Una sedia al centro del teatro
di
Damiano Landriccia
(Una sedia al centro del teatro. Su di un lato una finestra, sull’altro un
portavasi di legno alto con una piantina e accanto più in basso un mobiletto
con un portafoto. Un pinocchio di legno per terra. L’attore è seduto e guarda
il pubblico. Truccato con del cerone bianco in viso quasi come un clown)
Ho visto un film al cinema. Un film da cui mi aspettavo sincerità ma che
trattava tutto con leggerezza; la vita dei personaggi vista con gli occhi della
gente così come la gente vede tutto, con leggerezza.
Non si può piantare un albero e lasciarlo al freddo alla pioggia al sole
senz’acqua solo perché è un albero e sembra non aver bisogno di noi o perché la
natura ci ha insegnato che è più forte.
Penso anch’io di essere un albero e che il mio giardiniere mi abbia un giorno
abbandonato solo per insegnarmi l’abitudine al distacco.
Passeggiando per tornare casa ho avuto la sensazione di percorrere dentro me il
doppio della strada. Ho avuto il sentimento dell’impotenza della verità che
diventava grande in faccia alla necessità di mentire a me stesso. Il ripetermi
e il convincermi che bastasse sapere di non essere l’unico a sentirmi una piuma
in mezzo a degli ombrelli aperti per essere un po’ felice.
Nel film c’era il personagggio di un’insegnante di lettere dolce e indifesa,
intelligente e sola. Che strani binomi!
La si vede amare un alunno. La si vede tenere gli occhi aperti in faccia al
sole a voler bere la luce e poi di colpo la si vede con gli occhi chiusi che
cerca l’ombra. Una vita che non è altro che un flash dentro il film, un
passaggio leggero di vento per chi è abituato alle bore. La telecamera non la
corteggia non la interroga, la guarda soltanto. Anche voi mi state guardando e
scoltando. Dove volete che metta i vostri sorrisi le vostre lacrime i vostri
applausi, nelle mani nelle braccia nel cuore negli occhi?
(Resta in silenzio qualche minuto a guardare il pubblico)
Vi prego aiutate quell’essere che abbracciando si strizzava il cuore. Ditele
che siete qui che le volete bene che la stringerete per sentire la gioia il
dolore la vita. Lei vi parlerà sino alla mezzanotte delle sue parole sino
all’alba del suo cuore. Per me lei è importante ma me la portano via, piena
dell’inutilità di un bicchiere vuoto d’acqua che ti tolgono da sotto il naso
perché la sete vale solo un bicchiere. La mia sete invece vale il mare, la mia
sete vale la saliva di tutte le persone che ho amato.
Restituitemela. Posso pagarla con la coscienza: avreste qualcuno che soffre
anche per voi!
La verità è che mi sento marcio, simile ad una mela sbucciata. Le mele
sbucciate non vogliono alberi ma solo la fame. E la fame è grande e cattiva
come la solitudine.
(Prende il pinocchio da terra e porta la guancia del burattino accanto alla sua
ed entrambi guardano il pubblico)
Poteste fare questo miracolo chiederei anche un altro favore… vorrei
riabbracciare la mia amica dai capelli turchini. Ora sarà una donna. L’ho
conosciuta che ero un burattino. Mi intagliava con le unghie sulle mani un cuoricino
e io non sapevo più dove cercarlo il cuore. Era il mio tarlo, l’albero da cui
mi intagliarono, la mia scorza. Se fosse qui le darei la mia pelle: adesso che
ne ho una. Il tempo ci ha segnato su delle rughe, forse, so dove cercarla la
mia vita.
(Poggia il burattino a terra)
Ridatemi anche un attimo di Lucignolo e una corsa al Paese dei Balocchi.
Ridatemi la coscienza del mio legno, la gioia di potermi migliorare in un
essere umano, lo strazio e la dolcezza di un camino acceso e quel vortice di colori
e odori, ridatemi il mio papà.
Sapete… ci sono nomi che sorreggono gli uomini, perché certi non ce la fanno a
stare in piedi su quello che hanno, nomi che non potrebbero appartenere ad
altri. Il mio papà si chiama Geppetto e non sapeva muoversi al di fuori del suo
nome: la chiamano ignoranza. Tutto ciò che amava si muoveva dentro delle
lettere e della saliva: Pinocchio. Legna. Scalpello. Luce. Buio, di lampada.
Buio, di ho male agli occhi. Vecchiaia. Nelle favole non serve saper leggere e
scrivere tanto c’è la vita che scrive per te. La vita qui scrive per me e per
voi e qua e là semina errori, così giù tutta la vita a cancellare con la gomma
del domani. Il presente è presente solo per il tempo in cui ci fa felici.
Il resto è nel domani. La scatola del domani. Il domani che non è ancora tuo
anche se ci hai già pensato tu per primo. Il domani che ti rubano se ti giri o
ti fermi ad aspettare qualcuno. Poi c’è il passato che assomiglia alle tasche
dei pantaloni: sono solo da svuotare quando pesano troppo.
A volte penso che il presente mi cammina nelle mani perché non riesco a tenerle
ferme: le faccio scivolare, le muovo. Il presente è l’acqua e il sapone in cui
ti lavi le mani.
(si alza in piedi e prende il Pinocchio di legno che è per terra. Lo gioca con
le mani e gli parla)
No. Pinocchio non muore né bambino né burattino. Pinocchio non possono
impiccarlo ad un albero.
Forse è meglio nascere prima bambini e poi diventare pezzi di legno. I diversi
pagano per tutti e per tutto. Il Paese dei Baloccchi è un’invenzione degli
adulti. E’ il loro ripostiglio. E’ tutto quello che hanno per ricordarsi di
essere stati piccoli. Nessuno lo ha mai detto a Lucignolo. Se passa di qui
ditegli che non ci sono: non sarò io a spezzargli il cuore: quel cuore d’asino,
con la pelle d’asino che si squaglia nel bordello della felicità. Pinocchio non
muore: lo ama la bambina dai capelli turchini.
Lucignolo lo sa che ce ne vuole per diventare un uomo grande.
(si siede e poggia il Pinocchio per terra, guardando verso il pubblico)
Ho amato e credo mi abbiano amato. Un po’ d’amore addosso me lo sono sentito
anch’io. Si. Era caldo come la lana, dolce come il sonno. Amare è considerarsi
due specchi: mentre lei ti guarda tu le guardi dentro e guardandoti vedi te
stesso. E’ chiedersi sempre di raccontarsi piano la vita guardando nell’aria
cose che gli altri non vedono.
(pausa)
Dove sei amica dai capelli turchini?
Questo lunedi disegna un cerchio per terra: mi siedo al centro e le dita le
lascio correre sui bordi, così stupidamente che devo girarmi per seguirle.
Questo martedi parla col silenzio: entrambi mi cercano. Questo mercoledi è
grande quanto un pugno, inutile quanto una mano senza dita. Questo mercoledi è
un sorriso al buio. Questo venerdì è una promessa. Questo sabato chiudo gli
occhi: proverai a carezzarmi? Questa domenica li riapro e la prima luce che
vedo ti somiglia.
Penso di avere le mani per passeggiare senza muovermi dalle tue mani. Quando
ero un frammento di quello che sono, sulla scala che gli uomini hanno per sentirsi
più alti degli altri, ti aspettavo sull’ultimo gradino. Ero bambino più di te.
Mi sentivo più piccolo di te.
(Pausa)
Sono solo un foglio bianco su cui hanno scarabocchiato la vita, ma non un bel
foglio come te.
(Pausa)
Fatina? Fatina?
(Pausa)
Fatina. Fatina.
(si chiude il sipario)