Che ne pensa? Tanta folla per un «testardo»?

Carlo                             - (con la commozione sof­focata in gola) Cosa vuole che pensi...? Io!? Forse è davvero il suo successo. (Ma subito si ri­prende) Ma no, ma no! Povero Carlo: non ti illudere sai... (Co­me se parlasse a se stesso) Tutta quella gente non segue te... Non commuoverti anche tu, bada... Vedi? ti hanno elevato su, all'al­tezza di un palcoscenico. (S'avvia per uscire, mentre l'impiegato chiude la finestra).

FINE