UNA NOTTE DI CASANOVA
Monologo
di FRANCO CUOMO
PERSONAGGI
GIACOMO CASANOVA in una età indefinibile della sua maturità
UNA BAMBINA di dodici-tredici anni
L'azione si svolge in una stazione di posta d'una indefinita località d'Europa. Ricordi e riferimenti storici sono stati accostati liberamente, tenendo conto dell'intero arco della vita di Casanova e non di un particolare momento.
Scena
Una saletta riservata in una stazione di posta. Una tavola apparecchiata per due con molta cura, e con quel minimo di lusso provvisorio che la locanda può offrire: lume di candela, qualche riverbero di argenteria e cibi di una certa vistosità, come un fagiano piumato, soufflé di varie dimensioni, affettati misti e formaggi, terrine ricolme di pàté, creme colorate, sughi vaporosi, qualche bottiglia di annata. Si intravvede nella penombra, sul fondo, un grande confortevole letto, discretamente occultato da una tenda scorrevole. Accanto, un tavolo da toilette con specchio, un necessaire da viaggio, flaconi, oggetti da trucco.
Bagagli: un baule semiaperto, una cappelliera, qualche valigia, quanto basta per sottolineare con un certo disordine la provvisorietà del momento.
Casanova solo si aggira pigramente, ma con una certa impazienza, in questo spazio limitato, soffermandosi di tanto in tanto davanti alla tavola imbandita e controllandone i dettagli. Come aspettasse qualcuno. Sposta ripetutamente le posate secondo un ordine prestabilito, dà una sistemata ai fiori, annusa le pietanze, si guarda intorno, raccoglie una camicia rimasta su di una sedia e la ripiega in una valigia, nota il baule semiaperto e lo richiude comprimendo all'interno qualche capo di vestiario che parzialmente fuoriusciva. Sposta a lato la cappelliera per fare spazio. Si siede poi davanti allo specchio e controlla il trucco, avvicina il viso alla superficie lucida per controllare meglio i dettagli, si passa una lozione sulle mani e poi sul
collo, aggiunge un velo di cipria alle guance. Giungono di tanto in tanto dall'esterno i rumori della stazione di posta: carrozze in arrivo o in partenza, scalpitio di cavalli, ordini urlati in lingue diverse. Si mescolano a questi echi le voci provenienti dall'interno della locanda: gente che mangia, ride, canta.
Le undici
Casanova apre una finestra e guarda fuori, annusa l'aria della notte, respira a pieni polmoni. Guarda intorno, come aspettasse qualcuno, forse l'arrivo di una carrozza. Poi guarda in alto, come cercando nelle stelle una risposta alla sua attesa.
Casanova - È così chiara questa notte che tutte le carrozze arrivano in orario tranne la sua... Ammettilo, è in ritardo. Forse non verrà affatto. Ma non è detto. Sono appena le undici. Sì, d'accordo — l'aspettavo per le nove. Due ore... Non verrà. Oppure sì. Che m'importa? (Si stringe nelle spalle e chiude la finestra. Ci ripensa e la riapre. Guarda ancora il cielo). È così chiara questa notte... Ricordo una notte così nitida così trasparente con lei. Guardavo il cielo con lei — una notte così bianca, tersa, di un tale chiarore che tutte le cose parevano d'argento. Guardavo una stella, e lei che già m'aveva riempito di doni mi mise una mano sugli occhi: non guardarla, disse, quella non te la posso regalare. (Chiude la finestra e si dirige verso il tavolo apparecchiato). Ammettilo... Non verrà. Ma chi l'ha detto? E poi — verrà non verrà... Che significa? Questo stufato ha un profumo inquietante — vale la fatica di dieci mogli e sette cuoche. Varrà pur dieci mogli e sette cuoche un'amante ritardataria!... No?! (Indugia ad annusare i cibi). E un'amante assente — un'amante che non verrà?... (Intinge un dito nel sugo caldo dello stufato e lo succhia. Poi cerca tra le bottiglie aperte. Ne annusa una, ma la mette da parte, come sapesse di tappo. Ne prende un'altra, l'annusa, se ne versa un bicchiere. Degusta, lo trova buono. Se ne versa un altro). Un'amante che non verrà... Ma sì — che me ne importa? Verrà non verrà... Che significa? (Sì versa ancora da bere. Annusa con cura i cibi in tavola. Si decide per un pasticcio di carne. Ne prende un pezzo con le dita e assaggia). Ho sempre amato queste pietanze fini e grevi: il pasticcio di maccheroni alla napoletana, l'olla podrida degli spagnoli, il merluzzo grasso dei mari del nord, la selvaggina frollata fino a sentire di muffa, quei formaggi la cui perfezione si esprime attraverso il vermicolio dei piccoli esseri generati dal calore del loro grembo... Sì, ho amato (man mano che parla, assaggia i vari cibi, annusa, si versa ancora da bere) i sapori, gli odori delle cose che mi erano care. Come le donne — mi è parso sempre soave, inebriante l'odore di quelle che amavo.
Si lascia cadere seduto su una sedia accanto alla tavola apparecchiata e mangia, passa da un piatto all'altro, annusa, beve.
Casanova - Posso alternare un pasto di sette portate a una notte d'orgasmo senza sfiancarmi — senza risentirne. Posso vegliare per giorni e per notti senza allentare la mia tensione il mio assillo filosofico la mia ricerca d'estasi e conoscenza. Che gioia vivere... Letterati e storici malaticci non me lo perdoneranno mai.
(Si versa ancora da bere).
Casanova prende una gazzetta, come per ingannare il tempo nell'attesa di chissà che cosa, e legge. Poi commenta ad alta voce.
Casanova - Non passa giorno ch'io non legga sulle gazzette d'Europa che qualcuno dei miei migliori amici d'un tempo ha perso la testa a Parigi. (Ripiega il giornale e lo mette da parte, abbandonandosi al compiacimento del ricordo). Parigi... Quante volte l'ho persa anch'io la testa a Parigi — quante volte. È meraviglioso perdere la testa a Parigi... (Scoppia a ridere, con una punta di crudeltà, ma anche di pena per se stesso e il proprio mondo) Perdere la testa a Parigi. Un tempo la si perdeva per amore. Oggi sotto la lama di quell'orrida macchina popolare inventata da quel medico di Marsiglia — sì, come si chiama?... quella specie di meccanico dell'anima e dei corpi — sì, il dottor Ghigliotti, Ghigliottini, Ghigliotten... (Riprende a mangiare. Immerge un dito in un soufflé, lo succhia, ne prende ancora). Coloro che non hanno vissuto prima del 1789 non sanno cos'è la gioia di vivere. (Si versa da bere. Va verso lo specchio e si sistema il trucco). La storia per me finisce quando finisce la cipria.
Si sente dall'esterno il rumore di una carrozza in arrivo. Casanova lascia cadere la gazzetta e si alza, tende l'orecchio. La carrozza si è fermata. Si sentono ordini in tedesco, via vai di servi. Casanova rimane in ascolto, immobile. Finché le voci diradano.
Casanova - No, non è lei. Non è la sua carrozza. (Raccoglie da terra la gazzetta. Fa per rimettersi a leggere, poi l'appallottola e la getta lontano. Va verso la tavola, indugia tra un piatto e l'altro, poi prende con le dita una fetta di prosciutto e l'ingoia). Buono... mi ricorda — ma sì, qualcosa... Tutti gli odori, tutti i sapori mi ricordano qualcosa.
Riprende a mangiare con ingorda decisione, demolendo avidamente un soufflé.
Mezzanotte
Musica dall'esterno. Qualcuno, in altre stanze della locanda, accompagna la cena con un'aria dal «Don Giovanni» di Mozart. Casanova interrompe la scorpacciata, riconosce la musica, cerca di cogliere le parole. Che ora si sentono distintamente.
«... Ah, la mia lista doman mattina
d'una decina devi aumentar!»
Casanova - Sì, una decina!... In una notte?! (Scoppia a ridere) Dieci in una notte!... Via, Dongiovanni — siamo seri! Le nostre matematiche divergono. E anche le nostre liste. Non m'importa niente di poter annotare di aver posseduto dieci donne in una notte — ammesso che si possa... Non ci penso nemmeno... Ma procurare dieci orgasmi alla medesima donna in una notte questo sì, questo è amore, questa è la mia gloria. Perché io le amo tutte — tu nessuna. «...È tutto amore. Chi a una sola è fedele verso l'altre è crudele». Sì, certo — amarne una è far torto alle altre. Così, per non far torto a nessuna non ne ami nessuna. Io per non far torto a nessuna le amo tutte.. (È quasi commosso di ciò che dice. Forse ha gli occhi umidi. Si passa una mano sul viso. Forse si asciuga una lacrima). Abbiamo grattato le mura delle medesime galere io e te ma tu dall'esterno, pagliaccio — io da dentro. Sei solo un seduttore, Dongiovanni — io un sedotto. (Compiaciuto della sua patetica scena, trangugia un 'altra fetta di prosciutto — il che lo riconduce a una dimensione più reale. Il suo interlocutore non è più Dongiovanni, creatura fantastica, ma l'autore del libretto, amico suo da vecchia data). Dieci in una notte!... Ah, Lorenzo, Lorenzo Da Ponte amico mio — dieci in una notte... Ma come t'è venuto in mente? Questo tuo libretto è davvero bizzarro. Capisco che quel Mozart non se ne intenda poi tanto di amplessi — ma tu, amico mio... Ricordi? Canzonettiste, attrici, castrati, cameriere, baronesse, lavandaie, vergini, ostesse... Ricordi? E allora — come fai come fai a fargli dire dieci, dieci donne in una notte? Dieci... Lorenzo — dieci... (S'interrompe, ha un moto di perplessità, forse di dubbio) Dieci in una notte... (Riflette un attimo. Poi scuote la testa, risoluto). No no no — non si può... (Nuovamente indeciso) O sì?... Si potrebbe?... Ma no, no!... Ed anche se si potesse sì — mettiamo che uno ce la fa quale ignobile prova... Mettiamo che uno ce la fa. E la tenerezza? Il mistero? Le parole soffiate in un orecchio a fior di labbra? Le promesse?... Niente. Soltanto fretta e sudore — a meno che a meno che... no, niente non si può. La musica è finita. Continuano a sentirsi tintinnio di bicchieri e risate femminili. Casanova fa per prendere ancora qualcosa da un piatto, ma lascia stare. Ritrae la mano e va verso lo specchio. Si guarda, si dà una ripassata di cipria. Indugia ad ascoltare le risate femminili dall'esterno, il tintinnio di bicchieri, gli echi della festa.
Casanova - (riflessivo, continuando a rifarsi il trucco). Dieci in una notte... Ma no. A meno che questo Dongiovanni non consideri la seduzione un fatto compiuto 'al momento in cui ha la certezza che l'amplesso se richiesto non verrebbe rifiutato. Ecco, sì — qualcosa come uno scambio di sguardi un rossore un ventaglio lasciato cadere dal finestrino d'una carrozza — e magari gli basta, sì per lui è sufficiente. Ecco, la donna è in lista a questo punto — possederla o meno a questo punto è del tutto irrilevante. Per lui. Ma per me — per noi, caro Lorenzo... Dio, come siamo diversi io e il tuo Dongiovanni. E pensare che noi due siamo invece tanto simili, Lorenzo — pensare che mi avevi perfino proposto di scriverlo insieme io e te quel libretto per Mozart... Fortuna che non ti ho preso sul serio. Ancora cavalli e carrozze all'esterno. Urla di cocchieri e servi in una lingua sconosciuta, forse polacco.
Casanova - (scattando) Eccola — è lei!... (Va su e giù, si ricompone, si specchia, riordina il tavolo) Sì, dev'essere lei... L'avevo detto. È lei sicuramente. Non è poi così tardi... (Resta inutilmente in attesa. Aspetta con l'orecchio teso alla porta che le voci e lo scalpiccio dei passi si disperdano). E lei... Ma no, lo sai — lo sai che non è lei. Smettila di ripeterti che verrà verrà verrà... Lo sai — non verrà. Sì, d'accordo, te l'ha promesso ed era pure sincera... Perché mentirti? Verrò, ti ha detto — ed era sincera, puoi giurarci era certa che sarebbe venuta che ti avrebbe raggiunto... Sì ci credeva davvero. E perché no? Perché non avrebbe dovuto? Forse t'amava... Forse? Ma no, certamente t'amava quando te l'ha promesso... Verrò — facile a dirsi verrò... Sì, come Isabella all'Hotel dei Mori di Dresda — te l'aveva giurato. Verrò — come Miranda alla Chiesa della Salute. Come Henriette... Henriette alla locanda della Bilancia di Ginevra. Anzi no, Henriette c'era già — lì con me alla locanda di Ginevra. Verrò?... No, resterò — ecco la sua promessa — resterò per sempre con te... Henriette a Ginevra. Per sempre — e intanto se ne va mentre dormo e mi lascia scritto sul vetro «tu dimenticherai anche Henriette»... anche Henriette. Sul vetro con la punta di diamante — incancellabile. Mi dicono (con una sorta di compiacimento, di vanità per la sua fama) che molti albergatori di Ginevra hanno inciso la stessa frase sul vetro di una finestra qualsiasi per poter dire «qui passò Casanova con la sua giovane Henriette»... Sì, insomma per ragioni turistiche — tale è la mia fama ormai... Henriette (di nuovo malinconico, sincero) perché te ne sei andata? A quel modo poi... «tu dimenticherai anche Henriette». No, Henriette, non ti ho dimenticata. Ho ancora in tasca, qui... in tasca qui sul petto... in tasca la tua lettera... Ma dov'è? (Si fruga nervosamente, enfatico e commosso, un po' isterico, come temesse di non trovarla) La tua lettera... Eccola. (Trova un foglio spiegazzato, lo apre, lo bacia con melodrammatica tenerezza, lo scorre con lo sguardo). Voce di donna fuori campo. Mentre Casanova l'ascolta, le lacrime gli rigano il volto. «Sono io, mio unico amore, che ho dovuto abbandonarti, poiché tu non l'avresti mai fatto. Non mi vedrai più, né potrai mai sapere quanto dolore mi è costata questa separazione. Ma ti prego, non accrescere il tuo dolore pensando al mio. Sappi, amore mio, che la mia vita scorrerà senza problemi — ho sistemato le mie faccende in maniera da poter essere felice per il resto dei miei giorni, per quanto mi sarà possibile senza di te. Non chiedere mai di me, e se il caso ti farà conoscere la mia identità fingi d'ignorarla. Facciamo finta di avere sognato. Nessun sogno durò mai tanto a lungo. Vantiamoci di essere stati capaci di renderci assolutamente felici per tre mesi interi. Io non so chi tu sia, ma so bene che nessuno ti conosce quanto me. Ti amo. Non amerò mai nessuno nella mia vita, ma spero che tu non voglia imitarmi. Vivi, amore mio — non lasciarti vivere. Ama — non lasciarti amare. Sì, amore — non imitarmi. Io desidero che tu ami ancora, e che tu possa trovare un'altra Henriette. Addio, amore. Addio, Casanova... Tu dimenticherai anche Henriette».
Casanova - No, Henriette. Non ti ho dimenticata. Però ti ho disubbidito. Ho chiesto di te dovunque — ti ho cercata senza darmi pace. Ho cercato di scoprire il tuo segreto — la tua identità. Desideravi ch'io potessi trovare un'altra Henriette. Devo averti deluso... Non ci sono riuscito. Ho amato molto, è vero — come volevi. Ma un'altra Henriette non l'ho trovata mai più... Però non sono triste per questo. L'amarti ancora non è motivo di dolore. Al contrario, è la prova che in fondo la mia vita — la vita confusa di questo disperato d'Europa — è stata felice, assai più felice che infelice.
L'una
Ancora rumori di carrozze, cavalli e ordini di postiglioni all'esterno. In lingue diverse.
Casanova ha un moto d'insofferenza, si prende la testa tra le mani e la scuote.
Casanova - Cavalli, cavalli e ancora cavalli... Non se ne può più. Sono dunque così interminabili le strade del mondo? Cavalli carrozze cocchieri facchini locande serve dogane... Basta. Dovrò fuggire in eterno?... Da che? Sono evaso da quella tomba che i veneziani chiamano Piombi. Quale galera d'Europa può farmi paura? Fuggire fuggire fuggire... Da che? È come se le mura degli alberghi e dei castelli d'Europa mi si serrassero intorno come se andassero chiudendosi ogni giorno di più come una morsa... Ed io devo sottrarmi, sfuggirle... È dunque tutta una galera l'Europa intera, la vita con i suoi vini e le sue birre, le donne, gli arrosti fumanti sugli spiedi, le cambiali e le banche, le donne, le zuppe calde d'inverno, le strade che si tagliano come fili di gomitoli sparsi, le donne, i numeri, gli infiniti zeri dell'oro depositato nei forzieri, la cabala, i grandi arcani del tarocco, la cacciagione spezzata sulla brace, il vino aromatizzato coi chiodi di garofano, le donne, la ruota della fortuna, il diavolo, i numeri, le donne, il denaro... È dunque tutta una galera l'Europa? Sono davvero più inviolabili dei Piombi le mura delle galere dell'anima?... Cavalli carrozze cocchieri... Che sia lei?
Finge ancora una volta di tendere l'orecchio all'esterno, senza convinzione, come un attore che debba recitare svogliatamente la sua parte fino in fondo. O forse anche per dimostrare a se stesso che quella donna — che non verrà, lo sa benissimo — sia davvero importante per lui, visto che lo prevede il copione. Silenzio. Parrebbe rassicurato dall'allontanarsi dei passi e delle voci. Come se in fondo, nonostante tutto, desiderasse restare solo con se stesso. Anche se non l'ammetterà mai. Perfino un gesto di sconforto, uno scuotimento nervoso del capo e le parole che borbotta tra sé nell'allontanarsi dalla porta, sanno di simulazione. Recita per se stesso.
Casanova - Ma no no no — non è lei... Non verrà. Smettila d'illuderti... Non verrà. (Va su e giù per la scena, poi si china a raccogliere la gazzetta appallottolata che aveva gettato poc'anzi. Scorre il foglio con tutta l'indifferenza di chi non ha niente da fare. Scandisce qualche nome). Gerard, Francois, Philippe... Quante teste di amici d'un tempo miete la gelida amante d'acciaio. Eppure quanto è misericordiosa al confronto di altri carnefici. (Si concentra su ricordi esaltanti e terribili: l'esecuzione dì Damiens, attentatore di Luigi XV). Eravamo in cinque sul balcone di piazza di Grève quella mattina del ventotto marzo — giorno atroce dell'atroce supplizio di Damiens, vittima fanatica e demente dei gesuiti, che credendo di guadagnarsi il paradiso aveva scalfito con un temperino il re. La piazza era gremita. Tutto esaurito anche sui balconi. Avevo prenotato il mio con una settimana d'anticipo. Tutta Parigi voleva assistere all'evento. Eravamo in cinque: tre dame che avevo prelevato di buon'ora e il conte Tiretta di Treviso, esule come me per un malinteso con la giustizia veneziana, a Parigi da qualche giorno ma già circondato da una certa fama, tant'è che tra certe signore s'era guadagnato il soprannome di Tiretta-sei-volte con riferimento non troppo velato agli assalti amorosi ch'era in grado di sostenere con successo nel giro di una notte. Eravamo in cinque: io, Tiretta, due giovani dame — una delle quali si faceva passare per nipote del papa, dato che si chiamava Lambertini, e la zia di quest'ultima, attempata. Dato che il balcone era stretto, mettemmo avanti le tre dame approfittando di uno scalino che permetteva loro di seguire meglio lo spettacolo. Ebbero la costanza di assistervi per quattr'ore ed io con loro — ma almeno io distolsi lo sguardo e mi tappai le orecchie alle grida del disgraziato. Orrori simili oltraggiano la natura ma nessuna delle donne ne fu turbata. L'esecuzione fu un «avvertimento»: Damiens fu straziato con tenaglie roventi alle mammelle, alle cosce, alle braccia e ai polpacci. Poi fu messo nella sua mano destra il coltello con cui aveva attentato alla vita del re. La mano fu bruciata lentamente mentre sulle ferite già aperte dalle tenaglie in tutto il corpo veniva fatto colare piombo fuso, olio bollente, cera e zolfo insieme. Soltanto dopo questa cerimonia iniziò lo spettacolo vero e proprio: il corpo di Damiens fu legato a quattro cavalli da tiro per lo smembramento. Ma Damiens era di costituzione così robusta che le membra resistevano. Provai un moto di orrore nel constatare che le braccia e le gambe si allungavano smisuratamente sotto il tiro dei cavalli ma non cedevano. Le dame restavano indifferenti. Fu necessario per aiutare lo sforzo dei cavalli l'intervento di un chirurgo, che praticò incisioni alle ascelle e alle giunture. Una coscia si staccò per prima poi l'altra, poi un braccio. Damiens era ancora vivo e gridava mentre i cavalli continuavano a scalpitare. Nell'atroce silenzio che ci avvolgeva tra un gemito e l'altro della vittima sentii alla mia sinistra un fruscio: Tiretta aveva sollevato con molta discrezione la gonna dell'abbondante vecchia zia della damigella Lambertini e ne abusava sconciamente. La vecchia signora, da parte sua, mostrava la più totale indifferenza a quanto le stava capitando per non scandalizzare la giovane nipote. Insomma Damiens moriva nell'indifferenza e nell'orgasmo. Fui l'unico a distogliere lo sguardo e tapparmi le orecchie per non sentire l'ultime grida. E quando chiesi alle donne come avevano potuto assistere con tanta disinvoltura a torture così ripugnanti si stupirono della mia sensibilità e mi guardarono quasi con disprezzo o sospetto, non so. Poi con grande naturalezza la giovane Lambertini sorrise spiegandomi che il suo amore per il sovrano era tale da giustificare qualsiasi crudeltà nei confronti di chi aveva attentato alla sua vita. Non si può provare pietà — disse — per simili mostri. E sorrideva. Anche sua zia sorrideva.
Casanova - Sorridevano. Se davvero straordinaria è la capacità delle donne di non sentire alcuna pietà quando ritengono giuste le sofferenze altrui, ancora più straordinaria è la loro pretesa di riceverla quando ritengono ingiuste le proprie. Ricordo cinque sorelle di Hannover cadute in disgrazia. Erano bellissime. La più grande aveva ventidue anni, la più piccola quattordici. Morto il padre, avevano finito per perdere ogni loro ricchezza. La madre era immobilizzata a letto e rischiava l'arresto per debiti. Loro rischiavano il lastrico. Nessuno degli amici d'un tempo muoveva un dito per aiutarle, pur trattandosi di gentiluomini ricchi e generosi. Ma perché? Perché — mi spiegò una delle hannoveresi che si era rivolta a me per aiuto — pretendevano in cambio favori che avrebbero offeso la loro dignità. Ciò significava — cercai di spiegare a mia volta alla ragazza — che quei signori le trovavano amabili e chiedevano loro semplicemente di soddisfare quei desideri che esse stesse ispiravano e di cui erano dunque in qualche modo colpevoli. Era perciò naturale che, non avendo quelle fanciulle pietà per i desideri di quegli uomini, questi non potessero averne per la loro indigenza. Io trovavo che quei gentiluomini avevano ragione. La ragazza ne fu scandalizzata. Ma io fui tanto chiaro da aggiungere che la pensavo come loro. Ammisi di essere animato dai medesimi desideri: vedete, dissi, la vostra disgrazia è di essere belle. Se foste brutte nessuno di noi vi negherebbe le venti ghinee che vi occorrono. Ve le darei io stesso senza pensarci due volte. Ma visto che voi siete belle e fatte per ispirare ardenti desideri, nessuno crederebbe alla mia buona azione. Tutti attribuirebbero la mia offerta non alla generosità del mio cuore ma all'intenzione di ottenerne una ricompensa, che non venendo mi renderebbe a ragione molto ridicolo. Voi valutate la vostra dignità al di sopra di ogni altro bene. Non nutrite alcuna pietà per i nostri desideri. E va bene. Noi vi lasciamo la vostra dignità e ci teniamo il nostro denaro per procurarci con altre i piaceri che voi ci negate. Non vi pare ragionevole? Le ragazze trovarono che il mio non era un linguaggio paterno. Ed io non ebbi difficoltà ad ammetterlo: nei loro confronti non m'interessava altra parte che quella d'amante — l'unica del resto che ho sempre sostenuto ,con tutta la mia fantasia ed il mio fervore in qualsiasi circostanza. Ma visto che questo offendeva la loro dignità promisi che non le avrei tormentate oltre con tali discorsi raccomandando però loro di non tormentare gli uomini. E feci per andarmene. Ma mi trattennero. La loro dignità non avrebbe comunque sofferto alcun pregiudizio da un invito a cena. Le mie cinque deliziose ninfe, superata la perplessità iniziale, furono felici e grate non soltanto dei miei doni ma della lezione che avevo loro dato. E poi una dopo l'altra, giorno dopo giorno, si contesero la mia compagnia. Vittoria fu la prima. Era come il suo nome: destinata a vincere qualsiasi partita d'amore per sfinimento dell'avversario. Poi toccò ad Augusta, poi ad Ippolita... È tutto annotato — tutto scritto dettagliatamente nei miei «capitolati», dai quali un giorno trarrò 10 straordinario racconto della mia vita. Gabriella era la più piccola. Può darsi che mi sia piaciuta più delle altre per via di quei suoi quattordici anni. Può darsi ma credo di averle adorate tutte allo stesso modo per l'ebbrezza incantevole cui sapevano abbandonarsi nei momenti di felicità — credo di avere adorato anche me stesso in quei giorni per averle rese così felici.
È come immalinconito dal ricordo. Ma anche compiaciuto. Muta istericamente toni ed espressione a seconda che parli del proprio dolore nel separarsi dalle hannoveresi (che lo deprime) o del loro nel separarsi da lui (che lo esalta).
Casanova - Dedicai l'ultimo giorno a Ippolita e Gabriella, che tutti ormai consideravano la mia sposa bambina. La mia felicità con lei era perfetta ed io la ricambiavo con la fedeltà — per quindici giorni ignorai le sue sorelle, trattandole come sorelle a mia volta nonostante quello ch'era accaduto tra noi. Eravamo insomma una meravigliosa famiglia, terribilmente unita. L'ultimo giorno con Ippolita e Gabriella decidemmo di sfiancarci in una pazza corsa a cavallo. Uscimmo dalla città al passo poi ci lanciammo al galoppo fino a Barret, dove facemmo colazione mezz'ora dopo. Avevamo percorso dieci miglia in venticinque minuti. 11 che parrà inverosimile a chi non conosce la velocità di certi cavalli tedeschi. I nostri erano superbi — come le due amazzoni, così ebbre nel loro sudore di felicità da stordire chiunque le guardasse. Al momento di dirci addio il giorno dopo le cinque ragazze di Hannover piangevano a dirotto. Mi confortava nel separarmi da loro la certezza di avere davvero compiuto una buona azione, perché nel frattempo ero riuscito a combinare un matrimonio tra la dolce Augusta e Lord Pembroke — un matrimonio con regolare contratto di nozze: una rendita di cinquanta ghinee al mese per tre anni, una casa a Saint-Alban, domestici ed ogni agiatezza. Il che avrebbe consentito a tutt'e cinque le hannoveresi e alla vecchia madre di vivere per il futuro nella massima tranquillità. Piangevano tutte al momento di dirci addio. Io mi chiusi nella mia stanza d'albergo per tre giorni attanagliato da una cupa tristezza. In un mese avevo speso con le hannoveresi tutto il ricavato degli ultimi miei affari e in più avevo quattrocento ghinee di debiti. Sistemai ogni cosa con le mie carte di credito e la vendita di qualche gioiello. Decisi quindi di prendere il mare per Lisbona. Ma prima scrissi a Bragadin per farmi accreditare duecento zecchini per corriere. Avevo ancora gli occhi rossi e il cuore gonfio di malinconia quando lasciai quella stanza in cui ero stato felice con Gabriella, Ippolita, Augusta, Vittoria... E all'improvviso nell'attraversare la hall dell'albergo il mio sguardo incontrò quello di... Ma no, questa è un'altra storia.
Le due
Mentre parla si sposta da un angolo all'altro della stanza, sistema oggetti fuori posto, riprende ad assaggiare cibi. Ha preso da una scatola aperta un mazzo di carte e lo manipola con destrezza, come un prestigiatore. Sta per disporre le carte sul tavolo, come per un solitario, quando all'esterno si sentono nuovi rumori di cavalli in arrivo. Tende ancora una volta l'orecchio all'esterno, pigramente, senza più alcun interesse, e scuote il capo, scorrendo tra le dita le carte.
Casanova - Non verrà. Lo dicono anche le carte. (Legge le carte con distacco, lasciandole cadere sul tavolo, dopo una rapida scorsa, una dopo l'altra) Le due coppe dell'innamoramento e dell'unione sono strette tra l'Eremita e il Sole. L'Eremita invita alla prudenza — il Sole è segno di felicità. Come conciliare felicità e prudenza? Vediamo. Accanto all'Eremita c'è la Donna di Denari, accanto al Sole il Bagatto — Le Bateleur, come dite voi francesi, dunque me, la Volontà di Essere. Essere che? Il vostro amante, signora. Ma voi siete prudente — e interessata, come vedo. Altrimenti sarebbe venuta la Donna di Coppe, tenera come una madre o una sposa verginale — oppure la Donna di Spade, irata e vendicativa come una vedova senza rassegnazione o un'amante tradita. Invece no: la Donna di Denari, una cortigiana senz'amore o un'innamorata così cortigiana da non saper sacrificare il proprio benessere, la sicurezza, la servitù al sogno. Addio, amica mia. (Tira distrattamente un'altra carta, come cercando soccorso) Eccola, la Morte. Ma niente paura. Non c'è pericolo. È da tempo che cammino sotto l'ala della Morte senza riceverne alcun danno. La Morte non è morire nel codice della divinazione. È solo la compagna del guerriero — di colui che sfida la vita. Ecco tutto. Per il Destino la Morte è rinascita, rinnovamento — sì, insomma come a teatro: ogni finale un principio, ogni principio un finale. Addio, signora — stanotte ho un'amante molto più importante di voi. (Fissa la carta della Morte, la mette bene in luce perché tutti la vedano, se la porta alle labbra e la bacia) Dammi un figlio... Dammi un figlio... (Parlando alla carta, come un innamorato, con le lacrime agli occhi) Dammi un figlio... Racconta una leggenda assai remota che un libertino, avvicinandosi la fine dei suoi giorni, tentò di sedurre la Morte per protrarre la vita. Ma guardandola negli occhi se ne innamorò, come di tutte le Donne Ineluttabili. Ne fu riamato. Dammi un figlio — supplicò allora prima di abbandonarsi all'amplesso e sprofondare nel vuoto senza fine di quel piacere irreparabile che gli occhi cerchiati della Morte lasciavano intravvedere... Dammi un figlio. (Prende un'altra carta) Ecco, ancora la Luna. Torna in gioco la Luna. Ma a quel tempo non esisteva ancora la Luna. Dammi un figlio — insistè il libertino con la Morte. (Casanova piange, lascia cadere le carte, cammina su e giù per la stanza, prende un pezzo di torta dal tavolo e la divora nervosamente, versa del vino e lo beve d'un sorso, si riprende, come obbligato dal dovere di terminare il racconto. Lo fa con tono mondano, sorseggiando vino e gesticolando con grazia) Sì, insomma — il libertino morì e fu pianto da tante donne che perfino la Morte, amante il più delle volte indifferente, finì per commuoversi ed esaudire il suo ultimo desiderio. Così ne restò incinta e lo ripartorì. Il vecchio libertino a questo modo rinacque ragazzo e corse subito alla ricerca di tutte le sue donne. Ne incontrò molte, spesso con gli occhi ancora umidi di pianto, altre volte racconsolate, ma tutte con quel medesimo viso, quella medesima pelle che lui aveva amato. Le chiamò per nome. Corse loro incontro, ma tutte quelle che lo videro rimasero terrorizzate e fuggirono. Lui gridava: «Non vi spaventate, sono mio figlio!» Ma quelle fuggivano, mentre lui tentava di avvertirle: «Non fuggite, se no morirete per sempre! Se mi aspettate risorgeremo insieme nel cielo. Non fuggite!» Ma fuggirono. Il ragazzo restò solo, crebbe, diventò uomo e morì — e in cielo per la prima volta comparve la Luna. Da allora quel libertino continua a rinascere e morire tutte le notti — regolando coi suoi andirivieni le maree di sangue nel ventre delle donne rimaste sulla terra. Ma quelle che fuggirono morirono per sempre. (Casanova è stanco, come sopraffatto dall'intensità del racconto che ha appena terminato. Beve ancora e siede, concludendo con un 'ultima battuta, quasi una specie di morale, la storia) È così. Per questo la Luna è l'astro tenerissimo di tutti i libertini. Per questo le donne le dedicano a scadenze ben precise l'omaggio sanguigno del proprio ventre. Perché la Luna con la sua malinconia e i suoi tradimenti cela nel suo mistero l'identità di un libertino essa stessa.
Ripone ordinatamente le carte sul tavolo dopo averle rimescolate. Rimane un attimo a riflettere sul responso, poi si scuote con un'aria improvvisamente dubbiosa che parrebbe quasi un rifiuto del verdetto ricevuto.
Casanova - È così, dunque... Voi dite che non verrà. Ne siete sicure? Sentiamo i numeri — loro non sbagliano mai. I dadi — dove sono i dadi? (Fruga in una sacca da viaggio) Eccoli... Ed ecco anche l'Oracolo. (Tira fuori, insieme ai dadi, un misterioso libriccino, che sfoglia molto delicatamente) Ecco — vediamo un po' le tavole che c'interessano. Poniamo la domanda giusta. (Legge) «Di quale specie è l'amore che ti viene professato?» No, non c'entra. «La persona che ora è presente farebbe teco l'amore?» Quale persona? Non c'è nessuno qui. «Sei veramente corrisposto in amore?» Ma no, non è questo che voglio sapere. Voglio sapere se verrà. Possibile che non ci sia una domanda pertinente! Ecco, forse questa — proviamo. «A che pensa in questo punto la persona amata?» Saperlo può servire più che sapere se m'ami. Numero della questione: venti. (Lancia i dadi) Nove. Venti più nove meno uno: tavola ventotto. Risposta: nove, il numero gettato dai dadi. Vediamo. Ecco: pensa «all'istante vicin dell'abbandono». Vaga. Pertinente ma vaga... Può significare troppe cose. Pensa «all'istante vicin dell'abbandono»... Va bene, ma quale abbandono? L'abbandono di due amanti che si gettano l'uno nelle braccia dell'altro? In tal caso, vuol dire che verrà. O l'abbandono dell'addio? In tal caso, è la separazione. Non verrà. Riproviamo... (Lancia ancora ì dadi) Due. Venti più due meno uno: tavola ventuno. Risposta: due. (Legge) «Tu solo or sei del suo pensiero oggetto». Sì, certo. Ma in che senso? Nel senso che mi ama? Va bene, ma che dimostra? Che verrà? Non necessariamente. Che mi stia pensando è certo ma può farlo sia che abbia deciso di raggiungermi sia che abbia deciso di lasciarmi... Proviamo un'ultima volta. (Lancia i dadi) Quattro. Venti più quattro meno uno: ventitré. Tre... Cioè no, quattro. (Legge) «Volge il pensiero d'ingannarti al modo». E quale amante, prima o poi, non lo fa? (Scrolla le spalle e depone con noncuranza dadi e libretto sul tavolo) Anche i numeri sono vaghi stanotte. Come le carte.
Riprende a passeggiare e parlare freneticamente tra sé.
Casanova - Numeri, dadi, tarocchi, cabala, oroscopi... Di talismani e pendoli, petali di margherita e bolle di cristallo sono lastricati i sentieri della seduzione. Nemmeno questi nuovi filosofi che si dicono sacerdoti della Ragione — quel Volterio ed i suoi accoliti — nemmeno loro con i più elocubrati artifici delle loro dottrine sono riusciti a scardinare O quanto meno comprimere la naturale tendenza degli amanti a rifugiarsi, comunque vadano le cose, nel mistero della divinazione. Al contrario, l'hanno rafforzata — come conseguenza forse dell'urgenza di sciogliere l'amore dai lacci della Ragione, liberandolo in primo luogo dalla responsabilità di scelte meditate. Oracoli e profezie d'amore, auspici e segni premonitori, astri... Passare una spugna filosofica sul cielo e cancellare lo zodiaco — ci hanno provato. Non ha funzionato. E perché avrebbe dovuto? In nome dei lumi della Ragione? Via, siamo seri. Non c'è riuscita nemmeno la chiesa romana in nome di Cristo... Anche se non si capisce perché dovesse avercela tanto con l'astrologia una religione il cui fondatore nasce annunciato da una stella e si circonda di dodici apostoli — dodici come i segni dello zodiaco — per poi provocare in morte un'eclissi di sole. Ma con loro, coi sacerdoti della Fede si finisce sempre per intendersi. 1 loro dogmi sono accessibili. È coi sacerdoti della Ragione che l'intesa si fa difficile. I loro teoremi sono spesso inaccessibili. Peccano di logicità e presunzione. La loro chiesa non è indulgente come quella cattolica: brucia egualmente i suoi eretici e ha inquisizioni ben più efficienti — inesorabili perché sotterranee. Ma soprattutto non dà requie all'anima perché non ci crede. Così, ignorandola le infligge la più dolorosa delle torture, non attenuata certo dal fatto che non infierisca sui corpi. Infine non considera la confessione, estorta o spontanea, un sacramento — quindi non elargisce assoluzioni. (Indugia a riflettere. Non è certo di avere ragione, ma sa di non avere del tutto torto. È sconcertato. Si interroga, risalendo ad immagini colte) II sonno della Ragione genera mostri, dicono. Che vuol dire? Che non bisogna ubriacarsi, sognare, impazzire d'amore? E perché? Non è altrettanto vero il contrario? Allora io dico che il risveglio della Ragione genera mostri. Chi può ragionevolmente contraddirmi? (Pausa. Amarezza) Le loro certezze mi fanno orrore. Ma insomma, chi siete? Che volete? Illuminarci? E va bene — riconosciamo che siete colti ed aggiornati. La storia è dalla vostra — riconosciamo che avete ragione. Tanto, se non ve la diamo ve la prendete lo stesso. Anzi ce l'avete già. Vi appartiene da sempre. Ma che volete in cambio dei vostri lumi? In cambio ci togliete la notte, la magia, l'allucinazione, i cimiteri, gli spettri, gli amanti protesi dai balconi, le mirabili scope volanti delle streghe, l'oroscopo, le scommesse col destino (di qualsiasi genere: è l'idea di scommessa in sé che è irrazionale) e l'androgino, il sole che si congiunge con la luna, gli esili fianchi della vergine Giovanna, l'occhio profondo di Morgana, i santi — tutto questo vi prendete lasciandoci come premio di consolazione per la nostra intelligenza qualche formula matematica, un'anatra meccanica e un automa che gioca a scacchi. (Sempre più amaro, sempre più perdente, sempre più consapevole di non avere vie d'uscita contro l'incalzante «mostro» dell'illuminismo) Come darvi torto? Però... Le streghe non si devono bruciare, d'accordo. Ma non si devono nemmeno amare? Qualcosa ci vieta di cedere alla loro malìa? I vostri argomenti sono identici a quelli dell'Inquisizione. Voi vietate di amare ciò che sognate perché il sogno è indimostrabile. Voi non avete altra verità che quella dei vostri teoremi. Bruciate gli stessi libri che bruciavano i preti: i preti perché ci credevano e per questo li temevano; voi perché non ci credete e li temete lo stesso. Così avete spento roghi irrazionali per ergere ghigliottine razionali. Avete abbattuto dei irragionevoli per deificare la Ragione.
Le tre
Casanova - Povero Volterio, nessuna donna è mai venuta con te per amore. (Con improvviso slancio) Con umiltà e passione, signor Volterio, venni a cercarvi nella vostra villa in Svizzera per prosternarmi ai vostri piedi e dirvi che quello era il più bel momento della mia vita. Di fronte a tutti i vostri cortigiani ve lo dissi: «Da vent'anni voi siete il mio maestro e il mio cuore è pieno di gioia per la fortuna che mi capita finalmente d'incontrarvi!» Mi rispondeste con una battuta: «Onoratemi ancora per vent'anni — diceste — e promettetemi di portarmi alla fine i miei onorari». Risero tutti. Ma seppi difendermi: «Ve lo prometto — risposi — purché voi mi promettiate di aspettarmi». Quanto parlaste quella sera, signor Volterio: letteratura, teatro, politica, umanità — sembrava che tutto il sapere vi appartenesse. Intorno vi ascoltava una corte di isterici devoti al confronto della quale la corte del re di Francia a Versailles sarebbe potuta passare — quella sì — per un austero asilo di filosofi. Contraddirvi non era permesso: voi che vi dicevate pronto a morire per difendere il diritto altrui di professare un'idea diversa dalla vostra eravate lì pronto, malignamente arrampicato sul vostro seggiolone, a linciare con un ghigno e una battuta chiunque non si fosse lasciato asservire dalla suggestione del vostro sproloquio. E ne dicevate di sciocchezze: arrivaste a dire che i francesismi migliorano la lingua italiana. Vi risposi che la rendono insopportabile come accadrebbe alla lingua francese del resto se lardellata d'italiano o di tedesco, sia pure scritta dal grande Volterio. Ne conveniste — il che valse a dimostrare se non altro ch'ero in grado di tenervi testa e niente affatto confuso dal vortice della vostre arguzie incessanti. Tentaste di mettermi in difficoltà chiedendomi quale genere di letture preferissi — vi risposi che il mio libro era l'universo intero e che mi piaceva studiare l'uomo viaggiando. Ironizzaste: «ma il libro è troppo grande. Meglio studiare la storia». La storia? Quel calendario di delitti che l'uomo chiama storia? Sì, certo — se la storia non mentisse. È così piena di menzogne la vostra storia che bisogna cercare la verità nelle favole. Come nei miei viaggi. Io viaggio anche dormendo. «Che itinerario preferite per questi vostri viaggi?» Chiedeste allora — ed io, pronto: «Orazio». Orazio? Sì, Orazio — lo so a memoria e lo trovo dappertutto. Litigammo sull'arte di scrivere sonetti — arte che i francesi non sono in grado di praticare con profitto per via dell'impaccio della rima cui la loro lingua non si addice. Ci riconciliammo sull'Ariosto e sul sorriso di madame Denise... (Declama l'«Orlando furioso» polemicamente, rivolto a Voltaire e alla sua corte, eccitandosi mano mano) Chi va lontano da la sua patria, vede cose da quel, che già credea, lontane: che narrandole poi, non se gli crede, e stimato bugiardo ne rimane; che'l sciocco vulgo non gli vuor dar fede, se non le vede e tocca chiare e piane; per questo io so che l'inesperienza farà al mio canto dar poca credenza. Poca o molta ch'io ci abbia, non bisogna ch'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro; a voi so ben che non parrà menzogna, che'l lume del discorso avete chiaro; et a voi soli, ogni mio intento agogna che'l frutto sia di mie fatiche caro. (Dopo questa tirata allusiva e provocatoria all'indirizzo del «lume» di Voltaire, riprende fiato. Quindi cambia registro, come si rivolgesse a una donna, forse quella Denise che ha appena citato, con struggente tenerezza, fino a commuoversi) Ingiustissimo Amor, perché sì raro corrispondenti fai nostri desiri, onde perfido avvien che t'è sì caro il discorde voler ch'in duo cor miri? Gir non mi lasci al facil guado e chiaro, e nel più cieco e maggior .fondo tiri: da chi disia il mio amor tu mi richiami e chi m'ha in odio vuoi ch'adori et ami. Fai eh'a Rinaldo Angelica par bella, quand'esso a lei brutto e spiacevol pare; quando le parea bella, e l'amava ella, egli odiò lei quanto si può più odiare; ora s'affligge indarno e si flagella, così renduto ben gli è pare a pare; ella l'ha in odio, e l'odio è di tal sorte, che più tosto che lui vorria la morte. (Ormai preso da un irrefrenabile pianto, con rapsodico slancio) Pensoso più d'un'ora a capo basso stette, Signore, il cavalier dolente-poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sì soavemente, ch'avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente; sospirando piangea, tal ch'un ruscello parean le guancie, e'I petto un Mongibello. (Riprende il suo racconto, asciugandosi gli occhi e ricomponendosi dopo tanta enfasi) Piangevano tutti intorno a me per la passione che avevo messo nel mio canto. Denise mi buttò le braccia al collo urlando: «Com'è possibile, com'è possibile che il Papa non abbia messo all'indice dei versi così conturbanti?!...» Con la sua mesta logica razionale le rispose Volterio sostenendo che ciò non era accaduto perché le due grandi famiglie d'Este e dei Medici avevano interesse a sostenere il poeta per loro particolare prestigio. Non degnai nemmeno d'una risposta una così meschina considerazione e me ne andai in giardino con Denise. (Declama con contenuta tenerezza, senza più clamore né tecnica, qualche altro frammento dell'Ariosto, con evidente riferimento alla venustà della donna di cui parla) Sola fra tutti Alcina era più bella, sì come è bello il sol più d'ogni stella. Di persona era tanto ben formata quanto me' fìnger san pittori industri; con bionda chioma lunga, et annodata, oro non è che più risplenda e lustri: spargeasi per la guancia delicata misto color dì rose e di ligustri; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta. La bocca sparsa di natio cinabro... Bianca nieve è il bel collo, e il petto latte, il collo è tondo, il petto colmo e largo... Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno celar sotto alcun velo... Ah, Denise... Così superiore, bella, intransigente. Avresti potuto fare di me il più felice degli uomini. Avresti potuto liberarmi della mia inutile libertà. Avresti potuto... (Rimuove di colpo il pensiero della donna. Si versa da bere) Detesto le donne di questi filosofi moderni. Finiscono per condividere morbosamente i pensieri dei loro uomini. La loro passione dominante è l'amore per l'umanità — l'umanità così in generale, non il singolo individuo. Questo amore le acceca, spersonalizza ogni loro sentimento. Tutto diventa motivo di dibattito, discussione, disamina. Non è questo il modo di rispondere all'amore. Io ti dico che t'amo, Denise — e tu mi rispondi che anche tu m'ami perché ami l'umanità. Io ti slaccio il corsetto e tu mi lasci fare continuando a parlarmi dell'umanità. Sprofondiamo in un cespuglio che profuma di verbena e tu... Come sei disumana, Denise, mentre ti verso in grembo le stille calde del mio amore — come sei disumana con tutto questo tuo amore per l'umanità. Non riesco ad esserne geloso — non è una grande rivale l'umanità. Non è in grado di godere dei benefici che tu vorresti offrirle. Nessun filosofo né donna di filosofo potrà mai liberarla dalla belva che la divora per una ragione molto semplice: questa belva le è cara. Non ho mai riso tanto quanto nel leggere di Don Chisciotte costretto a difendersi dai galeotti ai quali per grandezza d'animo aveva reso la libertà. (Di nuovo malinconico, depresso) Quanta pena dovettero farti dopo l'amore questi miei pensieri, Denise. «Mi dispiace che abbiate un'idea così cattiva dei vostri simili», dicesti. Che risponderti? Amo la libertà, tutto qui. Anche la mia libertà, così inutile senza una donna come te con cui dividerla, è pur sempre libertà — libertà di non assomigliare ai miei simili. Io sono libero dovunque. «Anche sotto i Piombi?» Sì, anche sotto i Piombi. «Perché ne sei fuggito allora?» Perché ne avevo diritto. Come il governo aveva diritto d'incarcerarmi. Il mio rapporto con gli inquisitori di stato fu buono, dopo tutto. Glielo lasciai scritto fuggendo, in un biglietto che dimostra tutta la mia serenità: «Voi dovete fare quanto è in vostro potere per tenere in carcere chi ritenete colpevole. Lui però deve fare quanto è in suo potere per sfuggirvi, dato che non è prigioniero sulla parola». Ecco tutto. Fu quest'assenza di rancore insieme alla mia grande intelligenza sostenuta da una favorevole congiunzione astrale a permettermi di riappropriarmi della libertà perduta. Stupita? È così paradossale per un filosofo moderno sentire da chi ha subito un atto dispotico che non nutre nessun rancore per il despota? «Ma la libertà — tu m'interrompi — il tuo amore per la libertà...» Nessuno me l'ha mai tolta. Stavo per dire nessuna... «Nemmeno ai Piombi?» Nemmeno ai Piombi. «Nessun rancore per Venezia?» No, solo rimpianto, semmai... Ma no, nemmeno. Ci tornerò presto. Mi hanno appena offerto un lavoro importante — una cosa delicata e remunerativa — un incarico di grande prestigio e responsabilità... (China il capo sul tavolo, come se piangesse)
Casanova - Non drammatizziamo. La crudeltà del governo veneto è tutta letteratura — fantasia di scrittori. I Piombi sono soltanto i Piombi — una prigione. Despotismo?... Siamo seri. Come si può ancora parlare di despotismo dopo avere assistito alle crudeltà indescrivibili di una folla sfrenata e feroce che si raduna urlando nelle strade e taglia teste, impicca, stupra, deruba e massacra tutti coloro che non appartengono al popolo e magari osano ancora nutrirsi di idee fuori moda o semplicemente coltivare le buone maniere? La stessa folla che fece festa in piazza de Grève mentre straziavano il corpo di Damiens assiste oggi danzando alla decapitazione degli aristocratici. Questa è filosofia... Prendetene atto sacerdoti del Libero Pensiero questa è filosofia... Il popolo di Francia è il più abominevole di tutti i popoli. Lo dice lo stesso signor Volterio. Il popolo di Francia è un camaleonte pronto a cambiare colore in bene e in male — pronto a collaborare con qualsiasi nemico ed obbedirne gli ordini in bene e in male. Lo dice lo stesso signor Volterio.
Casanova - Se non fosse stato per quella sua smania di canzonare il prossimo che me lo fece odiare dopo tre giorni l'avrei giudicato un essere sublime in tutto — io e Volterio saremmo diventati amici. Ho registrato minuziosamente tutto quello che ci siamo detti e non posso negare che c'è del genio in quell'uomo. Forse se ci ritroveremo nel regno delle anime — in cui peraltro non crede — potremo abbracciarci e metterci d'accordo su tutto, magari scambiarci delle scuse, in nome di quella fraternità universale nella quale entrambi crediamo.
Le quattro
All'esterno diluvia.
Casanova - Ma piove... Diluvia. Le strade saranno un pantano ormai — nessuna carrozza potrà più farcela per stanotte a raggiungere questa stazione di posta se non trainata dai cavalli dell'amore più irriducibile. E non è il caso della donna che aspetto. È dunque l'ora di lasciar perdere e mettersi a tavola... (Offre il braccio a una dama immaginaria e la conduce premurosamente a sedere) Vieni, mia cara — qui, siediti. Sarai stanca. (Sposta la sedia e le toglie amorevolmente un invisibile scialle) È tanto che ti aspetto, sai. Temevo non venissi più... Anzi, no (si corregge) temevo che venissi. Ma per fortuna non sei venuta. (Siede a sua volta. Si poggia il tovagliolo sulle ginocchia e prende una bottiglia) Ne vuoi? No? Dell'acqua? Già, dimenticavo che sei astemia. Come dici? Solo un dito di vino, nell'acqua? Come vuoi, cara. Certo, è un delitto. Ma quale delitto non ti sarebbe perdonato? (Le versa acqua e vino. Si versa a propria volta del vino) No no, ti prego. Non c'è bisogno che mi spieghi. Lo vedo bene — la pioggia, il traffico, la dogana... Ciò che conta è che tutto sia andato per il meglio. Se Dio vuole, non sei venuta. L'incubo è finito — i dubbi, l'ansia, le paure, la speranza. Tutto finito, se Dio vuole. Non sei venuta. È questo che conta. Bevi, adesso. Mangia qualcosa, devi essere affamata. Ed anche stanca, certo. Come dici? Esausta? Sì, certo. Ma non temere — tra qualche minuto potremo sprofondare in quel piumone caldo e dimenticare tutto quello che abbiamo passato. È tutto finito, non temere. Ma intanto mangia qualcosa — questo fagiano con la polenta è straordinario. Troppo pesante? Assaggia almeno quest'anatra. Come dici? Soltanto del prosciutto? Ecco, amore. Solo una?... (La serve) Ti amo, Eleonora. Sei bellissima. Ora che non ci sei non ho più dubbi — se la più bella, l'unica. La più amata è sempre la più lontana. Naturale. È una legge fisica. In ottica si deve allontanare l'oggetto attraverso la lente per poterlo mettere a fuoco conoscere, rimirare, quindi amare. Ti adoro, sai. Ancora del prosciutto? No? Un'ala di pollo?... Lo sai cos'è l'adorazione, Eleonora? Lo sai cos'è al confronto dell'amore? È l'amore moltiplicato per mille, diecimila, un miliardo... È l'intero firmamento al confronto di una stella. Ecco Eleonora, io t'adoro. È niente l'amore che t'avevo promesso al confronto dell'adorazione — io mi prosterno ai tuoi piedi. Grazie di non essere venuta, Eleonora. Grazie di questo ineguagliabile brivido che solo la tua assenza poteva donarmi... (Alza il calice) Al nostro amore, Eleonora... Che dico? All'adorazione. (Beve) Casanova e l'immaginaria dama mangiano in silenzio. Al termine, lui si alza e le va incontro affettuosamente, tendendole la mano come per aiutarla ad alzarsi.
Casanova - (tenero ed ambiguo) Sei stanca, vero? Sei inquieta? Pensieri oscuri ti tormentano? No, non dirmeli. Non li voglio conoscere. Non abbiamo più nulla da temere qui, visto che non ci sei. Nessuno può raggiungerci, visto che nemmeno tu mi hai raggiunto. Devi solo dormire. Come me, del resto. Vuoi bere qualcosa di forte? Ah, già — tu non bevi. Vuoi una tisana calda? Come?... l'oroscopo? Vuoi che ti faccia l'oroscopo? Ma non hai sonno? Casanova trae da una borsa una gualcita cartella di tavole astronomiche. Le poggia distrattamente sul tavolo, le scorre con lo sguardo, ne sceglie una e la studia più da vicino.
Casanova - La tua Venere sta per entrare in congiunzione con la Luna — il che non potrà che accentuare il tuo amore per l'arte e per il lusso. La quadratura con Marte, però, ti renderà irritabile e irritante, suscettibile per ogni nonnulla — attenta a non annoiare l'uomo che ami. Me?... No non credo, visto che il tuo Medio Cielo staziona sulla Quarta Casa: focolare domestico e via dicendo, sicurezza, bambini, cucina... Peccato — sarebbe bastato spostarlo di due tre gradi e saremmo stati uniti per sempre nella Quinta Casa: l'azzardo, gli amori istintivi, l'eterna vacanza ed una sconfinata indulgenza per se stessi... Attenta a Saturno nello Scorpione — potresti restare incinta quando meno te lo aspetti. La vedo questa gravidanza la vedo proprio vicina — attenta a un'insidia di Mercurio in semisestile con Venere... (Solleva lo sguardo dal foglio e fissa «negli occhi» la dama inesistente, con aria subdola e paterna) Sei preoccupata?... Via, non drammatizziamo. Posso aiutarti. Viviamo tempi moderni e illuminati — anche se in fondo il genio umano non ha certo dovuto aspettare la dea Ragione per prevenire una gravidanza. (Estrae con un ambiguo sorriso dal taschino del gilet una piccola busta rosa, che apre con cura, sfilando delicatamente con due dita una specie di budello trasparente, stretto e lungo poco più di un palmo. Glielo mostra) Vedi, Maria. Non hai nulla da temere, amore mio. Questa pellicola trasparente ed impermeabile ci preserverà da ogni rischio. Senza privarci del piacere che cerchiamo. Vedi è un indumento del tutto elastico, ricavato dalle visceri di un animale, che aderirà perfettamente, stirandosi e ritraendosi. Vedi, è poco più lungo di otto pollici, ma variabile a seconda delle nostre esigenze. Come dici? Se è davvero sicuro? Guarda. È chiuso ermeticamente. Vedi? No, certo — solo da una parte. È naturale. Dall'altra invece... Come dici? Come fissarlo? Amore mio, quanto sei ingenua!... Ma non vedi questo nastrino rosso?... Pensavi fosse solo un ornamento?... Ma no, non vedi che passa in una guaina?... Ecco, basta farlo scorrere poi stringere, annodarlo — e l'indumento è indossato, ben calzato, pronto alla funzione per cui è stato concepito. Ah, scusami, tesoro — «concepito» è l'ultimo aggettivo che avrei dovuto usare in un momento come questo. (Passando dal tono colloquiale diretto a quello narrativo, non più rivolto all'interlocutore inesistente ma al pubblico o a se stesso) Povera Maria — era terrorizzata. Nelle sue condizioni di conversa ormai vincolata dai voti una gravidanza l'avrebbe esposta alle severissime pene dell'autorità ecclesiastica. Le proposi di seguirmi a Roma dove avrei fatto annullare i suoi voti e l'avrei resa certamente felice. Ebbe paura. Hanno sempre paura le donne quando un amante propone soluzioni grandiose. Bruciano d'amore, impazziscono — ma poi ti abbandonano, preferiscono la sicurezza della casa o del convento, come nel caso di Maria. «Sono stata così felice in questi giorni che mi basterà per tutta la vita». Così mi disse la mia bella suora prima di rientrare in convento... «Per tutta la vita mi basteranno i giorni che ho diviso con te. Lasciami ritornare nella tomba». E nell’accomiatarsi mi donò un piccolo somigliantissimo ritratto — devo averlo qui con me (fruga nelle tasche, poi in una borsa) eccolo — un ritratto nel quale era riprodotta nuda e nella stessa posa di quell'altra sua sorella che avevo amato a Venezia, sì insomma, della prima suora della mia vita. Le avevo fatto vedere a suo tempo quell'immagine e lei, tenerissima, si era affrettata a farsi ritrarre per me da un abilissimo pittore miniaturista di Annecy in quella medesima posizione. Partì una mattina alle quattro per raggiungere le altre converse. La rividi per caso il giorno dopo mentre cavalcavo sulla strada di Chambery. Veniva con un'altra conversa verso di me lentamente a testa bassa. Quando ci incrociammo l'altra conversa mi chiese l'elemosina. Io le diedi un luigi d'oro. La mia santa non mi guardò.
Casanova - Ecco, ha smesso di piovere. Anche il tempo è incostante stanotte. Tra poco farà giorno. (Passa distrattamente le dita tra le carte astrologiche sparse sul tavolo. Sorride scrollando le spalle) Fammi l'oroscopo, leggimi le carte, guardami la mano... Non c'è donna che nel chiederti certe cose non sottintenda in pratica qualcos'altro. Non c'è donna che non si conceda se le offri l'opportunità di dare la colpa a un oracolo — attribuire la sua debolezza al destino... Vale per illusionisti e ciarlatani, ma anche per i confessori. Chissà, dipenderà dal fatto che l'amplesso è l'unica manifestazione fisica che possa procurare sensazioni analoghe all'estasi dei santi. Così dicono... Sta di fatto che magia e religione sono supporti ineguagliabili alle imprese d'amore — pretesti unici per la fascinazione. Di qui forse l'inclinazione delle donne più pie per certe forme d'auto mortificazione crudeli e voluttuose al tempo stesso che vanno dalla flagellazione al cilicio. Sarà per via del fatto che entrambi gli slanci, quello religioso e quello erotico, scaturiscono dal medesimo delirio di sottomissione e adorazione. Fammi l'oroscopo... Passammo un paio d'ore a parlare di astrologia. Poi madamigella Roman mi chiese di fare due passi in giardino. Ebbero tutti la cortesia di lasciarci soli. Discorremmo liberamente di tutto ma ebbi la destrezza di recitare un monologo sulla sua bellezza e sulla sua saggezza, per non parlare di tutte le altre virtù che riuscii a enumerare, da farla sciogliere in lacrime e farle ammettere: «se il Cielo ha deciso ch'io debba maritarmi vorrei davvero tanto che il mio sposo somigliasse a voi». Non aveva che sedici anni la bella Roman. Così arrossì della sua stessa audacia e fuggì lasciandomi come il più felice e il più infelice degli uomini, sospeso com'ero tra la certezza del desiderio reciproco e l'incertezza di poterlo appagare. Di certo non c'era tra noi che il mio bisogno urgente di essere amato da lei. Devo allo Zodiaco, se non altro come pretesto, l'appagamento del mio sogno. La sera dopo mi fu recapitato un biglietto sul quale la piccola Roman aveva segnato il giorno, l'ora e il minuto della sua nascita... Senza parole. Significava che solo con la scusa dell'oroscopo si poteva giustificare un secondo incontro tra noi. A casa mia? A casa tua? No, c'è la zia. Lo so bene, è solo per dimostrarti la purezza delle mie intenzioni. A casa mia, stasera.
Le cinque
Casanova getta via con una risata (amarissima) tarocchi e carte astrologiche.
Casanova - Truffa, raggiro, millanteria!... I miei dotti biografi, moralisti e saccenti non smetteranno mai di rinfacciarmelo. E nemmeno le menti illuminate. Perfino i nuovi filosofi finiranno per fare comunella col tribunale dell'inquisizione. Sul mio nome ragione e religione si daranno la mano per confermare il «rapporto segreto» degli sbirri veneziani — per dire insomma che sì, questo Casanova è «letterato ma di una mente feconda di cabale, essendo sempre stato suo costume vivere a spese altrui e coltivare gente facile a credere o amante del libertinaggio e delle sregolate passioni». Sì, certo questo Casanova è «giocatore di carte dotato di fantasia iperbolica, tale da consentirgli coi suoi raggiri di vivere a spese di questo e di quello». Sì, insomma ha rovinato il nobile Zuanne Bragadin cavandogli molti denari con la fandonia che «venir doveva l'Angelo della Luce»... Impostore?... Così sarebbe se nel dispensare tesori e segreti non fossi riuscito a conseguire il principale dei miei scopi — cioè la felicità, mia naturalmente ma anche delle mie «vittime». Vittime poi?... Non c'è stata vittima che non mi fu anche complice sollecitando il mio inganno e godendone. Dio mio, quanto godemmo tutti insieme del medesimo gioco — quanto ci divertimmo tutti, ciarlatano e spettatori... Devo dire che ho amato tutti e tutte nella mia vita a condizione che l'amore per il prossimo non fosse in contrasto con l'amore per me stesso. Le donne... Avrei dovuto sposarle tutte davvero — non ne ho sposata nessuna ma a molte ho trovato marito interessandomi al loro futuro con la premura di un padre. Alla felicità di alcune ho contribuito costituendo loro una dote — dato che il denaro, grazie agli infami artifici che taluni mi attribuiscono, non mi è mancato mai... In realtà sono un genio finanziario oltre che un maestro di morale — e le cabale non sono poi cosa tanto sciocca se mi hanno permesso di risanare le finanze di Francia. In che modo? Semplice. Prendete novanta numeri ed estraetene cinque alla settimana. Permettete al popolo di scommettere acquistando cartelle in diverse agenzie sparse sull'intero territorio nazionale. Ciascuno acquisterà quanti numeri vuole puntando sul singolo estratto o su combinazioni di due tre quattro — fino a cinque numeri. E mentre gli scommettitori vincenti riscuoteranno il loro premio fiumi di denaro si riverseranno nelle casse dello stato e nelle mie tasche, naturalmente, avendone io richiesto l'appalto. Ecco il mio progetto di lotteria — sì insomma, il gioco del lotto l'ho inventato io. Ci ho vissuto di rendita per una vita — insieme ad altri traffici s'intende. Ma vi sembra poco? Il governo francese dovrebbe farmi un monumento. E me l'avrebbe fatto se la canaglia in armi non si fosse impadronita dello stato. Cosa credete che mi abbia permesso di parlare da pari a pari con i ministri delle corone più prestigiose d'Europa — e (sommessamente, chinando quasi servilmente il capo, compiaciuto e commosso dalla solennità di quanto afferma) non di rado con gli stessi sovrani. (Non riesce a trattenere la commozione. La voce gli trema e infine si spezza in un singhiozzo) Ah, Caterina!... Con accanto una donna come te sarei diventato il migliore degli uomini... (Prende da terra una carta dei tarocchi, la rimira, l'esibisce, la bacia, la rimira ancora, la bacia inondandola di lacrime) La Forza, Caterina — la tua immagine... una donna che senza sforzo apre le fauci di un leone guardando con noncuranza il mondo intorno a sé. Così come se nulla fosse — inespressiva e bellissima, senza che nulla turbi la regale perfezione del viso. Anche la gonna è immobile, perfettamente stirata — il cappello è saldo sulla fronte come una corona... Ti amo, Caterina — sei l'unica che davvero avrebbe potuto fare di me il più felice, il più sicuro, il più realizzato degli uomini... Ti amo per quella cipria che non riesce a nascondere il terribile potere del tuo volto, per quel belletto che non può renderti uguale a nessuna dama di nessuna corte d'Europa — ti amo per quelle tue ciglia immobili che con un cenno possono muovere un'armata, per quella piega delle labbra che con una sillaba può decidere della vita e della morte di un popolo — ti amo per quella passeggiata irripetibile nella bianca gelida bruma del tuo giardino di Pietroburgo...
Si toglie di colpo, in tutta fretta, la giacca. Quindi fruga freneticamente nel baule da viaggio, tirando fuori altre giacche, una dietro l'altra, che si butta disordinatamente alle spalle. Finché non ne trova una da cerimonia, elegantissima, nera con guarnizioni dorate.
Casanova - (rimirandola compiaciuto) Ecco — questa andrà bene. (L'indossa. Si inchina vistosamente, salutando con un'ampia voluta della mano una dama inesistente) Maestà — ho inseguito tutta la vita quest'attimo ma nemmeno nei miei sogni più temerari ho mai sperato che potesse giungere... «Ah, Casanova — tu non insegui che te stesso». No, Caterina — io non inseguo che te te soltanto da sempre... (Fa quasi per genuflettersi e baciare un'invisibile mano. Ma la stessa invisibile mano lo risolleva, lentamente, mentre ì suoi occhi vagano smarriti nel vuoto circostante. Di nuovo eretto, composto, riprende con tono narrativo) La Zarina avanzava preceduta dal conte Orloff e seguita da due dame. Mi trassi da parte per lasciarla passare ma appena mi fu abbastanza vicina da riconoscermi li congedò con un cenno della mano e mi rivolse la parola. Mi chiese che ne pensavo delle statue del suo giardino ed io non seppi nasconderle che le trovavo quanto meno bizzarre, dato che Saffo era raffigurata come un vecchio barbuto ed Avicenna come una femmina rugosa. Rise, apprezzando la mia sincerità, e cominciammo a passeggiare. Mi domandò dapprima degli spettacoli cui avevo assistito a Pietroburgo — poi di Venezia e delle feste veneziane. Ne approfittai per stordirla con tutte le meraviglie ch'ero in grado di elencare sulla bellezza mortale della mia città, sui raggi della luna che s'inseguono tra l'onde nella scia delle gondole, sui suoni e sulle mascherate del nostro inebriante carnevale. Mi chiese allora del clima — ed io rincarai la dose parlandone dell'umidità vellutata e mite di certe notti e delle nostre lunghe tiepide giornate. Anche l'anno da noi è più lungo di undici giorni per via del calendario gregoriano... (Si inchina di nuovo, riprendendo il tono colloquiale) Maestà — non sarebbe un'impresa degna della vostra gloria quella di rendere l'anno russo pari al nostro? «Adottando il calendario gregoriano?» Ma sì — tutti i paesi d'Europa l'hanno fatto con grande vantaggio. È una questione che conosco a fondo — posso illustrarvi ogni dettaglio d'equinozio. Il vostro cade il dieci, il nostro il ventuno di marzo — ma la legge della luna di marzo ha poca importanza in fondo salvo che per la Pasqua e per gli ebrei. Secondo un mio progetto... (Si rialza. Di nuovo narrativo) Basta. Per farla breve non esagero — ma la Zarina era davvero raggiante nel ringraziarmi sette giorni dopo per i miei consigli, che certamente erano serviti ad accelerare il progresso e accrescere la gloria della Russia, dato che tutti gli atti pubblici da quel giorno avrebbero recato due date, quella gregoriana e l'altra. Quanto al gioco del lotto... Sì, avevamo parlato anche di quello come di molte altre questioni personali e di stato. Quanto al gioco del lotto la Zarina non riteneva conveniente instaurarlo se non ponendo alle giocate il limite minimo di un rublo — il che però avrebbe impedito ai poveri di giocare, cioè in pratica all'intera popolazione russa. L'affare cadde così nel vuoto e riprendemmo a parlare di notti veneziane — e spettegolare sui sovrani che avevo recentemente incontrato, a cominciare da quella specie di sergente coronato del re di Prussia, cordialmente antipatico ad entrambi. Quanto al gioco del lotto l'ho già detto — niente... però mi confidò languidamente, allusivamente, la mia regina che di tutto cuore avrebbe desiderato ch'io accettassi un impiego stabile a corte. Ma quale? Non amavo in fondo la Russia al punto da volerci restare... (Si toglie la giacca di gala, restando in gilet) Partii un mese dopo per Varsavia con un'attrice parigina di nome Valville. Mi aveva ispirato sentimenti tali (lo dice con voce atona, stanca, come ripetendo all'infinito una lezione scontata) da rendermi infelice per il resto dei miei giorni se non li avesse ricambiati... È una frase fatta, lo so ma perché inventarne di nuove se rende così bene l'idea. Un'attrice, quante attrici, tutte attrici come te mamma — hai visto che bei viaggi e quanta bella gente ho incontrato... Caterina — che donna straordinaria... un impiego a Pietroburgo. Mamma portami a casa ti prego mamma — non lasciarmi in collegio... Non ti darò fastidio... Me ne starò buono tra le quinte mamma portami a casa... Scriverò per te commedie più belle di quelle del signor Goldoni — in veneziano. Con il tuo nome mamma in cartellone all'infinito: Zanetta Farussi Casanova prim' attrice — la vedova più bella di Burano... In veneziano mamma ho tradotto perfino l'Iliade in veneziano. L'ho fatto non sapendo che fare, perché sono sfaccendato e ozioso. Io non so la lingua greca ma scrivo così bene in veneziano... (Declama) O Dea, cantami l'ira di Achille, figlio di Peleo... (Si corregge) Gran Dea che, co volé, sé tanto cara, del gran fio de Peleo canté la bile, colera rovinosa, orrenda, amara, despetto atroce dell'ardente Achile. Canté quanto quell'ira ha costà cara a l'aneme de mile eroi, e mite morti e all'orrido inferno condannai da cani e corvi i corpi devorai. Un cumulo de guai tanto funesto. Donca è sta causa un Dio. Musa sincera diséne in cortesia sto Dio chi el gera. Mamma portami a casa... Ho delle splendide ricette per farti dimagrire — tornare bella; prendi un'oncia di ginepro, un pugno di fiori secchi di rosmarino e veronica, riduci tutto in polvere e fai bollire in una boccia di vetro con tre pinte di vino bianco...
Il mattino
È come intirizzito dal freddo, raggomitolato su se stesso. All'esterno si odono i tocchi di una campana. Il suono e la prima luce che filtra lo riconducono alla realtà.
Casanova - Già giorno. Non verrà. Tanto meglio... (Comincia a raccogliere stancamente indumenti ed oggetti che depone alla rinfusa nel baule) I bagagli — sempre i bagagli... Non si finisce mai di fare i bagagli... Ma questa volta basta — torniamo a casa. Il cavaliere di Seingalt torna a Venezia... Giacomo Casanova (con alterigia, elencando i propri titoli) cavaliere di Seingalt dottore utriusque juris signore dello Speron d'Oro protonotario apostolico extra urbem membro dell'Accademia degli Arcadi membro dell'Accademia degli Infecondi membro della Hessen-Hamburgische-Patriotische und Literarische Gesellschaft membro... Come dici, amore? Non sono cavaliere? Seingalt non esiste? (sorride con indulgenza) Che vuoi che siano otto lettere rubate all'alfabeto che è proprietà di tutti? D'accordo non sono cavaliere — io da solo mi sono fatto cavaliere. Va bene? Ho tolto niente a nessuno? Se è per questo, non sono nemmeno dottore! Va bene? Seingalt non esiste? Il mio nome non esiste?... Ma sono io (urlando) sono io che non esisto!... Lo volete capire? Non c'è nessuno qui — non c'è mai stato nessuno. Lei non verrà. E perché avrebbe dovuto se non c'è nessuno ad aspettarla? Guardate... Sotto questa cipria (si strofina la guancia) non c'è nessuno. Sotto questa parrucca (se la toglie, la scaglia lontano) nessuno... Soltanto un povero bastardo pieno d'ingegno che non riesce a realizzare nessuno dei suoi sogni — nemmeno l'amore per non parlare della letteratura o della scienza, del potere... Ma Casanova è un mago, uno stregone — Casanova è dotato di superpoteri. Casanova conosce i segreti della cabala, l'arte della fascinazione... Siamo seri. Chi ha bisogno di superpoteri se non chi è privo di poteri reali?... Quand'ho ferito in duello il conte Branicki, generalissimo di Polonia, facendo fremere i circoli aristocratici d'Europa per la mia audacia tutti si sono profusi in elogi per il mio orgoglio — come per la mia fuga dai Piombi — ma ha detto bene il principe di Ligne ridimensionando tutto: «Il est fier parce qu'il n'est rien». Sì, Casanova è fiero perché non è niente... Allora ditemi che volete da me?... Che parte mi si chiede di recitare?... Dell'amante o del baro, dell'avventuriero, del grande iniziato, dell'ambasciatore, della spia... Che parte?... Mi offrono uno stipendio da delatore a Venezia. Ci vado. È l'unico modo per tornarci e poi mettersi al soldo della polizia non sarà più infame che mettersi in politica o in affari di giustizia. Potevo diventare tribuno del popolo in Francia, banchiere in Inghilterra, consigliere regio in Prussia, visir a Costantinopoli, dignitario in Spagna, generale a Cipro. E invece no, torno a Venezia, torno dalle parti dei Piombi. I Piombi poi sono soltanto una prigione — i Piombi e nient’altro…. Li ho conosciuti a vent’anni. Posso mandarci dei ventenni a mia volta. Magari per aver letto Volterio e non “La mia fuga dai Piombi” La luce intorno si fa sempre più livida. Filtra dappertutto. È l'alba sempre più inoltrata. Casanova ne è come abbacinato. È forse questo l'ultimo segno, la luce, che la donna non verrà.
Casanova - Non verrà. Si lascia cadere stancamente su uno sgabello davanti a una specchiera, cerca il necessaire da trucco e comincia pigramente a struccarsi. È così intento nell'operazione che non si accorge di una ragazzina che s'introduce nella stanza e comincia a sparecchiare. È una camerierina fragile di dodici-tredici anni, biondiccia, un tantino lentigginosa, magrissima. Se ne accorge per caso, per via del rumore dei piatti. La guarda interdetto per un attimo, come imbarazzato, in difficoltà per essere stato sorpreso così disfatto, senza più trucco né parrucca.
Casanova -E tu chi sei?
La ragazza - Ich verstehe nicht.
(Continua a sparecchiare, senza guardarlo)
Casanova - Come ti chiami?
La ragazza - Ich weiss nicht.
(Questa volta gli sorride, continuando a sparecchiare)
Casanova - Aspetta. Fermati un attimo.
La ragazza - Ich verstehe nicht.
(Ride, si stringe nelle spalle)
Casanova - Guarda. Ti piacciono?
(Ha preso dal tavolo i tarocchi e glieli mostra. Lei ha un moto di stupore, e smette di sparecchiare)
La ragazza - Oh wie schòn!...
Casanova - Belli, eh?... Ti piacciono? (Glieli mostra, passandoglieli davanti agli occhi) Questo è il Sole... Vedi?... Die Sonne. Questa è la Luna... Mond. Questa è l'Imperatrice... Kaiserin. Massimo De Rossi è Casanova e nient'altro... Li ho conosciuti a vent'anni. Posso mandarci dei ventenni a mia volta. Magari per aver letto Volterio e non «La mia fuga dai Piombi»... La luce intorno si fa sempre più livida. Filtra dappertutto.
La ragazza - (come ipnotizzata) Schòn... oh, schòn!...
Casanova - Queste sono le Stelle... che vegliano sui tuoi sogni di felicità, sulla tua speranza. Questo è il Diavolo... Non devi temerlo. È solo una raffigurazione del destino. Rappresenta tutto quello che non puoi evitare. Questo è l'Angelo... Porta grandi mutamenti ma in senso buono — eventi che migliorano la tua condizione. Mi segui? Questa è la Papessa... La conoscenza. Significa che hai capito... Bussano all'esterno.
Casanova - Chi è?
Voce - È arrivata quella signora. Chiede di lei?
Casanova - Chi?!
Voce - Madame de... Quella signora che aspettava.
Casanova - Ditele che sono partito. (Rivolgendosi ancora alla ragazza, riprendendo) Vedi, questo è il Mondo... L'immagine della realizzazione. Questo è il Matto... Guardati da lui. Questa è la Ruota della Fortuna... Questo è l'Eremita... Questa è la Torre….
Continua a mostrare alla giovinetta gli arcani del tarocco, mentre intorno la luce invade tutto, accecandolo.
FINE