Una donna di casa

Stampa questo copione

UNA DONNA DI CASA

UNA DONNA DI CASA

Commedia in due atti

di

Vitaliano Brancati

Personaggi

Elvira Rossi
Emanuele Rossi
Rosina Lauria
Peppino Lauria
Wanda Capponcini
Giovanni Rapisardi
Ciro Ardizzoni
Tina
Marchesa Ardizzoni

Un giornalista della radio

ATTO PRIMO

  (1949. Salotto in casa Rossi a Catania. Notte. Un balcone in fondo, una porta a destra e una a sinistra. Accanto alla porta di sinistra, un grande specchio).

SCENA I

  (Elvira, inforcando con molta grazia gli occhiali, lavora a un rammendo. La cameriera Tina, una vecchia grassa, vestita di nero, si muove intorno faticosamente, e pare che il suo continuo borbottare, più che dalla bocca, venga dalle giunture e dalle ossa ogni volta che si piegano e si stendono).

TINA            - Signora mi perdoni, ma lei, questa sera, avrebbe dovuto andarci. C’è andata tutta Catania. C’è andato il prefetto. C’è andato anche l’arcivescovo.

ELVIRA       - Cosa dici, Tina? L’arcivescovo non può andare a teatro.

TINA            - Oh, come? Gli ho visto fumare la pipa.

ELVIRA       - Fumare, sì; ma andare a teatro, un arcivescovo non può.

TINA            - E invece ho saputo, da una persona sicura, che l’arcivescovo c’è andato.

ELVIRA       - Chi è questa persona sicura?

TINA            - La donna che gli fa i massaggi. (squilla il telefono).

                      Dio, Dio, il telefono. (si trascina faticosamente per rispondere).

ELVIRA       - (si è alzata ed è arrivata prima all’apparecchio) - Lascia stare! Rispondo io... Pronto! Sei tu, zio? (con gioia). Benissimo! Anche l’ultima scena?... Ah, come sono felice!... Dieci volte? dieci volte, hai detto?... Dio! Sì, sì, vai pure... vai! Grazie, grazie... Sì. (chiude il telefono).

TINA            - Chi era?

ELVIRA       - Mio zio Giovanni.

TINA            - E cosa ha detto?

ELVIRA       - Ha detto ch’è stato un grande successo!

TINA            - Sia ringraziata la Madonna del Rosario!... Signora, come ha fatto male, a non andarci, questa sera: avrebbe dovuto.

ELVIRA       - E torni, con la tua musica. Lo sai che non vado mai a teatro.

TINA            - Sì, io lo so che lei non va mai a teatro: però questa sera, suo marito non solo recita, ma recita anche una commedia scritta da lui... Avrebbe dovuto andarci.

ELVIRA       - Lasciami lavorare, Tina.

TINA            - Per me, lavori pure... Sebbene, sa? non mi piace nemmeno che lei lavori la notte, perché...

ELVIRA       - Ma io non lavoro, la notte.

TINA            - Sì che lavora la notte. In questi ultimi tempi, tutte le volte che son passata dal corridoio, ho visto acceso in camera sua...

ELVIRA       - Dormo con la luce accesa.

TINA            - Eh, no, no, no,... Una donna, figurarsi!... una donna come lei, che risparmia anche l’aria che respira, dorme con la luce accesa? Uhuu! Lei lavorava.

ELVIRA       - E va bene, Tina, lavoravo.

TINA            - E poi, la mattina, si alza presto.

ELVIRA       - Vuol dire che non mi stanco, Tina. Lasciami stare!

TINA            - (con voce ispirata) - Senta, signora: ci sarà andato anche il segretario del fascio?

ELVIRA       - Ma no, Tina: non c’è più il fascio, lo sai.

TINA            - Non c’è a Roma, ma qui a Catania c’è.

ELVIRA       - Non c’è in nessuna città d’Italia.

TINA            - Oh, Dio! Non c’è più il fascio in nessuna città d’Italia? L’hanno levato da tutte le città?

ELVIRA       - L’hanno levato da tutte le città.

TINA            - Non lo sapevo. Credevo che l’avessero levato solo a Roma. (pausa). Però lei avrebbe dovuto andarci, questa sera.

ELVIRA       - (sbuffa).

TINA            - Perché io la ricordo, sua madre, sa? Si chiuse in casa a venticinque anni, e non volle più uscire. Diventò bianca come l’erba del Giovedì Santo. A trenta anni, era più vecchia di quanto sono io ora.

ELVIRA       - Io pure sono così invecchiata?

TINA            - No, lei no. Ma... Io non do mai consigli... ma non capisco perché una signora come lei, ancora giovane, bella, debba uscire una volta all’anno, solo quando le tocca di prendere il treno... E poi cosa fa, quando arriva in un’altra città? Dritta, si va a chiudere, come una gallina con le ali tagliate... E non debba mai andare a teatro... a vedere suo marito che recita, che gli battono le mani, che un’altra lascerebbe soldi da contare per vederlo... E poi questa sera che c’è andato anche l’arcivescovo e il segretario del... Già il fascio non c’è più. (squilla il telefono). Oh, signora, e chissà chi è adesso! (si trascina faticosamente). Sarà di nuovo suo zio!

ELVIRA       - (rimanendo seduta) - No, non credo.

(il telefono continua a squillare)

TINA            - (urla in direzione dell’apparecchio) Sto venendo!

                       (finalmente arriva a rispondere). Pronto! pronto! (investita da una voce collerica e roboante, comincia a balbettare). Oh, Dio... sì, sì... No... (a Elvira). Non è suo zio... (risponde scostando un poco il cornetto dall’orecchio). Oh, ma io... Oh, mamma mia... (a Elvira). Non è...

ELVIRA       - Ma chi è, Tina?

TINA            - E’, è, è suo marito! (lascia cascare sul tavolo il microfono che sobbalza sotto le spinte della voce).

ELVIRA       - (corre felice all’apparecchio) - Emanuele!... Sì... E’ andata?... (con amarezza). Ma perché?... Ma non... Ma è andata male?... E allora perché, perché?... Ma lo sai che sono fatta così... Non è una novità... (consentendo alle parole del marito e ripetendole con dolore)... Una donna modesta... modestissima, sì... (cambiando tono). Ma non dire queste cose! Ma scusami... Ma senti... Ascolta. (chiude il telefono dal quale il marito s’è ritirato; pare che singhiozzi; esce cercando di nascondere gli occhi).


TINA            - Ecco, l’ha fatta piangere!

ELVIRA       - (torna subito indietro; mostra gli occhi alla cameriera e con voce energica) - Ti sembra proprio che pianga?

TINA            - (confusa) - No... credevo... mi pareva...

ELVIRA       - E allora, non dire stupidaggini! (esce di furia; torna subito indietro, pentita). Scusami. (l’abbraccia, le bacia i capelli; esce).

TINA            - Oh! (rimane a guardarla sbalordita).

(Suona il campanello. Tina va ad aprire, e rientra col vecchio zio di Elvira, Giovanni Rapisardi, il cui volto, mobile e nervoso, è sempre in procinto d’impermalirsi).

GIOVANNI  - Una cosa magnifica! Una cosa stupenda! Quando lui, dopo aver ricevuto quella santa mazzata in testa... L’avete visto, voi, il lavoro?

TINA            - Io non ero a teatro, signor Giovanni.

GIOVANNI  - E perché? Cosa credete? A teatro, questa sera, c’erano ignoranti come voi e peggio di voi. (di nuovo con tono esaltato). Quando lui, dopo aver ricevuto la bastonata, si rotola sul pavimento, non ho visto più nulla: né il pubblico né gli attori; nulla!

TINA            -Le son cascati gli occhiali?

GIOVANNI  - (impermalito) - Quali occhiali? Porto forse gli occhiali, io?

TINA            - E allora perché non ha visto più nulla?

GIOVANNI  - Per la polvere, che veniva dal palcoscenico... Una cosa superba!... Che ore sono? (cava l’orologio). Le undici e mezzo... Be’, io mi siedo qui e aspetto. (si siede). Non credo che debba tardare... (guarda Tina). Perché fate quella faccia?

TINA            - Quale faccia sto facendo?

GIOVANNI - Mah... m’era parso.

VOCE DI ELVIRA - Tina, piove. Non ve ne siete accorta?

TINA            - (fra sé, incredulo) - Piove? (a voce alta). No, signora. (guarda dal balcone). Sì, signora.

 (entra Elvira con un mucchio di biancheria umida sulle braccia).

GIOVANNI  - Elvira! Non mi do pace che non sei venuta a teatro!

           (Elvira ha una reazione di fastidio)

TINA            - (a Giovanni) - Glielo dica, glielo dica lei!...

GIOVANNI  - (a Tina) - Zitta, voi, state al vostro posto! Questa vecchia non mi piace! (Tina fa un gesto di fastidio ed esce).

GIOVANNI - Ma perché non sei venuta?

ELVIRA       - (legando uno spago e stendendo la biancheria) - Ti meravigli tu, zio? Il solo che non dovrebbe. Sono come la mamma, come la zia Adele. Fuori di casa ci manca il respiro, a noi! Del resto la nonna, tua madre, era fatta così.

GIOVANNI  - Non mi meraviglio. Anzi, sì, invece: mi meraviglio moltissimo: tu non sei come le altre donne della nostra famiglia: tu hai studiato, sei un’intellettuale, la moglie di un attore, una donna che vive a Roma!

ELVIRA       - Nella casa di Roma, devi dire!

GIOVANNI  - E adesso, cosa stai facendo?

ELVIRA       - Ho tolto la biancheria dalla terrazza, perché ha cominciato a piovere.

GIOVANNI - E la stendi qui?

ELVIRA       - E’ questa la stanza più calda della casa.

GIOVANNI  - Ma qui, fra poco, verranno gli amici di tuo marito, verrà forse il sindaco, il prefetto!

ELVIRA       - A quest’ora? No... (stende la biancheria). Zio, lo sai che non sono uscita nemmeno per andare a vedere la nostra vecchia casa?

GIOVANNI  - (irritandosi) - Non la chiamare casa, te ne prego! Mi fai girare il sangue!

ELVIRA       - Insomma, il luogo in cui sorgeva la nostra vecchia casa... E’ vero che si è trovato il pianoforte della nonna, il mese scorso?

GIOVANNI  - Sì, intatto... (impermalito). Oh, non vorrei che tu pensassi male di me.

ELVIRA       - Perché, zio, dovrei pensare male?

GIOVANNI  - (con la solita espressione di sospetto) - Mah, m’era parso, dalla tua faccia! (Elvira sorride). Non te l’ho mandato perché so che la musica non ti piace.

ELVIRA       - E’ un po’ troppo dire che la musica non mi piace. Non so suonare il pianoforte, questo sì.

GIOVANNI  - Ecco, appunto... Ma scusami, come lo passi il tempo? Non vai fuori, non suoni il pianoforte...

ELVIRA       - Mi occupo della casa...

GIOVANNI  - Io parlavo di svago...

ELVIRA       - Leggo.

GIOVANNI  - Capirai che svago! E me l’immagino, poi, cosa leggi! Commedie! Tutte le commedie che fa tuo marito!

ELVIRA       - (lo corregge) Quasi tutte.

GIOVANNI  - Non tutte?

ELVIRA       - Alcune, non le capisco... A che pensi?

GIOVANNI  - Mi domando in quale diavolo di paese può trovarsi un’altra donna come te. E tuo marito, è contento?

ELVIRA       - (si fa scura, smette di stendere la biancheria, si siede sulle ginocchia dello zio e gli appoggia la fronte su una spalla. Pausa).

GIOVANNI  -Be’, mi dispiace. (Elvira si alza e torna al suo lavoro). Forse avete fatto male a sposarvi.

ELVIRA       - (vivacemente) - Non lo dire!

GIOVANNI  - Gli vuoi molto bene?

ELVIRA       - (abbassa ripetutamente ed energicamente la testa).

GIOVANNI  - E lui?

ELVIRA       - (in fretta) - Anche lui naturalmente, anche lui.

                       (suona il campanello. Entra Tina).

 TINA           - Signora... (s’interrompe, vedendo la biancheria stesa). E come posso far entrare qui delle persone? (suona il campanello).

GIOVANNI  - Già! Come si fa?

TINA            -(risoluta) - Tolgo via tutto!

ELVIRA       - No, i bambini sono raffreddati: hanno bisogno di un fazzoletto ogni minuto. (a Tina). Andate ad aprire!

TINA            - Ma signora...

GIOVANNI  - (a Tina, violento) - Non discutete e non fate smorfie! Andate ad aprire! (Tina esce). Questa vecchia non mi  piace.

ELVIRA       - Zio, vado di là... Tu mi scuserai con queste persone... Spiegherai... Dirai... (esce in fretta).

GIOVANNI  - (fra sé) - Io non dico nulla.

VOCE DI TINA - Accomodatevi. Non è ancora venuto, ma non può tardare.

(Entra il commendator Peppino Lauria, seguito dalla moglie che reca un mazzo di fiori. Si vede che l’ingresso di queste persone non piace a Giovanni Rapisardi. Una vecchia ruggine deve covare fra costui e i nuovi arrivati. Seggono in silenzio. Lauria, imbarazzato, parlotta con la moglie e si consiglia con lei; forse vorrebbe rompere il ghiaccio con Giovanni Rapisardi).

PEPPINO     -(dopo molte esitazioni) - Scusi, pensa che suo nipote si dispiacerà se ci siamo permessi di venire a disturbarlo a quest’ora?

GIOVANNI  - (lo guarda e non risponde).

PEPPINO     - Dicevo... Suo nipote Emanuele... si dispiacerà se...

GIOVANNI  - (brusco) - Quanti anni è che non ci salutiamo, noi due?

PEPPINO     - Eh, eh... molti! devono essere almeno venti... no, ventidue anni!

GIOVANNI  - E allora? (vuol dire: “e allora perché mi rivolge la parola?”);

(pausa ancora più imbarazzata).

PEPPINO     - (insorgendo) - Ma è stato lei che ha cominciato! Lo deve ammettere. E non ho mai capito la ragione di questo suo modo di comportarsi. Mai! Ne abbiamo parlato tanto con mia moglie. Potrebbe degnarsi di dirmelo oggi che per un caso siamo capitati sotto lo stesso tetto: perché ha agito così?

GIOVANNI  - Non lo so. Noi ci siamo parlati una volta sola, e fu quando ci conoscemmo, in casa dell’onorevole Cavazza, nell’inverno del 1905. E’ vero?

PEPPINO     - E’ vero. E da quel giorno, quando c’incontravamo, ci salutavamo sempre.

GIOVANNI  - Sì, ma mi ricordo che una sera dell’inverno del 1927, lei mi scusi la sincerità, mi fece antipatia. Se mi domanda perché, se mi domanda come, non so dirglielo. Ma mi fece tanta antipatia! Allora mi dissi: “Con questo qui, ci salutiamo da vent’anni senza scambiarci mai una parola... Ma perché dobbiamo salutarci?”. E non la salutai più.

PEPPINO     - (indignato) - Oh, la bella ragione! La bella, la bellissima ragione!

GIOVANNI - Questa è! Poi, aggiunga, lei diventò segretario federale.

PEPPINO     - (con orrore) - Io? Mai!

GIOVANNI  - Non so... vicesegretario...

PEPPINO     - Mai vicesegretario federale! Lei confonde.

GIOVANNI  - No, non confondo. Buona ce l’ho la memoria, sa?

ROSINA      - Mio marito non è stato mai vicesegretario federale. Ero io ispettrice del partito, e non voglio che i miei errori, se pure di errori si può parlare, vengano attribuiti a mio marito.

GIOVANNI  - Lei o lui, non lo so. Ma l’antipatia me la faceva lui... Signora, devo dirglielo. (di nuovo rivolto a Peppino). Aggiunga...

PEPPINO     - Aggiungo, aggiungo...

GIOVANNI  - ...quando la sua baracca cascò...

PEPPINO     - Non dica la mia! Glielo proibisco... La baracca era mia, sua, e di tutti!

GIOVANNI  - Quando la baracca di tutti cascò, lei si mise a pulire con la lingua i pavimenti di tutte le chiese, portò il cero in tutte le processioni, e a Caltanissetta osò fare la parte di Gesù Cristo nella rappresentazione del Venerdì Santo! E allora mi fece, se pure era possibile, ancora più grande antipatia.

PEPPINO     - Ma perché, scusi?

GIOVANNI  - Come, perché? Gesù Cristo lei che, a ogni abbaiare di cane, me lo ricordo come se fosse oggi, lucidava gli stivali, si bardava di nastri, sciabole, medaglie, e scendeva per via Etnea come il cavallo della festa di sant'Alfio... Lei Gesù Cristo? E faceva conferenze sui gas asfissianti... Lei, Gesù Cristo!

PEPPINO     - Bandiera e altare sono stati sempre la mia religione!

ROSINA      - E’ vero, Peppino. E posso dirlo io che sono tua moglie. (a Giovanni). E poi, signor Giovanni, credo che anche in questi brutti tempi, ognuno sia padrone di amare come vuole la bandiera e la Chiesa.

GIOVANNI  - Lui è padronissimo di amare come vuole e chi vuole. Ma anch’io sono padrone di avere per lui... (s’interrompe; poi con tono calmo). Mi perdoni, signora. Dimenticavo di trovarmi in un casa quasi mia. Mi perdoni... E mi scusi anche lei, signor Lauria. Sia come non detto quello che abbiamo detto.

      (Pausa).

PEPPINO     - Prego.

(Pausa. La signora tocca col gomito il marito indicando Giovanni. Il marito non capisce. La signora torna a toccarlo).

PEPPINO     - Ma cosa vuoi?

ROSINA      - Chiedilo a lui se possiamo...

PEPPINO     - Ma no.

GIOVANNI  - Prego, prego, mi dica!

PEPPINO     - No, si trattava di questo...

GIOVANNI  - (irritandosi) - Perché dice no? Se comincia dicendo no...

PEPPINO     - No?... Chi ha detto no?

GIOVANNI  - Ma lei! Ha cominciato dicendo no!

PEPPINO     - No... Volevo...

GIOVANNI  - Lo vede che dice no?

PEPPINO     - E che male c’è se dico no?

ROSINA      - Parlo io. Volevamo chiedere a suo nipote... dato che ci troviamo alla vigilia delle elezioni amministrative... se lui... che è così bravo... tanto bravo... e questa sera è stato (cerca a lungo una parola efficace, ma è costretta a contentarsi del solito aggettivo) così bravo!... e certamente, se dovrà votare, non voterà mai per quegli altri... Ha capito?

GIOVANNI  - No, signora.

ROSINA      - Cominciamo da più indietro. Mio marito, che è molto modesto e non parla mai di sé...

PEPPINO     - Rosina, lascia stare!

ROSINA      - E’ vero. Non parli mai di te, e invece faresti bene a parlarne...

PEPPINO     - Ma cosa dici?

ROSINA      - Sì, faresti bene a parlarne perché la tua vita potrebbe servire da esempio a tanti!

GIOVANNI  - (per interrompere) - Diceva, signora?

ROSINA      - ...Mio marito, dunque, ha scritto un soggetto cinematografico sull’abate Ferrari.

GIOVANNI  - E chi è?

PEPPINO     - Un abate che visse qui vicino, a Viagrande, e che nessuno ricorda più.

GIOVANNI  - E perché lei non lascia le cose come stanno?

ROSINA      - Perché la vita dell’abate Ferrari potrebbe servire da esempio a tutti. E se il soggetto di mio marito sarà accettato, vedrà che bel film!

GIOVANNI - E c’è la speranza che lo vedano, questo film? Dico lo vedano loro, perché io certo non andrò a vederlo...

ROSINA      - Fino a ieri no, ma ieri è stato nominato direttore della grande casa cinematografica Brex di Roma un amico d’infanzia di mio marito. Pensi: un amico d’infanzia! Non c’è la mano della Provvidenza, in tutto questo?

GIOVANNI  - Be’, in un certo qual modo... Ma cosa c’entra mio nipote?

PEPPINO     - Glielo dico subito io. Scrivendo questo soggetto, ho capito l’importanza che ha l’arte nella propaganda politica. L’arte dev’essere al servizio delle grandi idee. Ora (alzandosi) noi dobbiamo vincere, in queste elezioni... a tutti i costi... e l’arte deve aiutarci. Volevamo per questo chiedere a suo nipote, dato che non possiamo ancora proiettare il mio film, se fosse disposto a scrivere e recitare per una nostra serata una scena, o un atto, o tre, o cinque... quanti ne vuole lui... in difesa della bandiera e...

GIOVANNI  - ...dell’altare.

PEPPINO     - ...e dell’altare.

GIOVANNI  - Be’, glielo chieda.

VOCE DI EMANUELE ROSSI (su tre toni diversi, con una collera addolcita dal virtuosismo musicale) - Per dio, per dio, per dio! (tutti trasalgono).

(Entra Emanuele Rossi seguito da Wanda Capponcini e, poco dopo, dalla cameriera Tina).

EMANUELE - Dov’è la cameriera?

TINA            - Eccomi qui.

EMANUELE - Non cerco voi, sapete. La cameriera, in questa casa, è mia moglie. E’ lei che ha l’anima servile.

                      Per dio, con tutti i soldi che si spendono, io devo avere una sola cameriera. A Roma, pago un cuoco, un autista, una sguattera (indicando Tina), questa vecchia inutile, un portiere... dico un portiere che viene a lavarmi i pavimenti, ma la vera, la sola, l’incontrovertibile cameriera è sempre mia moglie! (vedendo Giovanni, che gli fa gli occhiacci, si calma). Oh, zio! Non ti avevo visto. Come stai? Ti è piaciuto come abbiamo messa in scena la commedia?

GIOVANNI  - Una cosa superba!

EMANUELE - (guardando verso i Lauria) - E questi signori?

PEPPINO     - Sono il commendatore Peppino Lauria.

ROSINA      - (s’avvicina a Emanuele) - Se permette... (gli porge i fiori).

EMANUELE - Grazie. Loro erano a teatro? E’ piaciuta la commedia?

ROSINA      - (contraendosi ancora una volta, e sempre inutilmente, nello sforzo di estrarre dal suo entusiasmo aggettivi straordinari) - Bravo, bravo... ma così bravo! (a Wanda). E anche lei, signora, com’è stata brava! brava!... ma così... (cerca a lungo) brava. Il suo personaggio era così sgradevole, ma lei così... brava!

WANDA      - Sgradevole il mio personaggio? Non trovo.

ROSINA      - Eh, sì, quell’amante era veramente noiosa.

WANDA      - (secca) - Io ero la moglie. L’amante era la Valeri. Non so come abbia potuto confondermi con una donna che ha quelle cosce (fa svolazzare la veste per mostrare le sue).

ROSINA      - (stupita) - Strano! Avrei detto...

EMANUELE - (interrompe scorgendo la biancheria) - E questa, cos’è? Cosa vuol dire? Sarebbe il mio arco di trionfo? Dov’è mia moglie? (a Tina). Chiamatela. (Tina si precipita fuori).

EMANUELE - (ai Lauria) - Loro hanno da dirmi qualche cosa?

PEPPINO     - Veramente... sì.

EMANUELE - Ma è quasi mezzanotte.

PEPPINO     - Avremmo una certa urgenza.

EMANUELE - (infastidito) - Abbiano almeno la cortesia di aspettarmi nell’altra stanza. (indica la porta di sinistra verso la quale Peppino Lauria e Rosina si avviano). Ecco, di là.

(I Lauria escono).

WANDA      - Che barbari! Cosa vengono a teatro a fare? Nulla. Scambiano me con una donna che ha i gomiti attaccati alle spalle.

GIOVANNI  - (a Emanuele) - Ti avverto che quel signore è il presidente della deputazione provinciale.

EMANUELE - (leggermente colpito) - Personaggio influente?

GIOVANNI - Abbastanza.

EMANUELE -    Può fare del male?

GIOVANNI  - Può... Te lo dico perché tu stesso mi hai dichiarato una volta che, in politica, la tua divisa è...

EMANUELE -    “Avere paura”. E di che partito è, questo personaggio influente?

GIOVANNI  - Del partito che sta al governo.

EMANUELE -    Ahi! (si avvicina alla porta, chiama). Commendatore, commendatore Lauria! La prego: entri. Volevo risparmiarle una scena privata... (melodrammatico) ma io non ho nulla di privato: su tutte le mie cose, gli occhi della folla, come una nuvola di mosche!... Venga, vengano!

(Rientrano Peppino Lauria con la moglie Rosina. Emanuele, incoscientemente guidato dal desiderio, si colloca davanti allo specchio e vi si guarda. Rumore di porta: entra Elvira e si ferma intimidita sulla soglia).

EMANUELE - (si irrigidisce; senza voltarsi domanda) - Sei tu?

ELVIRA       - Sì.

EMANUELE -(allo zio) - Mi dica: che cos’ha in mano? Una scopa? Uno straccio? Non ha le mani rosse come un cotechino? Sgocciolanti?

GIOVANNI - Nulla di tutto questo. E’ bella come un fiore... Pensa per te. Pensa a quelle occhiaie che ti ritrovi!

EMANUELE - (colpito si guarda allo specchio, tirandosi indietro la pelle delle guance) - E’ vero!... sono giù. (Si volta infuriato). Dunque è così che io vengo accolto a casa mia, tornando da un teatro in cui ho recitato la commedia di un autore che mi sta molto a cuore, molto, molto a cuore, perché quell’autore sono io stesso?... Tutti mi domandavano: “Dov’è la signora?”... E la signora eccola qui, affaccendata ad addobbare come un sudicio cortile il salotto della mia casa.

ROSINA      - Ma come? E’ questa la sua signora?

EMANUELE - E’ questa, la mia signora.

ROSINA      - Mi perdoni. (leva il mazzo di fiori dalle braccia di Giovanni e lo porge ad Elvira). I fiori erano per lei.

ELVIRA       - Grazie.

ROSINA      - E lei non era a teatro?

EMANUELE -    Ma signora, cosa ho detto poco fa? Lei non mi ascolta! Spero che a teatro non sia stata così disattenta.

WANDA      - E come no? Mi ha scambiato con una donna che ha la voce di un’alcoolizzata.

EMANUELE - (a Rosina) - Mia moglie non viene mai a teatro. Anche quando suo marito scrive una commedia, e la recita con tutto l’amore che un uomo può avere per se stesso, la cosa non interessa mia moglie.

GIOVANNI  - (pronto ad inalberarsi) Ma come puoi...? Ma se...?

                       (Elvira lo trattiene ponendogli una mano sul braccio. Lui la guarda, si riprende, cambia tono) Però, qualche parola in sua difesa devo dirla. (Le batte dolcemente sulla mano, come per farle capire che può stare tranquilla) Essa è figlia di una mia sorella, una donna che, da quando le morì un bambino di sei mesi, non mise più il naso fuori dell’uscio.

EMANUELE - Ma a lei non è morto nessun bambino.

GIOVANNI - Già... e infatti lei lo mette il naso fuori dell’uscio, almeno qualche volta.

TINA            - E quando si tratta di viaggiare bisogna vederla alla stazione!

GIOVANNI  - (a Tina) - Zitta, voi! State al vostro posto.

EMANUELE -(con calma esagerata) - Bene. Mi piace che la difendiate. Perché lei (ironico) non si difende. E perché non si difende?... Perché ha torto!

ELVIRA       - (Annuisce)

EMANUELE - Ecco, lo riconosce anche lei. (forte).

                       E allora se hai torto, correggiti! Perché non ti correggi?... (di nuovo ironico). Non risponde. E sapete perché? Perché lei non ama il teatro. E basta che ci sia una terza persona ad ascoltarla, per lei è già teatro. E sta zitta. Così: guardatela. (con indignazione solenne). Direi che ha letto il trattato contro il teatro di Machiavelli...

GIOVANNI - Un trattato contro il teatro di Machiavelli? Non lo conosco.

EMANUELE - Di chiunque sia questo trattato, e se pure nessuno lo ha scritto, direi che essa lo ha letto... Ma state tranquilli: non legge niente! Nemmeno le pièces che recita suo marito.

GIOVANNI - (pronto ad inalberarsi, come poco prima) Ma che...? (si riprende con uno sforzo)

EMANUELE - Non ne ha letta neanche una. I suoi libri e la sua musica sono gli strilli dei bambini, i suoi cocktails la pipì dei bambini, le sue delizie la merda dei bambini.

ROSINA      - (scandalizzata) - Oh...

EMANUELE - Come dovrei dire, signora?

ROSINA      - La cacca dei bambini.

EMANUELE - E la cacca non è la merda dei bambini?

ROSINA      - (ancora più scandalizzata) - Oh!

EMANUELE - (continuando col tono dell’invettiva) - E l’architettura, di quella sì, ha studiato i pavimenti; a quattro piedi, quando li lava.

GIOVANNI  - (a Emanuele) - Stai esagerando!

EMANUELE - Non esagero. Lo può dire lei stessa... Ma lei non parla.

ROSINA      - La signora è una donna di casa.

EMANUELE - Una serva di casa.

GIOVANNI  - Emanuele, tu esageri!

(Con uno scatto, per evitare di dire ciò che non dovrebbe, esce sul balcone e si richiude la portafinestra alle spalle. Lo vediamo mettersi a fumare)

EMANUELE - (Agli altri) Domandatele quante volte è venuta a vedermi a recitare. Su, domandatele.

(Tutti si volgono verso Elvira).

EMANUELE - Parla, su!

ELVIRA       - (timidamente) - Mai.

EMANUELE -(a Rosina) - Che ne dice, signora?

ROSINA      - Mi pare così strano! (va a prendere i fiori dalle braccia di Elvira e li ridà ad Emanuele; poi in disparte a Peppino). E io che credevo che la signora ci potesse aiutare presso il marito! Ma è una povera ignorante.

(Si sente un frastuono nella strada).

TINA            - (guardando dal balcone) - Santa Barbara, quanta gente!

ROSINA      - Non saranno i nostri nemici?

PEPPINO     - (s’avvicina al balcone, guarda) - No, vedo uno che bacia i piedi di un’icona. Sono dei nostri.

ROSINA      - (guarda anche lei) - Ma io vedo uno che bacia sui piedi  il ritratto di un uomo col cappotto. Sono i nostri nemici.

EMANUELE - (preoccupato) - Possono fare del male? Signori, dico a voi, questa gente può arrecare danno alle cose e anche alle persone?

(Si sentono degli evviva. Zio Giovanni rientra nella stanza).

GIOVANNI  - Emanuele, la folla del teatro vuole festeggiarti.

EMANUELE - Me? Me?

GIOVANNI  - Chiedono che ti affacci! (prende la mano di Elvira e la stringe fra le sue).

WANDA      - (a Elvira, accennando a un paio di mutande appeso davanti al balcone) - Crede che sia opportuno mostrare alla folla che tipo di mutande porta un grande attore?

ELVIRA       - Ha ragione. Alla folla non bisogna mai mostrare le mutande senza le gambe. (va lesta a togliere le mutande).

EMANUELE - Apri il balcone, Elvira, e ritirati! Non farti vedere! (Elvira apre il balcone e si ritrae). E via, questi panni sporchi!

 (dà uno strappo allo spago e fa cadere la biancheria. Elvira la raccoglie pazientemente).

ROSINA      - (guardando giù) - Dio, quanta gente! (al marito). Sei lui recita nella nostra serata, tutte queste persone voteranno per noi.

EMANUELE -    (s’affaccia al balcone. Battimani) - Grazie, grazie, cari concittadini... Ho fatto del mio meglio, grazie... Sono nato nella terra di Bellini e di Verga...

VOCE          - ...e di Pirandello!

EMANUELE - ...e del grande, del sublime Pirandello, e cerco di mettermi alla loro altezza... Naturalmente non ci riesco.

VOCI           - Sì sì, ci riesci! Sei come Molière: scrivi e reciti. Sei come Shakespeare! (battimani).

EMANUELE - (rientra gonfio di contentezza).

PEPPINO     -(a Emanuele, in fretta, quasi con affanno) - Non deve dirci di no! Deve scrivere qualcosa per noi, bella, come il lavoro di questa sera, e recitarla nella nostra serata di sabato prossimo.

ROSINA      - (supplichevole) - La scriverà? Dica: la scriverà?

EMANUELE - (torna ad affacciarsi; Wanda cerca di affacciarsi anche lei, ma Emanuele la respinge con una mano, mentre con l’altra saluta la folla; rientra turbato) - Qualcuno ha detto: è vecchio. (A Wanda). Hai sentito?

WANDA      - Come potevo sentire? Mi hai respinto a gomitate.

EMANUELE - (va allo specchio) - E’ vero: sono invecchiato.

(Altri applausi dalla strada).

EMANUELE - (s’affaccia e manda baci alla folla).

VOCI           - Commendatore, sei grande! Buona notte, scrivi un altro capolavoro! Buona notte.

EMANUELE - (rientra) - Commendatore! Non sono nemmeno cavaliere.

PEPPINO     - (precipitandosi a sfruttare l’occasione) - Lo sarà! Glielo prometto formalmente. Se ci fa il favore che le ho chiesto, entro una settimana sarà commendatore.

EMANUELE - Ma come? Dov’è più il re? L’avete mandato via.

PEPPINO     - Sarà commendatore della repubblica.

EMANUELE - Ed è lo stesso?

ROSINA      - Meglio!

EMANUELE - E che cosa dovrei fare per diventare commendatore della repubblica?

PEPPINO     - Gliel’ho detto: scrivere e recitare per noi.

EMANUELE - Per voi, in che senso? Voglio dire: che cosa bisogna esaltare e che cosa, invece, deprimere?

PEPPINO     - Esaltare i nostri ideali.

EMANUELE - (imbarazzato) - Già... i vostri ideali... Ma in questo momento, perdonatemi, ho la testa confusa: quali sono?

PEPPINO     - Noi siamo il partito che sta al governo.

EMANUELE - Lo so. E naturalmente, gli ideali di un partito che sta al governo non possono che essere ottimi. Altrimenti non starebbe al governo... Però...

GIOVANNI  - Te lo dico io: esalta la bandiera e l’altare...

EMANUELE -    L’altare? La nostra religione, la religione dei nostri padri, quella che ci hanno insegnato da bambini? E come si può non esaltarla? Scriverò una scena... (guarda incerto Giovanni) un atto... (c.s.) due... (c.s.) tre atti per voi. Senz’altro.

PEPPINO     - Commendatore, la ringrazio con tutta l’anima.

EMANUELE -    (di nuovo allo specchio) - Commendatore sì, ma giovane no, mai più. (con impeto). Come posso macchiare un nome intemerato facendolo portare a questo vecchio?

WANDA      - Quale nome intemerato?

EMANUELE -    Il mio: il nome di un giovane, di un adolescente, di un bambino... Questo è stato fino a ieri il mio nome. Ed ecco adesso chi lo porta: un povero asino scorticato... (con altro tono). Però a quarantadue anni...

GIOVANNI  - (spalanca la mano sinistra per dire che non sono due, ma cinque gli anni che seguono i quaranta).

EMANUELE -    ...Non dovrei avere queste borse sotto gli occhi. (con rabbia). Ma chi mi ha fatto invecchiare così presto? chi desidera che io invecchi subito, per avermi sempre vicino, col gatto sulle ginocchia? chi m’infila anni, anni, anni mentre dormo la notte? chi mi mette anni nella minestra, nel vino, nell’acqua? chi mi avvelena di anni in questa casa?

ELVIRA       - Io, naturalmente.

EMANUELE -    Tu, tu, tu!... Perdio, ci sono tanti che cercano una donna di casa, e non la trovano... E io che volevo una... ecco, dico la parola senza vergognarmi: una donna di società... una... si, anche una donna che mi facesse le corna... ho invece per moglie questa santa ignorante.

GIOVANNI  - (scatta su e afferra Emanuele per le spalle) - Senti, questa sera mi stai facendo una antipatia!... Bah! (va a versarsi qualcosa da bere).

PEPPINO     - Magari noi ce ne andiamo, Rosina.

ROSINA      - Sì, Peppino. (salutano impacciati ed escono).

GIOVANNI  - (più calmo, a Wanda) - Signora, avrei bisogno di parlare a quattr’occhi con Emanuele.

WANDA      - Me ne vado. Buona notte. (a bassa voce a Emanuele). Cosa vuole dire che t’infila anni mentre dormi la notte? (minacciosa). Dormite forse insieme?

EMANUELE -    (a bassa voce) - Ma no. Mi piaceva la frase.

WANDA      - (c.s.) - Ho cambiato albergo, te ne ricordi?

EMANUELE - Sì. Buonanotte.

WANDA      - (a Elvira, con voce forte e ironica) - Signora, va bene il Persil per lavare i guanti?

ELVIRA       - Bisogna vedere cosa fa lei coi guanti.

WANDA      - Quello che si fa con le mani.

ELVIRA       - Bisogna vedere cosa fa lei con le mani.

WANDA      - (fa un gesto d’impazienza ed esce).

VOCE DI TINA - Signora, c’è Enrichetto tutto in un sudore.

ELVIRA       - (a voce alta) - Vengo subito a cambiarlo. (Esce).

GIOVANNI  - Ti sei impegnato a scrivere tre atti per quella gente. Scrivili.

EMANUELE -    Io?

GIOVANNI  - E chi allora?

EMANUELE -     E che c’entro io?

GIOVANNI  - E chi c’entra?

EMANUELE -     Chi ha scritto il lavoro di questa sera: tu.

GIOVANNI  - Ti ho ripetuto cento volte che l’autore non sono io.

EMANUELE -    Lo so, figuro io... tu me l’hai portata, questa commedia... Ma adesso che siamo a quattr’occhi, torno a domandarti: perché tanta segretezza? E’ un lavoro che farebbe onore a chiunque; perché non hai voluto che comparisse il tuo nome? Ti prego di rispondermi sinceramente.

GIOVANNI  - Tu non mi vuoi credere, ma ti assicuro che non ho scritto io quel lavoro.

EMANUELE -    (preoccupato) - Oh, un momento! Non l’hai detto mai con una voce tanto seria. E’ la verità?

GIOVANNI  - Te lo giuro sull’anima di mio padre.

EMANUELE -    Ma allora?... Io sono nelle mani di questo autore sconosciuto che, quando vuole, può farmi precipitare nel ridicolo? A meno che non si tratti di un morto... Ma in questo caso, potrebbero farsi avanti gli eredi... A meno che l’erede non sia tu... Tuo padre era un poeta... L’ha scritto il tuo defunto padre?

GIOVANNI  - Mio padre è morto trent’anni fa e non era un profeta per poter mettere in scena dei personaggi, che al suo tempo non erano nati.

EMANUELE -    (strizzando l’occhio e cercando in tutti i modi di persuaderlo a consentire). - Tu gli hai messo le mani dentro?


GIOVANNI  - Emanuele, parliamoci chiaro: io non so scrivere nemmeno una lettera, come non la sai scrivere tu.

EMANUELE -    Ma insomma, mi avete teso un tranello? Ho il diritto o no, di sapere chi ha scritto un lavoro di cui sono io l’autore?

GIOVANNI  - Hai promesso che, se il lavoro fosse andato bene, non avresti fatto domande.

EMANUELE -    (risoluto) - Domani andrà male. Quanto è vero Iddio, lo faccio fischiare dalla prima parola all’ultima...

(Entra Elvira).

ELVIRA       - Scusate...

EMANUELE - Stavi dietro la porta! Cosa vuoi?

ELVIRA       - Io?

EMANUELE - Sì... Una serva, una serva...

GIOVANNI  - (spazientito, prende in silenzio il cappello, l’ombrello, infila il pastrano). - Che modi!... Buona notte.

EMANUELE -    Non te ne andare! (a Elvira). Dovevamo parlare di cose molto serie. Ma naturalmente, non si può, se c’è la padrona-serva che origlia dietro la porta.

GIOVANNI  - (è al colmo dell’insofferenza; si volge per andarsene poi si ferma e scandisce fra i denti) - L’autore del lavoro che hai recitato questa sera è tua moglie.

EMANUELE -    (calmo come chi ha sentito una frase priva di senso) - Chi? (poi con voce alterata). Chi?

GIOVANNI  - (si volge e lo guarda).

EMANUELE -    (cercando di ridere) - Ma no!... Ma no!... (fissa Giovanni che non ride, la moglie che si è turbata). Ma no! (pallido, con la bocca tremante). Com’è?

GIOVANNI - Tua moglie (a Elvira). Scusami, sai: o lo prendevo a schiaffi o gli dicevo la verità. Ho preferito dirgli la verità. Buona notte. (s’avvia per uscire).

EMANUELE - Aspetta!... Non ci credo. Dammi una prova.

GIOVANNI  - (cava da una tasca un fascio di fogli e lo depone sul tavolo).

EMANUELE -    (raccoglie i fogli, legge) - “Carne trecento lire. Latte duecento...”. Ma questi sono i conti della spesa.

GIOVANNI  - Volta.

EMANUELE -    (volta e legge) - “Come è stata sciocca la vita e come il sentimento”... Ma questa è una mia battuta... La calligrafia... (a Elvira) è la tua...

GIOVANNI  - Buona notte. (esce).

(Moglie e marito sono di fronte: Elvira umile e vergognosa, Emanuele ancora tronfio, ma come paralizzato nella sua tronfiezza).

EMANUELE -    (col solo fiato). Tu?

ELVIRA       - Perdonami... Ho commesso una sciocchezza...

EMANUELE -    (si copre la faccia con le mani) - Oh, che vergogna!

ELVIRA       - Perché? Del resto non lo saprà nessuno.

EMANUELE - Fra poco lo sapranno tutti.

ELVIRA       - Chi potrà dirlo? Mio zio è un uomo serio.

EMANUELE - Uno di noi non è serio e parlerà.

ELVIRA       - E chi?

EMANUELE - Io.

ELVIRA       - No, te ne prego!... (angosciata). Ma cosa m’è venuto in mente?

EMANUELE -    (sempre col fiato) - Ma, quando?

ELVIRA       - Quando, cosa?

EMANUELE -     Quando hai?... (fa il cenno di scrivere). Se sempre per le mani... (prende una camiciola, fa cenno di rammendarla). La notte?

ELVIRA       - Sì.

EMANUELE -     Che errore, dormire in camere separate. Ma come hai fatto? Ma... ma... ma... Divento pazzo.

ELVIRA       - Ma Emanuele, non lo recitare più, non ne parliamo più. Guarda: brucialo! Non m’importa nulla, non m’interessa, il solo pensiero di averlo scritto mi annoia.

EMANUELE -     Ma come... hai saputo?... Se non leg...? Se non sei stata mai a te... (per l’angoscia non riesce a terminare le frasi). Oh, mi scoppia il cervello!

ELVIRA       - Ma non è cascato il mondo. Rimani sempre quello che sei. Hai sempre una moglie che baderà alla casa, ai figli...

EMANUELE -     Che vergogna!

ELVIRA       - Che farà le tue valigie ogni volta che devi partire.

EMANUELE - Che vergogna! che vergogna!

ELVIRA       - (avvicinandosi a lui) - Dio, che occhi! Come sono infelici! Ma cosa devo fare? Dimmelo, su. Faccio qualunque cosa. Ordina!

EMANUELE -    (dopo aver pensato un attimo, con tono risoluto) - Va bene, ordino. Prendi la penna e rimettiti al lavoro. Scrivi subito quello che io ho promesso di scrivere a quell’uomo influente, a quell’esempio di onestà e di castigatezza, insomma, a quello scocciatore.

ELVIRA       - (con dolcezza) - No.

EMANUELE - Come hai detto?

ELVIRA       - (c.s.) - No.

EMANUELE - Cosa vuol dire, no?

ELVIRA       - Che non posso fare ciò che mi chiedi.

EMANUELE - Perché?

ELVIRA       - Perché non mi va di scrivere in questo modo.

EMANUELE - E se è utile a tuo marito?

ELVIRA       - Non posso ugualmente.

EMANUELE - Hai detto che avresti fatto tutto quanto io ti chiedevo.

ELVIRA       - Ma questo no.

EMANUELE - E se te l’ordino categoricamente?

ELVIRA       - Non... non... non... riesco a obbedire.

EMANUELE -    (alzando la voce) - Te lo ordino.

ELVIRA       - Non posso.

EMANUELE - (s’abbatte su una poltrona) - E’ incredibile quello che succede questa notte. E’ assurdo.

ELVIRA       - (con vero candore) - A me pare tanto semplice.

EMANUELE -    (fra i denti) - Semplice, semplice?... (si alza, di nuovo risoluto). Se non vuoi scrivere quello che ti ho chiesto, non scriverai più nulla! Mai più nulla!

ELVIRA       - (felice) - Con piacere.

EMANUELE - Ti sorveglierò la notte. (va alla porta, chiama). Tina, portate il mio letto nella camera della signora.

ELVIRA       - Mi fa molto piacere.

EMANUELE - (dopo una pausa, come accorgendosi di un tranello) - Oh, ma altri figli, no!

ELVIRA       - (fa sorridendo un gesto di obbedienza).

B U I O

SCENA II

(La stessa del primo atto. Giorno. Elvira inginocchiata sta lavando e strofinando i pavimenti. Ciro Ardizzoni sta seduto sul divano. Ai suoi piedi, è una valigia. Aspetta da quasi mezz’ora. Ciro è impaziente e guarda verso la porta e il balcone. Poi fissa il bracciolo del divano su cui picchia lentamente la palma della destra. D’un tratto si rivolge a Elvira).

CIRO            - Come vi trattano, i vostri padroni?

ELVIRA       - (dopo un attimo di sorpresa, reprimendo un piccolo sorriso) - Eh, non mi posso lamentare.

CIRO            - Sapete che il vostro padrone ha scritto un lavoro pieno d’amore per gli umili?

ELVIRA       - Per chi?

CIRO            - Per gli umili.

ELVIRA       - E chi sono?

CIRO            - Voi, per esempio.

ELVIRA       - Io sono umile?

CIRO            - Tutti gli uomini e donne che servono altri uomini e donne sono umiliati, e dunque umili.

ELVIRA       - Ah! (continua a lavorare). E così il mio padrone ha scritto un lavoro pieno d’amore per me?

CIRO            - Non proprio per la vostra categoria, ma, in generale, per quelli che lavorano modestamente.

ELVIRA       - Ed è bello, questo lavoro?

CIRO            - Mah... Tutti i giornali di Roma pubblicano la fotografia del vostro padrone. I critici borghesi sono concordi nel giudicarlo un piccolo capolavoro.

ELVIRA       - E lei, scusi? (guardandola). Ma lei è un operaio?

CIRO            - (imbarazzato) - Operaio no, ma insomma... certo non sono un borghese.

ELVIRA       - Ah!... E a lei, che non è un borghese, come le sembra questo lavoro?

CIRO            - Avrebbe potuto riuscire un bellissimo lavoro, ma il vostro padrone non ha notato certe cose. Ha una visione meccanicistica della vita, non dialettica... Capite?

ELVIRA       - Mi sembra di no.

CIRO            - Eh, non potete.

ELVIRA       - Ma io non sono una borghese, sono una donna che lavora con le mani: dovrei capire.

CIRO            - Insomma, il vostro padrone vede le cose alla superficie.

ELVIRA       - (toccando la superficie del tavolo) - Questa?

CIRO            - Sì.

ELVIRA       - (agitando la mano sotto il tavolo) - E non questa?

CIRO            - Su per giù. Gli sfuggono le cause economiche. Si sente che non ha letto Marx. A proposito, sapete se nella libreria di questa casa c’è un libro grosso così... (accenna con le mani).

ELVIRA       - (ripete il gesto in maniera approssimata) Così?

CIRO            - (riprova a trovare una misura) Non così... Insomma, così...

ELVIRA       - (c.s.) Così?

CIRO            - Bisogna vedere in quale edizione è stampato.

ELVIRA       - Perché dipende dall’edizione...

CIRO            - Ma in qualunque edizione, non è mai così... è così. (e sceglie una misura di mezzo tra tutte quelle indicate) - Insomma, così... Che sulla copertina, (per spiegare meglio) di fuori, porta stampato: Il Capitale, e sopra, più piccolo: Carlo Marx?

ELVIRA       - L’ho visto un libro come dice lei.

CIRO            - Intitolato Il Capitale?

ELVIRA       - No, La Capitale. Vi cerchiamo le strade, quando siamo a Roma.

CIRO            - Sarà una guida del Touring. Non parlavo di questo. (pausa; poi, fra sé). Mi sa tanto che questa è la casa di un reazionario.

ELVIRA       - E questo non va bene!

CIRO            - Certo, il lavoro che sta recitando sembra scritto da un uomo di sinistra.

ELVIRA       - E questo va bene?

CIRO            - Mentre quello che ha detto al telefono...

ELVIRA       - Sì?

CIRO            - Mi è sembrato reazionario.

ELVIRA       - E questo non va bene...?

CIRO            -      Del resto, anche i romanzi di Verga... Lei conosce Verga? (Elvira lo guarda senza rispondere. Ciro spiega, con condiscendenza)  Un grande scrittore siciliano.

ELVIRA       - E che hanno i romanzi di questo grande scrittore siciliano?

CIRO            - ...sembrano scritti da un uomo di sinistra...

ELVIRA       - Bene!

CIRO            - Mentre lui, invece, era un reazionario marcio...

ELVIRA       - Non bene.

CIRO            - In una suo novella, La roba, c’è un ritratto di un possidente che è un gioiello. (si bacia la punta delle dita).

(Elvira annuisce in segno di approvazione)

                       ... Ma nella vita privata, egli amava soltanto i possidenti e sedeva tutto il giorno al Circolo dei nobili.

(Elvira scuote la testa in segno di disapprovazione)

ELVIRA       - (intanto s’è avvicinata ginocchioni proseguendo il suo lavoro) - Scusi. (Ciro tiene sollevati i piedi perché Elvira possa lucidare le mattonelle). Grazie. (s’allontana).

CIRO            - (ha fissato lungamente Elvira, decisamente attratto. Sta per allungare la mano per darle un pizzicotto, quando Elvira si volta di scatto, sorprendendolo, per chiedergli)

ELVIRA       - Però lei... lei non è un operaio, non è un borghese... allora che è?... E allora?

CIRO            - Io sono... i miei sentimenti sono tutti dalla parte degli umili.

ELVIRA       - Chissà perché, però, lei mi sembra tutto tranne che un umile...

CIRO            - (Non resiste allo sguardo indagatore di Elvira, e confessa) Il mio sangue è maledetto. (sconfortato) Mio padre è marchese, e mia madre, che io credevo figlia di un sediaio, è invece...

ELVIRA       - E’ invece?...

CIRO            - Baronessa (quasi piangendo). che dico, Baronessa? Contessa. E per parte di madre, anche duchessa. (si copre il volto con le mani).

(Elvira non riesce a trattenere un sorriso, che si spegne subito all’ingresso di Emanuele, che arriva, triste e curvo, con un fascio di giornali in mano).

EMANUELE -    (vedendo Elvira piegata sul pavimento fa un gesto desolato) - Perché? perché? (rassegnato) Dov’è Tina?

ELVIRA       - E’ andata alla messa. (si alza).

EMANUELE -    Guarda! Tutti i giornali pubblicano la mia fotografia. Leggi qui: genio e stupidità. Io sarei un esempio di come un cretino possa scrivere di punto in bianco un capolavoro di poesia. (Elvira dà un’occhiata ai giornali sorridendo).

(Espressione stupita di Ciro nel vedere che Emanuele tratta alla pari la “cameriera”)

ELVIRA       - (finendo di dare il suo rapido sguardo ai giornali) - Questo signore vuole parlarti. Vi lascio. E un comunista.

EMANUELE -    (allarmato) - Un comunista? Non mi lasciare, Elvira.

CIRO            - (a Elvira) - Potete rimanere. Non sarete voi a tradire la nostra, anzi la vostra causa.

ELVIRA       - Bene, grazie. (si rimette a lavorare).

EMANUELE -    (sedendosi di faccia al giovane) - Dunque lei è un comunista?

CIRO            - Sì.

EMANUELE -    (dopo averlo guardato, scuotendo la testa) - E lei, così giovane, così ben messo, così simpatico, avrebbe il coraggio di ammazzarci tutti?

CIRO            - Ammazzare, chi?

EMANUELE -    Noi borghesi.

CIRO            - (scoppia a ridere). Ma come può, un uomo intelligente, credere a queste assurdità?

ELVIRA       - I borghesi non gli piacciono. Ma da qui ad ammazzarli... via!

CIRO            - (ridendo) - Ammazziamo i borghesi? Ma lo sa che in Russia un grande attore come lei possiede una villa al mare, una villa in montagna, una casa in città, due macchine lunghe da qui a lì, milioni di rubli in banca?

EMANUELE -    (colpito) - Mi dice la verità?

CIRO            - (ridendo). Se dico la verità! Conosce Putiecne?

EMANUELE -    (turbato) - Il grande attore che è stato mandato in Siberia?...

CIRO            - (scoppia a ridere) - Come ha detto? In...

EMANUELE - In Siberia. L’ho letto sui giornali.

CIRO            - Senta, tre giorni fa, ero a pranzo con Ilja Ehrenburg, che mi ha detto di aver visto recentemente Putiecne con una macchina di questa grandezza, guardi: (si alza) da qui, dove sta lei... (s’allontana quasi fino alla parete opposta), a qui. (stupore generale).

EMANUELE - Beh, mi sembra una bella macchina. Eh, una bellissima macchina. Da noi non se ne vedono, macchine così grandi. (alla moglie). Ma allora, Elvira? Tutte quelle storie sui comunisti?... Beh, la gente ha la lingua lunga... Signore, in che posso esserle utile?

CIRO            - Lei deve scrivere per una nostra serata di propaganda una scena... un atto... tre atti... quanti ne vuole scrivere lei.

EMANUELE -    (si volge verso la moglie che gli fa cenno di no) - No.

CIRO            - Come sarebbe, no?

EMANUELE -    (dopo avere guardato la moglie) - Non posso.

CIRO            - Perché?

EMANUELE - Ma perché fra l’altro mi sarei impegnato, almeno in forma ipotetica, col commendator Lauria.

CIRO            - (scandalizzato) - Con la reazione?

EMANUELE -    (pieno di rispetto) - Con il partito democristiano.

CIRO            - Con la reazione!

EMANUELE - La chiami pure reazione, se vuole. Però, oggi come oggi, questa reazione è al governo.

CIRO            - E che vuol dire, è al governo?

EMANUELE - Vuol dire che ha in mano i teatri, dà le sovvenzioni alle compagnie, proibisce o non proibisce gli spettacoli, ordina ai cattolici di andare a teatro o di non andarci...

CIRO            - E queste cose per lei hanno importanza?

EMANUELE -    (scandalizzato del dubbio di Ciro) - Moltissima.

CIRO            - Ma qual è la sua divisa, in politica?

EMANUELE -     Cosa faccio, glielo dico, Elvira?

ELVIRA       - Diglielo.

EMANUELE -     Avere paura.

CIRO            - L’avevo capito. Dunque lei è dalla parte di coloro che possono farle paura?

EMANUELE - Sissignore.

CIRO            - E allora le dico che se deve avere paura di qualcuno, deve averla di noi comunisti. Sa quanti intellettuali abbiamo ammazzato in Russia? Un milione e mezzo. Conosce Luftin? E’ un grande tenore. L’abbiamo mandato in Siberia. Sa quanti generali abbiamo impiccato? Duemila. Sa quante donne abbiamo fucilato? Mezzo milione.

EMANUELE - Ma come? E la macchina, lunga da qui a lì, per gli attori?

CIRO            - Per gli attori che sono con noi, ma per quelli che sono con la reazione abbiamo macchine che li affettano come i salami che siete, voi tutti, istrioni della malora!

ELVIRA       - (si alza) - Giovanotto, vuole questa scopa in faccia? A me  lei non fa nessuna paura, sa? Topi come lei ne ho visti molti nella mia vita, e li ho tutti schiacciati.

CIRO            - (fra sé) - Come è bella! Che coraggio! Si vede la differenza fra il popolo e la borghesia.

EMANUELE - Lascia stare, Elvira, non precipitiamo le cose. Fa parlare me (cercando di riuscire minaccioso). Le dico una parola sola: America.

CIRO            - Si è svelato! Vuole la guerra e crede che l’America vincerà. Ammettiamo pure che vinca...

EMANUELE -    (felice e rassicurato) - Ah, secondo lei, vincerà l’America?

CIRO            - Per comodità, voglio ammettere che vinca, ma lei deve ammettere da parte sua, che, in un primo tempo, la Russia invaderà tutta l’Europa e i cavalli dei cosacchi berranno l’acqua nelle fontane di piazza San Pietro.

EMANUELE -    (riluttante) - In verità, questi cavalli che bevono l’acqua nelle fontane di piazza San Pietro?...

ELVIRA       - E’ una profezia di Don Bosco.

EMANUELE - Ebbene, lo ammetto... purché, alla fine...

CIRO            - Sì, alla fine l’America sbarca in Europa. Ma chi trova? Non certo i suoi amici: voi sarete tutti sotto terra!

ELVIRA       - Finché siamo in vita, abbiamo il diritto d’indicarvi la porta?

CIRO            - Come si permette, una cameriera?...

EMANUELE - Chi, una cameriera?

ELVIRA       - (facendo cenno ad Emanuele di assecondarla). - Io. (a Ciro). E può una donna del popolo scacciare di casa il suo legittimo rappresentante con lo strumento (alzando la scopa) del suo lavoro quotidiano?

CIRO            - Un momento. (a Emanuele). Lei è un fascista.

EMANUELE -    Io? Lo provi. Grazie a Dio, non c’è un giornale, una tessera, una fotografia che possa dare credito a una simile calunnia.

CIRO            - Lei crede? (apre la valigetta, e mette in moto un apparecchio di registrazione Webster) - Ho qui la registrazione di una sua conversazione telefonica.

EMANUELE -    (a Elvira a bassa voce) E’ una spia. Sta attenta a quello che dici.

(L’apparecchio si mette in moto e fa sentire la seguente conversazione:

2° EMANUELE - Tristi tempi, eccellenza, tristi tempi!

EMANUELE -     Questa è la mia voce?

CIRO            - Non la riconosce?

EMANUELE -    (si volte interrogativamente a Elvira che fa un cenno severo di assenso).

(L’apparecchio viene rimesso in moto:

ECCELLENZA - Dite, caro amico, che cosa fareste se, svegliandovi, sapeste che Lui non è morto, che abbiamo spezzato le reni a chi dovevamo spezzarle, che i parlamenti d’Europa li abbiamo tutti chiusi, come tante case di tolleranza, e che gli ebrei se ne sono volati in cielo?

(L’apparecchio viene fermato).

ELVIRA       - Che mascalzone! Chi è questo eccellenza?

EMANUELE -    Eh, l’ex-ministro della... (mastica una parola).

ELVIRA       - E tu, cos’hai risposto?

EMANUELE -    Credo, niente... cosa vuoi che abbia risposto? L’ho lasciato parlare.

CIRO            - (mette in moto l’apparecchio).

2° EMANUELE - Farei quello che fareste voi, eccellenza.

EMANUELE -    Ecco la risposta di un uomo prudente; non dice nulla in sostanza.

CIRO            - Un momento.

  (Viene rimesso in moto l’apparecchio:

ECCELLENZA - Io salterei dalla gioia come un bambino.

2° EMANUELE - E salterei dalla gioia anch’io, eccellenza potete dubitarne?).

CIRO            - (ad Emanuele) - Perché è così triste?

EMANUELE -    Oh, non per quello che ho detto: sono parole di convenienza; ma perché mi sono accorto che ho la voce di un vecchio. E’ proprio questa la mia voce?

CIRO            - (a Elvira) - E voi, perché siete così triste?

ELVIRA       - (indicando Emanuele) - Per quello che ha detto.

EMANUELE - Ma Elvira, sono sciocchezze. Tu non te ne intendi. Sei una donna di casa...

CIRO            - Però, guardate com’è concreta la differenza di classe: lui è triste per una ragione piccolo-borghese, perché trova che la sua voce ha le rughe... Lei, la donna del popolo, è triste per una ragione seria.

EMANUELE -    (arrabbiandosi) - Ma chi è donna del popolo? Lei?... E’ mia moglie.

CIRO            - Sua moglie?

EMANUELE - Mia moglie! Lava i pavimenti e fa da cucina perché ha la testa dura come una mula e prova piacere a fare queste cose. Ma è mia moglie.

CIRO            - (involontariamente fa un inchino).

ELVIRA       - (risponde con una smorfia).

EMANUELE - E le dico un’altra cosa. Io non ho scritto mai nulla perché non so scrivere nulla. Il lavoro che recito da tre sere è suo (indica la moglie).

(Stupore).

ELVIRA       - Ma no, Emanuele.

EMANUELE - Sì, è tuo. Sono stanco di sentirmi ammirare per il tuo genio e per la mia cretineria. Dicono così, che io ho dimostrato che l’uomo di genio non ha bisogno di essere intelligente. Ma che cosa, in verità ho dimostrato? Che tu non hai bisogno che io sia intelligente.

CIRO            - Ma allora le cose cambiano.

(Entra Wanda).

WANDA      - Buon giorno, signori (a Elvira). Buon giorno, (a Emanuele). Questa notte non ho chiuso occhio, ho avuto un’idea. Quando tu, nel secondo atto mi dici... Su, cosa dici?... Insomma quella lunga battuta... Io, invece di starti a sentire con le guance fra le mani, potrei, a bassa voce, ripetere le due frasi che ti ho già detto alla fine del primo atto.

ELVIRA       - Ma non può!

WANDA      - Stia zitta! Non sa di cosa si tratta. (a Emanuele). Eh, che ne dici?

EMANUELE -    (guardando sua moglie) Ma non so... mi pare che non sia possibile che tu parli mentre parlo io. (a Elvira). Eh?

ELVIRA       - Pare anche a me.

WANDA      - (a Elvira) - Zitta, lei! Venga prima a teatro a vederci, e poi magari dirà la sua. (a Emanuele). Io parlerei durante le tue pause, che tu dovresti allungare un po’. Facciamo una prova. (guardando Ciro). Il signore... chi è? Mi pare il marchesino Ardizzoni? Mi sbaglio?

CIRO            - Sì, perché sono soltanto Ciro; niente Ardizzoni e niente marchesino.

WANDA      - Bene, Ciro. (cambiando tono, a Emanuele). Ciro ci scuserà. Dunque, facciamo una piccola prova... Dici la tua battuta così alla buona.

EMANUELE -    (è impacciato).

WANDA      - Siediti! (Emanuele, privo di volontà si lascia condurre accanto a un tavolo, siede; Wanda gli solleva una mano e gliela posa sul tavolo in atteggiamento di stanchezza). Così!... Su, dunque: “Come è stata sciocca la vita...”.

EMANUELE -    (recitando) - “Come è stata sciocca la vita e come il sentimento della bellezza è stato turbato dalla polemica, dalla vanità e dall’interesse...”.

ELVIRA       - (sgradevolmente sorpresa) - Lo dici così?

EMANUELE -    (toccato nel vivo) - Perché, non va bene?

WANDA      - (a Elvira) - Cosa c’entra lei? Vada in cucina, che il latte si sta versando.

EMANUELE - Smettila, Wanda!

WANDA      - Io, la devo smettere? (isterica). Io che questa notte ho dovuto farmi tre iniezioni da sola, per calmarmi il cuore che mi sbatteva come un pesce nella rete! E sempre, sempre pensavo a questa scena e alla modifiche che volevo apportarvi per renderla più bella! E tu, invece, l’autore, che dovresti sentirti legato alla tua creatura con tutti i tuoi nervi, cosa facevi tu?

ELVIRA       - Signora, devo confessarle una cosa: questa notte io ho dormito con il suo amante.

WANDA      - (presa di sorpresa, vivacemente) - Con quale?

ELVIRA       - Ahimè, Emanuele, non sono soltanto io la moglie che può tradire la signora andando a letto col proprio marito.

                       (Entra Tina, seguita immediatamente da Giovanni Rapisardi).

TINA            - Signora, ma cos’è questo baccano? La gente si ferma sotto il balcone, come se ci fosse esposta Maria Vergine.

GIOVANNI  - (interrompendola, trafelato) - Zitta, voi! Non dite sciocchezze! (a Elvira). Cos’è questo baccano? La gente si ferma sotto il balcone come se ci fosse esposta Maria Vergine.

TINA            - (brontolando) - Quello che dicevo io.

WANDA      - (a Tina, a Giovanni e a Elvira) - Zitti, tutti e tre. (a Emanuele). Dunque, tu hai dormito con questa sguattera?

CIRO            - (alzando le braccia al cielo) - Dio, la borghesia!

WANDA      - (a Emanuele) - Hai dormito con questa (ironica) signora?

ELVIRA       - (calma) - Da tre notti.

WANDA      - Da tre notti? (urlando). Da tre notti? Da tre notti!... Oh, mascalzone! mascalzone! E la promessa che avevi fatta? E i giuramenti sotto la pianta del mio piede? Sarebbe così: inginocchiato vicino al mio letto, col mio piede nudo (urlando), con tutte e due i miei piedi nudi, sulla bocca!

GIOVANNI  - (a Emanuele) - E un uomo grande e grosso come te si riduce così! Oh, altezza sprecata! Oh, gigante di cartone! Carnevale!

CIRO            - (caricando la dose) - Reazionario e fascista!

GIOVANNI  - (a Ciro) - Chi è che ha parlato? Chi è lei che parla con la bocca che gli puzza di latte? Si faccia riconoscere! (Ciro si avvicina a Giovanni che lo guarda minutamente in tutto il viso) - Chi caspita è?

WANDA      - E’ il figlio del marchese Ardizzoni.

GIOVANNI  - Il marchese Ardizzoni, chi è? (riflette, poi con un lampo della memoria) Ah, Mammellebianche! E perché non mi dite Mammellebianche?... Potevo capire “il marchese Ardizzoni”? Mammellebianche... Bestia il padre e bestia il figlio... E se non sbaglio, lei fa il comunista?

CIRO            - Sono comunista.

TINA            - Mai sia, mai sia! (si fa il segno della croce). Padre, Figlio e Spirito Santo! (a Elvira). Signora, facciamolo uscire. E’ scomunicato.

GIOVANNI  - Zitta, voi! Non dite stupidaggini! Sarebbe niente che fosse scomunicato. E’ che è bestia come suo padre.

EMANUELE -    (al colmo della collera) - Perdio, perdio, perdio! Impazzisco! Soffoco! Aprite il balcone! (va al balcone; poi con voce di tenore). Impazzisco! (applausi dalla strada: Emanuele si ritrae spaventato e richiude il balcone; a voce bassa). C’è la strada piena di gente che guarda verso di noi. Ma questi non se ne vanno mai?! (a bassa voce fra i denti). Per la Madonna, se qualcuno alza la voce gli sradico le corna che ha in testa e gliele faccio mangiare. (silenzio; suona il campanello). La polizia!

GIOVANNI  - Che polizia! L’accalappiacani.

                       (Pausa. Entra, scuro in viso, rigido, coi gomiti stretti sui fianchi il cappello tenuto per la falda con tutte e due le mani, Peppino Lauria, seguito da Tina).

PEPPINO     - (si guarda attorno, ferma la sua attenzione sul giovane comunista, e subito gli volta le spalle) - Dunque, è vero (a Emanuele). Ricevete i comunisti in casa. Siete passato dalla loro parte.

EMANUELE -    L’ho trovato in casa. Può dirlo mia moglie. E’ venuto a minacciarmi, e a ricattarmi, con una macchina.

PEPPINO     - E lei ha ceduto?

EMANUELE -    Io? Può dirlo mia moglie, se ho ceduto. Lui, sì, avrebbe voluto che io scrivessi una commedia per una loro festa, ma io ho detto un no grande come una casa.

CIRO            - Che dice no, lei? No e sì!... Che deve scrivere, lei, che non sa scrivere nemmeno la sua firma!

GIOVANNI  - (a Ciro) - Stia zitto, lei! Bestia!

CIRO            - Aprite le orecchie! Tocca sempre a noi comunisti dire la verità e gettare la pietra dello scandalo. Sappiate dunque...

TINA             (gridando) - No, no! Padre, Figlio e Spirito Santo! (Si fa il segno della croce). Maria Vergine! (s’inginocchia e prega). Maria Vergine, fategli mangiare la lingua!

CIRO            - Sappiate dunque che la commedia non è stata scritta dal signore ma dalla signora.

PEPPINO     - No!

WANDA      - No!

GIOVANNI  - E si stia zitto, sangue di Giuda!

TINA            - (interrompe le preghiere, si dà una manata sulle ginocchia, si alza) - E io che l’ho sempre sospettato.

WANDA      - Ma per niente!

PEPPINO     - Ma per carità!

EMANUELE -    (accasciandosi su una sedia) - E invece sì.

WANDA      - Sì?

PEPPINO     - Sì?

EMANUELE -    Sì.

PEPPINO     - (a Elvira) - Ma allora, è lei che deve scrivere per la nostra serata!

ELVIRA       - Si metta il cuore in pace: non scriverò nulla.

PEPPINO     - E suo marito non sarà mai commendatore.

ELVIRA       - Non m’importa, e non importa nemmeno a lui, spero.

EMANUELE -    (fa un gesto desolato) - ...No.

PEPPINO     - Sarà proibito ai cattolici di andare a vedere la sua commedia, che del resto, in parecchi punti, offende la morale.

ELVIRA       - I cattolici si macchieranno del peccato di andarci; il giorno dopo, andranno a confessarsi, e si laveranno.

PEPPINO     - Sarà detto ai nostri confessori di non assolverli.

ELVIRA       - Per un peccato così piccolo?

PEPPINO     - Non sarà lei che, a quel che vedo, non è cattolica, a stabilire quali sono i peccati piccoli e quali sono i peccati grandi. Siamo noi... Sbaglio: è la Chiesa che lo stabilisce.

ELVIRA       - Bene, la commedia, andranno a vederla soltanto i peccatori, e fra questi io, che non l’ho mai vista, anzi, che non ho visto mai una commedia.

PEPPINO     - Il capo del teatro, che è uno dei nostri, proibirà la sua commedia. La censura ritirerà il visto.

ELVIRA       - Non credo che tutto questo sia possibile. Se sarà possibile, io, che avevo giurato di non scrivere più, scriverò un’altra commedia.

CIRO            - La faremo recitare noi.

(Tutti guardano sorpresi Elvira che è presa dal piacere di scandalizzarli).

ELVIRA       - Bene, la farete recitare voi.

(Scandalo. Tina si fa la croce).

CIRO            - (si avvicina galantemente e le bacia la mano, poi il polso).

ELVIRA       - Ma lei, o è comunista o è marchese: non sa essere qualcosa di meglio?

(Suona il campanello. Tina va ad aprire).

WANDA      -(a Emanuele) - Mi fai ribrezzo e pena!

(Entra Rosina Lauria con una lettera in mano, seguita da Tina).

ROSINA      - (a Peppino) - Ma sei diventato sordo? Ti ho chiamato dal balcone, ti ho fatto chiamare dai bambini, dalla cameriera; anche i vicini si sono messi a gridare: “commendatore, commendatore, è arrivata la lettera”, e tu via, senza voltarti, come se dovessi prendere il palio.

PEPPINO     - Sai, Rosina? Hanno insultato la religione. Tutti quelli che vedi qui attorno hanno l’anima dei turchi. Sono passati ai comunisti.

ROSINA      - E lasciali andare all’inferno. Non abbiamo più bisogno di loro. La lettera che è arrivata, sai di chi è? Leggi: “Casa cinematografica Brex”. Fanno il tuo film, sull’abate Ferrari!

PEPPINO     - L’hai letta?

ROSINA      - No, voglio che la legga tu per primo. (mostra la lettera). Guardino qui: “Direzione della casa cinematografica “Brex””. La conoscono? E qui: “strettamente personale” a penna.

PEPPINO     - Dio, come sono commosso! Si chiude un periodo della mia vita (guarda l’orologio) alle ore undici e trentadue del 4 aprile 1949. Lotto, per questo film da dieci anni, tre mesi e qualche ora.

WANDA      - C’è una parte di donna, commendatore, nel suo film?

PEPPINO     - Una parte bellissima.

WANDA      - Voglio leggere io questa lettera.

PEPPINO     - Veramente, vorrei...

ROSINA      - No, Peppino, lasciala leggere alla signora. Purché la legga forte.

WANDA      - (offesa) - Credo di avere una buona voce.

ELVIRA       - Scusatemi: quest’onore tocca a mio marito. E’ lui che ha la voce più forte.

EMANUELE - Ma lasciami stare, Elvira.

ELVIRA       - No, devi leggerla tu! Può darsi che se la leggi bene, il signore ti farà nominare, non dico commendatore, ma almeno cavaliere.

ROSINA      - E’ giusto. La legge il commendatore Emanuele.

EMANUELE -    (alzandosi) - Ma che commendatore, signora! Che commendatore... Suo marito, lo ha detto poco fa, non spenderà una parola per me.

PEPPINO     - Ritiro quello che ho detto. In questo momento non serbo rancore a nessuno. Sono felice e ringrazio il Signore che ha voluto aiutarmi. Su, dunque, apriamo questa lettera e leggiamola. Dov’è?

(La lettera è andata a finire in mano a Tina che la consegna a Wanda, Wanda la consegna a Giovanni, Giovanni la butta per terra con disprezzo, Elvira la raccoglie e la consegna a Ciro. Rosina gliela strappa di mano e la consegna ad Emanuele).

ROSINA      - Qui, commendatore Emanuele, su questo sgabello.

EMANUELE -    (sale sullo sgabello).

ELVIRA       - (al marito) - Un momento. Spiega prima ai signori l’antefatto.

EMANUELE - Quale antefatto? Io non so nulla.

ELVIRA       - Si tratta di questo. Il commendator Lauria, da molto tempo...

PEPPINO     - Da dieci anni.

ELVIRA       - Ecco, da dieci anni, pensa a un film sull’abate Ferrari, che nessuno conosce, ma la cui vita, per esprimermi con le parole della signora Rosina...

ROSINA      - ...potrebbe servire da esempio a tanti.

ELVIRA       - Volevo dire questo. Il commendatore, la cui vita, d’altra parte, potrebbe anch’essa...

ROSINA      - Lo può dire a voce alta: potrebbe anche essa servire da esempio.

GIOVANNI  - E perché non se l’è fatto su di sé, un film? Lo avremmo visto con l’orinale sulla testa, nel primo tempo; e nel secondo, con la croce in mano.

ROSINA      - Lei sputa nero come la seppia, ma, a mio marito, le sue parole, di qui gli piovono e di qui gli scivolano.

ELVIRA       - (proseguendo) - Oggi il sogno del commendatore si avvera. Il nuovo direttore della casa cinematografica Brex, che è un amico d’infanzia del commendatore, accetta di fare il film.

PEPPINO     - Prego, non lo sappiamo ancora.

ROSINA      - Ma certo che accetta, Peppino. Altrimenti non ti avrebbe risposto così subito e non avrebbe scritto sulla busta: “strettamente personale”.

EMANUELE - Se permettete, leggo. (apre la busta e legge): “Mio caro e ottimo Peppino”.

ROSINA      - Sentite come lo chiamano a Roma. Ottimo. Non buono, ottimo.

EMANUELE - “... ti sono infinitamente grato della lettera che hai voluto mandarmi: sei arrivato come il formaggio sui maccheroni...”.

ROSINA      - Bene, benissimo. Accetta.

ELVIRA       - A proposito, Tina, bisogna comprare il formaggio. Cosa avete?

TINA            - Oh, io sono intontita.

EMANUELE -    “... non sapevo quale fosse il tuo indirizzo, e la tua lettera me lo ha rivelato...”.

PEPPINO     - Quale indirizzo?

ROSINA      - Quello politico. Non sapeva che tu fossi democristiano come lui.

EMANUELE -    “...avrai visto il mio film: Contrabbando di sigarette americane in piazza San Silvestro...”.

WANDA      - Famosissimo. Ha avuto, se non sbaglio, il premio Oscar, il più grande premio del mondo.

EMANUELE -    “...Ti sarai accorto che, nel mio film, non c’è un solo attore di professione...”.

WANDA      - Male. Per questo non ha avuto il premio Oscar.

GIOVANNI  - Ma se avete detto poco fa?...

WANDA      - Mi sbagliavo. Stava per averlo, ma non l’ha avuto. E appunto perché mancavano gli attori di professione.

EMANUELE - “...e credo che, nei miei film, non farò mai recitare attori di professione...”.

WANDA      - E allora è inutile che io stia a sentire oltre questa sciocca lettera.

PEPPINO     - Calma, calma. Lui sarà il regista e avrà il suo modo di vedere, ma l’autore del soggetto sono io.

EMANUELE - “...mi piace fotografare la vita come è e voglio che i miei personaggi, presi dalla strada, parlino un linguaggio non letterario. Ho bisogno di te...”.

ROSINA      - Benissimo, benissimo! Vedi che accetta? (bacia il marito; battimani).

EMANUELE - “...Tu, una sera, fra Napoli e Roma, nel vagone ristorante, mi raccontasti, con una freschezza straordinaria, un episodio della tua vita, che vorrei mettere, pari pari, nel mio nuovo film”.

PEPPINO     - Un episodio della mia vita? E quale?

EMANUELE -    “...Io ti prego di scrivermi, senz’alcun ornamento, sforzandoti di usare le parole di quando me lo raccontasti a viva voce, come fu che, al mare, mentre tua moglie era alla Messa dell’alba...”.

PEPPINO     - Un momento! Dia a me questa lettera.

ROSINA      - (insospettita) - No: bisogna leggerla prima fino in fondo. Su, dunque, continui!

EMANUELE -    (scorrendo con gli occhi la lettera sino alla fine) - Non so... mi pare che...

ROSINA      - Continui!

EMANUELE -    “...mentre tua moglie era andata, eccetera... tu entrasti nella camera di tua cognata...”.

PEPPINO     - Basta! Basta!

ROSINA      - No, continui!

PEPPINO     - (a bassa voce alla moglie) - Mi vuoi morto? Cosa ci guadagni? A casa la leggeremo, e fra di noi, a casa, magari ci ammazziamo, ma qui davanti alla gente, dobbiamo sostenerci l’uno con l’altra!

ROSINA      - (a bassa voce) - Per questo bisogna leggerla, altrimenti chissà che cosa penseranno.

PEPPINO     - (sconfortato) - E che devono pensare?

ROSINA      - (forte) - Continui!

EMANUELE -    “...entrasti nella camera di tua cognata, se non sbaglio sorella di tua moglie, e avvenne quello che avvenne...”.

ROSINA      - (si sbianca in viso, fulmina con gli occhi il marito; poi diventa rossa per lo sforzo di dominarsi, pare che ci riesca: si rivolge agli altri). - Oh, ecco c’è uno sbaglio... io non ho sorelle.

PEPPINO     - Già, non ha sorelle!

GIOVANNI  - E la signora Berta Annaloro, nata Pàccari, cosa le viene?

ROSINA      - E’ la mia sorellastra. E poi... tanto più anziana di me. La povera Berta!... Mi viene da ridere a pensarci!... Si figurino che, quando siamo andati al mare, dieci anni fa, aveva sessantadue anni.

EMANUELE -    “...Io vorrei sapere i particolari di come reagisce una vecchia...”.

ROSINA      - (gridando a Emanuele) - Zitto! Chi le ha detto di continuare? E poi, non ridete. (a Elvira, che è rimasta seria). Lei...

ELVIRA       - (disgustata) - Io non rido.

ROSINA      - Sono affari nostri e ce li sbrighiamo da noi. Lor signori mettano il becco negli affari loro. Se anche fosse vero ciò che è scritto in quella bugiarda lettera, si dice che sangue di fratello non fa corna. Dunque, io ho la testa pulita. (a Elvira). Non così lei, cara signora! Ché suo marito è stato visto al giardino Bellini con due passeggiatrici, dico due. E con questo, la riverisco... Andiamo, Peppino. (prende rudemente il marito per un braccio; a bassa voce). A casa, ti mangio il naso!

PEPPINO     - (a bassa voce) - A casa, ci ammazziamo. Ma per quello che hai fatto qui, ti bacerei i piedi.

WANDA      - (ad Emanuele) - Maiale!

ELVIRA       - (abbraccia lo zio Giovanni) - Zio, zio, zio. Non voglio più restare qui. Vengo da te, a casa tua.

GIOVANNI  - Subito andiamo, subito!

ELVIRA       - Non voglio più vedere nessuno.

EMANUELE - Ma io...

ELVIRA       - Non voglio più vederti! Porto con me i bambini.

TINA            - (guadando dalla porta di destra verso l’altra stanza) - Eccoli, signora, che arrivano.

ELVIRA       - No, non li fate entrare. Chiudete la porta. (corre lei stessa a chiuderla, vi si addossa). E’ diventato un porcile, qui.

TELA


ATTO SECONDO

SCENA I

(Sala da pranzo-salotto in casa di Giovanni Rapisardi, contigua ad una cucinetta strettissima e piena di casseruole nella quale due persone non riescono a muoversi senza strusciare l’una sull’altra. Una porta a sinistra dà nel vestibolo e una porticina a destra immette nella cucina. Nel mezzo una finestra attraverso la quale traspare una grande cupola. Un vecchio pianoforte, dei tappeti lisi e di poco valore, un arazzo in cui è raffigurata Roma, la tesi di laurea dello zio Giovanni incorniciata sotto un vetro. Tina è ritta, in un angolo, con le mani sul ventre, lo zio Giovanni è seduto in una poltrona e fuma la pipa, lontano da lui è seduto Ciro. Elvira si guarda attorno felice).

ELVIRA       - Che pace! Che vita meravigliosa si può vivere qui. (va alla finestra, apre le imposte). Come si respira bene! Che aria felice! Quante volte il mio sguardo si è posato su queste cose... La chiesa di Sant’Agata, le persiane che cascano in polvere dalla vecchiezza... le tegole nere... le giare per l’acqua... laggiù il mare... laggiù l’Etna... là in fondo gli alberi di pepe del giardino Bellini... i chioschi per la banda... Oh, finestra benedetta! (preme la guancia sul davanzale; poi si volta: la sua espressione è cambiata per un pensiero sopravvenuto, la fronte si corruga). Non ne voglio più sapere!

GIOVANNI - Di che, Elvira?

ELVIRA       - Di viaggi, di teatri, d’impresari, di trucchi, di parrucche! Di uomini politici che vengono col sorriso sulle labbra: “Su, commediografi, colpite i costumi corrotti”. Ma i costumi corrotti di chi? Dei loro avversari. “Picchiate sulle teste!”. Ma sulle teste di chi? Dei loro avversari. Ovvero, se il coltello destinato ai loro nemici, li ha scalfiti leggermente; amareggiati e disgustati: “Come siete malevoli, commediografi! L’arte ha sempre esaltato gli uomini”. Ma chi sono, questi uomini che l’arte dovrebbe esaltare? Forse i loro avversari? No, quelli non sono uomini. Gli uomini sono soltanto loro. (angosciata e supplichevole). E poi, cosa vogliono da me? Io sono una donna di casa! Sono fatta per la cucina, per lavorare con le mani. Vedrai, zio, come lavorerò qui.

CIRO            - Lei mente anche a se stessa!

GIOVANNI  - (notando Ciro come per la prima volta). E questo, chi diavolo è? (a Ciro). Chi sei tu, che stai qui a intrometterti, con quella faccia di cetriolo? (gli si avvicina). Chi caspita sei?

CIRO            - Sono entrato poco fa. Lei stesso mi ha detto di sedermi, se ne ricorda?

GIOVANNI  - Ma chi sei?

CIRO            - Ciro Ardizzoni.

GIOVANNI  - (con un’espressione violenta di disprezzo). Ah, il figlio di Mammellebianche! (si allontana, poi si ferma bruscamente). E cosa vuoi?

ELVIRA       - Vuole che io mantenga la mia promessa... (supplichevole). Ma io, guardi, Ciro, non so scrivere... Sono una povera sciocca, come devo dirglielo? Mi è riuscito una volta, per caso, per una disgrazia. Ma non so scrivere.

CIRO            - Però, avevamo cominciato bene. Lei dettava, io scrivevo...

ELVIRA       - Ma che cosa abbiamo scritto? Sciocchezze. E poi odio la politica. Non ne voglio sapere. Se mi volete morta, toglietemi i miei lavori di casa. Levatemi dalla cucina e io muoio. Quanto è vero Dio, mi ammalo e muoio! (disperata). Fatemi lavare la biancheria, fatemela stendere! Fatemi fare le uova fritte!

TINA            - Sempre tutto lei, vuol fare. E io che faccio?

ELVIRA       - Va bene, le uova fritte le farai tu. Basta che non mi fate scrivere più.

TINA            - Una signora non deve scrivere, deve badare alla casa, farsi servire, e curare suo marito. Lei, signora, deve tornare con suo marito.

ELVIRA       - Dopo, dopo. Adesso voglio stare qui, a lungo... In questa casa... ( si sente un rintocco; Elvira lo ascolta estatica). Ah, è così?... Zitti! (un altro rintocco). E’ così... L’avevo dimenticato.

TINA            - (Si avvicina a Elvira, e, a bassa voce) Signora, io non do mai consigli... ma dovremmo fare come ha detto il prete.

ELVIRA       - (a bassa voce) - Cos’ha detto, il prete?

TINA            - (c.s.) - Che le donne devono levare di tasca le tessere di comunisti agli uomini e portarle tutte a lui che questa sera le brucia in piazza. E ogni donna, che farà questo, otterrà un miracolo. Leviamogli la tessera.

ELVIRA       - (scherzando) - Come si fa?

TINA            - Gli manca un bottone nella giacca, l’ho visto passando. Mi faccio dare la giacca, con la scusa di attaccargli il bottone, e di là...

ELVIRA       - (forte) - Tina, andate a vedere se i bambini ancora dormono.

(Tina si avvia).

CIRO            - Dunque, non vuole mantenere la promessa?

GIOVANNI  - (scattando) - Chi ha parlato? Ma chi è? Ma chi caspita sei, con quella faccia?...

CIRO            - (interrompendo) - Il figlio di Mammellebianche.

GIOVANNI  - Ah! (stupito di sentire da altri una frase che voleva pronunciare lui, diventa triste e si allontana mogio mogio. Esce, incontrandosi sulla soglia con Tina, che resta discretamente a distanza a controllare che Ciro non metta in qualche pericolo la padrona).

 CIRO           - (scorrendo i fogli che ha in mano) - Non sono sciocchezze, quelle che abbiamo scritto ieri mattina. Vuole sapere dove siamo arrivati? La famiglia dell’ateo s’è seduta attorno al tavolo. Mi pare che questo sia il momento in cui un bigotto reciterebbe la sua preghiera. Il nostro personaggio, invece, è un ateo. Cosa farà?

ELVIRA       - Reciterà il Pater noster.

CIRO            - (sorridendo come a uno scherzo) - No...

ELVIRA       - E’ un bigotto dell’ateismo, uno che esercita... (esaperata). Ma io non m’intendo di queste cose. Stracci quei fogli, la prego.

CIRO            - Un momento. Le è scappata di bocca una frase curiosa. Si può essere bigotti dell’ateismo?

ELVIRA       - (ferma) - Sì, esercitando l’incredulità con molta pedanteria. Ci sono le pratiche di chi vuole far sapere a tutti che crede in Dio e quelle di chi vuole far sapere a tutti che non ci crede. (risoluta). Su, scriva.

CIRO            - (impugnando felice la penna) - Oh, bene!

ELVIRA       - (detta) - “Prima d’iniziare il pranzo, Luigi...” Si chiama così?

CIRO            - Sì.

ELVIRA       - “...Luigi si alza e recita il Pater noster...”.

CIRO            - (interdetto) - Ma no.

ELVIRA       - (infastidita) - Abbia pazienza, scriva. “...Recita il Pater noster che viene ripetuto a voce alta da tutta la famiglia. (Tina tende l’orecchio). Padre nostro...”.

CIRO            - Devo scrivere?

ELVIRA       - (a voce alta) - Ma sì... (abbassa la voce). Non mi faccia svegliare i bambini. “...Padre nostro, che non sei nei cieli...”.

                       (Tina si fa il segno della croce strabiliata).

CIRO            - (sorridendo) - Ho capito: non sei nei cieli.

ELVIRA       - “... non sia santificato il tuo nome, non venga il tuo regno... (Tina s’inginocchia invocando perdono per Elvira e per se stessa) ...non sia fatta la tua volontà...”.

CIRO            - (scrivendo) - “Così in cielo come in terra...”.

ELVIRA       - “...né in cielo né in terra”. E’ meglio rafforzare la negazione.

CIRO            - Benissimo. (scrivendo in fretta). “Non darci oggi il nostro pane quotidiano...” (s’interrompe). No, mi pare una battuta sbagliata, nessuno può desiderare di non avere il pane.

ELVIRA       - E allora?

CIRO            - Direi di fermarci alla prima parte, e di non toccarla, questa seconda, perché qui il Pater noster diventa quasi marxista.

ELVIRA       - Come diventa?

CIRO            - Quasi marxista, materialista. (pausa). Cosa pensa?

ELVIRA       - Devo essere una sciocca davvero. (col solito tono supplichevole). Non mi faccia scrivere, la prego.

CIRO            - Perché è una sciocca?

ELVIRA       - (ripetendo le parole di Ciro) - La seconda parte del Pater noster è marxista... Dove l’ha letto?

CIRO            - In un grande libro.

ELVIRA       - Ha visto? A me sembra una sciocchezza. E siccome sciocchezza non è, la sciocca sono io. Cos’abbiamo scritto?

CIRO            - (leggendo ed esaltandosi) - “Padre nostro che non sei nei cieli, non sia santificato il tuo nome, non venga il tuo regno, non sia fatta la tua volontà né in cielo né in terra; non darci oggi il nostro...” questo no. (Tina si è coperta la testa come a ripararla da un fulmine).

ELVIRA       - (con aria timida) - Se devo dirle la verità, a me sembra meglio l’altro: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato... ”.

TINA            - (con un urlo riparatore) - ...il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra...

ELVIRA       - Sente? (chiama). Tina!... Apri la finestra. Qui è pieno di fumo, ai bambini può far male... Lei fuma troppo, Ciro!

CIRO            - Quando il lavoro mi stanca, ho bisogno di fumare.

ELVIRA       - E’ così faticoso scrivere sotto dettatura?

CIRO            - Io rispetto talmente il lavoro degli altri che mi basta vedere lei sforzarsi il cervello, per sentirmi stanco e avere bisogno di fumare.

                       (Tina  si avanza guardinga per andare ad aprire la finestra, facendo il solito giro largo attorno al giovanotto).

ELVIRA       - E su, non è il diavolo, questo giovanotto: potete guardarlo!

TINA            - No, signora, non lo guardo, non lo guardo... (a Ciro) Perché se lo guardo, m’accorgo che gli manca un bottone nella giacca... Vuole darmi...

ELVIRA       - (secca) - Apri la finestra, e vai a controllare i bambini.

(Tina va ad aprire la finestra ed esce dalla porta di sinistra).

ELVIRA       - (dopo aver guardato Ciro) - Perché lei è diventato comunista?

CIRO            - Perché il mondo va verso il comunismo.

ELVIRA       - Ha molta importanza, per lei, il mondo?

CIRO            - (meravigliato della domanda) - Enorme! Il mondo...

ELVIRA       - E se il mondo si sbagliasse?

CIRO            - Come può? Non conosco nulla di più grande (esaltandosi), più saggio, più chiaroveggente, più geniale, più forte del mondo.

ELVIRA       - Ma un momento di limpidezza, in una mente onesta, non vale più di quello che, in dieci o vent’anni, può andare ripetendo il mondo?

CIRO            - Un momento solo?

ELVIRA       - Un momento solo.

CIRO            - In una mente sola?

ELVIRA       - Le pare troppo?

CIRO            - Mi pare poco. E che limpidezza sarebbe? E quando si troverebbe?

ELVIRA       - (Supplichevole) - Non lo so, Ciro, non lo so. (pausa). Forse, lontano dalla gente, casa propria, soli, con le imposte chiuse, lavorando per conto proprio...

CIRO            - E chiunque può averlo un momento simile?

ELVIRA       - Ma non so, Ciro, non so.

CIRO            - Lei l’ha provato?

ELVIRA       - (supplichevole) - Ma io sono una povera ignorante! (con tono fermo). Però, qualche volta, sì. E forse, io non me ne intendo, ma forse anche il vostro Marx l’ha provato. (si alza e va alla finestra). Oh, perché devo parlare di cose di cui non m’intendo. (guarda fuori). Com’è bella questa cupola!... Ma dove sono andate a finire tutte le colombe...

CIRO            - (interrompendo). - Lasci stare le colombe. Non si finga più semplice di quanto lei non è. Ha detto, poco fa, che Marx ha avuto questa limpidezza mentale.

ELVIRA       - Marx sì, qualche volta, ma voi marxisti no.

CIRO            - Come sarebbe? La verità sua è la nostra. Eh, risponda.

ELVIRA       - (col solito tono triste) - Ma io non so nulla. Non capisco nulla di queste cose.

CIRO            - No, risponda a me. Le ho detto che la verità sua è la nostra.

ELVIRA       - (ferma) - La verità sua è sua mentre la verità vostra non è vostra.

CIRO            - E di chi è?

ELVIRA       - Sua.

CIRO            - E che vuol dire? Non possiamo mica cambiare la verità solo perché non l’abbiamo trovata noi.

ELVIRA       - Senta, Ciro, io devo preparare i pomodori per la salsa.

CIRO            - No, no, che pomodori, che salsa! Lei non deve buttare le pietre e ritirare la mano. Ho detto...

(Entra Tina)

ELVIRA       - (A Tina) Portatemi i pomodori, un coltello, l’olio e la padella.

TINA            - Va bene, signora. (Va in cucina e torna subito con quanto le è stato richiesto)

CIRO            - Ho detto che non possiamo cambiare la verità soltanto perché non l’abbiamo trovata noi.

                       (Entra Tina e depone il piatto e la padella sulla tavola)

ELVIRA       - (comincia a sbucciare un pomodoro; poi a bassa voce, come tra sé) - Le sole cose che valgono sono quelle che troviamo da noi: gli altri ci danno soltanto il modo di trovarle.

CIRO            - Io la sento, anche se lei parla piano. Ed è inutile che sbucci pomodori. Quello che dice è più importante di quello che sta facendo.

ELVIRA       - (meravigliata) - Esprimere un’opinione è più importante di lavorare con le mani?

CIRO            - Non rispondo a questo suo ultimo scherzo, ma rispondo alle sue parole di prima. Sappia dunque che Marx ci ha dato il modo di trovare una verità. E questa verità, che abbiamo trovato noi, per una coincidenza, è quella stessa che aveva già scoperto lui.

ELVIRA       - Queste coincidenze vengono concesse soltanto a quegli esseri privilegiati che portano il nome di stupidi.

CIRO            - Bene. Parliamoci senza complimenti e senza pomodori per le mani.

ELVIRA       - (Si asciuga le mani) Tina! (appare Tina) Portate tutto di là e chiudete bene la porta della cucina. (Tina esegue)

CIRO            - Mi spiego perché lei ama tanto la cucina e la vita di casa. I figli e le frittate sono un bel pretesto per rimanere sola. Ecco quello che lei ama veramente: rimanere sola.

ELVIRA       - (con lieta meraviglia) - Ciro, ha indovinato.

CIRO            - (con disprezzo) - Lei è una contemplativa.

ELVIRA       - (con una meraviglia ancora più lieta) - Ciro, lei torna a indovinare.

CIRO            - E non si vergogna di essere così inadatta alla vita sociale?

ELVIRA       - Anch’io ho la mia vita sociale, a trame più larghe. (con stizza). Oh, che sciocchezze mi fa dire! (di nuovo seria). Cucino, lavo la biancheria, stiro, lavo i pavimenti, certe volte servo perfino la mia cameriera che è troppo vecchia. E in premio ho qualche momento di felicità.

CIRO            - In che consiste?

ELVIRA       - Medito su me stessa, ho dei sentimenti, poi me ne distacco e li contemplo, confronto le mie speranze di dieci anni fa con quelle di oggi.

CIRO            - E frattanto i braccianti della Piana vanno a letto a stomaco vuoto.

(Entra, molto arrabbiato, Giovanni).

GIOVANNI  - (a Ciro) - Tu mi devi spiegare una cosa, perché mi ci sto consumando il cervello!... Com’è che, se vedo un contadino morto di fame, mi viene voglia di bruciare, non la società, ma il mondo intero e diventare anarchico, comunista, diavolo, e se vedo te, con questa giacchetta, con questi occhi e queste frasette sulla bocca, mi viene voglia di prendervi tutti a calci nel sedere? Spiegamelo! La vedi questa pipa? L’ho rotta cercando una spiegazione... (calmo). Scusami, Elvira, vi lascio. (esce).

ELVIRA       - Io ho visitato da ragazza, sotto una pioggia torrenziale, un paesino della Piana in cui duemila persone avrebbero saltato il pasto della sera; i bambini venivano messi a letto all’avemaria perché si addormentassero prima di sentire fame. Il dialogo, che ho riprodotto, l’ho udito con le mie orecchie. E con questo? Devo mentire? Nascondere che la mia più grande felicità è rimanere sola, pensando a me stessa? E che quanto c’è di meglio, a questo mondo, è un momento di limpidezza, in una mente onesta e libera? Cosa prova lei, quando rimane solo?

CIRO            - Nulla. Parliamoci chiaro: nulla. E’ la prima volta che lo dico a voce alta: nulla. Mi sono chiuso per dei giorni solo, in campagna, ho fatto allontanare perfino il cane che abbaiava, e i galli, mi sono seduto davanti allo specchio, con l’orecchio teso al mio cervello, supponendo che il mio cervello parlasse a bassa voce. Silenzio. Nulla. “Avanti”, mi sono detto, “dietro quella fronte, c’è l’intelligenza; fuori, c’è la libertà. Pensa, inventa, immagina quello che vuoi: non ci sono impedimenti”. Non ho inventato, immaginato, pensato nulla... (con estrema violenza). La cosa, che più odio al mondo, è la libertà! La odio in nome del mio cervello che da lei non riceve nessun  vigore. Sono comunista non per scacciare la miseria dalla faccia della terra - è una questione che può interessare gli altri, non me, Ciro Ardizzoni - ma solo perché, in nome della miseria, si acquista il diritto di togliere, per sempre e a tutti, la libertà. I miei compagni dicono: pazienza la dittatura, purché si debelli la miseria. Io dico: pazienza debellare la miseria, purché non ci sia libertà. Oh, come la odio!... E un’altra cosa odio come lei: la musica di Mozart. Sento che in essa libertà e felicità sono così sicure e altere che, nel momento in cui una persona la canta, diviene invulnerabile ai nostri rimproveri. Non ci saranno mai tanta tristezza e tanta miseria da togliere la libertà di essere felici a quel modo! (accenna le prime note della serenata del Don Giovanni, poi con ripugnanza). Oh!... (esce di furia; torna indietro). E la terza cosa che odio è lei, nella sua torre di stoviglie e di casseruole! La odio! (l’abbraccia con furia e la bacia: poi a voce bassa e derelitta). Sono innamorato. (scappa via).

(Elvira rimane come stordita, col dorso della mano sulla bocca. Una campanella suona alla finestra della cucina. Tina spalanca le imposte)

UNA VOCE - (Emozionata, da fuori) La marchesa! La marchesa!

TINA            - Oh, Dio, chi?

VOCE          - La marchesa.

TINA            - Dove?

II VOCE       - E’ entrata nel portone.

                     (Entra Giovanni infastidito)

GIOVANNI  - (con malumore) La marchesa.

(Qualcuno picchia dal basso il pavimento. Tina va alla finestra. Dal piano inferiore)

VOCE          - Sta salendo.

II VOCE       - La marchesa!

TINA            - La marchesa! La faccio entrare? (Giovanni risponde con un gesto di malavoglia. Tina va ad aprire) Si accomodi. La signora marchesa! Che onore!

(Entra un donnone, coperta di pellicce e di piume, accompagnata da Peppino Lauria)

GIOVANNI - (Fa un inchino freddo) Si accomodi. Mia nipote. La signora marchesa. E’ la moglie di...

MARCHESA - ... del Marchese Ardizzoni!

GIOVANNI  - (Fra i denti) Di Mammelle-bianche... Il...

MARCHESA -    Siamo venuti insieme, io e il commendatore. Ci  conosciamo da... da quando ci conosciamo, commendatore? Be’, sono cose del passato... (Tutti si seggono) E loro come sanno?

GIOVANNI  - Bene, signora marchesa, bene. E lei?

MARCHESA- Io male, male.

GIOVANNI  - Soffre di qualche cosa?

MARCHESA- La salute va bene, grazie a Dio, ma le cose vanno male per noi.

TINA            - Oh, signora marchesa!, come possono andar male per loro? Con tanta roba al sole, con tanto ben di Dio!

GIOVANNI  - Zitta tu!

MARCHESA- E invece Dio non ci vuole più tanto bene... Mi scusi, commendatore! Non è per lamentarmi del Signore. Lei sa quanta devozione, quanta religione a casa mia... tranne mio figlio, naturalmente... (sospira) Ma le colpe dei figli non ricadono sui padri... Non dice mica questo, il Vangelo?... E’ vero, commendatore?

PEPPINO     - No, non lo dice.

GIOVANNI  - E perché, signora marchesa, andrebbero male le loro cose?

MARCHESA- La grandine e le tasse, caro signore. La grandine e le tasse.

GIOVANNI  - Molto danno al raccolto?

MARCHESA- Molto, molto, molto. Due terzi, via...

GIOVANNI  - Due terzi di che?

MARCHESA- Due terzi del nostro reddito. Una parte se l’è mangiata il gelo e una il governo. Oh, si stava meglio quando si stava peggio.

GIOVANNI  - Avete perduto tanto?

MARCHESA-     (lamentosa) Mio caro signore! (si asciuga gli occhi col fazzoletto) Duecento milioni.

TINA            - (Addolorata e impressionata) Eh, Dio! Tanto, hanno perduto?

GIOVANNI  - (Con forzata dolcezza alla marchesa) E allora quest’anno hanno preso soltanto cento milioni?

MARCHESA- (col fazzoletto sugli occhi fa cenno di sì)

TINA            - (Scoppia in lacrime)

GIOVANNI  - (Col solito scatto di collera, a Tina) E tu che fai? Piangi per lei?

TINA            - E certo! Io sono povera - e vivo tranquilla. Ma lei, poveretta, che è ricca!...

GIOVANNI  - Oh! (Va alla finestra a fumare nervosamente e a sputare sulla piazza)

MARCHESA- E poi, dove me le mette le cooperative?

GIOVANNI  - Le coo... Come ha detto?

MARCHESA- Le cooperative.

GIOVANNI  - Ma che ne so, io!

PEPPINO     - Eh, ne trovano una ogni giorno. Davvero si stava meglio...

MARCHESA- ... quando si stava peggio.

PEPPINO     - L’Italia, come l’avevamo fatta noi, era bella.

GIOVANNI  - E lei, quanto guadagnava al mese?

PEPPINO     - (In questo momento non si sorveglia) Diecimila lire... ma di allora! (tornando a controllarsi) Guadagnavo quello che meritavo.

MARCHESA- E poi, dico io, cosa vogliono? Sono tutti comunisti e, perciò, scomunicati. Devono ringraziare Iddio che la Chiesa è diventata troppo buona, e non è più quella di una volta. Perché ho letto in un libro che una volta a uno scomunicato, non si poteva dare né da mangiare né da bere né da dormire. Dico giusto, commendatore?

PEPPINO     - La scomunica, in verità, comporterebbe...

MARCHESA- Noi invece alla minima occasione, apriamo il cancello, li facciamo entrare (col tono di chi descrive uno sfacelo) e lì tutti, chi da una parte, chi dall’altra, sotto gli alberi, vicino al torrente, attorno alla casa, tutti, a lavorare! (guardando in alto) E che Iddio ce lo perdoni!... Alcuni, sapete?, recitano il rosario e si fanno la croce... ma non sanno che sono scomunicati lo stesso... Naturalmente non possiamo farli lavorare più del giusto, perché poi, bisogna anche pagarli. Ora io dico: se a noi basta il reddito che abbiamo, perché stancare le terre, poverette, che anch’esse hano bisogno di riposarsi come i cristiani! Sapeste, certe volte, mi fanno tanta pena! Non ci manca mica il pane, che dobbiamo smungerle così? Fra l’altro, la gente cosa dirà? I marchesi Ardizzoni devono avere dei debiti, se non lasciano in pace nessun cantuccio dei loro poderi... Non mi pare decoroso. E poi, siamo padroni a casa nostra, o no?

TINA             Oh, signora marchesa! E se non sono padroni loro, chi è il padrone?

MARCHESA - Mio padre mi diceva che suo nonno, per coltivare le terre della Piana partiva all’alba, con un pezzo di pane e di formaggio in tasca e a mezzogiorno se lo mangiava senza scendere dalla mula, sempre con gli occhi ai contadini che non gli faceva nemmeno alzare la testa. E noi dovremmo sentirci dettare legge nelle terre che il nonno di mio padre ha tirato su inzuppando di sudore anche le giacche? A tal punto che, dopo vent’anni dalla sua morte, puzzavano ancora e non si potè mai usare l’armadio dove erano state chiuse? No, signori miei!... (cambiando tono e rivolgendosi ad Elvira) E sua nipote, questa bella giovane che non parla, vorrebbe dare il suo aiuto a quegli scomunicati? (PAUSA) Sono venuta per accertarmi di questo. (A Elvira) Si ricordi che lei è una signora come noi. E non può stare con loro, che ci perde.

PEPPINO     - Veramente il marito della signora aveva fatto a noi la promessa di aiutarci.

GIOVANNI  - Chi ha parlato? Chi è che ha parlato?

PEPPINO     - Lo sa benissimo: sono il commendator Lauria!

GIOVANNI  - Ah?... (con disprezzo) Ah!

PEPPINO     - Io sono venuto qui per chiarire le mie cose, La lettera di quello sporcaccione, che dirige la casa cinematografica di Roma, non la discuto nemmeno. E’ stata scritta sotto i fumi del vino, perché è un ubriacone, e posso dirlo io, che l’ho visto bere nel vagone ristorante fra Napoli e Roma. Comunque ho qui una lettera di mia cognata che reagisce...

ELVIRA       - (Interrompendo) Non vogliamo sapere, commendatore, i particolari di come reagisce una vecchia di sessantadue anni.

MARCHESA -    (Rivolgendosi a Giovanni) Che bella voce, che ha sua nipote! Sa chi mi ricorda? Mi ricorda... ah, ecco: una graziosa giovane che, vedendomi passare per la strada. Mi disse... Cosa mi disse?... (si oscura: ha ricordato) Ah!

PEPPINO     - Va bene, non la leggerò. Voglio dire però al signor Giovanni che non innego affatto il mio passato.

GIOVANNI  - Allora la memoria ce l’ho buona, io?

PEPPINO     - Sì, e io la coscienza. Sono sempre di una fede. Non cambio come tanti altri! Dopo la disgrazia...

GIOVANNI  - Quale disgrazia?

PEPPINO     - (Con disprezzo) La libertà... Diventai democristiano perché speravo che questo partito diventasse forte come il nostro. Sono rimasto deluso. (Alzando la voce) Sono fascista, sì. Non ho paura né vergogna di dirlo. E la cosa che più odio al mondo è la lib-bertà... Noi non la volevamo, la libertà... Ce l’ha portata il nemico, poteva tenersela a casa sua, e solo il nemico poteva farci questo regalo. La libertà... Oh... l’antipatia che mi fa questa parola!...

  (Elvira lo guarda con disgusto)

GIOVANNI  - (Si avvicina a Peppino e l’afferra per il petto) Come si permette, lei, di avere antipatia? Questa parola posso dirla solo io, qui. Non tu, sorcio bagnato nell’olio, candela consumata! Tu non puoi avere antipatia per niente e per nessuno! (Alla nipote) Elvira, perché non scrivi qualche cosa?

ELVIRA       - (Disperata) Ma per chi, zio, per chi?

GIOVANNI  - Ma non lo so... scrivi per... per... per... Oh, Signore, non lo so nemmeno io.

ELVIRA       - Zio, fammi una carità, se mi vuoi bene.

GIOVANNI  - Parla.

ELVIRA       - Lascia che io mi chiuda in quella cucina... lì... (Si avvia verso la cucina) ... fra le mie stoviglie, i miei piatti, i miei stracci... le mie cose che se mi alzo la notte e entro in cucina al buio me le ritrovo come se avessero la parola...

GIOVANNI  - (Scuote la testa e le impedisce il passaggio) No.

ELVIRA       - (E’ colta da un pensiero) Ovvero...

GIOVANNI  - Ovvero, Elvira?

ELVIRA       - Ovvero... Tina, ho un vestito elegante per uscire?

TINA            - Signora... mi pare... uno. Dev’essere ancora nella valigia.

ELVIRA       - Tiratelo fuori e stiratelo.


SCENA II

(Teatro di Catania. Il camerino di Emanuele Rossi. E’ terminato il secondo atto della commedia di Elvira. L’attore si sta ritoccando il trucco davanti allo specchio. Wanda, in vestaglia, con una parrucca in mano, passeggia nervosamente e gli parla guardandolo nello specchio).

WANDA      - Sono sensuale, che posso farci? E’ un delitto? Sono sensibile. Tante, che sono fredde come il marmo vanno dal medico per diventare come me. Ma intanto che si fanno bucare il sedere con tre punture al giorno, si permettono di scandalizzarsi perché un’altra donna cambia colore se un uomo la tocca. Oh, dico. E’ un uomo che la tocca, non lo spigolo di un tavolino: è uno dell’altro sesso!... Senti: il polso mi picchia come la zampa di un cavallo al galoppo. Sono agitata, sconvolta. E perché? Non certo per la tua bella faccia, perché, tu, anche se ti fai aggiustare il naso dal chirurgo francese, non sei bello. Ma perché tu sei un uomo. Che il diavolo ti porti! Anche tu, così mascalzone come ti dimostri con me, hai il sacro potere dell’altro sesso.

EMANUELE -     Gli uomini, siamo tanti. Prendine un altro.

WANDA      - (fermandosi) - Amico, non sono disonesta. Come sarebbe bello se tu capissi! oh, che fortuna! Tu credi che una donna sensuale debba essere anche disonesta? No: non è così. Le disoneste si trovano più fra le donne fredde che fra di noi. E’ facile non arrossire per quello che s’è fatto, quando non s’impallidisce mentre lo si fa.

EMANUELE -    (canticchia).

WANDA      - Cosa dici? (avvicina l’orecchio alla bocca di Emanuele). Ma tu canti!

EMANUELE -     No.

WANDA      - (esasperata) - Sì, canti! Ti sei innamorato di quella casseruola che non bolle,  quel fornello spento, quel carbone bagnato di tua moglie. Ma va da lei! Pregala, a lingua per terra, che ti conceda l’onore di aiutarla a lavare i piatti. (pausa, cambia tono). A meno che quella Madonna addolorata non conosca delle male arti. Perché queste donne di casa la sanno più lunga del diavolo. Una notte, in un paesino della Sicilia, ove c’erano più chiese che case, mi sono seduta sullo scalino di una porta chiusa e, senza volerlo, ho sentito il discorso che facevano un santo marito e una santa moglie... Be’, ho imparato qualche cosa.

EMANUELE -    (col tono di chi ripete un motivo che non può staccarsi dalla bocca; mentre corregge con la punta di uno spazzolino le sopracciglia) - “Come è stata sciocca la vita...”.

WANDA      - Cosa dici?... Ah, quella stupida battuta! Non ti basta recitarla... O canti o ripeti quella sciocchezza... (esce furiosa).

 EMANUELE-     “... e come il sentimento della bellezza è stato turbato dalla polemica, dalla vanità, dall’interesse! E come tutto questo è stato spontaneo! Non posso dire che la mia natura è stata tradita. La morte si avvicina, e non posso accusarla di arrivare al momento meno adatto: perché, in altri momenti, mi avrebbe sorpreso lo stesso nell’errore e nella perdita di tempo. E il fatto che me ne accorga adesso non mi assicura per l’avvenire. Dunque che venga, e che faccia presto!” (si ferma come chi si accorge di essere ascoltato). Chi è?

(Elvira è entrata e s’è nascosta dietro la tenda).

ELVIRA       - Io.

EMANUELE -    (si alza) - Chi... Elvira?

ELVIRA       - (esce dalla tenda) - Sì.

EMANUELE -    (impallidisce di felicità) - Oh, cara! (l’abbraccia). Oh, cara! Come dice Shakespeare? “Che felicità vederti!”. Come dice Ibsen?: “Che felicità, vederti!”. E c’è una battuta di un altro grande che dice... dice... dice: “Che felicità, vederti!”. Mi hai perdonato dunque? Sì, sì, sì, mi hai perdonato... Non dire di no, non dire di no! Mi hai perdonato. (con altro tono). E sei arrivata adesso?

ELVIRA       - No. Ho visto il secondo atto.

EMANUELE -    (preoccupato) - E... come ti è parso?

ELVIRA       - (poco convinta) - Bene, molto bene. Solo che...

EMANUELE -     Solo che?

ELVIRA       - Quella tua battuta del principio...

EMANUELE -     “Come è stata sciocca la vita...”. Ma Elvira cosa vuol dire? Lui è un artista e il suo sentimento della bellezza è stato turbato dalla vanità, dalla polemica e dall’interesse. Questo, in parte, lo comprendo. Ma cosa vuol dire, dopo: “E come tutto ciò è stato spontaneo. Non posso dire che la mia natura è stata tradita?

ELVIRA       - Vuol dire... (cambiando tono). Emanuele, parliamo d’altro. Vuoi che io torni a casa con te?

EMANUELE -     Elvira da quando non ci sei tu, passo la notte a occhi aperti.

ELVIRA       - Perché?

EMANUELE - Ho paura. Vorrei entrare nel corpo dei pompieri.

ELVIRA       - Come?

EMANUELE - Ho studiato molti libri di storia, in questi giorni, e ho notato che il corpo dei pompieri è quello che ha meno vittime durante le rivoluzioni.

ELVIRA       - Senti, Emanuele, vuoi farmi un grande piacere?

EMANUELE - Con tutto il cuore.

ELVIRA       - Questa sera, devi recitare un altro finale.

EMANUELE - Perché?

ELVIRA       - Vorrei che questa maledetta commedia cadesse, che fosse tolta dal cartellone, che non se ne parlasse più, e soprattutto, che non si parlasse più di me!

EMANUELE - Ma è un peccato far cadere la commedia.

ELVIRA       - (energica) - Vuoi che io torni con te o no?

EMANUELE - Sì, faccio qualunque cosa. (pentito). Però che tristezza, essere fischiati! E poi questa sera che è presente addirittura il critico della radio!

ELVIRA       - Appunto per questo.

EMANUELE - Una commedia così bella, che mi pare di averla scritta io!

ELVIRA       - Immagina che l’abbia scritta un altro e falla cadere senza rimorsi.

EMANUELE - Però...

ELVIRA       - Vuoi che io torni con te?

EMANUELE -    (rassegnato) - E va bene. Ma non occorre cambiare il finale: vuol dire che farò uno sforzo e lo reciterò male.

ELVIRA       - (con dolcezza e serietà) - Ma guarda che tu, Emanuele, non reciti bene.

EMANUELE (insorgendo) - Come?... (si accascia). Forse hai ragione.

ELVIRA       - Scusami, non volevo dire che reciti male: volevo...

EMANUELE -     Lascia stare. (pausa). E questo finale è lungo? Perché io, sai, non ho una memoria forte.

ELVIRA       - (cava un foglio e lo dà a Emanuele) - Leggilo.

EMANUELE -    (inforca gli occhiali e, dopo aver letto) - Mi pare una pazzia sostituire l’altro finale con questo. Comunque ho promesso e manterrò. Con quale voce vuoi che lo reciti?

ELVIRA       - Con la tua.

EMANUELE -     Io ho sette voci per recitare.

ELVIRA       - Sette?

EMANUELE -     Se non di più.

ELVIRA       - E quali sono?

EMANUELE -     Una bassa, di petto, con cui ho recitato Eschilo: “Salve, o splendor, che nella notte arrechi...”.

ELVIRA       - Sentiamo l’altra.

EMANUELE -     L’altra, tenendomi sempre sulle note basse, è questa: “Salve, o splendor...”.

ELVIRA       - Mi pare uguale alla prima.

EMANUELE -    (con sufficienza) - Noo.

ELVIRA       - Sentiamo la terza.

EMANUELE -     La terza è una voce di trachea.

ELVIRA       - Sentiamola.

EMANUELE -     Sarebbe così: “Salve, o splendor...”. Ovvero, una voce di gola: “Salve, o splendor...”. Poi ho tre voci di testa...

ELVIRA       - Le conosco. Sono per la casa quando ti arrabbi.

EMANUELE -    (piano piano) - Non le userò mai più. (con altro tono). Allora? Scegli.

ELVIRA       - Sono confusa. Adopera la voce che vuoi, o tutte e sette alternandole.

EMANUELE -    (raschia, poi legge con voce di araldo) - “Signori, so che fra noi c’è una cosa putrida, una cosa repugnante, che ci avviluppa completamente e ci costringe ad allargare il petto...”.

ELVIRA       - Non così. (ripete lei con intonazione meno squillante) “...una cosa repugnante, che ci avviluppa completamente e ci costringe ad allargare il petto e a respirare con un rumore indiscreto”.

EMANUELE -    (seguitando a leggere) - “E’ la libertà di opinione”.

ELVIRA       - No, scusami. (ripete correggendo). “E’ la libertà di opinione”.. Devi immaginare che questa libertà di opinione sia una fila di blatte o di cimici.

EMANUELE -(ripete la battuta, guardandosi intorno come se per la parete e il soffitto muovessero veramente verso di lui file di insetti) - E la libertà di opinione. Signore, signori, amici, confessiamolo lealmente: nulla è più odioso di vedere i vostri simili avere ciascuno un’opinione e dichiararla a voce alta. Nulla è più repellente che sentire nel proprio cervello...”.

ELVIRA       - Scusami (gli toglie il foglio di mano e ripete, leggendo). “Nulla è più repellente che sentire nel proprio cervello crescere come una cisti, come una pustola, come un cancro un pensiero personale, e, quel che è peggio, non sentire sulla propria bocca la calda, umana, paterna, provvidenziale mano di un poliziotto che ci costringa a tacere”. (porge il foglio a Emanuele).

EMANUELE -    (seguitando a leggere, con la solita voce di araldo) - “Com’era bello il tempo...”.

ELVIRA       - No, scusami. (gli ritoglie il foglio e legge, con la voce di chi è soffocato dalla nostalgia). “Come era bello il tempo in cui le nostre bocche dicevano insieme la stessa cosa e i nostri cervelli riposavano, sepolti nel tepore di un’opinione comune...”. (cambia tono). Il seguito puoi recitarlo nel modo che a te sembrerà il migliore, perché peggio sarà recitato e meglio sarà.

EMANUELE -    (la guarda sospettoso, non capisce, poi prende il foglio e legge) - “Alzate gli occhi! Guardatemi: voi, rimpiangete quel tempo. E chi può darvi torto? Anch’io lo rimpiango e, prima di partire, voglio lasciarvi un ricordo...”.

ELVIRA       - Più commosso!

EMANUELE - “ ...un ricordo! Ecco qui...”

ELVIRA       - Fermati. (va alla porta e chiama). Tina!

                       (Entra Tina con due sacchetti pieni).

ELVIRA       -(trae da un sacchetto un guinzaglio e un collare da cane)  Prendi questo collare e questo guinzaglio e fa l’atto di gettarlo in platea come se fosse un fiore.

EMANUELE -     E’ pericoloso, pericoloso, pericoloso.

ELVIRA       - (secca) - Seguita a leggere.

EMANUELE -    (col collare e il guinzaglio in mano) - “...ecco un collare. Avvolgete attorno al collo questa striscia di cuoio che, per maggiore comodità vostra, porta anche un giro di verghetta di ferro, e assicurate il guinzaglio per un capo, lasciandolo pendere per l’altro. Quest’altro capo di guinzaglio, che striscia per terra, finirà certo per trovare una mano robusta che lo prenda. E intanto cercate di applicare alla bocca...”.

ELVIRA       - Da quest’altro sacchetto prenderai... (dal secondo sacchetto cava una museruola e la porge ad Emanuele).

EMANUELE -    (leggendo) - “...una museruola. Così, guardate...”.

ELVIRA       - Mettila sulla bocca, su.

EMANUELE -    (esegue) - Così?

TINA            - Signora, io non do mai consigli, ma un cristiano non può mettere una museruola sulla faccia che Dio gli ha fatto a sua somiglianza.

EMANUELE - (legge) - “E’ un gran conforto... Lo sapete meglio di me... Con questo collare al collo, questa museruola sulla bocca, e un guinzaglio che striscia per terra, pregate e sperate. Vi lascio con l’augurio, sincero...”.

ELVIRA       - (corregge il tono) - “sincero”.

EMANUELE -    “...sincero, che troviate presto un padrone duro come un corno, squillante come una tromba, col piede rombante come una mazza di grancassa, un elmo sulla testa e, sopra l’elmo, un grande animale dorato”. E qui, fischi...

ELVIRA       - Speriamo.

VOCE          - Chi è di scena? Chi è di scena?

EMANUELE -    (si pulisce lesto il naso con un asciugamano) - Dio mio, di già? E come farò a imparare a memoria questo finale?

ELVIRA       - Puoi leggerlo: fai la parte del conferenziere.

EMANUELE -    E’ una grande trovata. Lo leggerò. (con altro tono). Cosa mi consigli, Elvira? Un chirurgo francese vorrebbe spostarmi il naso verso destra, così. (si prende il naso con le dita). Starò meglio?

ELVIRA       - (lo guarda) - Mi pare un po’ troppo a destra.

EMANUELE -    (correggendo) - Così?

ELVIRA       - (glielo sposta lei) - Così.

EMANUELE -    Non lasciarlo. Fammi guardare allo specchio. (si volta verso lo specchio, col naso fra le dita di Elvira, si guarda).

(Irrompe Wanda).

WANDA      - Cosa fai? (a Elvira). Ah, siamo qui? Che diavolo di carezza gli stava facendo?

VOCE          - Signore, è pronto?

EMANUELE - Sì, vengo subito. Wanda, torna nel tuo camerino.

WANDA      - Non prima di aver detto due parole alla signora.

VOCE          - Sipario.

EMANUELE -    Ah! (si avvia in fretta; a Tina). Voi restate qui. (esce).

WANDA      - (a Tina) - Uscite.

TINA            - (agita davanti a sé la destra con le dita strette a imbuto, se la picchia sulla fronte, torna ad agitarla).

WANDA      - Cosa vuol dire?

TINA            - Che lei sta parlando nel sonno. Io non mi muovo di qui.

WANDA      - Bene, restate. Tanto, non dobbiamo dirci nulla, con la signora. (esageratamente ironica). Sono venuta soltanto per guardarla.(si siede con le braccia conserte).

ELVIRA       - Non mi aveva mai visto?

WANDA      - Sì, ma non l’ho mai osservata attentamente.

ELVIRA       - Bene, guardiamoci. (si siede di faccia a Wanda).

TINA            - Be’, cosa ci ha da dire?

WANDA      - Vuole avere la compiacenza di farmi vedere le mani, signora?

ELVIRA       - Eccole. (gliele mostra dalla palma e dal dorso).

WANDA      - E il piedino.

ELVIRA       - Il destro o il sinistro?

WANDA      - Qual è il piede che mette fuori delle coperte mentre dorme?

ELVIRA       -(arrossendo) - Chi le ha detto che io?...

WANDA      - Un uomo che l’ha vista dormire.

ELVIRA       - (quasi tra sé) - Che mascalzone!

TINA            - Fidatevi del proprio marito! Va spifferando tutto ai quattro venti. Facevo bene io che non chiudevo mai gli occhi prima che lui s’addormentasse.

WANDA      - (a Elvira) - Oh, l’ha detto in una forma estremamente poetica e tutta a suo vantaggio. Soltanto per rinfacciarmelo.

ELVIRA       - (fra i denti) - Quando penso che rinfacciare vuol dire gettare sulla faccia, che piacere per me che qualcuno le abbia rinfacciato il mio piede!

WANDA      - (non capisce, poi d’un tratto ha capito) - Ehi, bambola, con me queste parolette col veleno dentro non vanno, sai? Ma guarda un po’! Il piede sulla faccia (scansandosi rapidamente), il piede sulla faccia, il piede sulla faccia! (si tasta il polso, ansima). Già sono tutta sconvolta! (si porta una mano al petto). Sentite, sentite che musica! E lei lì, calma, guardatela, come se non avesse detto niente...

ELVIRA       - E cosa ho detto? Ho ripetuto una sua frase: rinfacciarle il mio piede.

WANDA      - Ma io, sai, se mi dà di volta il cervello, ti prendo per i capelli e ti appendo alla finestra come una cipolla.

TINA            -(scattando) - Chi appendi, come una cipolla?

ELVIRA       -(a Tina) - Vi prego!

TINA            - Ma signora, non posso sentirla parlare. (a Wanda). Tu sei come una cipolla, che puzzi pure da lontano.

ELVIRA       -(energica) - State zitta o vi mando via. (a Wanda). Signora, faccia di me tutto quello che vuole, mi appenda come una cipolla, m’impicchi, ma non mi dia del tu.

WANDA      -(cercando di dominarsi, con tono strascicato e ironico) - Ti lascio la stampa, per caso, col mio tu? Senti, bambola...

TINA            - Ma come si permette di prendersi queste confidenze con la mia signora!?

WANDA      - (a Tina) - Zitta tu, vecchia imbecille!

TINA            - Ehi, imbecille sei solo tu! Noi, il tu, ce lo possiamo dare! Vecchia, sì, lo sono io... e un po’ anche tu.

WANDA      - (si stringe le tempie le guance coi pugni; fra i denti, dominandosi a fatica) - Basta, siete due serve, due donne di cucina, due lavapiatti. Ne va del mio decoro, a litigare con voi. Io sono una signora, un’attrice, e posso dominarmi. Se voglio, dico al mio cuore di non battere, e il mio cuore non batte, si ferma.

TINA            - (con sollievo) - E così muori.

WANDA      - (scoppia in un accesso isterico) - Basta! Basta! Basta! (quasi piangendo). Basta, basta... (rivolta a Tina). Basta!

TINA            - E basta, basta.

WANDA      - (a Elvira) - Basta!

ELVIRA       - (con dolcezza) - Ma sì, basta.

(Pausa).

WANDA      - (fra piagnucolosa e minacciosa, premendosi con forza il mento e la bocca sulle mani nervosamente intrecciate) - Ma io sono una signora, non posso farmi insultare... da due donne di cucina... perché tu, puoi scrivere tutte le commedie che vuoi, ma sei sempre una donna di cucina... L’odore di fritto non te lo toglie nessuno dal cervello... E io sono una signora, e devo sfogarmi, se no muoio.

ELVIRA       - (calma) - Ma si sfoghi.

WANDA      - Io devo dire quello che ci ho qui. (con le mani intrecciate, si picchia lo stomaco).

ELVIRA       - Ma lo dica.

WANDA      - Sono stata insultata da due sguattere!... E sono una signora.

ELVIRA       - Ma dica, dica, dica. Le parole di una signora, si ascoltano sempre volentieri.

WANDA      - E allora... (si concentra, poi, coi tendini del collo tesi, le guance infuocate, urla). Stronze! (sospira di soddisfazione). Ah!

                       (Pausa).

ELVIRA       - Però, che signora!

TINA            - (stacca dalla parete un bastone, a Elvira) - Chi glielo dà, un colpo sulla testa, lei o io?

WANDA      - Cosa?...

(Si sentono dei fischi).

WANDA      - (impaurita) - Fischiano!

ELVIRA       - (con un salto di gioia) - Fischiano, fischiano, fischiano! (abbraccia Wanda). Dimentichiamo tutto. Non le serbo rancore di nulla... Fischiano!

                       (Applausi)

WANDA      - (felice) - Applaudono!

ELVIRA       -(accasciata) - Applaudono.

(Fischi)

WANDA      - (accasciata) - Fischiano.

ELVIRA       - (felice) - Fischiano!

(Applausi).

WANDA      - (felice) - Applaudono.

ELVIRA       - (infelice) - Applaudono.

(Gli applausi, crescono, sommergono definitivamente i fischi).

     Mio Dio, applaudono.

(Entra Emanuele).

EMANUELE -    (agitato e addolorato) - Stanno applaudendo. Hanno saputo che tu sei a teatro e vogliono vederti. E il giornalista della radio vuole intervistarti.

ELVIRA       - (irritata) - Oh, Emanuele, non sai nemmeno recitare male!

EMANUELE - Che colpa ne ho?

ELVIRA       - Se sapessi recitare bene, poi all’occorrenza, sapresti anche recitare male.

EMANUELE - Non ti capisco.

ELVIRA       - Ma l’hai detto, l’hai ripetuto, l’hai gridato, l’hai cantato che non sono io l’autrice della commedia?

EMANUELE - Non ci credono. (breve pausa). Uno, in prima fila, si spellava le mani. Sai chi era? Il marchesino Ciro Ardizzoni. Elvira, guardami negli occhi: cosa c’è fra voi due? Corrono delle voci...

ELVIRA         (infastidita) - E’ proprio tempo, questo, di dire sciocchezze!

EMANUELE - No, un momento. Io, a quel fannullone, un giorno o l’altro, gli addiziono tanti schiaffi a due a due finché non diventano dispari. Fra l’altro, l’hanno cacciato dal partito comunista. Non lo temo. In caso di rivoluzione, lui sarà un marchese e io un pompiere. Vedremo chi di noi due sarà più adatto a una cassa da morto.

(Bussano)

EMANUELE - Chi è?

VOCE          - Sono della radio. Sono qui per l’intervista.

EMANUELE (a voce alta) - Come si fa?

ELVIRA       - Esco da quella porta. Digli di venire a casa nostra, fra un’ora. Lo riceveremo insieme. Andiamo, Tina.

WANDA      - Se vuole, me l’accollo io, questa commedia che le fa tanto ribrezzo.

ELVIRA       - Ci sono parole troppo rozze. Ne va del suo decoro a far sapere che le ha scritte lei, una signora!

WANDA      - E forse non ha torto (Elvira esce), pezzo di str... (si picchia la bocca con la palma della mano).

SCENA III

(La stessa scena del primo atto. Notte. Il giornalista della radio è seduto sul divano. Davanti a sé ha il registratore, e intanto consulta i suoi appunti. Si sente suonare mezzanotte. Il giornalista guarda l’orologio).

(Entrano Emanuele ed Elvira, che si siede a fianco del giornalista, sul divano. Emanuele le sta, protettivo, al fianco).

GIORNALIS.-     (Dopo i convenevoli) Vogliamo cominciare? (Elvira annuisce appena) Signora, suo marito ha passato un’ora tentando di convincermi che lei è una modesta donna di casa che sa appena scrivere una lettera... (Elvira tace, e non commenta neanche con l’espressione)... Ha insistito a dire che la commedia che sta recitando l’ha scritta uno straniero che gli ha fatto giurare sul Vangelo di non rivelare mai il suo nome... (Elvira c.s.)... Negli ambienti teatrali, invece, e fra il pubblico che va a teatro, si sa - e si dice - che l’autrice della commedia è lei... (Elvira c.s. Lui si spazientisce) Insomma, vuol dirmi qualcosa?

ELVIRA       - E che cosa? Mi pare abbia già detto tutto lei.

GIORNALIS.-     Mi vuole rispondere: sì o no?

ELVIRA       - Sì o no che cosa?

GIORNALIS.-     E’ lei l’autrice della commedia?

EMANUELE -     (A sostegno della moglie) Le dico di no. No e poi no. Non è lei.

GIORNALIS.-     Non è lei?

ELVIRA       - (Sorride al marito, mentre risponde al giornalista) Lei crede che io sia donna da smentire il proprio marito?

GIORNALIS.-     Signora, mi stia a sentire. Ho riconosciuto il genio teatrale nella commedia che recita suo marito, vorrei ora riconoscerlo in lei personalmente. A me non la si fa: sento il genio dall’odore che lascia in una stanza.

ELVIRA       - Oggi qui dentro abbiamo smacchiato gli abiti e c’è odore di benzina.

GIORNALIS.-     Signora... Va bene, cominciamo l’intervista con delle domande. Le sue risposte ci daranno un ritratto preciso della sua misteriosa personalità. (cava un foglietto e legge). Cosa pensa del teatro?

EMANUELE -    (Contento di poter intervenire) Il teatro è “speculum vitae”.

GIORNALIS.-     Non è una risposta un po’ ovvia?

EMANUELE -     (Pronto e sicuro) Il teatro è anche sovvenzione.

GIORNALIS.-     Questa mi sembra una risposta un po’ riduttiva.

EMANUELE -    Ridotte sono le sovvenzioni che ci danno.

GIORNALIS.-     E lei, signora, che ne dice?

ELVIRA       - (come ripetendo a memoria) - Il teatro deve andare verso il popolo.

GIORNALIS.-     (Dopo una piccola pausa) Sì, ma cos’è il teatro, secondo lei?, in che consiste?

ELVIRA       - Nell’arbitrio.

GIORNALIS.-     E non nell’arte?

ELVIRA       - Ma se l’arte non è arbitrio...

EMANUELE -    Ma che dite? (Per alleggerire la situazione) Io di arbitri conosco solo quelli del calcio, che, il più delle volte, sono cornuti.

GIORNALIS.-     Cos’è la cultura?

EMANUELE -    Quella dei critici che scrivono che io sono un grande attore. (Lo fa sempre per alleggerire, e anche per rendersi simpatico)             

GIORNALIS.-     (A Elvira, che sorride alla battuta del marito) E lei, quale pensa sia il compito degli intellettuali nella società d’oggi?

ELVIRA       - Gli intellettuali devono essere organici... Ovvero...

GIORNALIS.-     Ovvero?

ELVIRA       - Essere intellettuali.

GIORNALIS.-     Cos’è l’ignoranza?

ELVIRA       - L’oppio dei popoli.

GIORNALIS.-     Ma questo non lo si dice della religione?

ELVIRA       - Lo si dice di tutto ciò che impedisce la libertà del pensiero. Lo si può dire anche della “sua” radio.

EMANUELE -    Mia moglie sta scherzando. L’ignoranza è quella della gente che crede che io sono vecchio.

GIORNALIS.-     Sentiamo le sue idee politiche. Cosa pensa del comunismo?

ELVIRA       - Il mondo va verso il comunismo... Ovvero...

GIORNALIS.-     Ovvero?

ELVIRA       - E’ il comunismo che va verso il mondo.

GIORNALIS.-     (Perplesso, ma insiste con l’intervista) Cosa pensa della donna d’oggi?

ELVIRA       - Che non deve tentare di essere un uomo... Ovvero... (Sguardo interrogativo del Giornalista)... deve essere un uomo migliore.

GIORNALIS.-     Cosa pensa di suo marito?

EMANUELE -    Qualunque cosa pensi, mi ama abbastanza da non discuterla pubblicamente con lei. (Elvira gli sorride)

GIORNALIS.-     Può dirmi almeno se pensa che sia un genio o un pallone gonfiato vanitoso?

ELVIRA       - Essere molto vanitoso può essere compatibile col genio. Proust.

GIORNALIS.-     E lei non è un po’ troppo poco vanitosa per essere un’artista?

ELVIRA       - Io non sono un’artista. Comunque la vera arte non sa che farsene di tanti proclami e si compie nel silenzio. Proust.

GIORNALIS.- Signora, tentiamo di vederci chiaro: vediamo: lei che ama citare Proust, quanti libri ha letto?

ELVIRA       - Non molti, sa. Nemmeno duemila.

EMANUELE -     (Si lascia sfuggire) A me pare un’enormità.

ELVIRA       - (Per calmarlo) Scherzavo, scherzavo, Emanuele. Saranno appena mille e cinquecento.

EMANUELE -    (Accasciato) A me pare enorme.

GIORNALIS.-     Più la guardo, e più penso che avesse ragione quel tizio che sosteneva che i libri ci insegnano molto poco del mondo...

ELVIRA       - (Dà un autore alla citazione) Oliver Goldsmith.               

GIORNALIS.-     (Esasperato per non essere riuscito a capirla) Signora, me ne vado. Spero di non averla infastidita troppo.

ELVIRA       - Abbastanza, caro signore, abbastanza.

GIORNALIS.-     E’ la prima volta che l’autore di una commedia s’infastidisce del mio interessamento. Vuol dire, cara signora, che non me ne occuperò affatto, visto che le ho dato tanto fastidio.

ELVIRA       - Non ho detto tanto: ho detto abbastanza.

GIORNALIS.-     (Si sente chiaramente preso in giro)- Del resto, la galanteria ha un limite; dopo questo limite, c’è la verità. E la verità è che la sua commedia vale poco...

ELVIRA       - Abbastanza, direi.

GIORNALIS.- ...e che io, di questa commedia, ne ho...

ELVIRA       - Abbastanza. (Si sente suonare il campanello della porta)

GIORNALIS.- Abbastanza, sì. (alzando le braccia e gridando). Fin sopra i capelli!... Spero che... (Entrano Peppino Lauria e Rosina, introdotti da Tina)

TINA            - Hanno voluto entrare per forza. Dice che è urgente.

PEPPINO     - La commedia è stata proibita.

TUTTI          - Oh!

ELVIRA       - Dio che bellezza... Questa sì che è una buona notizia!...

EMANUELE -    Ma chi ha dato l’ordine di proibire la commedia?

PEPPINO     - Il duce!

EMANUELE -    Ma come il duce?! E che, i morti possono proibire le commedie? 

PEPPINO     - Il duce l’ha ordinato al mio amico prefetto.

EMANUELE -    Ma perché?, si parlano?

PEPPINO     - Sì, con un tavolino.

ELVIRA       - Non sarebbe più comodo un telefono?

PEPPINO     - (Ignorandola) Poco fa sono andato dal prefetto per prendere accordi sulla chiusura della campagna elettorale, e l’ho trovato che sudava freddo e m’indicava un tavolino a tre piedi. M’ha detto: “Il nostro Capo è lì. Sono mesi che viene a parlarmi. Stasera mi ha ordinato di proibire la commedia che sta recitando Emanuele Rossi...”

EMANUELE -    Mi conoscono anche nell’aldilà!

PEPPINO     - (Continua) “Coloro che piangono perché credono che il nostro povero paese è rimasto decapitato, si consolino: abbiamo ritrovato la testa...”

EMANUELE - ...di legno.

PEPPINO     - Perché di legno?

EMANUELE -    Eh, un tavolino non sarà mica di fosforo. Ma questa è davvero un’indegnità! Chi potrà liberarci da un tiranno morto?

ELVIRA       - Un tiranno vivo.

EMANUELE -     (Al giornalista) Sono sicuro che lei, caro amico, farà alla radio una vibrata protesta?

GIORNALIS.-     Al tempo, al tempo. Io non ho mai parlato male di quell’uomo che voi chiamate un tiranno, adesso che è morto perché rispetto i morti...

EMANUELE - E quand’era vivo?

GIORNALIS.-     Neanche, perché mi avrebbe buttato in prigione. Signori miei, se qui la politica entra nell’arte, la faccenda non è più di mia competenza: devo prendere ordini dal mio capostruttura.

EMANUELE -    Che vorrà prendere ordini dal direttore di rete che vorrà prendere ordini dal direttore generale che vorrà prendere ordini dal presidente della radio, e via via, fino a chiedere ordini al Capo dello Stato che se la caverà fingendo di non aver sentito la domanda.

GIORNALIS.-     Può darsi. Comunque meglio sempre lasciare le cose come stanno. Arrivederci a tutti. (Saluta ed esce)

EMANUELE - (A Peppino) E così la commedia è proibita.

PEPPINO     - Ordinanza prefettizia... autorizzata da Roma...

EMANUELE -    Ma guarda caso, il Prefetto è un suo amico.

ROSINA      - Questo non c’entra!...

EMANUELE -    Come suppongo non c’entri il fatto che si sia sparsa la voce che io potrei recitare una serata per Ciro Ardizzoni.

PEPPINO     - Pura coincidenza. L’ordine viene dall’alto.

EMANUELE -    E “all’alto” non glie ne importa niente che da stasera ventidue persone si trovano senza lavoro?

ROSINA      - Ubi major, minor cessat.

EMANUELE -    Come disse Berta Annaloro, nata Pàccari, sua sorella, una sera di dieci anni fa.

ROSINA      - Si lavi quella boccaccia di saltimbanco prima di nominare una santa del Cielo!!!

EMANUELE -    E chi glie l’ha dato il paradiso?, suo marito?

ROSINA      - (Al marito) E tu lasci insultare la tua famiglia in questo modo? (Peppino le fa inutili cenni di stare calma) Non rimarrò un minuto di più in questa casa! (A Elvira) Buonasera, cornuta! (A Emanuele) Addio puttaniere, cane e vecchio! (Esce)

EMANUELE -     Puttaniere e cane va bene, ma vecchio...

PEPPINO     - (A sorpresa) Andiamo, cavalier Rossi, non tutti i mali vengono per nuocere...

EMANUELE -    Che vuol dire?

PEPPINO     - Voglio dire che... profittando di questa inaspettata libertà... e del suo ritrovato tempo libero... si potrebbe...

EMANUELE -    Si potrebbe?

PEPPINO     - Si potrebbe... terminare insieme questa campagna elettorale...

EMANUELE -    E cioè? Che dovrei fare?

ELVIRA       - Emanuele!

EMANUELE -    Elvira, ti prego. “Qui parla il commendatore”, come si scriveva sui copioni di una volta. Prego, commendatore.

PEPPINO     - La campagna elettorale è al suo culmine. Un uomo di cultura come lei, importante, e soprattutto famoso, potrebbe essere provvidenziale per la causa del nostro partito.

EMANUELE -    Cioè per la sua ?!

PEPPINO     - E’ la stessa cosa. Il mio destino, quello del mio partito, quello del nostro paese si identificano. Lei potrebbe affiancarmi nei comizi, prendere la parola, fare interviste sui giornali, parlare alla radio in mio favore...

EMANUELE -     Interessante! E che ci ricaverei in cambio?

ELVIRA       - Emanuele!!!

PEPPINO     - Che domanda ingenua! Il titolo di Commendatore?... Un teatro a gestione pubblica, magari a Roma, diretto da lei?... Denaro?... Potere?... Nulla è impossibile a un partito forte.

EMANUELE - (Sembra meditare) Già.

ELVIRA       - Emanuele!!!!

EMANUELE -    (Comincia dolce, calmo, e va in crescendo) Un partito forte!... E’ da quando ero un ragazzino che tutti hanno congiurato per inculcarmi nella coscienza la convinzione che un regime forte fosse necessario e fatale. Gente con la faccia tale e quale alla sua, commendatore, lo sguardo rivolto al basso con il rapimento di chi ha scambiato la terra per il cielo, la bocca che si serra con stento per masticare comandi, o minacce, o lusinghe, anche se è già palesemente slabbrata da urla servili, arie da potente e stipendio da impiegato, al quale si rimedia con la pratica abituale di farsi pagare come costosi favori anche quelli che sono atti dovuti - è gente come lei che mi ha insegnato sin da bambino ad ammirare la forza - del regime, della massa, del partito. All’interno di questa vita di massa, alla quale chi si risolve di partecipare si mette nello stato d’animo della comparsa teatrale, mi si è sempre richiesto di fare sfoggio di forza: da cittadino devo essere combattente, da persona pubblica militante, da artista combattivo, da attore ruggente. Prima per ingenuità e convinzione, e poi per vigliaccheria e quieto vivere, ho sempre dichiarato di apprezzare la forza di quella massa o di quel gruppo di cui mi ritrovavo a far parte. Ma in questi ultimi tempi io comincio a credere che non il partito, non lo Stato, non la massa devono essere forti, ma la personalità individuale dei cittadini. Solo allora, io penso, un vento di gioia tornerà a sorvolare questa terra piena di cimiteri, e si sveglieranno l’arte, i giochi, i capricci, le avventure. Sa che le dico? Ringrazio il suo amico prefetto di aver proibito la commedia. Mi ha fatto scoprire il sollievo di sentirmi finalmente libero. Io ai suoi giochetti politici non ci sto. Non ci sto più! Donna di casa, voglio diventare, come quella santa di mia moglie. Mi sento liberato, leggero, ho vent’anni di meno! Ho voglia di ballare! Guardi! Ballo! Ballo alla faccia del prefetto! E alla faccia sua! (Si mette a ballare, sfrenato, provocatorio)

PEPPINO     - (Mentre Elvira ride a crepapelle, finalmente orgogliosa del marito) Ma dico! E’ impazzito? Qui ci vuole la camicia di forza!

EMANUELE -    E adesso fuori! Fuori!!! O le spacco una sedia sulla testa! Datemi qualcosa da tirargli! Un libro! Dov’è un libro?... Ma è possibile che in questa casa, con mille e cinquecento volumi nella testa di mia moglie, non si trova un libro da tirare a un uomo spregevole?

(Peppino batte in ritirata)

ELVIRA       - (corre felice ad abbracciare Emanuele) Bravo, tesoro mio. Eri davvero ispirato! Ma quelle parole? Da dove le hai tirate fuori?

EMANUELE - Mi sono improvvisamente ricordato un monologo di uno scrittore qui di Catania. L’avevo imparato a memoria, ma non l’avevo mai capito. Fino ad ora.

ELVIRA       - Ah, Emanuele, che bellezza!... Non voglio più uscire di casa per dieci anni! Rifarò le pulizie di tutte le stanze. Laverò anche i muri: mi hanno spiegato come si fa... Sono di nuovo una donna di casa. E tu non mi tradirai.

EMANUELE - Ti giuro che quella donna per me...

ELVIRA       - Non parlo delle donne. Voglio dire che tu non tirerai mai più fuori quella commedia e non ripeterai mai più, a nessuno, che l’ho scritta io.

EMANUELE - Come vuoi. Che peccato, però!

ELVIRA       - Non la rimpiango. Questi giorni sono stati un lungo, ininterrotto mal di capo.

EMANUELE -  (Le si avvicina e le mette le mani sulle tempie, come per farle andar via il mal di capo. Stanno per baciarsi, quando si sente cantare dalla strada la serenata del Don Giovanni)

VOCE DI CIRO - “Deh, vieni alla finestra - O mio tesoro”.

EMANUELE - Chi è?

ELVIRA       - Te lo dico io: il marchesino Ciro Ardizzoni.

EMANUELE -    (fa per staccarsi da lei) - Dammi un secchio d’acqua.

ELVIRA       - (lo tiene abbracciato) - No.

EMANUELE - E come si permette di portare una serenata a casa mia?

ELVIRA       - Vuole farci sapere che è diventato un uomo libero.

VOCE DI CIRO - “Tu che il zucchero porti - In mezzo al cuore...”.

ELVIRA       - (ascoltando impietosita) - Ma ho paura che si faccia delle illusioni. (studiando la voce). No, non ha la voce di un uomo libero... e nemmeno di un uomo felice... Dio, che poca naturalezza! E quanto impegno... troppo! La stessa naturalezza di chi vuol far vedere che non teme l’opinione della gente e cammina nudo in mezzo a una strada... Come ci tiene a mostrare che lui non si vergogna di cantare Mozart!... E perché dovresti vergognarti, sciocchino?... No, caro, poveretto, tu domani ti pentirai, e tornerai buono buono nel tuo casotto, e rimetterai il collare...

EMANUELE -    Ma io, un bicchiere d’acqua, almeno, glielo voglio buttare.

EVLIRA       - Sta buono!... Senti? s’allontana. (Lo porta verso il divano. Si siedono)

EMANUELE - Ma Elvira, tu lo ami!

ELVIRA       - No, sento un po’ di tenerezza.

EMANUELE - E perché?

ELVIRA       - E’ così sciocco!

EMANUELE - Ma anch’io sono sciocco, Elvira.

ELVIRA       - Di meno, caro, di meno.

(E’ un momento di tenerezza coniugale. Emanuele si sdraia con il capo appoggiato al grembo di Elvira. Pare che dorma. Elvira infila una mano sotto il cuscino, e cautamente tira fuori un libro. Lo legge, mentre accarezza dolcemente i capelli di Emanuele)

ELVIRA       - O, for an age so sheltered from noy That I may never know how change the moons.

                       “Oh, venga un tempo così al riparo dai fastidi che io possa non sapere mai come cambiano le lune”.

S I P A R I O