Uomo e galantuomo

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Eduardo de Filippo - UOMO E GALANTUOMO

Eduardo de Filippo

UOMO E GALANTUOMO

Personaggi:

Gennaro De Sia, Attore

Alberto De Stefano, giovane benestante

Cavaliere Lampetti, delegato di polizia

Vincenzo Schiattarelli, attore

Attilio, attore

Salvatore De Mattia, fratello di Viola

Conte Carlo Talentano

Bice, sua moglie

Ninetta, cameriera

Viola, attrice

Florence, attrice

Matilde Bozzi, madre di Bice

Assunta, serva

Di Gennaro, agente di polizia

ATTO PRIMO

Un albergo di paese, nel 1921. Sala comune, con terrazzo nel fondo, ombreggiato da tendoni a strisce; è estate, il mare e il cielo che vediamo oltre la balaustra del terrazzo sono azzur­rissimi. Tre porte laterali con i numeri 5, 6 e 7. Florence tende una corda da un punto all'altro del terrazzo, ne prova la solidità, poi rientra, si avvicina alla porta di destra e chiama.

FLORENCE Viola! Violetta! Hai fatto co' sti panni? Io la corda l'ho messa: fa' ampressa. Ce sta nu bello sole, sa' come s'ascíuttano ampressa!

VIOLA (dall'interno) Mo, mo. Chiste parevano pochi pochi, inve­ce è nu muntone 'e panne! (Esce dalla porta di destra con baci­le pieno di panni lavati e strizzati) Ecco qua. Mo v' 'o vedite vaie. Io mi devo riposare.

FLORENCE Damme a me, ce penso io.

VIOLA (vistosamente incinta, va a sedere al tavolo, a sinistra mentre Florence va a stendere al sole i panni) Ih che bello debutto facettemo aieressera. Giesú, io n'aggio visto pubblici scostumati, ma comme a chiste... Già, Dio ce ne scansi e liberi dai signori!

FLORENCE Facevano 'e spiritosi...

VIOLA No, chille facettero 'e pernacchie! Io navette uno che mme facette impressione... E chi se lo scorda piú! Fosse stato nu locale popolare, e va bene: uno fa vedere che non se ne accorge... Ma un locale signorile!

VINCENZO (dal fondo, sconvolto, un fazzoletto premuto sul na­so) Ce avimmo fatta 'a croce!

FLORENCE Ch'è stato?

VINCENZO Io in questi paesi non ci vorrei venire mai, perché lo so come va a finire. (A Viola) Tutto pe' causa d' 'o pernacchio vostro. Vi ricordate quando dissi: «Chi ha fatto 'o pernacchio tene 'e ccorna? » Poco fa, mentre cammenavo p' 'a strada, m'ha fermato uno e m'ha detto: «'O pernacchio 'o facette io, 'e ccorna 'e tiene tu! » Poi m'ha dato nu buffettone, e m'ha fatto uscire il sangue dal naso. Guardate qua... (Mostra il naso) Ah, poi ha detto: «Dincello 'a primma attrice, che stasera ce ne faccio nato». Statevi attenta.

VIOLA Overo? E io stasera nun esco.

FLORENCE Non vi dovete mettere mai contro il pubblico... Che fanno, fischi? Fischi... Pernacchie? Pernacchie... Vuie ringraziate sempre.

VINCENZO Chillo m'ha pigliato a buffettoni e io 'o ringrazio?

FLORENCE È pubblico!

NINETTA (entra da sinistra, vede i panni stesi in terrazza) Neh… neh! Ma vuie fussive pazze? Mo addirittura spannimmo 'o bu­cato... Levate sta robba: chisto è albergo, nun è na masseria!

VIOLA Nenne', tu comme 'a faie pesante. Chille so' dduie pannucce...

NINETTA (energica) L'avíte luvà... (E comincia a strappare i pan­ni dalla corda).

VIOLA (accorrendo) Mo li strappi!

FLORENCE (cercando di ostacolare Ninetta) Embè, mo te l'arra­voglio ncanna. Interviene anche Vincenzo, e tutti gridano forte.

ALBERTO (da sinistra) Che c'è? Che succede?

NINETTA Don Alberto, ma vi pare che si possono spandere i panni qua fuori?

ALBERTO Ma caro Vincenzino, mi pare che la cameriera ha ra­gione!

VIOLA (toglie i panni dalla corda aiutata da Florence) Ma si può dire pure con buona maniera.

NINETTA Pure 'a fune, avevano messo...

GENNARO (entra dal fondo) Che c'è, che c'è! (Vocìo confuso, giacché tutti si appellano a lui, poi Gennaro riesce a vincere quel clamore) Via, via... (Spinge le donne verso destra) Le si­gnore in camera. (Rivolto ad Alberto) Scusate, don Alberto!

ALBERTO Oh, bravo. Don Gennaro, vi devo parlare, bisogna mettere le cose a posto. Io vi feci venire qua a fare delle recite, perché conoscevo Vincenzo... conoscevo l'impresario del tea­tro, e volevo aiutarvi. Ma Santo Dio! Voi avete messo l'alber­go sotto sopra: addirittura stendere il bucato qui fuori...

GENNARO Eh, il bucato! Come se fossero coperte, lenzuoli, asciu­gamani... Quella è la biancheria intima delle signore, carnicine, mutandine... tutta roba fru-fru. La verità è che la camerie­ra ci ha preso in antipatia da quando siamo arrivati. Ieri sera noí sentivamo dalla camera nostra, quando parlava con il came­riere... «I saltimbanchi... i morti di fame». Tu sei cameriere?

E allora devi rispettare la clientela dell'albergo, specialmente a noi che siamo degli artisti.

ALBERTO A proposito di artisti: ieri sera a teatro è stato un inferno. Il pubblico è rimasto scontentissimo. Deluso: ecco la parola.

GENNARO Freddino. Ma noi non ne siamo rimasti sorpresi, lo sapevamo. Questo non è un pubblico regolare, diciamo di una stagione di prosa invernale, in un teatro chiuso...

VINCENZO È un pubblico balneare.

GENNARO Oh, bravo! È un teatro all'aperto, la gente viene per prendere il fresco... Infatti ieri sera la platea era completamen­te vuota. Giravano tutti intorno, sotto il pergolato, mangiava­no caramelle, gelati, conversavano fra di loro. Ogni tanto si affacciavano, «ma non è finito ancora?» , e continuavano a pas­seggiare. Un pubblico fine, però, elegante, educatissimo: in pal­coscenico non hanno tirato niente.

ALBERTO E no, don Gennaro, non è cosí... Voi avete portato certa gente... La prima attrice è incinta!

GENNARO Si vede, eh? Sí, sí, è un poco incinta. La questione è che la poverella era stanca del viaggio, e allora non si è potuta mettere il busto. Venivamo da Canosa di Puglia, pigiati in un vagone di terza classe... nausee, svenimenti... Ma stasera no; oggi s'è riposata, e stasera vedrete: un vitino di vespa.

ATTILIO (entra da destra, con la borsa della spesa) Don Genna­ro, vogliamo andare? Facciamo presto sennò troviamo i negozi chiusi.

GENNARO Scusate, don Alberto, vi dobbiamo lasciare: andiamo a fare un poco di spesa.

ALBERTO Un momento! A proposito della spesa... il proprieta­rio si è lamentato con me. Dice che voi ieri sera avete cucinato in camera.., stava l'albergo pieno di fumo... Affianco alla camera vostra c'è una signora straniera che soffre di asma... le venne uno svenimento, non si riprendeva piú...

GENNARO Ma quando mai! Quale fumo? L'avete detto voi stes­so: è malata di asma, 'a furestiera. Pure se vi accendete una sigaretta nella camera affianco quella si sente male. Un'altra esagerazione della cameriera! Noi ieri sera eravamo stanchi figuriamoci se ci mettevamo a cucinare! Abbiamo fatto due uova al tegamino, che si possono cuocere pure sopra a un candelotto... E che altro? Ah! Un chilo e mezzo di alici fritte.

VINCENZO Le comprammo qua fuori, appena tirata la rete. Erano vive!

GENNARO Argento vivo: una poesia!

ALBERTO Ma don Gennaro, non si può fare questo in albergo… Se tutti quanti ci mettessimo a cucinare...

GENNARO Tutti... siamo d'accordo, ma noi siamo artisti... Qua è meglio chiarire una volta per sempre la situazione: per quel poco che si guadagna, noi non possiamo andare al rístorante. Noi dobbiamo conservare per i periodi di magra... Il teatro non dà un gettito continuo di contratti.

ALBERTO Ma io ho parlato col ristorante vicino al teatro: vì farebbe il prezzo fisso.

GENNARO Abbiamo mandato lui (indica Attilio) in avanscoper­ta, per sapere il prezzo fisso: due e cinquanta a persona.

ALBERTO E volete spendere meno di due e cinquanta a perso­na? In un posto di villeggiatura, in piena stagione?

GENNARO Siamo cinque persone, dobbiamo mangiare due volte al giorno... fatevi il conto: dove arriviamo? Ma noi siamo at­trezzatissimi. Io tengo una buatta.

ALBERTO Come?

GENNARO Tengo una buatta...

ALBERTO Ah, capisco: un francesismo.

GENNARO No, no, una buatta napoletana. Di quelle che servono per la conserva. Me le dà un salumiere a Napoli. Sta sopra a Magnocavallo. Un bell'uomo, coi baffi rossi. È un sorrentino. Appena fa il vuoto, me lo regala... Io lo porto allo stagnaro, e quello me lo aggiusta a fornacella.

ALBERTO Fornello portatile.

GENNARO Comodissimo, perché è leggero e non è pericoloso come tutti quei fornelli a benzina, a petrolio, senza contare che quando si viaggia, dentro ci si possono mettere i copioni... Ed abbiamo tutto: piatti, bicchieri, forchette...

ATTILIO Casseruole, tegamini...

VINCENZO La grattugia, la padella...

GENNARO La caldaia grande per i maccheroni. Teniamo persino la macchina per le tagliatelle...

ALBERTO Capisco... Ma un poco di prudenza! Fate attenzione.

GENNARO State tranquillo. Oggi cuciniamo nella stanzetta sua (in­dica Attilio) che sta in fondo al corridoio, dà sull'altro versan­te, sulla scogliera. I fumi, gli odori se ne vanno a mare e nessu­no si accorgerà di niente. Permesso!

Tutti e tre i comici si avviano verso la porta di fondo.

ALBERTO E stasera, dopo la rappresentazione, vorrei invitarvi a cena, se siete liberi.

GENNARO (Tornando indietro, con entusiasmo malcelato) Sí, sia­mo liberi. è vero? (Gli altri annuiscono). A che ora?

ALBERTO Dopo lo spettacolo.

GENNARO Prima, dopo... non ha importanza! Vengono pure le signore, è vero?

ALBERTO Si, tutta la compagnia.

GENNARO Benissimo. Dove ci vediamo?

ALBERTO Finita la rappresentazione, verrò a prendervi in palco­scenico.

GENNARO Voi poi vi dimenticate... Gli amici vi rapiscono: ieri sera vi abbiamo visto in mezzo a uno sciame di belle ragazze... Facciamo cosí: adesso organizzo io. (A Vincenzo) Appena fini­sce lo spettacolo, tu ti metti davanti alla porta del palcosceni­co, nella stradina secondaria, e vedi se lui passa di là. (Ad Atti­lio) Tu ti metti davanti alla porta del botteghino, nella strada principale. Io sto in piazza... Chi lo vede prima: «Don Albe', don Albe'! » Ci uniamo e facciamo una sola imbarcata. E grazie anticipate! (Ai due amici) Andiamo, se no si chiudono i negozi.

ALBERTO Mi raccomando lo spettacolo di stasera.

GENNARO (si ferma, assieme a Vincenzo e Attilio, sulla soglia, e si volta.) Non ci mortificate, Don Alberto. Noi ieri sera erava­mo nuovi della piazza, non conoscevamo il gusto di questo pub­blico.

VINCENZO È’ un pubblico esigente.

GENNARO Ma stasera si troveranno di fronte a un lavoro serio, di un autore importante: Mala Nova, di Libero Bovio. Si può provare qua?

ALBERTO Si, qui nessuno vi disturberà. A quest'ora stanno tutti al mare.

GENNARO Questa è una sala ampia, ariosa. Facciamo una bella prova serrata, di un paio d'ore. Stasera il lavoro andrà come l'olio, e vedrete che successo. Sarà un trionfo. Avete visto ieri sera? Incertezze, malumori, qualche fischio... Stasera il pubbli­co reagisce seriamente. Di nuovo! (Esce con i due amici).

ALBERTO Arrivederci. (Dopo una breve pausa, entra Bice, Alberto le va incontro) Ma brava, che bella sorpresa! (Cerca di abbracciarla).

BICE Stai fermo, qualcuno ci può vedere!

ALBERTO Ma se sono tutti sulla spiaggia!

BICE Sí, ma questo non è proprio il momento adatto. Se tu sapessi...

ALBERTO Che cosa? Ma parla! Io non so come ti vedo... C'è qualche novità?

BICE Una novità... che io aspettavo... (Abbassa lo sguardo).

ALBERTO (con gioia) Eh, ma non è possibile!

BICE No, no caro: è proprio cosí.

ALBERTO Che gioia! (L'abbraccia) Cara, cara Bice!

BICE Cosa fai?

ALBERTO Sono pazzo, pazzo di gioia!

BICE (contrariata) Ma a te fa piacere?

ALBERTO Immensamente! E mammà non sa niente?

BICE Ma sei pazzo!

ALBERTO Bene, non temere. Io sono un galantuomo e conosco il mio dovere. Mi presenterò a lei, le dirò come stanno le cose e chiederò la tua mano.

BICE E no, caro! Questo non può essere.

ALBERTO Ma perché? Certamente tu fra pochi mesi sarai ma­dre...

BICE Bèh? Ce ne sono tante di mamme, posso esserci anch'io!

ALBERTO Sentite che ingenuità. In altri termini, tu credi che io, dopo quello che abbiamo fatto, ti lascio con una creatura mia? Ma tu sbagli, io sono troppo galantuomo!

BICE E vuoi che ti permetta di dire tutto a mia madre? Vuoi farla morire dal dolore? Mio fratello sarebbe capace di uc­cidermi.

ALBERTO Hai un fratello?

BICE Sicuro. Non te l'avevo mai detto? Ho un fratello terri­bile.

ALBERTO Ma scusa, la tua famiglia dev'essere ragionevole. Ab­biamo mancato, è vero, ma io ti voglio sposare!

BICE Dio mio, come sei! Ma quale mancanza! Infine, che cosa abbiamo fatto?

ALBERTO Scusa, più di quello che abbiamo fatto, che cosa potevamo fare?

BICE Ma caro, la prendi troppo sul serio!

ALBERTO Io voglio riparare la mia colpa.

BICE Ma tu che c'entri? Io sapevo quello che facevo: mi sei piaciuto, ci siamo voluti bene... Non c'è niente da rimpiangere. La colpa è mia, che cosa vai cercando?

ALBERTO Sentite, ma queste sono cose da pazzi! Io ti compati­sco perché sei troppo ingenua. Non lo capisci che tua madre dovrà accorgersene per forza?

BICE, Come ho pensato io, non se ne accorgerà.

ALBERTO Allora hai pensato qualche cosa?

BICE Siedi. (Seggono al tavolo di vimini). Io ho una zia: zia Margherita, la madre di mammà.

ALBERTO Allora è la nonna.

BICE Perché?

ALBERTO Se è la madre di mammà è tua nonna.

BICE Già, ma io volevo dire la sorella di mammà.

ALBERTO Ah, ecco: la sorella di mammà è la zia. Non sa nean­che questo, ma che bambina!

BICE Dunque... la zia Margherita, la quale, rimasta vedova si è ritirata nelle sue proprietà in Calabria... Lei sa tutto.

ALBERTO E chi gliel'ha detto?

BICE Io! E’ una santa, credimi: la bontà in persona. Le ho confes­sato tutto in una bella lettera e lei mi ha risposto consigliando­mi cosí: fra breve dirò in famiglia che sento desiderio di anda­re per cinque o sei mesi in casa di zia Maria...

ALBERTO Zia Margherita! Che c'entra zia Maria?

BICE Già... Zia Maria è un'altra zia... Severissima! Però io vado da zia Margherita.

ALBERTO E quando le hai scritto a questa zia?

BICE Quattro giorni fa, dopo aver parlato col dottore.

ALBERTO Hai parlato pure col dottore?

BICE Certamente. Ho voluto la conferma, e poi ho scritto a zia Marianna.

ALBERTO Adesso zia Marianna? Tu hai detto zia Margherita!

BICE: Già... No, zia Marianna è un'altra zia!

ALBERTO Ma quante zie tieni?

BICE Tre... Tre zie!

ALBERTO Bíce ma sono tutte verità che mi stai dicendo?

BICE (offesa) Come sarebbe?

ALBERTO Tu mi stai raccontando un sacco di storie: zia Marghe­rita, zia Maria, zia Marianna... Che ne so io, se tutta questa gente esiste veramente?

BICE Allora, secondo te, io sono una bugiarda? Grazie, sai! Gra­zie! (Si alza).

ALBERTO (la raggiunge) Ma scusa: da tre mesi che ci conosciamo, mo io non so chi sei tu. Fra poco sarò padre e non conosco la madre di mio figlio. Non conosco il tuo cognome, non so cosa fai, dove stai.... tua madre, tuo padre... Almeno dimmi dove stai di casa!

BICE Ma perché?

ALBERTO Per poterti scrivere!

BICE E non mi scrivi sempre Fermo Posta?

ALBERTO Sí, ma... (Supplichevole) Dove stai di casa?

BICE (dispettosa) Non te lo voglio dire. Questo fu il patto: tu non devi mai sapere io chi sono e dove abito!

ALBERTO Ma io ti voglio bene assai: se tu vuoi lasciarmi, non ti fai vedere più e buonanotte. Io dove ti pesco? Fermo posta?

BICE (amorosa) Ma no... Io non ti lascerò mai... Ti vorrò sempre bene.

ALBERTO (abbracciandola) Veramente?

BICE Veramente!

ALBERTO E dove stai di casa?

BICE (scattando) Uffà, sei terribile, sai!

ALBERTO Ma perché non lo posso sapere?

BICE Smettila, lo saprai quando sarà il momento.

ALBERTO E va bene.

BICE Io vado via, perché è tardi. Se mia madre ritorna a ca­sa prima di me, non trovandomi può anche morire dal do­lore.

ALBERTO Addirittura! Adesso muore in quattro e quattr'otto.

BICE Bello lui! È’ malata di cuore, povera mamma!

ALBERTO Malata di cuore?

BICE E come! Se torna a casa e non mi trova... «Bice dove sta? Bice dove sta? », non mi vede...

ALBERTO E muore!

BICE Muore! Ciao, caro: ci vedremo dopodomani, la nostra soli­ta giornata. Mi vuoi bene?

ALBERTO Tanto!

BICE Anch'io!

ALBERTO Bice, tu non mi lascerai mai?

BICE Mai, amore mio...

ALBERTO E dove stai di casa?

BICE Uffà, non lo saprai mai! (Esce per il fondo).

ALBERTO (a Vincenzo che entra) Vincenzo, fammi un favore.

VINCENZO Servo, don Alberto.

ALBERTO Vedi quella signorina che è uscita adesso? Seguila, ve­di dove sta di casa e poi me lo fai sapere.

VINCENZO Subito vi servo. (Esce per dove è entrato).

ALBERTO Grazie tante. (Esce a sinistra).

GENNARO (dall'interno) Vincenzo, dove vai?

VINCENZO (dall'interno) Vado a fare un servizio a don Alberto.

ATTILIO (dall'interno) Vieni presto per mangiare.

GENNARO (entra con le braccia piene di involti) Si deve provare pure il lavoro di stasera. (Seguito da Attilio va al tavolo a sini­stra dove depongono i vari pacchi e pacchetti). Mamma mia e che caldo che fa a sto paese! Sono fiamme che escono da sotto­terra. E le mosche... La quantità e la qualità... Una razza picco­la piccola, ma insistente: ce n'è stata una che m'ha accompagna­to dall'albergo al mercato e dal mercato a qua. Se la faceva tra il naso, l'occhio e l'orecchio... Io la cacciavo e quella tornava. Tu che sei indesiderata... e lasciami in pace! Sono proprio mosche cafone... (Toglie un cartoccio di sugna dalla tasca e s’accorge che essa, squagliandosi per il gran caldo, gli ha mac­chiato la giacca) Tè, tè, tè... S'è squagliata 'a sugna dint' 'a sacca!

ATTILIO Uh, voi che avete combinato? Vi siete arrovinata 'a giacchetta!

GENNARO E nun m'avvilí cchiú assaie! Chillo, 'o cane mozzeca allo stracciato: io solo questa giacca tengo... Come recito, stase­ ra? Mo vediamo se con un poco di benzina si toglie...

ATTILIO Co' 'a benzina? Nun se leva, nun se leva...

GENNARO Con la polvere di sapone...

ATTILIO È’ peggio: nun se leva!

GENNARO Coll'ammoniaca. Acqua e ammoniaca, si fa una bella spazzolata...

ATTILIO Nun ce facite niente... Rimane l'alone. Nun se leva, nun se leva!

GENNARO Se taglia sto pezzo, va bene? Se taglia! Tu come sei catastrofico! Vedi che un povero Dio ha passato un guaio... anche per educazione... Uno dice si, forse se leva, non si sa mai! (Va alla prima porta a destra) Viola, venitevi a pigliare sta roba! (Osserva la tasca macchiata) Guardate che peccato!

VIOLA (entra da destra, seguita da Florence) Finalmente site ve­nute, lo me credevo ch'ireve muorte 'e subbeto!

GENNARO (piano, a Attilio) Chesta mo, se se n'accorge d'a mac­chia, facciamo l'opera. Nun dicere niente.

ATTILIO Vi pare.

FLORENCE Addò site tute?

ATTILIO Abbiamo fatto la spesa.

VIOLA E che avete comprato?

GENNARO Bucatini. Li facciamo al pomodoro. Una fettina di car­ne per te, per noi un'insalata. Ah, stasera siamo invitati.

FLORENCE Un poco di frutta l'avete presa?

GENNARO Sissignore, sta qua: due prugne.

FLORENCE E il carbone?

GENNARO Eccolo. Vi raccomando, mo che accendete il fuoco: non fate fumo. Se l'albergatore s'accorge che cuciniamo in came­ra, ce ne caccia. Già si sono lamentati... Voi, quando accendete il fuoco, chiudete porta e finestra, e appilate tutte le fessure… pare che accussí...

FLORENCE Facimmo 'a morte d' 'e zoccole! Come respiriamo, don Genna'?

GENNARO Come la fate pesante! Quando dovete respirare, apri­te la finestra... (illustra coi gesti) Ah, ah, respirate e chiudete n'ata vòta!

FLORENCE (osserva la macchia sulla giacca di Gennaro) Uh, don Gennaro! Tenite 'a giacca tutta nfòsa!

ATTILIO Sí, nfòsa! Quella s'è squagliata la sugna dínt' 'a sacca!

VIOLA (gridando) Vedite, vedite! Tu già stavi pulito... mo si' cchiú nzevuso 'e primma! Ma quanno te spari, quanno?

GENNARO Ma come, uno si spara per una macchia di sugna? Non c'è proporzione... E poi, fosse colpa mia?

ATTILIO E mi pare! Voi vi mettete la sugna in tasca...

GENNARO Vuó vedé ca te dongo 'o cappiello nfaccia? Ma per­ché, esiste una teoria, un sistema per portare la sugna? Io sono distratto... l'artista è sempre distratto.

VIOLA E se capisce! Pare che quando é dopo è lui che ghietta 'o sarago a pulezzà... Tene chesta scema vicino... Mo cucina, poi s'addà pruvà 'o lavoro 'e stasera, e po' mettete a pulezzà 'a giacchetta p' 'o fa' recità... Perché deve recitare, l'artista di­stratto!

GENNARO L'artista di-strutto!

ATTILIO Ma tenite sulo stu vestito? (Ride).

GENNARO Perché, tu tiene 'o guardaroba?

VIOLA Ma sai che ti dico? Doppo sti recite me ne vaco a casa di mio fratello a Napoli, e tu vai scavalcando montagne addó vuoi tu.

FLORENCE Ma non importa, va'! Quello se leva co' nu poco d'er­ba saponaria.

VIOLA Chillo è isso nu sapunaro, da capo a piede!

GENNARO È meglio che mi ritiro... (Esce infuriato).

VIOLA Vedite là di chi m'innammuraie!

FLORENCE E va bene, va bene. Iammo a cucenà che è tardi. Io pe' mme nun me fido 'e fa' niente: v' 'o vedite vuie.

ATTILIO Mo vi do na mano pur'io. (Assieme a Florence prende la borsa della spesa e i pacchi, ed escono tutti e tre da destra, prima quinta).

NINETTA (dal fondo, seguita da Salvatore) Ecco, cheste so' 'e cammere dei comici che so' arrivate ieri mattina.

SALVATORE Nenne', io voglio parlà co' quello che ha combinato l'affare. Ho domandato e m'hanno mandato qua.

NINETTA Col signor Alberto De Stefano. (Guardando verso sini­stra) Sta venendo, eccolo qua. Mo ‘nce putite parlà.

SALVATORE È lui? (Indica Alberto che entra da sinistra).

NINETTA Sissignore. Don Alberto, questo signore vuole parlare co’ vuie. (Esce dal fondo a destra)

SALVATORE Siete voi il signor Alberto De Stefano?

ALBERTO Sissignore.

SALVATORE (presentandosi) Salvatore De Mattia!

ALBERTO Accomodatevi.

Seggono al tavolo di vimini.

SALVATORE Ecco qua. Voi mo dite: questo signore da me che vuole? È giusto. Cinque minuti di pazienza! Io nella vita ho fatto tutto, o meglio un poco di tutto. E perciò mi trovo a questa età senza una posizione definita e, non vi nascondo, alle volte mi trovo nelle condizioni di dover saltare il pasto. Ben mi sta! Sono contento! Io sto digiuno con piacere! L'ultima scioc­chezza la feci quando me ne andai in America. Insomma ho girato il mondo e la vita disordinata mi ha fatto diventare, come si dice, un poco squilibrato. Ma non sono cattivo! Non sono cattivo! (Piange) Sono malato, ecco! A me un dottore in Australia mi addefiní l'uomo pírico.

ALBERTO Come?

SALVATORE L'uomo pírico. Mi accendo come se fossi polvere da sparo. Per un niente sarei capace di distruggere la mia vita. Ora però non si tratta di niente... si tratta di mia sorella. Io, per tutti i miei continui viaggi, l'ho abbandonata un poco, questo è vero... Ma mo basta! A mia sorella, se non ci penso io, chi ci pensa? Se ho deciso 'e vení a parla cu' vuie, è perché sono o non sono il fratello? Voi dovete intervenire! La vita che fa non è per lei! Voi sapete in che stato si trova... E io, come fratello...

ALBERTO Shhh! Basta, ho capito! Avete saputo che vostra so­rella...

SALVATORE L'ho saputo. E io intendo...

ALBERTO Voi avete perfettamente ragione. Vuol dire che mi ave­te preceduto. Avevo deciso di cercarvi, ma una volta che siete venuto voi da me, ve lo dico subito, bello chiaro chiaro: io amo vostra sorella e la voglio sposare.

SALVATORE Vuie?

ALBERTO Sissignore.

SALVATORE Ma aspettate! Voi sapete che lei...

ALBERTO So tutto.

SALVATORE Ve la sposate voi? E… mettete una pietra sul pas­sato?

ALBERTO Io già ce l'ho messa. Adesso la dovete mettere voi.

SALVATORE Ma io ce la metto! Mo parlo cu' essa, e presto pre­sto combinammo tutte cose.

ALBERTO Vostra sorella sta qui?

SALVATORE Sicuro. Io mo’ subito ci parlo.

ALBERTO Mentre parlate, io mi vado a fare un bagno, cosí siete piú liberi. Tanto piacere di avervi conosciuto. Permettete? (Esce dal fondo).

SALVATORE (va a bussare alla porta di Viola) Arape!

VIOLA (di dentro) Chi è?

SALVATORE Songh'io! Arape!

VIOLA (di dentro) Chesta è 'a voce 'e fratemo! Mo esco io, aspetta!

GENNARO (di dentro) E vengo pur'io.

VIOLA (entra, seguita da Gennaro, che si è tolta la giacca e si è messo in pantofole) Guè, Salvato'... Che vuó, perché sei venuto?

SALVATORE Sono venuto deciso, per dirti che tu a sto muorto 'e famme lo devi lasciare.

GENNARO Bada come parli, sai: non offendere. Misura le parole.

SALVATORE Statte zitto tu! (A Viola) Quest'uomo per te rappre­senta miseria, fame! Mo proprio aggio parlato cu' don Alberto De Stefano... galantuomo e signore, 'o quale ha detto che ti vuole sposare, e mettere una pietra sul passato.

GENNARO Ma nun 'o dà retta! ChiIIo è scemo: va' trova co' chi ha parlato...

SALVATORE Co' don Alberto De Stefano.

GENNARO Ma come, s' 'a sposa e se leggittima na creatura mia? Ma io non posso permettere!

SALVATORE Perché, devi permettere tu? Quando mai hai conta­to! Stu pover'ommo, sta disgraziato... Chillo don Alberto ha ditto ca s' 'a sposa presto presto! Sosò.., hai fatto 'a fortuna toia! (A Gennaro) E tu nun cercà 'e scumbinà, si no te spezzo 'e gambe! Pecché tu poi credevi ca don Alberto ve faceva vení a recità ccà pe' l'abilità toia! È venuto Zuccone! È venuto Betro­ne... Chell'è stato per causa di mia sorella, p' 'a tenè vicino! E ringrazia a essa si staie mangianno... Sosò, mo me ne vaco: ve do mezz'ora 'e tiempo pe' parlà, pe' ve mettere d'accordo. Quan­do torno a questo (indica Gennaro) nun 'o voglio vedé cchiú. Si 'o trovo ancora qua, 'o piglio pe' nu pede e 'o votto a mmare! Mi sono spiegato? Statevi bene. (Esce dal fondo a destra).

GENNARO (a Viola che si aggiusta i capelli con fare civettuolo) Viola... Viola, io non credo che tu vuoi seguire i consigli di tuo fratello...

VIOLA Che vuoi da me... Se trattasse 'e n'ato... Ma a me don Alberto mme piace assai...

GENNARO E m' 'o dice nfaccia? Viola, bada che se mi tradisci io sarò sanguigno!

ATTILIO (dalla prima a destra) Vuie state lloco ffora?

FLORENCE (segue Attilio. Rivolta a Viola) Hai rimasto 'o sugo ncoppa 'o fuoco. Si nun ce refunnevo na poco d'acqua, s'abbru­ciava tutte cose.

ATTILIO E non ce perdimmo in chiacchiere, dobbiamo provare pure 'o lavoro 'e stasera.

VIOLA Va buo', pruvammo dopo mangiato.

ATTILIO No, dopo mangiato io voglio dormire. (A Gennaro) Vuie che ne dicite?

GENNARO E sí, è meglio che proviamo uro. (Muovendo alcune sedie, le dispone come per formare una porta).

ATTILIO Provammo 'e scene 'e Mala Nova.

FLORENCE Né, io vaco a voltà 'o sugo! (Esce dalla prima a de­stra).

GENNARO Iammo, Atti': piglia la scena del fratello e della sorella.

ATTILIO (apre il copione, lo sfoglia) 'A scena d'Andrea e Rusel­Ia. (Siede con le spalle al pubblico, su una coperta di lana che avrà steso in terra) Mammà!

FLORENCE (di dentro) Eh, mo tengo il sugo sopra al fuoco!

ATTILIO E lascia un momento.

FLORENCE (di dentro) Si brucia tutto...

VIOLA Mo vengo io!

GENNARO E se ne va pure questa! Appena comincia la prova se la squagliano tutti. (Gridando) Viola!

VIOLA (di dentro) Nu momento!

ATTILIO Mammà, spicciati!

Entra Florence da prima a destra.

VIOLA (entrando da prima a destra con padella e cucchiaio di legno) Eccomi.

GENNARO Che devi fare, cu' sto tiano mmano?

VIOLA Vulevo fa' vedè a essa si s'è fatto. (Mostra la padella a Florence).

FLORENCE Sí. E comm'addora!

ATTILIO Faciteme vedè. (Viola gli si avvicina). Oggi ce cumu­lammo! (Assaggia il sugo).

FLORENCE Hai messo la caldaia pe' 'e maccarune?

VIOLA Si.

ATTILIO Don Gennaro, Vincenzino non ci sta?

GENNARO È andato a fare un servizio a don Alberto. Ma quello è vecchio del lavoro, la parte di Pascale già l'ha fatta. Piutto­sto, ci manca un personaggio. Già abbiamo tagliato tre parti. Non si possono fare questi lavori! Non vogliono pagare: «Do­vete essere pochi, dovete essere pochi», e poi vogliono i lavori importanti. (Pausa). Ci manca il Brigadiere di Pubblica Sicurez­za, al finale. Chi m'arresta a me, stasera?

ATTILIO  E come si fa?

GENNARO Facciamo arrivare la lettera. Mettiamo all'inizio due battute di giustifica. Andrea e il Brigadiere sono amici di infan­zia, e il Brigadiere può essere amico di Andrea, in quanto An­drea non è un delinquente comune: ammazza, sí, ma per ono­re. Dunque, arriva la lettera, che dice: «Caro Andrea, sul tavo­lo ho il mandato di cattura per te. Ah, quanto mi dispiace! Non voglio farti avere la vergogna di attraversare il vicolo in mezzo alle guardie ammanettato. In Nome della Legge ti dichia­ro in arresto. Vienetenne». Io mi piglio 'a mappatella e me ne vaco.

ATTILIO E la lettera chi la porta?

GENNARO Nessuno. Arriva 'a sotto 'a porta. Se tenevo un attore disponibile, Ile facevo fare 'o Brigadiere, no? S'immagina che il brigadíere ha voluto agevolare l'amico fraterno, ma non si vuo­le compromettere agli occhi della gente: è sempre una irregola­rità che commette. Il pubblico è intelligente, capisce subito. Il Brigadiere avrà detto alla guardia: «Tu butta ‘a lettera sott’ ‘a porta e scappa». Al finale, quando Rusella dice: «Madonna santa!», tu fai arrivare la lettera qua... (Indica un punto sul pavimento davanti a sé) No, qua no: è voluto. Qua! (Indica un punto vicinissimo al primo) Io piglio la busta... Un momento di esitazione... «Chi sarà, a quest'ora? Oh, che brutto presenti­mento! » Apro la lettera, leggo e me ne vado. (Siede, si asciuga il sudore) Che calore! Non si resiste! Appena finita la prova, ce menammo a mare!

ATTILIO «Nzerra chella porta». (Gennaro non ripete, distrat­to). «Nzerra chella porta».

GENNARO Nzerrala tu. Alzati e chiudi la porta. Tieni i servitori?

ATTILIO No, no, no... «Nzerra chella porta! »

GENNARO Ma questo è scostumato veramente! Te la chiudi tu la porta.

ATTILIO No, voi! Andrea dice: «Nzerra chella porta».

GENNARO Ah, è battuta di copione! E devi dire: «Signori, comin­cia la prova! » Il suggeritore d'arte batte le mani per richiama­re l'attenzione degli attori, si stabilisce il silenzio, e comincia la prova. Guitto, imparati!

ATTILIO E va bene! (Batte le mani) Signori, comincia la prova!

GENNARO Dunque (rivolto a Florence che si è seduta a sinistra) voi state a letto... malata da mesi e mesi, sotto la coperta, con la febbre forte; tenete l'affanno, non potete respirare... non ci sono piú speranze per voi: bronchite, polmonite... state cchiú 'a llà che 'a ccà. (Rivolto a Viola) Tu stai preparando un decot­to per tua madre, ma senza ansietà, perché lo prepari tutti i giorni, da mesi e mesi... sai pure che non ci sono piú speranze per lei, ma il decotto per una madre si prepara lo stesso. Un decotto rassegnato... (A Florence) A questo punto voi fate due colpettini di tosse, senza esagerare, appena appena. Quella tos­se cattiva, secca... (A Viola) Tu senti la tosse di tua madre, la guardi, come per dire: «Povera donna, ma perché deve soffrire in questo modo! Ma che condanna...» Poi uno sguardo al cielo, come per dire: «Maro', pigliatella! » (A Florence) Un altro col­po di tosse, ma questa volta deve essere un accesso: vi dovete fare uscire gli occhi 'a fora. (A Viola) Tu avverti la sofferenza di tua madre... patisci appresso a lei... Quando finisce questa crisi, emetti un sospiro, come se tu pure ti fossi liberata della tosse... A questo punto, s'apre la porta e entro io. (Batte le mani) Signori, comincia la prova! (Va alle sedie che funziona­no da porta, e schioccando le dita si rivolge a Florence) ‘A tosse... (A Viola) 'O decotto... Guarda tua madre... gli occhi al cielo... « Maro', pigliatella! » (Le due donne eseguono da povere attrici quali sono i suggerimenti di Gennaro, il quale si rivolge ancora a Florence) L'accesso... (A Viola) La sofferenza tua... Il sospiro... (Facendo finta di aprire una porta Gennaro emette un grido soffocato e stridulo assieme, convinto di stare imitando lo stridio di una vecchia porta che si apre) Ahhhhhhh!

I suoi compagni credono che Gennaro sia stato preso da un improvviso malore, e corrono verso di lui, allarmati.

ATTILIO Don Genna', ch'è stato?

VIOLA Che ti senti, Genna'?

FLORENCE P' 'ammore 'e Dio!

GENNARO Che c'è...?

ATTILIO Vi siete sentito male?

GENNARO Si apre la porta! (Gli altri riprendono i loro posti, an­cora turbati dallo spavento preso). Quelle porte vecchie, umi­de... dei bassi napoletani... arrugginite nei cardini, coi vetri rot­ti. Ahhhhhh! (Riprende l'atteggiamento del personaggio che deve entrare, camminando curvo, trascinando i piedi, e va verso sinistra).

ATTILIO «Nzerra chella porta». (Gennaro continua la scena, tra­scinandosi verso Florence). «Nzerra chella porta». (Gennaro lo ignora). «Nzerra chella porta! »

GENNARO (scattando) Aspetta! Mi stai torturando: «Nzerra chel­la porta, nzerra chella porta! » M' 'a vuó fa' fa' sta scena muta?

ATTILIO E quando lo dite: «Nzerra chella porta?»

GENNARO Dopo! Lui entra, vede la mamma che sta morendo, la sorella disonorata... deve creare tutta l'atmosfera! Quando ca­de affranto sulla sedia... sta scritto nel copione... allora dice: «Nzerra chella porta». Tu devi dare lo spunto. Appena entra il personaggio tu gli dài l'imbeccata; quando l'attore ha fatto la sua scena, allora tu ribatti: «Nzerra chella porta».

ATTILIO Va bene. (Gennaro ritorna alla porta). «Nzerra chella porta». (Gennaro va verso Florence, le carezza la testa; sem­pre trascinando i piedi va verso la sedia al centro e vi si lascia cadere pesantemente). «Nzerra chella porta».

GENNARO (contemporaneamente ad Attilio) «Nzerra chella porta!».

Viola va alle sedie, fa finta di chiudere la porta.

ATTILIO «Ndre'... tu nun me faie niente?»

VIOLA «Ndre'... tu nun me faie niente?»

ATTILIO «Nzerra chella porta».

GENNARO E l'ho detto!

ATTILIO E lo dovete dire un'altra volta.

GENNARO Perché, la deve chiudere due volte, la porta?

ATTILIO E io che ne so! Qua ci sta scritto due volte.

GENNARO Fammi vedere! (Gli strappa il copione di mano e leg­ge) Ah! La prima volta lei non va a chiudere la porta. (Ad Attilio) Tu non leggi le didascalie... (A Viola) Tu la porta non la chiudi, perché hai paura di tuo fratello. Con la porta aperta hai sempre la possibilità di salvarti. Allora dici: «Ndre', tu nun me faie niente?» Io ti guardo... ho saputo del disonore... ma sei sempre mia sorella. (A Florence) Voi piangete e implorate pie­tà per vostra figlia... io mi commuovo... una lacrima furtiva... (A Viola) Ti guardo di nuovo... e un poco piú rassicurante, ripeto: «Nzerra chella porta! » (Restituisce il copione ad Atti­lio, va alla porta) Ahhh! (Ripete velocissimamente tutta la sce­na muta, cade sulla sedia) «Nzerra chella porta! »

VIOLA «Ndre', tu nun me faie niente?»

GENNARO «Nzerra chella porta! »

Viola esegue.

ATTILIO « E mo rispunne a me... »

GENNARO «E mo, rispunne a me...»

ATTILIO «Ma senza nascondermi niente».

GENNARO «Masempe... sta scopa ... » Che hai detto?

ATTILIO (scandendo le parole) « Ma senza nascondermi niente!»

GENNARO Tu non sai suggerire. Il suggeritore d'arte non grida: suggerisce di petto. Io il lavoro lo conosco a memoria, ho biso­gno solo dello spunto: si tu strille, io mi imbroglio. È brutto, è guitto! Finisce che il pubblico la commedia se la sente due volte: prima dal suggeritore, poi dagli attori. Un soffio: deve essere un soffio!

ATTILIO Come volete voi. (Adesso suggerisce con un soffio di voce, incomprensibile) «E mo rispunne a me...»

GENNARO «E mo rispunne a me...»

ATTILIO «Ma senza nascondermi niente...»

GENNARO «Ma senza nascondermi niente...»

ATTILIO «Hai capito? »

Gennaro tende l'orecchio, ma non afferra; Attilio ripete la battuta sottovoce; Gennaro, cercando di sentir meglio, accosta un tantino la sedia ad Attilio, il quale, accostandosi anche lui, sussurra ancora la battuta; ma Gennaro non afferra... Si avvici­nano l'uno all'altro, sin quasi a toccarsi.

GENNARO (inviperito, urla) Dove vuoi arrivare? Sott' 'a seggia? Che hai detto?

ATTILIO (gridando) «Hai capito?»

GENNARO E parla forte!

ATTILIO Voi avete detto il soffio...

GENNARO Ma quando vedi che l'attore non ha capito, aumenta il volume. (A Viola) «E mo rispunne a me, ma senza annascon­dermi niente, hai capito?»

ATTILIO (indicando Viola) «Tu nce facevi 'ammore co' Papele?»

VIOLA e GENNARO (insieme) « Tu nce facevi 'ammore co' Papele? »

GENNARO (a Florence) Lo volete dire pure voi? (Ad Attilio) Lo vuoi dire pure tu? Vogliamo fare un coro? (A Viola) La battu­ta è mia, perché hai attaccato tu?

VIOLA E quello m'ha fatto segno...

GENNARO (ad Attilio) Tu non devi indicare. (A Viola) E pure se il suggeritore indica, tu non devi parlare... Devi riflettere, devi capire che non può essere battuta tua... Io poi facevo 'am­more co' Papele?

VIOLA Io che ne saccio, Genna'! (E prende in mano la padella con la salsa, e vi gira dentro il cucchiaio di legno).

GENNARO Dunque... «Tu nce facevi 'ammore co' Papele? »

ATTILIO «Si».

VIOLA (girando la salsa) «Sí».

ATTILIO «E 'a quanto tiempo?»

GENNARO «E 'a quanto tiempo?»

ATTILIO «'A n'armo!»

VIOLA «'A n'armo! » (E accompagna le parole con un largo gesto della destra, nella quale stringe il cucchiaio pieno di salsa; que­sta va a colpire in pieno il viso di Gennaro).

GENNARO (cerca di pulirsi come meglio può, ma è quasi accecato dal liquido) Ma è possibile che devi provare girando la sal­sa col cucchiaio in mano? Hai ragione che stai in quelle condi­zioni se no te pigliasse a paccheri!

VIOLA Sicuro! A paccheri...

ATTILIO Andiamo avanti. Dunque: «Doppo 'a morte ‘e patete? »

GENNARO «Doppo 'a morte 'e patete?»

ATTILIO «Doppo».

VIOLA «Doppo».

ATTILIO «E fuste tu, ca...»

GENNARO «E fuste tu, ca...» (Rimane in ascolto, aspettando il re­sto della battuta).

ATTILIO «No».

GENNARO «E fuste tu ca... no».

ATTILIO No, no, non dovete dire

GENNARO «E fuste tu ca...» che?

ATTILIO Ca... niente! «Fuste tu ca...», e basta. Non dovete dire niente piú.

GENNARO «E fuste tu ca...» e basta!... È asciuto pazzo l'autore. Fammi vedere.

ATTILIO (porgendogli il copione) Guardate voi stesso: non ci sta niente piú.

GENNARO (dopo aver brevemente esaminato il copione, facendo il gesto di voler dare uno schiaffo a Attilio) Non ci sta niente, eh?

ATTILIO No!

GENNARO Tu sei analfabeto! (Gli mette sotto gli occhi il copio­ne, indicandogli un punto) E questi che sono?

ATTILIO Che sono?

GENNARO I sospensivi! Secondo te i sospensivi non si leggono?

ATTLLIO E che debbo dire? «Fuste tu ca... sospensivi?»

GENNARO Si fanno sentire, si allunga... «Fuste tu ca...» C'è tutta l'intenzione dentro: «Fosti tu che incoraggiasti questo amore, fosti tu che lo facesti entrare in casa la prima volta...» Infatti lei si ribella, perché è innocente e dice subito: «No! » (A Vio­la) Tu m'interrompi subito, se no io continuo a fare «Ca...» Andiamo avanti.

ATTILIO «E fuste tu ca...»

GENNARO «E fuste tu ca...»

ATTILIO «No».

VIOLA «No».

ATTILIO «No».

GENNARO Lo ha detto. «E fuste tu ca...»

VIOLA «No».

ATTILIO «No».

GENNARO Tu devi precedere l'attore, non seguirlo, se no che suggeritore sei?

ATTILIO E io l'ho preceduta!

GENNARO Non è vero! E fuste tu, ca...

VIOLA No.

ATTILIO «No».

GENNARO Devi precedere!

ATTILIO Ho preceduto.

GENNARO Niente affatto, lo hai detto dopo di lei.

ATTILIO E dopo di lei lo debbo dire!

GENNARO Ma perché?

ATTILIO Perché ce ne sta un altro, ci stanno due «No».

ùGENNARO E dillo prima!

ATTILIO E voi non mi date il tempo!

GENNARO (a Viola) Hai capito? Devi dire due no. «No, no!» Ed è giusto, perché lei si sente innocente, e reagisce con due no.

E fuste tu, ca...

VIOLA «No, no!»

ATTILIO «No».

GENNARO Ma tu fossi scemo? Li ha detto, i due no! «E fuste tu, ca... »

VIOLA «No, no! »

ATTILIO «No».

GENNARO (fuori di sé) L'ha detto!

ATTILIO E c'aggia fà? Lo deve dire un'altra volta, perché ne è uscito un altro.

GENNARO Un altro «no»?

ATTILIO Eh! Ci stanno tre «no».

GENNARO Fammi vedere. (Prende il copione, lo esamina, lancia un'occhiata di disprezzo e pietà insieme a Attilio) Ecco, sem­pre perché leggi solamente il dialogo. Devi leggere pure a sini­stra, í personaggi. Il secondo «no», non è suo, è mio! E poi, bisogna badare alla punteggiatura: lei ci ha un primo «no», con un punto esclamativo. Al mio ci sta il punto interrogativo. Al terzo «no» c'è punto. Dunque, io dico: «E fuste tu, ca...», allora lei, in uno slancio di sincerità dice: «No», punto esclama­tivo. Io sono ancora dubbioso e dico: «Nooooooo?», punto interrogativo. Allora lei, a conferma del primo no, dice «No», col punto. Sono tre «no», tre intonazioni diverse. (Restituisce il copione ad Attilio) «E fuste tu, ca...»

VIOLA           (sbaglia il no, dice il «no» di Gennaro) Nooooooo?

GENNARO Questo è il «no» mio. Tu devi dire «No», col punto esclamativo (Tentano ancora di dire i tre «No» in ordine, ma non ci riescono. Lo stesso Gennaro sbaglia due o tre volte. Rivolto ad Attilio) Dammi qua. (Attilio gli dà il copione ed una matita). Si tagliano due no: resta solo il no suo. «E fuste tu ca ...», lei dice: «No», io ci credo subito, e andiamo avan­ti. (Restituisce il copione, torna al suo posto) Qua viene il racconto patetico di Rusella.

ATTILIO «Mammà era iuta addó o miedico »...

VIOLA «Mammà era iuta addó o miedico …»

GENNARO (in disparte a Florence) Voi, appena sentite «mam­mà» corninciate a piangere e la finite solo quando cala il sipa­rio (Florence esegue). Non esagerate, però: voi siete portata a esagerare. Un lamento da malata, appena appena...

Florence diminuisce il volume del pianto.

ATTILIO «Tu faticave 'a funderia»...

VIOLA «Tu, faticave 'a funderia...»

ATTILIO « Isso cu' na scusa trasette dint' 'o vascio... Io nun 'o vulevo fa' trasí... Fuie isso! »

VIOLA «Isso cu', na scusa trasette dint' 'o vascio... Io nun 'o vu!evo fa' trasí... Fuie isso! »

ATTILIO «E mme facette mille prumesse, mille giuramente, amme..a       na piccirella! E io nun 'o vulevo sèntere! »

VIOLA «E mme facette mille prumesse, mille giuramente, a mme... na piccirella! E io nun 'o vulevo sèntere! »

ATTILIO «Allora isso m'afferraie p' 'e capille...»

VIOLA «Allora isso m'afferraie p' 'e capille...» (Accompagna le parole con un gesto descrittivo esagerato).

GENNARO Ma che fai? Il tuo seduttore perché t'afferra per i capel­li? Per possederti, non per stappare una bottiglía! (E le mostra il gesto che deve fare).

VIOLA «Allora isso m'afferraie p' 'e capille... Ndre', chillo mo se sposa a n'ata! »

Alberto entra, va a sedere a destra, ed ascolta la prova.

ATTILIO «No!»

GENNARO «No!»

ATTILIO « Sí... mo se sposa a n'ata! »

VIOLA «Sí... mo se sposa a n'ara!»

ATTILIO  «No...»

GENNARO «NO...»

ATTILIO «M'ha ditto 'a Serpentina!»

VIOLA «M'ha detto 'a Serpentina! »

ATTILIO «No!»

GENNARO «No! »

ATTILIO «T' 'o giuro ncopp' 'a mamma! »

VIOLA «T' 'o giuro ncopp' 'a mamma! »

GENNARO «No! Pecché io...»

VIOLA e FLORENCE «Pecché tu ...»

GENNARO «Pecché io l'aggio acciso! »

FLORENCE (urla) «Ah! L'ha acciso! »

GENNARO Voi state morendo, dove la pigliate la forza per grida­re in questo modo? La moribonda vorrebbe gridare, ma non cela fa... Anzi, si sgonfia: «L'ha acci...», e non può continuare.

FLORENCE «L'ha acci... »

ATTILIO «Madonna santa!»

VIOLA (a bassa voce, come se pregasse) «Madonna Santa!»

GENNARO No, no, no! Il tuo invece deve essere un grido disperato. Tu in un momento realizzi tutta la tua sventura: t'hanno disonorata, tua madre sta morendo, l'innamorato tuo è morto, tuo fratello sta per andare in galera... (Gridando) «Madonna Santa! »

VIOLA «Madonna Santa! »

A questo punto Attilio allunga il braccio, e batte con violenza il copione nel punto dove Gennaro gli ha indicato di fare arriva­re la lettera. Gli altri che hanno dimenticato la lettera, si spa­ventano del rumore improvviso.

GENNARO Che è?

VIOLA Ch'è stato?

FLORENCE Aiuto! GENNARO L'hai ucciso?

ATTILIO Che cosa?

GENNARO 'O sòrice!

A questa parola le donne si spaventano e si ritraggono.

ATTILIO No! È arrivata la lettera!

GENNARO (riprende il proprio posto, e cosí anche Viola e Floren­ce) E tu hai fatto arrivare nu pacco postale! «Una lettera... Chi sarà a quest'ora? Che brutto presentimento. Chi è, chi l'ha portata sta lettera? (Va alle sedie che fungono da porta, fa finta di aprirla, sporge il capo) Il vicolo è oscuro... si vede solo

n’ombra... N'ombra che corre... Mo arriva sotto 'o lampione... mo sí che lo vedo bene! È’ na guardia. (Torna al centro della scena, finge di aprire la lettera) È l'amico mio, è 'o Brigadiere. Caro Andrea, eccetera, eccetera. (A Viola) Mo resti sola, io vaco carcerato... Mammete more! Ma l'onore trionfa... (Viola viene e gli cade tra le braccia; Gennaro solleva il dito verso il cielo) La giustizia di Dio! »

SALVATORE (entrando dal fondo, e vedendo i due abbracciati) Neh, carugnone! Embè, io t'avevo pregato! Lassa sta' a mia su­rella, (Si scaglia contro Gennaro che agilmente si allontana, mentre Attilio, Viola e Florence cercano di trattenere l'energu­meno).

VIOLA Salvato', Salvato'!

ATTILIO Don Salvatore, noi stavamo provando!

SALVATORE Ma che vuole provare, l'anema d' 'a mamma! (Ad Alberto) E vuie permettete ca chillo se l'abbraccia, e nun dici­te niente?

ALBERTO E a me che me ne preme?

SALVATORE (inviperito) Come? Voi avete detto ca v' 'a vulite spusà!

ALBERTO A quella là? Io?

SALVATORE Chesta è mia surella.

ALBERTO C'è stato un equivoco. Io parlavo di un'altra ragazza.

SALVATORE Aggio capito tutte cose! (Scaglia contro Gennaro il suo bastoncino di bambú) Tu chi sa che gli hai detto, e chillo mo s'è cagnato. (Ad Alberto) E si' ommo tu? Primma dice na cosa e poi t'annieie? (Gennaro porge a Salvatore il bastone) Grazie!

ALBERTO Amico, io non nego niente. Io parlavo di un'altra, non di vostra sorella.

SALVATORE No, caro mio, io nun so' scemo... Chillo che t'ha fatto cagnà penziero è stato stu muorto 'e famma! (Lancia di nuovo il bastone contro Gennaro) E isso me l'ha adda pavà.

T'aggía spaccà 'a capa!

Tutti cercano di trattenerlo.

GENNARO Aiutatemi! (Salvatore riesce a liberarsi e si slancia contro Gennaro). Tenetelo, tenetelo! (Esce di corsa per la prima a destra).

SALVATORE Nun fui', carugnone! (Esce dietro Gennaro, seguito a sua volta da Florence, Attilio e Alberto).

VIOLA (quasi svenuta, si abbatte su una sedia) Pe' carità, pe' carità, fermatevi! (Dalla prima quinta a destra si sentono grida, rumori di sedie e mobili che cadono, e finalmente un rumore fortissimo, seguito da un grido straziante di Gennaro). Aiutateme... aiutateme!

FLORENCE (esce dalla prima a destra, raggiunge Viola) Mamma mia! Povero don Gennaro! Currenno, nun ha visto 'a furnacella, ha inciampato, e ll' è caduta tutta l'acqua bullente ncoppa ai piedi!

NINETTA (entra dal fondo) Che è successo (Esce prima a destra, e ne ritorna quasi subito, spingendo, assieme ad Attilio, Salvatore verso la porta di fondo).

GENNARO (entra da destra, sostenuto da Alberto, e da Attilio, che è tornato indietro, appena messo alla porta Salvatore) 'O fuo­co, 'o fuoco!

NINETTA Purtatelo 'a farmacia!

GENNARO Nun ne pozzo cchiú... 'O fuoco, 'o fuoco!

Alberto, assieme ad Attilio, va a prendere un sifone di seltz, torna accanto a Gennaro e gli spruzza l'acqua sui piedi; lo stesso fa Attilio con un altro sifone.

ALBERTO Don Gennaro, rinfrescatevi!

GENNARO 'O fuoco, 'O fuoco!

ALBERTO e ATTILIO         Rinfrescatevi, rinfrescatevi!

SIPARIO

ATTO SECONDO

Salotto elegantissimo in casa Tolentano. In fondo vetrata per la quale si accede in giardino. Molte piante e fiori. Tre porte laterali: la prima a sinistra dà in altre camere, la seconda a sinistra dà nella sala da pranzo; a destra, la comune, in secon­da. A destra, in prima, un tavolo da gioco coperto da un tappe­to dí castoro verde, e sopra una cassettina di mogano per con­servare le carte da gioco; una ceneriera e altri oggetti. A sini­stra, altro tavolo, con sopra un cestino da lavoro. In fondo a sinistra un divano con cuscini. In fondo a destra un mobile da salotto. Qualche arazzo orientale alle pareti. Sedie e poltrone. Nel giardino, servizio di vimini.

BICE (in piedi in mezzo alla scena, si sforza di insegnare a Carlo alcuni passi di un fox-trot in voga, ma il marito esegue mala­mente) No, no: è inutile. Con te non se ne ricava niente, sei proprio negato.

CARLO (un tipo aristocratico sui cinquant'anni) Finalmente l'hai capito. lo non ho mai avuto attitudine per il ballo.

MATILDE (seduta al tavolo di sinistra, intenta a ricamare) Ma lascialo stare! Perché piace a te, vorresti che tutti ballassero.

CARLO (va a sedere a destra, Bice a sinistra) E poi, sono sforzi inutili. Ammesso che io imparassi, cosa impossibile, tra qual­che mese tu dovrai rinunziare al ballo.

BICE E perché?

CARLO Il nostro erede non te lo permetterà. MATILDE Perché, non può essere una erede?

CARLO No no. Non esercito la professione, ma ricordo bene di avere una laurea in medicina. Sarà un maschio.

ASSUNTA (entra dalla comune) Permesso... Signore, fuori ci sta un uomo... dice che voi gli avete dato l'indirizzo p' 'o fa' venì qua. Ma se lo vedete, fa una pena...

CARLO Ho capito, fallo entrare. (Assunta si inchina ed esce). È un povero disgraziato. Gli è caduta dell'acqua bollente sui piedi. Tornando a casa l'ho visto che si lamentava, cosí gli ho dato l'indirizzo e gli ho detto di venire, che gli avrei fatto io stesso una medicatura.

MATILDE Ma sí, quando si può fare del bene...

GENNARO (di dentro) Sant'Antuono, protettore del fuoco... (Entra sorretto da Assunta) Nenne', tu mi devi reggere... E non devi correre...

ASSUNTA Sto camminando cosí piano! (Lo guida verso una sedia di destra).

GENNARO E non spingere... 'O ffuoco... mamma mia bella! (Ha i piedi avvolti in due fazzoletti colorati, ha in mano una ventola da cucina. Vede Carlo e si inchina) Buongiorno, signuri'. Ah!

CARLO Buongiorno.

GENNARO (siede a destra aiutato da Assunta) Voi mi dovete perdonare, se mi lamento... Lo so, sono noioso, do fastidio... ma io mi devo lamentare: ho diritto al lamento. E che s'è trattato di niente? Una caldaia d'acqua bollente sopra ai piedi! 'O ffuoco, 'o ffuoco! (E si sventola i piedi col ventaglio).

CARLO Ma come vi è successa la disgrazia?

GENNARO Caro signore, come tutte le disgrazie... Quelle, pare che mandano il telegramma! Da un momento all'altro... Ma io

dovevo capire che la giornata era storta, perché l'avviso l'ho avuto, quando si è squagliata la sugna in tasca.

CARLO Perché, voi portate la sugna in tasca?

GENNARO (seccato) Non abitualmente. Sono andato a fare la spe­sa, e distrattamente... guardate qua! (Mostra la giacca).

ASSUNTA Che peccato! Signora, se permette, gliela pulisco io.

GENNARO Quanto sei buona! Co' che lo fai? ASSUNTA Con la benzina.

GENNARO Nun se leva!

ASSUNTA Comme, non si leva?

MATILDE Con la benzina va via tutto.

GENNARO (togliendosi la giacca con movimenti delicati) Che bra­va ragazza! Il Signore ti deve benedire!

ASSUNTA Grazie!

GENNARO Sei sposata?

ASSUNTA No.

GENNARO E ti sposi subito. Troverai un bel giovane alto... (le consegna la giacca) e bello...

ASSUNTA (allontanandosi con la giacca) Grazie!

GENNARO Già che ti trovi, dài una guardata al bavero... e pure ai gomiti...

ASSUNTA (uscendo) Va bene, non dubitate.

GENNARO (a Carlo) Noi siamo artisti, signore. Per quel poco che si guadagna, non possiamo andare in trattoria. Ma siamo attrez­zati. Io tengo na buatta, quelle scatole di latta che servono per la conserva. Me le dà un salumiere a Napoli, tanto buono, sta sopra a Magnocavallo. Facciamo la fornacella, e portiamo tutto con noi: piatti, bicchieri... Avevamo messo una caldaia d'acqua per fare i bucatini. Acqua abbondante, se no vengono limaccio­si,,. L'acqua bolliva... A un certo punto ho dovuto correre. Adesso è troppo lungo a raccontarvi la storia, a voi poi che ve ne importa... Arriva un momento nella vita che l'uomo deve correre. Legge comune, arriva per tutti quanti. Stamattina è stato il turno mio. Durante la corsa, non ho visto la fornacel­la... Sant'Antuono... Hanno cercato di aiutarmi.., tutti rimedi da donnette... Il signore, tanto buono, mi ha trovato sul porto­ne dell'albergo che mi lamentavo. S'è fatto largo tra la folla. «lo sono medico». M'ha data la carta da visita, ha detto: «Ve­nite a casa mia, vi faccio io una medicatura». Lui, spontanea­mente. Non è che io ho chiamato il medico...

CARLO Certo, mi sono offerto io, spontaneamente. State tranquil­lo, non pagherete niente. È questo che volevate sapere?

GENNARO No, è questo che vi volevo far sapere!

CARLO Venite, venite! Ho di là una piccola farmacia che non manca di nulla. Andiamo.

GENNARO A piedi?

CARLO Sono due passi: la camera accanto!

GENNARO Per voi è facile, avete i piedi crudi... Ma io... Sant'An­tuono!

CARLO Su coraggio, vi aiuterò io.

GENNARO No, perché io posso disporre solo di una punta e un tallone.

CARLO Vi do una mano. (Sorregge il braccio destro di Gennaro).

GENNARO (punta la mano sinistra sul tavolino accanto a lui e fa per sollevarsi, appoggiandosi su una punta e un tallone) Uno, due e... tre! (Si solleva, ma subito ricade indietro col viso con­tratto in una smorfia di dolore) Sant'Antuono!

CARLO Che c'è?

GENNARO Ho sbagliato: era l'altra punta e l'altro tallone! San­t'Antuono!

CARLO Mi dispiace! Proviamo un'altra volta. State attento a non sbagliarvi!

GENNARO E no, adesso è impossibile: un'altra punta e un altro tallone m'è rimasto. Uno, due e... tre! (Si solleva in piedi, sorretto da Carlo, ondeggia sulla punta e sul tallone) Non mi lasciate, per carità!

CARLO State tranquillo.

GENNARO Tutt'è prendere l'avvio. Dove dobbiamo andare?

CARLO (indica a sinistra) Da qua.

GENNARO (fa un goffo mezzo giro, e si avvia verso sinistra, saltellando su una punta e su un tallone) Oh, hop! Oh, hop! Oh, hop! È andata, è andata... (Esce con Carlo da sinistra). MATILDE Pover'uomo, fa proprio pena!

BICE (scoppia a ridere) Che tipo!

MATILDE Sta in quello stato, e tu ridi!

Bice va in giardino, ridendo.

ASSUNTA (entra dalla comune) Permesso? In anticamera c'è un signore che vuole parlare con voi.

MATILDE E chi è?

ASSUNTA Mi ha dato la carta da visita. (Porge la carta, poggiata su un piccolo vassoio d'argento, a Matilde).

MATILDE (legge il biglietto) E chi è, io non lo conosco. Ma vuo­le parlare proprio con me?

ASSUNTA Si, anzii ha detto: «Di' alla signora che mi deve riceve­re assolutamente, perché devo parlarle di cose urgenti che ri­guardano sua figlia Bice».

MATILDE (preoccupata) Mia figlia? E che sarà? Fallo entrare.

Assunta esce a destra. Matilde guarda verso la comune impa­ziente. Pausa.

ASSUNTA (da destra) Accomodatevi. Ecco la signora.

Alberto entra, Assunta esce.

ALBERTO (solennemente) La signora Matilde Bozzi? Mi trovo proprio alla sua presenza?

MATILDE Senza dubbio.

ALBERTO Ne ero sicuro. Fortunatissimo. Signora, mi perdonere­te se vengo a disturbarvi, ma il movente è grave, è urgente­

MATILDE E Voi mi spaventate... Accomodatevi, prego.

ALBERTO (siede) Grazie. Signora, capisco che quello che vengo a rivelarvi è grave, ma io vi prego di affrontare il colpo con forza d'animo.

MATILDE Insomma, di che si tratta? La cameriera mi ha detto che rni dovete parlare di mia figlia... E allora parlate, ve ne prego.

ALBERTO Signora, io vi dirò tutto, ma promettetemi d'essere calma.

MATILDE Ma si, ve lo prometto.

ALBERTO Mi raccomando, signora... Il cuore è forte?

ILDr. Sí... ma perché?

ALBERTO Vengo ad annunziarvi che per merito di vostra figlia Bice, tra non molto voi proverete la suprema gioia di essere chiamata nonna!

MATILDE Lo so.

ALBERTO Nonna! 

MATILDE Lo so.

ALBERTO Lo sapete?

MATILDE Sí.

ALBERTO E sapete tutto?

MATILDE Ma... tutto, che?

ALBERTO Signora, voi non sapete il nome del padre della creatu­ra che dovrà nascere.

MATILDE Ma voi che dite? Lo so chi è il padre. ALBERTO Sapete chi è il padre?

MATILDE E mi pare!

ALBERTO Allora mi conoscete?

MATILDE Come sarebbe a dire?

ALBERTO Signora, sono io il padre del vostro futuro nipote. Vo­stra figlia è la mia amante da tre mesi. Io sono un galantuomo e non mancherò al mio dovere. Ho l'onore di chiedervi la mano di vostra figlia Bice.

MATILDE Signore, mia figlia è sposata!

ALBERTO Sposata! (Ride) Ma forse voi non sapete niente. Scrive­te a vostra sorella Margherita in Calabria.

MATILDE Vedete che c'è uno sbaglio? Io in Calabria non ho parenti.

ALBERTO Allora a zia Marianna...

MATILDE Ma quale zia Marianna...?

ALBERTO A zia Maria...

MATILDE Io non ho sorelle.

ALBERTO Ricordatevi bene.

MATILDE Come, non mi ricordo la mia famiglia? ALBERTO Signora, io vi posso garantire... MATILDE (interrompendolo) Basta signore, uscite! ALBERTO Ma io...

MATILDE Uscite ...

Alberto si avvia verso la porta. Dal fondo entra Bice con un fascio di rose fresche.

BICE (va verso la madre, senza vedere Alberto) Mamma, queste rose le ho colte per te!

ALBERTO (vede la ragazza, è tutto contento) Non mi ero ingannato! È Bice!

Bice, nel vedere Alberto, rimane di sasso.

MATILDE Come?

ALBERTO Bice, Bice, perdonami! Sí, è vero, tu mi avevi proibito di presentarmi qua, ma io mi sono informato e sono venuto. (Carlo entra dalla prima a sinistra, si nasconde e rimane in ascol­to). L'ho detto a tua madre, che da tre mesi sono il tuo amante, che ci vogliamo bene e ti voglio sposare. Lei mi ha detto che sei sposata, ma non è vero, non può essere vero... Perché mi avre­sti detto una bugia? Dimmi che non è vero, dimmi che mi vuoi bene quanto io te ne voglio!

CARLO (scagliandosi contro Alberto) Ah, miserabile!

MATILDE (trattenendolo) Per carità!

Alberto è rimasto intontito: la verità è stata un vero colpo per lui.

CARLO (a Bice) Conosci quell'uomo? È vero quanto ha detto? (Pausa, durante la quale Bice si torce le mani disperata). Sí, o no? Vuoi parlare?

MATILDE (supplichevole) Don Carlo...

CARLO (a Matilde) Vi prego... (A Bice) E cosí, non rispondi? Allora è vero? Se taci, confessi... Ma parla, per Dio!

BICE Io non lo conosco... Non l'ho mai visto... Te lo giuro!

CARLO (ad Alberto) Allora, signore, mi spiegherete il motivo di questa vostra visita... Ho il diritto di domandarvi spiegazioni!

ALBERTO (improvvisamente calmo) Ma io non ho nessuna colpa se i1 moto perpetuo non è un fatto compiuto...

Tutti lo guardano meravigliati.

CARLO Come...?

ALBERTO …e poi, abbiate compassione di questo povero perse­guitato dalla sorte! Figuratevi che l'alfabeto, d'accordo con i quattro punti cardinali, mi ha rubato il progetto di una mia invenzione... Il parafulmine ad aria compressa... Sarebbe stata la mia ricchezza! Voi non mi volete accordare la mano di vostra moglie? È giusto, lei deve fare il suo dovere di padre onesto... Ma io mi rivolgo alla sorella di Carnevale (si rivolge a Matilde) per ricevere l'onore di porgerle i saluti di Muzio Scevola, diretto­re generale della Rinascente, nonché segretario e amministra­tore di Giuseppe Garibaldi, discendente diretto del Duomo di Milano! (Fa qualche passo di danza, accompagnandosi con un motivo canterellato sotto voce) La llà ra llà là...

CARLO Ma è pazzo!

BICE È pazzo!

MATILDE È pazzo!

CARLO È pazzo, non c'è dubbio!

ALBERTO (rinfrancato, canta piú forte e saltella per la stanza) La llà ra llà la... La llà ra llà là...

MATILDE Meno male, che sollievo!

CARLO Povera Bice, ti ho maltrattata ingiustamente, ti chiedo scusa...

ALBERTO (girandosi all'improvviso verso Carlo) Ma sí, non mi inganno, è lui! Vi riconosco perfettamente... (Si avvicina, si inginocchia, gli bacia la mano) Voi, la domenica mattina, dite la messa nella parrocchia di San Gaetano! (Si rialza, si rivolge a Matilde) Signora, dite la verità: sono brutto, io?

MATILDE (impaurita) No...

ALBERTO No? Come no! Puoi negare che sei stata la mia amante per tre mesi? (Dietro le spalle di Carlo, si rivolge a Bice) Per tre mesi, sei stata la mia amante, per tre mesi! (Appena Carlo si gira, ricomincia a ballare) La llà ra llà...

BILE Ecco, cosí ha fatto pure con me... Non si è sicuri neanche in casa propria!

CARLO Voialtre donne andatevene incamera da pranzo. Resterò io per sorvegliarlo. Telefonate in Questura.

BICE Ho paura per te...

CARLO Non temere, amore, sarò prudente.

Bice esce.

MATILDE Statevi attento. Io telefono subito in Questura. (Esce dietro Bice, da sinistra).

ALBERTO (a Carlo) Prego, accomodatevi.

CARLO Se me ne date il permesso...

ALBERTO Ma vi pare, senza cerimonie. (Carlo siede). Quanto sei bella! Sembri una stella... Che bei capelli... (Carezza la testa di Carlo) Che seno...

CARLO Calma, calma...

ALBERTO Tu sei stata la mia amante per tre mesi. Lo puoi negare?

CARLO Ma io non lo nego affatto.

ALBERTO Io ti sposerò... Vivremo dei giorni felici. Al nostro matrimonio inviteremo gatti, cani, conigli, porci, caproni... tutti degni di te... La llà ra llà la...

CARLO Sicuro, sicuro!

GENNARO (entra da sinistra, con i piedi fasciati vistosamen­te) Voi siete un grande medico...

CARLO Come vi sentite? (Lo aiuta a sedersi al tavolo di sinistra).

Alberto, vedendo Gennaro, rimane turbato, si ritrae in un ango­lo per decidere cosa è meglio fare; Carlo intanto siede anche lui al tavolo dove è seduto Gennaro.

GENNARO Meglio, meglio. Io vi devo fare una reclame straordina­ria... Adesso posso appoggiare i piedi a terra.

CARLO Mi raccomando di non togliere la fasciatura prima che siano trascorsi quindici giorni.

GENNARO No, e chi 1a tocca? (Rabbrividisce) Se potessi avere la giacca... comincio a sentire un poco di freddo... Vedrete che mi scoppia la febbre.

CARLO Ma no! Adesso vi faccio portare la giacca, e il freddo vi passerà. (Senza alzare la voce) Assunta!

GENNARO (lo guarda meravigliato, guarda sotto il tavolo) Ma que­ sta Assunta dove sta, sotto al tavolo?

CARLO Ma no. In guardaroba, dopo il corridoio, c'è una porta, e oltre quella c'è Assunta.
GENNARO E allora chiamatela...

CARLO L'ho chiamata: Assunta! (Ha parlato a voce assai bassa).

GENNARO (urlando) Assunta!

La ragazza entra da destra, portando in mano la giacca. Duran­te questo tempo Alberto avrà cercato di attirare l'attenzione di Gennaro, senza riuscirvi.

CARLO Eccola qua.

GENNARO Perché ha sentito a me! Brava, figlia mia! È venuta bene?

ASSUNTA (imbarazzata) Signo'... S'è bruciata!

GENNARO Hai bruciato 'a giacca? (Le strappa la giacca di mano, ne guarda la grossa macchia marrone sulla tasca) Guarda, guà!

ASSUNTA Non è stata colpa mia... è stata una disgrazia!

GENNARO La disgraziata sei tu...

ASSUNTA Hanno bussato alla porta...

GENNARO E certo, la giacca non era la tua, non era del tuo pa­drone...

ASSUNTA Sentite, io vi volevo aiutare, se poi è successa una di­sgrazia... io che ci posso fare? (Si avvia verso la porta).

GENNARO (fa un gesto come per indicare una persona di bassa statu­ra) Eccolo qua, lo vedi?

ASSUNTA (si volta) Chi è?

GENNARO Il marito tuo. Un nano ti devi sposare. Un nano, cu na capa tanta...

Assunta esce da destra, seconda.

ALBERTO (si avvicina a Gennaro) Che state dicendo? Che state dicendo?

GENNARO Oh, caro don Alberto, pure voi qua? Vuie avete vi­sto? 'A cammerera m'ha bruciata 'a giacca. (Se la mette).

ALBERTO Voi restate a pranzo con me.

CARLO (a Gennaro, sottovoce) Dite di si, dite di sí.

GENNARO (lo guarda stupito) E che, dicevo di no? A che ora?

ALBERTO Verso le quarantatre, quarantaquattro. GENNARO (stupito, ma di fronte al miraggio di un pranzo gratis non si arrende) Non potremmo fare una mezzoretta prima?

ALBERTO Domani ci compriamo il monumento di Carlo Poerio e ce lo facciamo fritto co' la mozzarella.

GENNARO E quello viene saporito, pieno di formaggio! (Alberto fa con il fazzoletto un paio di corna, e lo mette in testa a Carlo). Uh, signor Conte! V'ha messo le corna!

CARLO (a Gennaro) Secondatelo, è pazzo!

Alberto danza per la stanza.

GENNARO Ma che pazzo: io 'o conosco!

ALBERTO (si precipita verso Gennaro) Signore, voi siete stata la mia amante per tre mesi...

GENNARO Amico, io tengo 'o calzone! (Alberto riprende a ballare e canterellare, Gennaro lo osserva scuotendo la testa) Povero giovane... è pazzo... Sai che dispiacere la famiglia... La madre...

CARLO Povera donna!

Alberto, pieno di sollievo perché Gennaro non è riuscito a sma­scherarlo, va a sedere a destra.

GENNARO E sai chi anche ne avrà molto dispiacere? Una sua amante, una certa Bice.

ALBERTO (scattando in piedi, avanzando verso Gennaro) Stai zit­to, stai zitto, stai zitto!

GENNARO Stai zitto tu! Ohhh! (A Carlo) Ai pazzi bisogna dargli in testa se no se ne approfittano.

CARLO E voi come sapete di questa Bice? GENNARO Me l'ha detto lui. Dice che questa Bice...

ALBERTO Zitto! Zitto!

GENNARO Zitto tu! Questa Bice non gli ha mai voluto dire né il cognome, né dove stava di casa, ma don Alberto stamattina l'ha fatta seguire da un compagno mio, il quale ha appurato dove questa Bice stava di casa e gliel'ha detto. Forse per questo è uscito pazzo, per la troppa gioia.

CARLO Sicché stamattina stava bene, non dava segni di pazzia?

GENNARO Niente affatto, ragionava meglio di me e meglio di voi!

CARLO (guarda Alberto con intenzione) Ho capito.., ho capito... (Si toglie il fazzoletto dalla testa).

ALBERTO (si avvicina a Gennaro) Signore, mi hanno rubato il progetto di una mia invenzione, aiutatemi a rintracciare i la­dri... (Lo prende e lo fa correre per la stanza).

Carlo va verso la camera da pranzo, cerca di vedere se il Delega­to sta arrivando.

GENNARO I piedi, i piedi! Aiuto! Sant'Antuono, protettore d' 'o ffuoco. Signor Conte, signor Conte!

CARLO Basta! (A Gennaro) Riposatevi un poco. (Gennaro sie­de). Il signor Alberto De Stefano si calmerà tra poco, quando arriverà il Delegato, con le guardie, per trasportarlo in manico­mio. Perché voglio che sia trasportato in manicomio...

GENNARO È meglio, questo è un pazzo pericoloso! (Si sventola i piedi con il ventaglio).

ASSUNTA (da destra, seconda, introducendo Lampetti e Di Genna­ro e un agente) Accomodatevi. (Esce).

Lampetti entra, si guarda in giro: vede Gennaro che si allonta­na da lui, sventolandosi i piedi col ventaglio, lo segue per qual­che passo; poi si volta a guardare il Conte che fa movimenti esagerati per indicargli Alberto e fargli capire che quello è il pazzo; poi guarda Alberto che cammina avanti e dietro, a de­stra, con una mano nella giacca, come Napoleone.

LAMPETTI Neh, ma chi è 'o pazzo 'e chisti tre?

CARLO Eccolo là. (Indica Alberto).

LAMPETTI È un vostro parente?

CARLO No.

LAMPETTI Perché lo ricevete in casa vostra?

CARLO Non lo ricevo, si è intromesso da sé. LAMPETTI Come sapete che è pazzo?

CARLO Non ragiona.

LAMETTI Questa non sarebbe una prova evidente. Noi conti­nuamente ci troviamo di fronte a gente che non ragiona, e pure non sono pazzi.

CARLO Dice delle cose inconcludenti.

GENNARO (scoppia in una gran risata) Ah, ah, LAMPETTI Chi è, chi ha riso?

GENNARO lo!

LAMPETTI Perché? Perché ridete?

GENNARO Mi è piaciuta l'ironia...

LAMPETTI L'ironia...?

GENNARO La satira...

LAMPETTI La satira?

GENNARO L'allusione...

LAMPETTI (minaccioso) L'allusione...?

GENNARO Io na risata maggio fatta!

LAMPETTI (a Carlo) Dunque?

CARLO Dice delle cose inconcludenti...

LAMPETTI Va bene, lasciate fare a me. (Si volta verso Alberto che gli sorride invitante, accennando a qualche passo di danza) Dunque, signore, perché non usciamo di qua? Vi accompagnerò io stesso a casa vostra. In me troverete un amico, un fratello. ALBERTO Grazie, signore... Compatitemi! Io sono molto piú disgraziato di voi...

LAMPETTI Grazie tante!

ALBERTO Figuratevi che l'alfabeto, d'accordo con i quattro punti cardinali, mi hanno rubato il progetto di una mia invenzione...

LAMPETTI Lo ritroverò io, e vi prometto di darvi le più ampie soddisfazioni. Ma per ora seguitemi.

ALBERTO Sí, vi seguirò, voi siete molto buono... Ma prima vor­rei dirvi due parole da solo a solo... Mandate via questi monaci, che non possono sentire le mie poesie. (Indica Gennaro con gesto melodrammatico) Quella monaca... cacciatela via! LAMPETTI Io vi accontento, ma poi mi seguirete? ALBERTO Si, vi seguirò!

LAMPETTI (a Carlo) Lasciatemi solo con il signore!

CARLO Ma...

LAMPETTI È meglio secondarlo. Andate.

CARLO State attento!

LAMPETTI Non vi preoccupate, ci sono pure le guardie.

Carlo va verso sinistra.

GENNARO (attraversando la scena verso sinistra) Anche io me ne vado... Debbo andare in convento... (Ha raggiunto Carlo) Si­gnor Conte, vi ringrazio di tutto quanto... Qualunque cosa...

CARLO Niente, niente, per carità. Arrivederci. (Esce prima a si­nistra).

ALBERTO (a Gennaro che si avvia verso destra per raggiungere la comune) No, voi potete restare.

GENNARO No... Io devo andare al convento. Oggi dobbiamo fare i dolci...

ALBERTO Don Gennaro, restate: ho bisogno di voi.

GENNARO (rassegnato) E va bene. (Va a sedere a destra) Restano anche le altre suore? (Indica gli agenti) La Madre Superiora… ­(Indica Lampetti).

ALBERTO Grazie. (Fa per avvicinarsi a Lampetti, che si ritira a sinistra, precipitosamente).

LAMPETTI Neh, neh: non vi avvicinate, se no vi faccio attaccare sa’?

ALBERTO Ma io non sono pazzo. Ho fatto rimanere don Gen­naro per fargli fare da testimone (Si avvicina a Gennaro, lo guarda con rimprovero) Quella tale Bice è la moglie del Conte.

GENNARO  (per secondarlo) Guarda un po'...

ALBERTO Voi mi avete rovinato! Avete raccontato tutto al Con­te ..

GENNARO (interessato) Perché, quando io parlavo col Conte, voi avete capito quello che dicevo?

ALBERTO Tutto!

GENNARO  E che dicevo?

ALBERTO Che questa Bice era la mia amante, che si avvolgeva di mistero... che l'ho fatta seguire...

GENNARO Allora non siete pazzo?

ALBERTO Certo che no!

GENNARO Ah, che gioia. Infatti io volevo dire: ma come, don Alberto impazziva da un momento all'altro? Sicché, quella tale Bice, quella donna che vi faceva soffrire, tutto il romanzo che mi raccontaste quando arrivai qua... quella Bice è la moglie del Conte?

ALBERTO E già.

GENNARO (come colpito da una folgore) Ahhhhh! Allora vi ho inguaiato!

ALBERTO Completamente.

GENNARO E mi potevate fare un segno!

ALBERTO (esasperato) Ma ve ne ho fatto diecimila, di segni!

GENNARO Segni sbagliati, esagerati ... Che mi facevano convince­re ancora di piú che eravate pazzo... Ma adesso tutto si aggiuste­rà. Parlate con il delegato. Voi dovete uscire da questa situa­zione.

ALBERTO (si avvicina a Lampetti, il quale si scosta, sempre guardin­go) Accomodatevi. (Seggono entrambi, al centro della scena). Io mi sono dovuto fingere pazzo, per salvare l'onore della signo­ra Tolentano.

LAMPETTI (fingendosi convinto) Avete fatto bene.

ALBERTO Per tre mesi sono stato il suo amante, però non sapevo chi era. Saputo l'indirizzo, mi sono presentato a sua madre, dicendo: « Io sono un galantuomo e voglio sposare vostra figlia Bice.

GENNARO (divertito) Si voleva sposare la moglie del Conte!

ALBERTO Il Conte, il marito, ha sentito tutto, e voleva soddisfazione da me. Fortunatamente ho avuto un lampo di genio e mi sono messo a dire cose strampalate e mi sono fatto credere pazzo. Questa è la verità.

LAMPETTI Eh, eh!

L'esclamazione non riesce a dissimulare il fatto che egli non ha creduto una parola di quanto ha detto Alberto.

ALBERTO È la verità! Don Gennaro, parlate voi.

GENNARO Ah, le donne, le donne... (Agli agenti) Guardate se viene il Conte. Non vorrei dargli un dispiacere... È stato cosí generoso con me... (In tono intimo) Io tengo una buatta... una di quelle scatole di latta per la conserva. Me le dà un salumiere a Napoli, sopra a Magnocavallo.

ALBERTO Don Gennaro, voi dovete parlare di me, non di voi.

GENNARO E di voi sto parlando. Voglio fare sapere al Signor Dele­gato chi sono e come mi trovo qua. Io vado alle origini... (A Lampetti) Noi siamo artisti, per quel poco che si guadagna, non possiamo andare al ristorante... Avevamo messo una cal­daia per fare i bucatini, e l'acqua bolliva. A un certo punto ho dovuto correre... L'ho detto pure al Conte che è troppo lungo a raccontare tutto il fatto... Insomma, a Bagnoli c'è stata la corsa...

LAMPETTI (interessato) E chi ha vinto, chi ha vinto?

GENNARO Nessuno... Non era una competizione sportiva. È stata una corsa privata. Correvo io. Lo scemo...

ALBERTO (interrompendolo) Sí, perché lo scemo, che poi è il fratello di una donna che sta con lui (indica Gennaro) e che è incinta... quando ha parlato con me, avendo io creduto che la sorella fosse la moglie del Conte, che pure è incinta...

GENNARO(interrompendo) Già, perché questa è una storia danna­ta... e si ingarbuglia sempre di piú, perché ci sono due figli, due madri e tre padri... Durante la corsa, non ho visto la fornacel­la... e tutta l'acqua bollente m'è caduta sui piedi. E pensare che mi ero messo le pantofole per stare piú comodo... La disgrazia ha voluto che fosse il giorno che toccavano a me, perché ne abbiamo un solo paio, in compagnia, e facciamo a turno...

ALBERTO (impaziente) Don Gennaro!

GENNARO Un momento. Il Conte mi ha trovato sul portone del­l'albergo, si è fatto largo tra la folla, e mi ha dato la sua carta da visita. Ecco perché mi trovo qua e posso testimoniare. Il signo­re (indica Alberto) non è pazzo. È stato costretto a fingersi pazzo per salvare l’onore della signora Talentano.

LAMPETTI Sicché    l’amante vostra è proprio la moglie del Conte?

ALBERTO Esattamente.

LAMPETTI Ho capito, ho capito tutto... Allora voi vi siete trova­to in una brutta posizione...

ALBERTO Lasciatemi stare...! Sentite, adesso facciamo cosí: io continuo a fingermi pazzo, anche per dare soddisfazione al Con­te, povero disgraziato... Davanti a lui, voi fingete di arrestar­mi, poi, quando arriviamo in strada, ognuno se ne va per i fat­ti suoi: io per i miei, voi per i vostri, e don Gennaro per i suoi.

GENNARO Io pure avvaloro, dico: «Io lo conosco, è scappato da una clinica... la famiglia è disperata... Oh, povero giovane, oh povero giovane...»

ALBERTO (a Lampetti) Si può fare questo? LAMPETTI Certamente.

ALBERTO (si avvicina a Gennaro, mentre Lampetti raggiunge gli agenti e impartisce loro ordini sottovoce) Meno male che ho trovato la perla dei funzionari.

GENNARO Siete stato fortunato.

LAMPETTI (mentre gli agenti si avvicinano ad Alberto e lo affer­rano per le braccia) Portatelo via.

ALBERTO Ma adesso è inutile fingere: noi sappiamo la verità. Se ne parla quando viene il Conte.

LAMPETTI (con gentilezza esagerata) Va bene, va bene, ma per ora seguitemi.

ALBERTO Ma allora non avete creduto a quello che vi ho detto? Don Gennaro, parlate voi, diteglielo!

GENNARO Io tengo una buatta... per quel poco che si guadagna... perciò sto qua e posso testimoniare... Non l'arrestate, commet­tereste un errore: il signore non è pazzo.

LAMPETTI Ma sí, io condivido la vostra idea, non l'arresto. Lo porterò in una bella casa, dove ci sono tanti buoni amici suoi... Ci sta pure un bel giardino, starete bene, vedrete.

ALBERTO Ma voi parlate del manicomio! Insomma, finiamola! lo non sono pazzo. Non mi fate perdere la bussola. Basta!

GENNARO E ha ragione, scusate. Voi non volete credere manco a me! E che sangue d' 'a marina!

LAMPETTI Guè, e che d' è? Basta! Non vi permettete di usare queste espressioni in mia presenza!

GENNARO Ma vuol dire... come se fosse: e che diavolo!

LAMPETTI E nemmeno che diavolo. Io faccio il mio dovere. Lo so che voi gli date ragione per secondarlo, ma ora potreste smetterla!

CARLO (sopraggiungendo da sinistra, seguito da Matilde e da Bice) Che succede qui?

LAMPETTI Io n'ho visti di pazzi, ma questo mett' 'a coppa! Niett, tedimeno voleva darmi a intendere che è stato l'amante di vostra moglie e che ora per salvarle l'onore, è stato costretto a simulare la pazzia. Il signore poi, (indica Gennaro) per secondarlo, pecché 'e pazze s'hann' 'a secondà sempre, diceva 'o stesso appresso a lui, ed ha insistito al punto da farmi entrare in dub­bio. Ma ora è inutile secondarlo: ci stanno gli agenti, e non c'è pericolo. È pazzo sí o no?

CARLO Siate franco, parlate.

ALBERTO Parlate!

MATILDE Insomma, a chi aspettate?

LAMPETTI Parlate!

GENNARO (indietreggiando) Eh! Eh! Eh! Non gridate! A me mi fanno male 'e piedi!

LAMPETTI E che, dovete parlare coi piedi?

GENNARO E voi gridate... lo spostamento d'aria non mi fa certo bene...

LAMPETTI Ma insomma, volete parlare?

GENNARO E parlo, sí... Lo conosco! È il signor Alberto De Stefa­no, lui ci ha fatto venire a lavorare a Bagnoli, per fare delle recite... (Bice comincia a fare cenni disperati all'indirizzo di Gennaro, cercando di fargli capire che una sua risposta negati­va la rovinerebbe) ...e vi posso assicurare... vi posso giurare sul mio onore... (Resta a metà con la frase, avendo finalmente notato i segni di Bice) Guardate che situazione!

LAMPETTI Sentite, se non parlate, vi faccio arrestare.

GENNARO A me? Sarebbe bello che fra tanta gente che dovrebbe essere arrestata, fossi arrestato proprio io!

ALBERTO (trattenuto dagli agenti) Ma volete parlare? Siete pro­prio un bambino!

GENNARO Io? Io un bambino...? Il bambino siete voi, e pure viziato... Perché quando uno si mette in una situazione... pren­de certe responsabilità... sarebbe bello poi che uno dice... Eh, no! Le deve sostenere fino in fondo... E si capisce... perché, scusate, allora vi volete prendere solo lo spasso... Eh! Adesso decido io, e voi mi ringrazierete. (Agli agenti) Tenetelo forte. (A Lampetti) È pazzo! La famiglia ha speso un sacco di soldi, ma non è ha ricavato  mai niente! E’ pazzo!

LAMPETTI (agli agenti) Conducetelo via!

Gli agenti eseguono l'ordine, mentre Alberto si divincola e pro­testa ad alta voce. Lampetti si inchina al Conte, ed esce anche lui da sinistra. Gennaro saluta il Conte, ed esce, continuando ad inchinarsi al Conte, fino a varcare la soglia.

SIPARIO

ATTO TERZO

L'ufficio di Pubblica Sicurezza. Nel fondo a destra la comune, a sinistra altra porta. Finestra in prima a destra. In fondo, nel mezzo, una libreria. In primo piano, a sinistra, una scrivania con libri, carte, telefono e un lume da tavolo. Quattro sedie di Vienna. La seconda a destra dà negli uffici.

CARLO (dal fondo) Permesso?

DI GENNARO (che sta riordinando la scrivania). Chi è? Avanti!

CARLO Scusate, il Delegato non c'è? DI GENNARO Nun è venuto ancora. Tornate piú tardi.

CARLO Ma forse il favore che devo chiedere a lui, posso ottener­lo anche da voi. Vorrei parlare con l'arrestato Alberto De Stefano.

DI GENNARO 'O pazzo ca fuie arrestato aiere?

CARLO Precisamente.

DI GENNARO Ma senz'ordine nun ce putite parlà. Chi s' 'a piglia 'a responsabilità?

CARLO Ma io sono medico, il suo medico personale, venuto appo­sta per osservarlo.

DI GENNARO Aspettate un momento. (Esce. Carlo passeggia su e giú, mentre Di Gennaro dà ordini a due agenti. Di Gennaro torna e si avvicina a Carlo) 'O pazzo sta venendo. Fortunata­mente sta calmo. Voi siete medico? Bè, a mme chillo nun me pare pazzo.

CARLO Sembra, ma lo è.

ALBERTO (pallidissimo, entra dal fondo a sinistra, seguito dai due agenti, ai quali si rivolge) Non spingete, non spingete perché non è il caso. Io sono un galantuomo. (A Di Gennaro) E anche voi, non spingete!

DI GENNARO E chi vi tocca!

ALBERTO Io sono una persona come si deve... (Scorge Carlo) La llà ra llà là, la llà ra llà là...

DI GENNARO (uscendo con i due agenti) Io sto fuori.

CARLO Gentilissimo don Alberto, prego, accomodatevi. (Seggono). Posso offrirvi una sigaretta? (Offre una sigaretta, ne pren­de una per sé, le accende entrambe) Prego. Signor Alberto, ascoltatemi. Ormai dovreste aver capito che non torna a vostro vantaggio simulare ancora la pazzia con me. Io poi, consideran­do che il vostro compito è tanto difficile quanto faticoso, vi darò la prova dalla quale vi apparirà chiaramente la inutilità di questa vostra finzione.

ALBERTO La llà ra llà là, la llè rallà...

CARLO Mia moglie mi ha confessato tutto. (Alberto ha una rea­zione violenta). Che ne dite?

ALBERTO (dopo una breve pausa) Sono a vostra disposizione.

CARLO Ma no, no, giovanotto! Non ho nessuna intenzione di dare spunti per tragedie... Date retta a me, sono piú vecchio di voi, e mi permetto credere che accetterete un mio consiglio. (Pausa). Giurandovi di non avere rancore verso di voi, non sarei sincero. Per i fatti, e come si sono svolti... troverete giu­sto che io abbia molta, molta antipatia per voi...

ALBERTO Figuratevi, voi mi state proprio qui, sullo stomaco!

CARLO Giusto, ma questa antipatia è accoppiata a una grande riconoscenza.

ALBERTO Come...?

CARLO Certo. Voi avete macchiato il mio nome, ma dopo vi siete fatto in quattro per salvarlo.

ALBERTO Non capisco...

CARLO Simulando la pazzia. Oggi tutti vi credono pazzo, dun­que il mio onore è salvo. Nonostante tutto, mia moglie resterà sempre presso di me...

ALBERTO Coraggio, signor Conte...

CARLO ... Grazie alla vostra geniale trovata, lo scandalo non è avvenuto. Ed era quello soprattutto che mi spaventava. Voi non troverete onesta questa mia soluzione... Potreste però com­prenderne la necessità, occupando il posto che io occupo in società, e aggiungendo ai vostri altri vent'anni.

ALBERTO Anche trenta...

CARLO Signor Alberto, convincetevi: io riuscirei a spezzarvi in due... Ma non lo faccio. Crepo, prima di provocare uno scan­dalo.

ALBERTO E crepate!

CARLO Ora per evitarlo del tutto, c'è un unico mezzo che vi impongo: dovete rimanere pazzo, dovete farvi rinchiudere in manicomio senza ribellarvi, e senza cercare di giustificarvi, come tentaste di fare ieri, in casa mia, e per fortuna nessuno vi ha creduto.

ALBERTO Sicché, secondo voi, io dovrei rimanere pazzo per tutto il resto della mia vita?

CARLO Ma chi ha detto questo! Perché esagerate? Per qualche tempo, finché il fatto sbiadisce. Allora tutti crederanno in una guarigione, e...

ALBERTO Non posso accettare.

CARLO Non potete accettare?

ALBERTO No.

CARLO (con calma minacciosa) Signor Alberto De Stefano! Ilgiorno che riuscirete a convincere una sola persona che la vostra è stata una finzione, mi darete la prova dell'adulterio, ed io avrò tutto il diritto di tirarvi un colpo di rivoltella. Nell'uno o nell'altro modo, dovrò salvare il mio onore. (Fa per andare). ALBERTO Un momento...

CARLO Accettate le mie condizioni?

ALBERTO Ecco qua...

CARLO (calmo ma minaccioso) I miei rispetti... (Fa per andare)..

ALBERTO Sentite... Io direi...

CARLO Accettate?

ALBERTO (rassegnato) Accetto...

CARLO Benissimo! Tante grazie. Mi raccomando... Fra poco due guardie vi trasporteranno in manicomio... Non vi ribellare, sia­te docile. Siete un garbato giovanotto... Quasi quasi provo ri­morso ad avervi ingannato. Voglio essere sincero: non è vero che mia moglie ha confessato. E stato uno stratagemma per car­pirví la verità. Arrivederci, giovanotto. (Esce dal fondo).

ALBERTO Che carogna... che carogna...

GENNARO (entra da destra, scorge Alberto) Ah, don Alberto, state qua... Scusate, il Delegato non ci sta?

ALBERTO No, non c'è.

GENNARO Stiamo qua dentro da tre ore e mezzo, aspettando a lui... Permesso...

ALBERTO Un momento, un momento: mi dovete fare un pia­cere.

GENNARO Dite, dite!

ALBERTO Andatevene sotto a un tram!

GENNARO E questo ci manca...

ALBERTO Lo sapete che è successo? È venuto qua il Conte, e mi ha detto che adesso, per salvare l'onore della moglie, o mí faccio chiudere in manicomio per un paio di anni, o lui mi tira un colpo di rivoltella.

GENNARO Ah! E voi che avete scelto? Il manicomio, natural­mente,., Embè, tanto non ci sta via d'uscita... Là dentro starete bene; vi riposate, mangiate... Poi ci stanno tutti quei tipi stra­ni , vi distraete.

ALBERTO Ma andate all'inferno! Intanto io devo seguitare a fa­re il pazzo, se no quello mi spara.

GENNARO E lo fa, lo fa! Tiene il coltello dalla parte del manico.

ALBERTO Guardate che guaio! Come se non bastasse la nottata che ho passato in camera di sicurezza... Ma voi perché state qua?

GENNARO Ah, voi nun sapite niente? L'albergatore ce n'ha caccia­ti. Citando ha saputo che voi eravate uscito pazzo, voleva esse­re pagato da noi. Noi, come al solito, non tenevamo manco na lira.._ e allora isso c'ha fatto venì qua, accompagnati dalla came­riera - che sta di là coi compagni miei - e tiene l'ordine o di prendersi i soldi, o di farcelo imporre dal Delegato.

ALBERTO E va bene, questa è cosa da niente.

GENNARO Voi scherzate? L'albergatore ci ha sequestrato tutto, e se lo tiene in pegno fino al saldo del debito...

ALBERTO Roba di valore?

GENNARO Di valore mo’... Roba utile per noi... la buatta, i costu­mi, gli scenari, i piatti...

ALBERTO Va bene, quando viene il Delegato, pago io, cosí vi potete andare a ritirare la roba vostra.

DI GENNARO (entra dal fondo, in fretta. Ad Alberto) Neh, neh! Trasitevenne nata vota dinto: sta venendo 'o Cavaliere.

ALBERTO Ma io non ne posso piú di stare là dentro! Sia fatta la volontà del Cielo! Permettete, don Gennaro. (Si avvia verso il fondo, si volta a fissare Di Gennaro) E non spingete... (A Gen­naro) Qua non fanno altro che spingere... fanno di tutt'erba un fascio... (A Di Gennaro) Non mi toccate!

DI GENNARO (bonario) E chi ve tocca! (Alberto esce; Di Genna­ro si rivolge a Gennaro) E voi, chi siete? Che fate qua?

GENNARO Io sto aspettando di là con i miei compagni. Dobbia­mo essere mortificati dal Delegato per un conto che non pos­siamo pagare.

DI GENNARO E allora andate di là, aspettate e tra poco sarete chiamati.

GENNARO Siccome ci sta molta gente... e io sono infermo (indica i propri piedi vistosamente fasciati) ... vorrei la precedenza... Appena viene il Delegato, ci fate chiamare, quello ci mortifica e noi ce ne andiamo.

DI GENNARO Va bene.

GENNARO (si avvia verso destra, poi si volta) E non spingete!

DI GENNARO Ma chi vi sta toccando?

GENNARO No, perché qua sopra voi fate di tutt'erba un fascio (Esce da destra, mentre Di Gennaro esce dal fondo. Sulla so­glia si incontra con Lampetti che entra, seguito da Bice) Buongiorno, Cavaliere.

LAMPETTI Buongiorno. (Di Gennaro scompare, Lampetti posa cappello e bastone, va alla scrivania, seguito da Bice) Accomodatevi, signora. (Siedono l'uno di fronte all'altro). Dunque, voi sostenete che Alberto De Stefano non è pazzo?

BICE Lo posso provare.

LAMPETTI Badate, signora, io lo dico per voi: se le cose stanno come dite, vi accusate voi stessa.

BICE No, la colpa non è mia, e se mi ascolterete per cinque minuti, vi convincerete che il vero colpevole è mio marito.

LAMPETTI Come sarebbe a dire?

BICE Poi vedrete. Io come sono?

LAMPETTI E io che ne so?

BICE Sono bella, brutta... Non potete dare un giudizio?

LAMPETTI Siete una bella signora.

BICE Grazie. E quanti anni ho?

LAMPETTI E io che ne so?

BICE Ma press'a poco...

LAMPETTI Ventitre...

BICE Ventitre. Ma pure ventiquattro... E facciamo venticinque!

LAMPETTI Signo', fate voi!

BICE Vi pare possibile che debba essere tradita da mio marito? Guardate. Questa è tutta una corrispondenza amorosa tra mio marito e una signora sposata.

LAMPETTI Guè, guè... Nun ce pareva. Un uomo tanto serio!

BICE Io ho mancato, sissignore: ma perché? Per picca, per ripic­ca, per puntiglio!

LAMPETTI Ah, ecco! Per picca, per ripicca, per puntiglio! Signo­ra mia, io vi ho capito: voi vorreste con queste lettere contro­battere vostro marito. Ma il tradimento dell'uomo non giustifi­ca quello della donna. A me me pare nu poco forte. Del resto, sempre una cosa è, e se posso aggiusterò questa dolorosa faccenda.

BICE Mi raccomando.

LAMPETTI Ci penso io. Ed ora andate a casa, che vi terrò infor­mata io stesso.

BICE Grazie. Io mi sposai per essere una moglie onesta... Ma quando dopo un anno di matrimonio mi accorsi del tradimen­to quando vidi distrutto il mio sogno, diventai una vipera e decisi di fare lo stesso con uno qualunque, anche brutto, anche vecchio. Ebbi occasione di conoscere Alberto De Stefano, m'ac­corsi che era un simpatico giovane, allora pensai: «Meglio que­sto che mi piace pure! » Ed ecco il mio dramma! (Esce).

LAMPETTI All'anema d' 'o dramma! (Chiamando verso il fondo) Di Gennaro! Di Gennaro!

DI GENNARO (entra dal fondo) Comandate. LAMPETTI Fammi venire qua De Stefano, 'o pazzo. Poi mi porti il solito bicchiere di acqua e amarena. Gelata! Tengo una sete terribile.

DI GENNARO Va bene. A proposito, ci sta certa gente che vuole parlare con voi.

LAMPETTI E tu poi me lo dicevi domani! Chi sono?

DI GENNARO E chi 'e ssape? Vulite che 'e chiammo?

LAMPETTI Falli entrare un momento.

DI GENNARO E 'o pazzo non lo volete piú? LAMPETTI Dopo.

DI GENNARO (va alla porta di destra, la apre e chiama) Ehi, voi! Venite! (Esce dal fondo).

LAMPETTI Non ti scordare l'acqua...

NINETTA (dalla seconda a destra, seguita da Vincenzo) Serva...

LAMPETTI Venite avanti. Che c'è?

NINETTA (arrogante) Signo', qua mi manda il padrone dell'alber­go che sta a Bagnoli... Aiere venettero cierte muorte 'e fam­me...

VINCENZO Guè, tu bada come parli, sa'? NINETTA Perché, è bugia che vi morite di fame?

VINCENZO Tu sei una cameriera, e non ti devi permettere...

NINETTA Io mi permetto, perché 'o padrone 'ave ragione.

LAMPETT (si alza, li raggiunge in mezzo alla scena) Neh, neh! Chi ha ragione si vede dopo. (A Ninetta) Mo ricordate che stai nel mio ufficio... Non hai nessun diritto di insultare la gente in mia presenza.

Vincenzo siede alla scrivania.

DI GENNARO (entra dal fondo, va a posare il bicchiere di acqua e amarena sulla scrivania) Ecco servito.

LAMPETTI (a Ninetta che continua a sbraitare) Tu ti devi stare zitta!

VINCENZO (beve l'acqua e amarena) Grazie, tenevo na sete!

Di Gennaro è uscito dal fondo.

LAMPETTI (a Ninetta) Siamo intesi? Non si ripeta piú...! (A Vincenzino) Ha portato l'acqua, quello?

VINCENZO Si, si... grazie! Me so' consolato!

LAMPETTI Ve la siete bevuta voi...? Quella era mia. Alzatevi, alzatevi!

VINCENZO (si alza) Sono mortificato...

LAMPETTI Di Gennaro...

DI GENNARO (entra dal fondo) Comandate.

LAMPETTI Portame nato bicchiere d'acqua e amarena!

DI GENNARO Subito! (Esce).

LAMPETTI Dunque, di che si tratta?

NINETTA Aiere venettero ncopp' all'albergo e se pigliaieno tre camere.

Entra Attilio dalla destra.

LAMPETTI (ad Attilio) Voi chi siete?

VINCENZO È un compagno nostro. (Ad Attilio) E don Gennaro?

ATTILIO Mo viene. S'era allentata la fascia vicino al piede, se la sta aggiustando.

LAMPETTI Dunque?

VINCENZO Noi siamo artisti. Un certo Alberto De Stefano ci ha fatto andare a Bagnoli a fare certe recite, e ci garantì per il pagamento delle stanze dell'albergo... (A Ninetta) Lo puoi ne­gare?

NINETTA Ma quello è asciuto pazzo...

VINCENZO E che colpa è 'a nostra? Vuoi vedere che l'abbiamo fatto uscire pazzo noi?

NINETTA E se fòsseve galantuomini, avarrisseve pavà vuie!

LAMPETTI (si alza, raggiunge il gruppo in mezzo al palcoscenico) Neh, diciteme na cosa: io qua che ci sto a fare? (Attilio prote­stando per i modi villani di Ninetta va a sedere alla scrivania. Dal fondo entra Di Gennaro col secondo bicchiere d'acqua). Mo ve ne caccio a tutti quanti, e felice notte!

DI GENNARO (posa il bicchiere sulla scrivania) Ecco servito.

ATTILIO Troppo buono. (Beve).

LAMPETTI (si volta, vede Attilio che posa il bicchiere vuoto sulla scrivania) E questo è il secondo!

ATTILIO (stupito) No, è il primo!

LAMPETTI (esasperato) Alzatevi!

ATTILIO (si alza) E che maniera è questa?

LAMPETTI Ma tenete tutti quanti sete?

ATTILIO Eh... fame, sete...

LAMPETTI Di Gennaro! (Entra Di Gennaro). Portami un altro bicchiere d'acqua!

DI GENNARO N'ato...? E voi vi fate na panza d'acqua...

LAMPETTI Perché, devo rendere conto a te?

DI GENNARO Nossignore, mo vi servo. (Esce).

LAMPETTI Embè, si ve bevite st’ato bicchiere d'acqua, me ma­gno 'a capa 'e uno 'e vuie. Dunque, mettiamo a posto le cose con calma. Non mi fate perdere 'a pacienza!

GENNARO (entra da destra) Servo...!

LAMPETTI Chi è?

VINCENZO È un altro compagno nostro.

LAMPETTI Ma voi vi presentate a uno alla volta?

GENNARO Adesso siamo finiti.

LAMPETTI Ma io vi conosco! Vi ho visto ieri in casa Tolentano. Vi ho riconosciuto dai piedi.

GENNARO Mi fa piacere che ve ne ricordate.

LAMPETTI Sedetevi, sedetevi...

GENNARO Sí, perché non mi reggo in piedi. (Avviandosi alla scri­vania, passa davanti a Ninuccia, e si rivolge a lei) Hai visto? Il signor Delegato ha considerazione per noi... Ci vuole bene... Ci stima. Siamo amici. (Siede alla scrivania).

LAMPETTI Che amici e amici! Non esageriamo.

GENNARO (si alza di scatto e si rivolge a Lampetti con rispetto esagerato) Per carità, signor Delegato, non ho pensato di of­fendervi...

LAMPETTI E io mi facevo offendere?

GENNARO Certo! Tutto il rispetto. Forse la parola ha tradito il pensiero... Volevo dire che io mi sento amico, devoto e servizie­vole. Potete disporre di me per qualunque cosa.

LAMPETTI Grazie, non c'è bisogno.

GENNARO Perché si parla di voi, il vostro nome è su tutte le bocche. Siete conosciuto come persona integgerríma... indulgente con i deboli e rigido con i prepotenti... La mia vita ai vostri piedi, per qualunque missione...

LAMPETTI Non esagerate. Come siete servile. Sedetevi.

GENNARO (siede) Grazie!

LAMPETTI Voi avevate ragione di sostenere che Alberto De Stefano non è pazzo. La moglie del Conte è stata qua, poco fa, e ha portato delle lettere del marito, che so, tutta una corrispon­denza equivoca... e io spero, con questa, di costringere il Conte a venire a miti consigli.

GENNARO Non ho capito una parola.

LAMPETTI Ho parlato tedesco!

GENNARO No, avete parlato chiarissimo! Voi avete una pronun­zia perfetta. Volevo dire che nel discorso che avete fatto mi è sfuggita una parola. E dev'essere una parola chiave, perché senza quella parola non si capisce niente.

LAMPETTI Bisognerebbe sapere qual è la parola che vi è sfug­gita…

GENNARO Dovreste ricominciare da capo. Vogliamo fare da quan­do sono entrato?

LAMPETTI Scherziamo! È tardi, mi metto a perdere tempo con voi!

GENNARO No, perché a volte facendo le stesse azioni, si ripetono pure le stesse parole.

LAMPETTI Ma io mi ricordo. Voi vi siete seduto... e io ho detto...

GENNARO Vi siete offeso che io ho detto: «Siamo amici».

LAMPETTI Sí, questo prima.

GENNARO E poi io ho detto... Darei la mia vita per voi...

LAMPETTI Sí, mi ricordo.

GENNARO Che poi voi avete risposto: « Se avete bisogno di qual­che agevolazione, venite da me»...

LAMPETTI No, questo non l'ho detto proprio. Ah, ecco! Ho det­to che la moglie del Conte è stata qua poco fa e che ha portato delle lettere del marito, tutta una corrispondenza equivoca...

GENNARO (interrompendolo) Eccola qua! Questa è la parola: equivoca. Io avevo capito equina. Adesso è tutto chiaro. Il Conte aveva un'amante. Evidentemente una signora maritata. Allora non può parlare... Tiene la saraca in tasca... Sicché don Alberto sarà rilasciato?

NINETTA Si può sapere io come mi debbo regolare?

LAMPETTI Va bene, ho capito tutto. Se Alberto De Stefano si è garantito per loro, non vi preoccupate: fra mezz'ora verrà a pagare il suo debito.

VINCENZO Mo mme pare che 'a puo' fini 'e sbraità!

NINETTA Io voglio sbraità fin' a dimane! Aggi' 'a da' cunto a te?

LAMPETTI (si alza e si avvicina al gruppo in piedi) Mo comincia­te un'altra volta? Che educazione è questa?

DI GENNARO (entra e va a posare il terzo bicchiere d'acqua sulla scrivania) Ecco servito! (Esce dal fondo).

GENNARO Grazie. (Fa per bere).

LAMPETTI (se ne accorge ed urla per impedirgli di bere l'acqua) Guè!

GENNARO (trasale, il bicchiere gli cade di mano e va a finire nel cappello che egli teneva sulle ginocchia) Eh!

LAMPETTI Questo è il terzo bicchiere. (Si rivolge alla gente in piedi e spingendoli verso la porta di destra) Via, via, via! (Tor­nando verso Gennaro) Non sono stato cristiano di bermi un

bicchiere d'acqua!

GENNARO (che intanto ha versato il liquido dal cappello nel bicchie­re, glielo porge) Accomodatevi, bevete!

LAMPETTI (furibondo) Ve la bevete voi, questa porcheria.

GENNARO Il cappello è pulito, Delegato. Io mi faccio lo «sham­poo» ogni mattina!

LAMPETTI Andate, andate! Toglietevi dai piedi.

GENNARO (si alza, si avvia verso destra) Per un poco d'acqua e sciroppo... m'avete rovinato un cappello... Io mo se fossi uno di quei tipi cavillosi... Mah!

LAMPETTI Che fareste?

GENNARO No, dico... se fossi uno di quei tipi che pescano nel torbido...

LAMPETTI Che volete pescare? Che sono queste minacce?

GENNARO Per carità, Cavaliere, dormite tranquillo!

LAMPETTI Voi non dormirete tranquillo se non mi dite dove volete arrivare... Che volete?

GENNARO Voglio il cappello nuovo. (Esce da destra spinto dal Delegato).

LAMPETTI Ma iatevenne... 'O cappiello novo! (Chiamando ver­so il fondo) Di Gennaro! Di Gennaro!

Di GENNARO (entra) Vulite l'altra acqua? LAMPETTI No, no, m'è passata 'a sete.

DI GENNARO E lo credo: co' tre bicchieri d'acqua!

LAMPETTI Sono affari che non ti riguardano. Stai al posto tuo. Fammi venire Alberto De Stefano.

DI GENNARO Subito. (Esce dal fondo, mentre il Delegato mette un po' d'ordine sulla scrivania).

ALBERTO (di dentro) Non spingete...

DI GENNARO (entra) Ecco qua Alberto De Stefano.

ALBERTO (entra) Non spingete...

LAMPETTI Venite avanti, prego. (Di Gennaro esce, Alberto si avvicina alla scrivania). State tranquillo, fra poco vi mette in libertà. Io già avevo dato ordini e tutto era disposto per il vostro trasporto in manicomio. Ma poi una persona mi ha spie­gato come è andato il fatto e non c'è piú questo bisogno. Siete contento?

ALBERTO Contento? Ma io non posso essere messo in libertà...

LAMPETTI Basta! Voi non siete pazzo!

ALBERTO lo sono pazzo.

LAMPETTI Voi non siete pazzo e io vi devo mettere subito in libertà.

ALBERTO Benissimo. Se io, quando esco per strada, ammazzo un passante, il solo responsabile siete voi, perché io sono pazzo e voglio andare al manicomio... La llà ri llà, la llà ri là...

LAMPETTI E sta bene. Vuoi dire che gli ordini che avevo dato, invece di farli revocare, li farò eseguire immediatamente. (Chia­mando) Di Gennaro! (Ad Alberto) Voi siete pazzo? E sarete trasportato subito al manicomio. (Chiama) Di Gennaro!

GENNARO (entra di corsa dalla destra) Dite, dite, che s'ha ddà fa'?

LAMPETTI Che volete?

GENNARO Mi avete chiamato!

LAMPETTI Niente affatto.

GENNARO Avete detto: don Gennaro.

LAMPETTI Ho detto: Di Gennaro.

GENNARO Ah! Di...

LAMPETTI Di!

GENNARO Avevo capito: do! (Entra dal fondo Di Gennaro, Lam­petti lo raggiunge e si mette a parlare sottovoce con lui. Entra un agente che si unisce ai due che parlano. Intanto Gennaro si accosta ad Alberto) Don Albe', che è stato?

ALBERTO Il Delegato mi voleva mettere in libertà, io per non essere sparato dal Conte ho detto che sono pazzo e che voglio andare in manicomio, e forse adesso mi ci portano. (Guarda il Delegato che sta firmando una carta).

GENNARO Voi che avete combinato! Qua è venuta la moglie del Conte... Ha portato certe lettere del marito, tutta una corri­spondenza equivoca... io avevo capito equina... Il Conte non può parlare piú, se no uscirebbe in mezzo il marito dell'altra signora, che forse tiene a sua volta un'altra relazione con un'al­tra signora maritata, uscirebbero gli altri mariti... Per carità, viene la guerra europea... Non spara, non spara!

ALBERTO Ma questa è una fortuna!

LAMPETTI Conducetelo via!

Di Gennaro e l'agente immobilizzano Alberto.

ALBERTO Un momento un momento! Dove mi volete portare?

LAMPETTI Al manicomio.

ALBERTO No! Io non sono pazzo!

LAMPETTI Mo cominciamo un'altra volta! Vuoi vedere che il pazzo sono io?

ALBERTO Ma se voi mi volevate mettere in libertà!

LAMPETTI Prima! Ma poi voi avete detto che siete pazzo, quin­di non posso piú rilasciarvi, perché se per strada ammazzate a qualcuno, il responsabile sono io... L'avete detto voi.

ALBERTO Ma io sto bene, me ne voglio andare a casa mia!

LAMPETTI Adesso è impossibile. Per ora seguite le guardie, poi si vedrà. (Alle guardie) Andate!

DI GENNARO Andiamo, su.

Alberto fa resistenza, ne nasce una colluttazione durante la qua­le si avvicinano sempre a Gennaro, che cerca di evitarli, per non farsi pestare i piedi.

CARLO (entra dal fondo, trascinandosi dietro Bice, riluttan­te) Permesso? (Tutti si fermano). Ho saputo che poco fa mia moglie è venuta in questo ufficio. Vi prego di dirmi perché.

GENNARO Adesso ci dite quella cosa là.

LAMPETTI (distratto, ripete) Adesso ci dite quella cosa là... (Si volta infuriato verso Gennaro) Eh no, voi vi dovete togliere da dietro a me... Io sono nervoso... (Voltandosi verso Carlo) Voi giungete a proposito. La vostra signora è venuta qui per dirmi che ha voluto punirvi con questa finzione, per il modo in cui l'avete tradita.

CARLO Io?

LAMPETTI Sicuro! E ringraziate Dio che questo giovanotto si è prestato a questa finzione, per darvi solamente la sensazione del tradimento.

BICE Avrei dovuto farlo veramente, capisci?

GENNARO (a Lampetti, nascondendo la mano dietro al suo cappello e facendo le corna) Invece avete avuto la sensazione…

LAMPETTI Ma che fate?

GENNARO Sotto il cappello non si vede niente...

CARLO Queste son tutte frottole! Io non ho mai tradito mia moglie!

BICE Ho le prove, ho le prove!

LAMPETTI Silenzio, vergognatevi, e credete pure che non Vi conviene negare. Ecco le prove. Tutta una corrispondenza galante...

GENNARO (interrompendo) No!

LAMPETTI Che è stato?

GENNARO Niente, niente andate avanti! LAMPETTI Ma che ho fatto?

GENNARO Avete sbagliato... Avete detto galante...

LAMPETTI Bè?

GENNARO Dovevate dire equivoca...

LAMPETTI E non è lo stesso?

GENNARO Ma uno aspetta «equivoco», esce «galante»...

LAMPETTI (lo guarda male) Tutta una corrispondenza equivoca... (a Gennaro) Va bene? (Mostra le lettere a Carlo) Che ne dite?

BICE Rispondi, traditore!

CARLO Ma io...

LAMPETTI Rispondete...

CARLO (dopo breve esitazione) La llà ra llà là, la llà ri llà là...

BICE Avete visto? (A Carlo) A casa, a casa. (Spinge verso il fondo il marito, ed esce assieme a lui).

GENNARO Ma che buffone!

ALBERTO (a Lampetti) Allora, sono libero?

LAMPETTI Andate, e cercate di essere piú serio in avvenire.

ALBERTO Arrivederci! Me ne vado di corsa. (A Di Gennaro) E spingete, spingete... (Esce).

NINETTA (a Lampetti) E io che debbo fare?

LAMPETTI (a Gennaro) Dunque, questa dice che dev'essere pa­gata...

GENNARO Ma don Alberto se n'è andato...

LAMPETTI Insomma, sta storia mi comincia a seccare! Regolate il conto se non volete che prenda seri provvedimenti!

GENNARO Ma io...

LAMPETTI Dovete pagare!

GENNARO Io?

LAMPETTI Voi!      

GENNARO   (si guarda attorno un po' sperduto, poi azzarda timida­mente) La llà ra là, la llà ri llà là!

Come a concerto cala la tela.

FINE