Uomo e superuomo

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DON

UOMO E SUPERUOMO

Intermezzo o sogno della “Commedia e Filosofia”

di G.B. SHAW

Traduzione di Paola Ojetti

                                                                                    

PERSONAGGI

Mendoza

(Il Diavolo)

Anarchico

Tre uomini con la cravatta rossa

Il Socialdemocratico

imbronciato

Il Francese

Il Pastore

Il Socialdemocratico

rissoso

Duval

Commedia formattata da

INTERMEZZO

Sera nella Sierra Nevada. Digradanti pendici color marrone con ulivi anziché meli nelle zone coltivate, e qua e là fichi d'India anziché ginestre e felci nei punti più selvatici. Verso l'alto, picchi di pietra e precipizi, tutti belli e imponenti. Qua la natura non è selvaggia: è piuttosto un paesaggio montano ari­stocratico costruito da un creatore pignolo. Nessuna volgare profusione di vegetazione: v'è anzi una pun­ta di aridità nelle frequenti chiazze sassose: ovun­que, la magnificenza e la sobrietà spagnole. Non molto a nord del punto in cui l'alta strada, che attraversa uno dei passi, incrocia un tunnel della ferrovia Malaga-Granada, è uno degli anfiteatri montani della Sierra. Guardando questo anfiteatro dal lato aperto del ferro di cavallo, si vede, un po' sulla destra, di fronte al precipizio, una romantica caverna che è in effetti una cava abbandonata, e verso sinistra una collinetta che domina un tratto di strada; la strada segue la linea dell'anfiteatro sulla sinistra, conservando il suo alto livello a ri­dosso della roccia e sotto un arco naturale di pie­tra. Sulla collina che domina la strada è un uomo che non è né spagnolo né scozzese. E' probabilmente spagnolo, poiché indossa il costume dei pastori spa­gnoli e sembra di casa sulla Sierra Nevada, ma è tuttavia molto simile a uno scozzese. Nella caverna, su! pendio che conduce alla cava, una dozzina di uomini che, piegandosi con disinvoltura attorno a un cumulo di bianche e fumanti ceneri di foglie e saggina, sembrano rendersi conto di essere dei pittoreschi malviventi i quali onorano la Sierra adoperandola come suggestivo sfondo pittorico. Ma, per la verità, da un punto di vista artistico, essi non sono affatto pittoreschi; e le montagne li tollerano come ì leoni tollerano i pidocchi. Un poliziotto inglese, ovverossia il custode d'un rico­vero di mendicità, li definirebbe una scelta banda di vagabondi e di robusti accattoni. Questa descrizione non vuol essere del tutto sprez­zante. Chiunque abbia osservato con intelligenza il vagabondo, o visitato il robusto soprastante di un ricovero di mendicità, ammetterà che i falliti della società non sono sempre ubriaconi e sparuti. Al­cuni di essi sono uomini inadatti alla classe in cui sono nati. Le stesse qualità per cui il signore edu­cato diventa un artista possono fare di un non edu­cato operaio un intraprendente accattone. Alcuni uomini cadono inesorabilmente nel ricovero di men­dicità perché non sono buoni a nulla; ma altri vi capitano perché hanno la mente tanto forte da trascurare la convenzione sociale - evidentemente non disinteressata da parte del contribuente - che impone all'uomo di vivere con un lavoro ingrato, pesante e mal pagato quando ha la possibilità di farsi ricevere in un ricovero di mendicità, annunciandosi come un indigente e costringendo legal­mente i custodi a nutrirlo, vestirlo e alloggiarlo, senza grande sforzo da parte sua, assai meglio di quello che potrebbe nutrirsi, vestirsi e alloggiarsi da sé: quando un uomo, nato poeta, rifiuta uno sgabello nell'ufficio di un cambiavalute, e muore di fame in una soffitta scroccando alla sua povera padrona di casa o ai suoi amici piuttosto che lavo­rare contro al proprio estro; o quando una signora, perché è una signora, affronta il colmo di un'esi­stenza parassitica piuttosto che impiegarsi come cuoca o cameriera, dobbiamo considerarli con molta indulgenza. II povero intraprendente e la sua variante nomade, chiamato vagabondo, hanno egual­mente diritto a questa indulgenza. Inoltre, l'uomo che ha fantasia, se la vita gli è tollerabile, deve avere l'agio di raccontare a se stesso delle frottole e deve avere una posizione che gli conceda un certo decoro immaginario. Le fila del lavoro manuale non gli offrono questa posizione. Noi trattiamo orrendamente i nostri operai; e quan­do un uomo si rifiuta di essere maltrattato non abbiamo il diritto di dire che rifiuta dell'onesto la­voro. Siamo sinceri su questo punto, prima di pro­seguire con la nostra commedia, così da poterla godere senza ipocrisia. Se fossimo persone ragio­nanti e previdenti, quattro quinti di noi andrebbero diritti a chiedere soccorso ai guardiani, rovesciando l'intero sistema sociale con risultati di benefica ri­costruzione. La ragione per la quale non lo fac­ciamo è che noi lavoriamo come api o come for­miche, per istinto o per abitudine, senza mai ra­gionare sulla questione. E così, quando salta fuori un uomo che può ragionare e ragiona, e che, ap­plicando alla propria condotta la prova kantiana, può veramente dirci « se tutti facessero come fac­cio io, il mondo sarebbe costretto a riformarsi indu­strialmente, ad abolire io schiavismo e lo squallore che esistono soltanto perché tutti fanno come fai tu » onoriamo quell'uomo e consideriamo seriamente l'utilità di seguire il suo esempio. Quest'uomo è il povero, intraprendente di corpo e di mente. Se fosse un signore che fa del suo meglio per ottenere una pensione o una sinecura anziché spazzare una stra­da, nessuno lo rimprovererebbe per aver deciso che fino a quando v'è solo da scegliere tra il vivere soprattutto a spese della comunità e il permettere che la comunità viva soprattutto a spese sue, sa­rebbe pazzesco accettare ciò che per lui è il peg­giore dei due mali. Noi possiamo quindi contemplare i vagabondi della Sierra senza pregiudizio alcuno, ammettendo alle­gramente che i nostri scopi      - insomma, di essere signori abbienti - sono suppergiù i loro, e la diffe­renza della nostra posizione e dei nostri metodi è puramente casuale. Sarebbe forse più abile uccidere uno o due di essi senza malizia, in modo amiche­vole e franco; perché vi sono dei bipedi, proprio come vi sono del quadrupedi, troppo pericolosi per essere lasciati senza catena e senza museruola; e questi non possono lealmente pretendere che la vita di altri si sprechi nella fatica di sorvegliarli. Ma, siccome la società non ha il coraggio di ucciderli e, quando li acchiappa, non esita a vendicarsi con grande disinvoltura applicando certi superstiziosi riti espiatori di tortura e degradazione, e poi li lascia in libertà con altisonanti qualifiche di cat­tiva condotta, tanto vale che stiano alla larga, nella Sierra, in mano d'un capo che ha l'aspetto di chi potrebbe, se provocato, ordinarne la fucilazione. Il capo, seduto nel centro del gruppo su un blocco di pietra squadrata preso nella cava, è un uomo alto e forte, con un notevole naso a becco di pap­pagallo, i capelli neri lucidi, la barba a punta, i baffi all'insù e un affettato atteggiamento mefisto­felico che è piuttosto imponente, fors'anche perché lo scenario consente spacconate che non sarebbero concesse a Piccadilly, fors'anche perché l'uomo ri­vela un certo sentimentalismo, motivo questo del tocco di grazia che è la sola scusa del « pittoresco ad ogni costo ». Ha occhi e bocca tutt'altro che da delinquente; ha una bella voce e lo spirito pronto; e appare il più forte della comitiva, lo sia o no. Egli è certamente il meglio nutrito, il meglio ve­stito e il meglio allenato. Il fatto che egli parli una lingua straniera non è sorprendente, nonostante il paesaggio spagnolo; perché salvo uno di essi che potrebbe essere individuato come un torero rovinato dall'alcool, e un francese inequivocabile, essi sono tutti londinesi o americani; quindi, in una cornice di mantelli e sombreri, portano quasi tutti soprabiti color sabbia, sciarpe di lana, cappelli duri emisfe­rici, e sporchi guanti di color marrone. Solo po­chissimi sono vestiti come il loro capo, il cui grande sombrero, nel quale è stata infilata una penna di gallo, e il cui voluminoso mantello lungo fino agli stivali sono quanto di meno inglese è possibile immaginare. Nessuno di essi è armato; e quelli che non hanno guanti tengono le mani in tasca perché , hanno la convinzione nazionale che, all'aria aperta, col calare della notte, debba fare pericolosamente freddo. E' la serata più calda che un uomo ragio­nevole possa desiderare. Salvo l'ebbro torero c'è una sola persona, in tutta la comitiva, che dimostri, diciamo, più dì trentatrè anni. E' un uomo piccolo, con gli scopettoni ros­sicci, gli occhi deboli e l'ansioso sguardo del pic­colo commerciante in difficoltà. Egli porta la sola tuba visibile, che brilla nella luce del tramonto grazie all'appiccicoso bagliore di un dozzinale rav-vivatore di cappelli vecchi applicato spesso e sempre tendente a ridurre l'originale superficie in condi­zioni peggiori della rovina che avrebbe dovuto ri­parare. Ha il goletto e i polsini di celluloide; e il suo soprabito « Chesterfield » marrone, col bavero di velluto, è ancora presentabile. Egli è chiara­mente il personaggio più rispettabile della comitiva e ha certamente passato i quarant'anni, fors'anche i cinquanta. E' l'uomo d'angolo, alla destra del capo, di fronte a tre uomini con la cravatta rossa, che sono alla sinistra. Uno di questi tre è il fran­cese. Gli altri due sono inglesi: uno ragionato, solen­ne, testardo; l'altro rissoso e nefando. Il capo, gettandosi con magnificenza un lembo del mantello sulla spalla sinistra, si alza per parlare. L'applauso che lo saluta dimostra che egli è un oratore apprezzatissimo. Si chiama Mendoza.

Mendoza                       - Amici e compagni briganti. Ho una proposta da fare a questa assemblea. Sono tre sere che discutiamo chi abbia più coraggio, se gli anarchici o i socialisti. Abbiamo esauriente­mente studiato i princìpi degli uni e degli altri. La causa dell'anarchia è stata abilmente esposta dal nostro unico anarchico, il quale non sa che cosa significa anarchìa... (Risate).

Anarchico                     - (alzandosi) Una mozione d'ordine, Mendoza...

Mendoza                       - (con veemenza) No, per Giove: la tua ultima mozione d'ordine ci ha portato via mezz'ora. E poi, gli anarchici non credono nell'ordine.

Anarchico                     - (mite, cortese ma insistente; egli è, infatti, l'uomo anziano, dall'aspetto rispettabile, con goletto e polsini di celluloide) E' un volgare equivoco. Posso dimostrare...

Mendoza                       - Ordine, ordine...

 Altri                             - (gridando) Ordine, ordine. A sedere! seduto! silenzio! (L'anarchico è sedato).

Mendoza                       - D'altro canto, vi sono tra noi tre socialisti. Essi non si rivolgono la parola; e ci hanno esposto tre punti di vista sul Socialismo, distinti ed incompatibili.

I tre Uomini con la cravatta rossa      - Protesto. Chiedo la parola per fatto personale... E' una menzogna. Non l'ho mai detto. Un po' di lealtà, Mendoza. Je demande la parole. C'est absolu- ment faux. C'est faux! faux! faux! Assass-s-sin!

Mendoza                       - Ordine, ordine.

Gli Altri                        - Ordine, ordine, ordine! Seduti! (/ socialisti sono sedati).

Mendoza                       - Noi qui tolleriamo qualsiasi opi­nione. Ma che affari abbiamo qua, nella Sierra Nevada, scelta dai Mori come il luogo più bello della Spagna? Discussioni ideologiche? No! sia­mo qui per aggredire gli automobilisti che pas­sano, e ottenere così una più equa distribuzione del capitale.

II Socialdemocratico imbronciato     - Frutto del lavoro.

Mendoza                       - (con cortesia) Indubbiamente. Frut­to del lavoro, e in procinto di essere sperperato da milionari oziosi nei covi del vizio che sfigu­rano le assolate rive del Mediterraneo. Questo capitale noi lo intercettiamo; noi lo rimettiamo in circolazione nella classe che l'ha prodotto e che più ne ha bisogno: la classe lavoratrice. Noi facciamo questo rischiando la vita e la libertà, esercitando le nostre doti di coraggio, costanza, ed astinenza, soprattutto astinenza. Io stesso non mangio che fichi d'India e coniglio arrosto da tre giorni.

Il Socialdem. imbronciato - (testardo) E noi, allora?

Mendoza                       - (indignato) Non ho mai preso più di ciò che mi spettava.

Il Socialdem. imbronciato - (impassibile) E perché avresti dovuto prendere di più?

Anarchico                     - E perché non avrebbe dovuto? Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno se­condo le sue necessità.

Il Francese                    - (mostrando il pugno chiuso all'anar­chico) Fumiste! (Un fischio giunge dal pa­store che è sulla collina. E' balzato in piedi e indica un punto più avanti, verso nord, sulla strada maestra).

Il Pastore                       - Automobile! Automobile! (Corre giù dalla collina e raggiunge gli altri che si sono frettolosamente alzati in piedi).

Mendoza                       - (squillante) Le armi! Chi ha il fu­cile?

Il Socialdem. imbronciato      - (porgendo un fucile a Mendoza) Eccolo.

Mendoza                       - I chiodi sono stati gettati sulla strada?

Il Socialdemocrat. rissoso      - Ce ne sono due once.

Mendoza                       - Bene. (Al francese) Con me, Duval. Se i chiodi non funzionano, bucagli le gomme con una schioppettata. (Dà il fucile a Duval, che lo segue su per la collina. Mendoza tira fuori un binocolo da teatro. Gli altri attraver­sano la strada correndo e scompaiono verso nord. Mendoza osserva la strada col binocolo, dalla collina) Due soli: un capitalista e un meccanico. Sembrano inglesi.

Duval                            - Inglesi! Cochons! (Col fucile in ma­no) Faut tirer, n'est-ce-pas?

Mendoza                       - No, sono bastati i chiodi: hanno una gomma a terra. Si fermano.

Duval                            - (gridando agli altri) Fondez sur eux, nom de Dieu!

Mendoza                       - (rimproverando il suo zelo) Du calme, Duval! Non perdere la testa. Agire con calma. (Mendoza scende, passando dietro al fuoco e venendo avanti, mentre Tanner e Straker, con gli occhiali da automobile, lo spolve­rino e il berretto, sono fatti venire avanti da un gruppo di briganti).

Tanner                           - E' costui il vostro capo? Parla sol­tanto spagnolo?

Il Socialdemocrat. rissoso      - Neanche per idea! Non crederai che noi inglesi ci si lasci comandare da uno sporco spagnolo, no?

Mendoza                       - (dignitoso) Permetta che mi pre­senti: Mendoza, presidente della Lega della Sier­ra. (Con orgoglio) Io sono un brigante. Vivo derubando i ricchi.

Tanner                           - (pronto) Io sono un signore. Vivo derubando i poveri. Qua la mano!

I Socialdemocratici inglesi     - Senti, senti! (Ge­nerali risate. Tanner e Mendoza si danno la mano. I briganti tornano dov'erano prima).

Straker                          - E io? Io non c'entro?

Tanner                           - (presentando) Il mio amico e chaffeur.

Il Socialdem. imbronciato      - (sospettoso) Amico o chaffeur? La differenza è tutta qui, sai?!

Mendoza                       - (spiegando) Per un amico, preten­diamo il riscatto. Un meccanico professionista, invece, è libero: può anche prendere una pic­cola percentuale sul riscatto del suo principale, se lo desidera.

Straker                          - Tanto per invogliarmi a passare di qua un'altra volta. Va bene, ci penserò.

Duval                            - (si precipita impulsivamente verso Stra­ker) Mon frère! (Lo abbraccia rapito e lo bacia sulle due guance).

 Straker                         - (disgustato) Via, largo, non far lo stupido! Chi sei, scusa?

Duval                            - Duval, socialista democratico.

Straker                          - Ah, socialdemocratico?

L’Anarchico                  - S'è venduto alle corbellerie par­lamentari e alla borghesia. Compromesso! ecco la sua fede.

Duval                            - (furibondo) Dice bourgeois. Dice com­promesso. Jamais de la vie! Miserable menteur.

La Maggioranza            - Senti, senti! Silenzio! Basta! Seduto! Finiamola!

Straker                          - Di' un po', capitano Mendoza, ne fate molte di queste discussioni, quassù?

Mendoza                       - Signori: per oggi, niente più af­fari; andate pure. Arrivederci a domattina. Pos­siamo offrirvi da mangiare? Coniglio arrosto e fichi d'India.

Tanner                           - Grazie: abbiamo già pranzato. (I bri­ganti si disperdono con pigrizia. Alcuni vanno nella cava. Altri si siedono o si sdraiano per dormire all'aperto. Alcuni tirano fuori un maz­zo di carte e vanno verso la strada; oramai non c'è che la luce delle stelle e sanno che le auto­mobili hanno dei fari che possono essere accesi per illuminare una partita a carte).

Mendoza                       - Vogliamo chiacchierare con co­modo?

Tanner                           - Ma certo. (Tanner, Mendoza e Stra­ker si siedono sull'erba davanti al fuoco. Men­doza si spoglia delicatamente della sua dignità presidenziale, il cui appannaggio è rappresen­tato dal diritto dì sedere sul blocco di pietra bianca, sedendo in terra come i suoi ospiti e adoperando il sasso soltanto come appoggio per la schiena).

Mendoza                       - In Spagna si usa sempre riman­dare gli affari al mattino seguente. Voi, poi, siete arrivati fuori ora di ufficio. Ma, se vo­gliamo sistemare subito la faccenduola della taglia...

Tanner                           - Per me va bene domani. Sono tanto ricco da poter pagare la taglia che volete.

Mendoza                       - (con rispetto, colpito da quell'ammis­sione) Lei è una persona molto notevole, si­gnore. I nostri ospiti, di solito, piangono mi­seria.

Tanner                           - Oh! Con la miseria non si possiede l'automobile.

Mendoza                       - E' proprio quello che diciamo loro.

Tanner                           - Siete tutti socialisti qui?

Mendoza                       - Oh no, no. Abbiamo dei punti di vista moderni sull'ingiustizia dell'attuale distri­buzione della ricchezza: altrimenti perderemo il rispetto di noi stessi. Ma niente su cui lei possa trovar qualcosa da eccepire, salvo due o tre fanatici.

Tanner                           - Non alludevo a niente di disonore­vole. Io stesso sono un po' socialista.

Straker                          - (secco) Quasi tutti i ricchi lo sono, ormai, è nell'aria del secolo. Il socialismo di­laga se certi tipi vi si associano.

Mendoza                       - Amico mio, se un movimento non si dimostra capace di diffondersi tra i briganti, non può sperare in una maggioranza politica.

Tanner                           - Bravo, lei è spiritoso! (Mendoza china la testa lusingato) Posso farle una do­manda a bruciapelo?

Mendoza                       - Finché vuole!

Tanner                           - Quanto conviene, a un uomo del suo talento, guidare un gregge come questo vivendo di coniglio arrosto e di fichi d'India? Ho veduto uomini meno intelligenti di lei, e giuro che erano anche meno onesti, cenare al Savoy con pasticci di fegato e champagne.

Mendoza                       - Oh, tutti hanno avuto il loro turno di coniglio arrosto e fichi d'India, proprio come io ho avuto il mio turno di Savoy... come ca­meriere.

Tanner                           - Cameriere! Lei mi sbalordisce!

Mendoza                       - (cogitabondo) Sì. Io, Mendoza del­la Sierra, ero cameriere. Da qui, forse, il mio cosmopolitismo. (Con improvvisa intensità) Vuol conoscere la storia della mia vita?

Straker                          - (preoccupato) Se non è troppo lunga, buon uomo...

Mendoza                       - La donna che amavo...

Straker                          - Ah, è una storia d'amore? Bravo. Vai avanti. Avevo paura che parlassi di te.

Mendoza                       - Di me? Ho buttato via me stesso, per amore di lei. Aveva, lo garantisco, i più bei capelli che abbia visto mai. Era spiritosa, intelligente, cucinava alla perfezione, e quel suo temperamento sempre teso la rendeva va­riabile, capricciosa, crudele, incantevole.

Straker                          - Una donna da romanzo a dispense, salvo la cucina. Era una lady, vero?

Mendoza                       - Nossignore: era una donna del po­polo, una lavoratrice: altrimenti l'avrei sde­gnata.

Tanner                           - Ed avrebbe fatto bene. E lei, ricam­biava il suo amore?

Mendoza                       - Le mie suppliche furono vane: le parlai di suicidio e lei mi diede un pac­chetto di veleno per scarafaggi. Accennai all'omicidio: svenne. E allora io emigrai in Ame­rica, nel West, dove conobbi un tale che era ricercato dalla polizia perché svaligiava i treni. Fu lui a suggerirmi l'idea di fermare le mac­chine nel sud d'Europa: idea eccellente per un uomo disilluso e disperato. Mi diede alcune valide presentazioni per dei capitalisti di bocca buona. Ho formato un trust: e il risultato eccolo qua. Sono diventato capo, ma sono rima­sto un ragazzo: incido il suo nome sugli al­beri e le sue iniziali sulla sabbia. Quando sono solo, mi butto in terra e mi strappo questi sciagurati capelli gridando: Luisa...

Straker                          - (sussultando) Luisa?!

Mendoza                       - Si chiama così: Luisa. Luisa Stra­ker.

Tanner                           - Straker!

Straker                          - (alzandosi a sedere, in ginocchio, indignatissimo) Senti un po': Luisa Straker è mia sorella, sai? Che ti viene in mente di metterla in piazza a questo modo? Che cos'ha da spartire con te?

Mendoza                       - Drammatica coincidenza! Tu sei Righetto, il suo fratello preferito!

Straker                          - Righetto a chi? Che diritto hai di prenderti queste confidenze col nome mio o col suo? Ti spaccherei il pallone gonfiato che hai sul collo anche per meno, sai?

Mendoza                       - (calmo e magnanimo) Se ti per­metto di farlo, mi prometti di raccontarglielo? Così ricorderà il suo Mendoza...

Tanner                           - Questa è devozione sincera, Enrico. Dovreste rispettarla.

Straker                          - (feroce) Secondo me è solo fifa.

Mendoza                       - (balzando in piedi) Fifa! Giova­notto, io provengo da una famosa stirpe di pugilatori, come Luisa sa benissimo!

Straker                          - (segretamente intimidito, ma alzan­dosi in piedi, con aria bellicosa e disinvolta) Luisa! Luisa! Per te è la signorina Straker!

Mendoza                       - Vorrei che fosse per me.

Straker                          - (esasperato) Insomma...

Tanner                           - (alzandosi in fretta e mettendosi tra i due) Basta, Enrico: state calmo e siate cortese. Un gatto può guardare un re; e anche un presidente di briganti può guardare vostra sorella.

Straker                          - (vinto, ma brontolando) Che la guardi! Ma farci credere che lei ha guardato lui? (Torna a sedersi sull'erba, di malavoglia) A sentirlo discorrere si crederebbe che ci an­dava insieme. (Volta le spalle ai due e si di­spone a dormire).

Mendoza                       - (a Tanner, diventando più confiden­ziale perché si trova virtualmente solo con un ascoltatore comprensivo, nella ferma luce stel­lare delle montagne; oramai, infatti, tutti gli altri dormono) Oh, signore, le parole di Shakespeare sembrano adattarsi a qualsiasi crisi dei nostri sentimenti! « Amavo Luisa: quarantamila fratelli non potrebbero raggiungere la somma del mio bene... » Macché Shakespeare! Neanche lui può ren­dere giustizia a quello che provo per Luisa. Lasci che le legga alcuni versi che ho scritto su lei. (Tira fuori un pacchetto di conti d'al­bergo scarabocchiati a mano, e si inginocchia vicino al fuoco per decifrarli mentre stuzzica la fiamma con un bastoncino per farla bril­lare).

Tanner                           - (picchiandolo bruscamente su una spal­la) Li butti nel fuoco, presidente.

Mendoza                       - (sussultando) Eh?

Tanner                           - Come può guardare queste auguste colline, respirare quest'aria sottilmente tempe­rata, e poi parlare come lo scribacchino di una soffitta?

Mendoza                       - (scrollando la testa) La Sierra non è meglio di una soffitta, quando la novità s'è logorata. E, poi, queste montagne inducono a sognare di donne... di donne con capelli stu­pendi...

Tanner                           - Io non sogno di donne: ho il cuore intonso, io.

Mendoza                       - Aspetti domattina a vantarsi, si­gnore. Questo è uno strano paese, in fatto di sogni.

Tanner                           - Be', vedremo. Buonanotte. (Si sdraia e si dispone a dormire).

Mendoza                       - (con un sospiro, segue l'esempio di Tanner; e per qualche istante v'è pace nella Sierra. Poi si tira su improvvisamente e dice supplichevole, a Tanner) Mi permetta di leggere alcuni versi, prima che si addormenti. Vorrei proprio sapere che cosa ne pensa.

Tanner                           - (mezzo addormentato) Avanti. Ascolto.

Mendoza                       - Luisa, ti amo.

Ti amo, Luisa.

Luisa, Luisa, Luisa, ti amo.

Un nome, una parola, ecco la mia      - (musica, Luisa.

Mendoza è il tuo amante,

Il tuo amante, Mendoza;

Mendoza vive adorando Luisa.

Luisa, Luisa, Mendoza ti adora. (Commosso) Questa è vera poesia... viene dal cuore... Non crede che se ne commuoverebbe? (Nessuno risponde. Rassegnato) Dorme, anche lui. Che cretino sono a lasciar il cuore fuori dalla camicia! (Si dispone a dormire mormo­rando) Luisa, ti amo; ti amo, Luisa... Straker russa; si volta dall'altra parte; e si abban­dona al sonno. Sulla Sierra è calata l'immobilità; e le tenebre si fanno più profonde. Il fuoco si è nuovamente sepolto nella cenere bianca ed ha smesso di brillare. I picchi si stagliano impenetra­bili e neri contro il firmamento; ma già le stelle si appannano e svaniscono; e il cielo sembra stac­carsi dall'Universo. Invece della Sierra c'è il nulla; l'onnipresente nulla. Né cielo, né picchi, né luce, né suono, né tempo, né spazio, il vuoto totale. Poi, non si sa dove, l'ini­zio di un lucore, e con esso un lieve e palpitante ronzio, come d'uno spettrale violoncello che vibri all'infinito sulla stessa nota. Un paio di spettrali violini si appropriano adesso quel basso. E allora il lucore rivela un uomo nel vuoto, un essere incorporeo ma visibile, seduto, quasi assur­damente, sul nulla. Per un attimo alza la testa e la musica gli passa accanto. Poi, con un profondo sospiro, si abbandona al più assoluto sgomento; e i violini, scoraggiati riprendono la melodia, con di­sperazione, e alla fine la cedono, esauriti dai ge­miti di magici strumenti a fiato, così:

La Vecchia                    - Scusatemi; ma sono tanto sola; e questo luogo è così orrendo.

Don Giovanni               - Una nuova venuta?

La Vecchia                    - Sì: credo di esser morta sta­mattina. Ho avuto l'estrema unzione; ero a letto circondata dai miei, gli occhi fissi sulla Croce. Poi s'è fatto buio; e quando è tornata la luce, era la luce nella quale sto camminando senza veder nulla, da ore e ore.

Don Giovanni               - (sospirando) Non avete an­cora perduto il senso del tempo. Ma lo si perde presto, nell'eternità.

La Vecchia                    - Dove siamo?

Don Giovanni               - All'inferno.

La Vecchia                    - (con orgoglio) All'inferno! Io all'inferno! Come vi permettete?

Don Giovanni               - (impassibile) Perché no, senora?

La Vecchia                    - Voi non sapete con chi parlate. Io sono una fedele figlia della Chiesa.

Don Giovanni               - Non ne dubito. Eppure...

La Vecchia                    - Ma come posso essere all'infer­no? In purgatorio, forse: io mi sono sincera­mente pentita; ho confessato...

Don Giovanni               - Quanto?

La Vecchia                    - Più peccati di quanti ne abbia effettivamente commessi. Mi piaceva la con­fessione.

Don Giovanni               - Forse questo è male quanto confessare troppo poco.

La Vecchia                    - (indignata) E pensare che avrei potuto essere tanto più peccatrice! Tutte le mie buone azioni, sprecate! No, no: io so di non essere all'inferno.

Don Giovanni               - Come lo sapete?

La Vecchia                    - Perché non soffro.

Don Giovanni               - Allora non c'è dubbio: siete espressamente dannata.

La Vecchia                    - Perché dite così?

Don Giovanni               - Perché l'inferno, senora, è il posto dei cattivi. I cattivi ci stanno benissimo: è stato creato per loro. Voi dite di non sof­frire: ne concludo...

La Vecchia                    - E voi non soffrite?

Don Giovanni               - Io non sono malvagio, senora. Perciò qui mi annoio; mi annoio come non si può dire, come non si può credere.

La Vecchia                    - Non siete un malvagio?

Don Giovanni               - No, sono un assassino.

La Vecchia                    - Assassino?

Don Giovanni               - Solo in duello. Ho infilzato la mia spada dentro un vecchio che cercava di infilzare la sua dentro di me.

La Vecchia                    - Se eravate un gentiluomo, non era assassinio.

Don Giovanni               - Il vecchio l'ha chiamato così perché, diceva, difendeva l'onore di sua figlia.

La Vecchia                    - Anche mio padre è stato ucciso in duello da uno scellerato uguale a voi, per una causa uguale alla vostra! Io avevo stril­lato: era mio dovere. Mio padre si era lanciato sull'assalitore: il suo onore lo richiedeva. E' caduto: ecco il premio dell'onore. Io sono qui: ecco il premio del dovere. Ve giustizia in cielo?

Don Giovanni               - No; ma v'è giustizia all'infer­no: il cielo ne è troppo al disopra. Benvenuta all'inferno, senora, sede dell'onore, del dovere, della giustizia, e delle rimanenti sette virtù. Tutte le scelleratezze compiute in terra sono compiute in nome loro: dove altro dovrebbero trovare il loro premio, se non qui? Ve l'ho detto: i veri dannati sono felici all'inferno.

La Vecchia                    - E voi siete felice?

Don Giovanni               - (balzando in piedi) No: e questo è l'enigma sul quale medito nell'oscu­rità. Perché son qui? Io che ho ripudiato ogni dovere, che ho calpestato l'onore, e riso in fac­cia alla giustizia!

La Vecchia                    - Ed io?

Don Giovanni               - Per voi, forse, c'è qualche consolazione. Per esempio: quanti anni ave­vate quando siete passata dal tempo all'eter­nità?

La Vecchia                    - Quanti anni avevo... Non par­late di me come se fossi un oggetto del pas­sato. Io ho settantasette anni.

Don Giovanni               - Una bell'età, senora. Ma all'inferno la vecchiaia non è tollerata. E' troppo reale. Qua non abbiamo corpo: ci vediamo con il corpo soltanto perché in vita abbiamo im­parato a pensare l'uno all'altro sotto questo aspetto; ma possiamo apparire dell'età che scegliamo. Non avete che da desiderare il ri­torno di uno dei vostri aspetti passati, perché esso si avveri.

La Vecchia                    - Non può essere.

Don Giovanni               - Provate.

La Vecchia                    - Diciassette anni!

Don Giovanni               - Ferma. E' l'età di moda, ma non dura. Se a ventisette anni siete stata mol­to bella, vi consiglio di provare quell'età.

La Vecchia                    - Vada per i ventisette. (La vecchia diventa una giovane splendidamente agghin­data e così bella che nel bagliore in cui si è improvvisamente trasformato il suo sbiadito alone giallo la si potrebbe quasi scambiare per Anna Whiterfìeld).

Don Giovanni               - Dona Ana de Ulloa!

Ana                               - Come? Mi conoscete?

Don Giovanni               - E voi mi avete dimenticato!

Ana                               - Non vedo il vostro viso. (Egli alza il cappello) Don Giovanni Tenorio! Mostro! As­sassino del padre mio! Anche qui mi perse­guitate!

Don Giovanni               - Protesto: io non vi perse­guito affatto. Permettete che mi ritiri. (Si avvia).

Ana                               - (afferrandolo per un braccio) Non po­tete lasciarmi sola in questo luogo d'orrore.

Don Giovanni               - Purché la mia rinuncia ad andarmene non sia interpretata da voi come un inseguimento.

Ana                               - (lasciandolo andare) Come posso tolle­rare la vostra presenza. Il mio caro genitore!

Don Giovanni               - Lo vorreste vedere?

Ana                               - Mio padre qui?!

Don Giovanni               - No: è in paradiso.

Ana                               - Lo sapevo. Egli ci sta guardando di lassù. Che cosa deve provare vedendo sua figlia in questo luogo, e in conversazione col suo assassino!

Don Giovanni               - A proposito, se lo incontras­simo...

Ana                               - Come possiamo incontrarlo se è in Pa­radiso?

Don Giovanni               - Si degna di venire ogni tanto a farci una visitina. 0 forse preferite non in­contrarlo.

Ana                               - Come osate...

Don Giovanni               - E' un sentimento molto co­mune, qua. Ricorderete che sulla terra - per quanto non lo si confessasse mai - la morte di una persona conosciuta, anche di quelle più care, era sempre mista a una certa soddisfa­zione per essercene finalmente liberati.

Ana                               - Mostro!

Don Giovanni               - (placido) Ad ogni modo, vo­levo dirvi che i legami familiari non sussistono qui. Vostro padre non si aspetterà segni di af­fetto da parte vostra.

Ana                               - Io ho portato il lutto per lui tutta la vita!

Don Giovanni               - Sì: perché vi donava.

Ana                               - Don Giovanni: neanche la morte è riu­scita a raffinare l'animo vostro? E il terribile giudizio del quale la statua di mio padre è stato il ministro, non v'ha insegnato la reve­renza?

Don Giovanni               - Silenzio! Ascoltate la musica di Mozart per la statua del commendatore. E' vostro padre. Vi conviene sparire per lasciar­mi il tempo per prepararlo. (Ana sparisce. Dal nulla viene avanti una vivente statua di mar­mo che raffigura un maestoso vecchio. Ma egli abbandona la propria maestà con grazia infi­nita: cammina con passo di piume; e fa sì che ogni ruga del suo volto logorato dalla guer­ra splenda con gioia di vacanza. Egli deve allo scultore un personale agilissimo, che porta eretto, e composto; le punte dei suoi baffi s'ar­ricciano all'insti, elastiche come molle da oro­logio, e gli danno un aspetto che, se non fosse per la sua dignità spagnola, potrebbe esser det­to intraprendente. Tra lui e Don Giovanni esi­stono rapporti cordialissimi. La sua voce, se non fosse per un'intonazione molto più signo­rile, potrebbe essere detta uguale alla voce di Roebuck Ramsden, il che fa osservare che essi non sono dissimili l'uno dall'altro se non per il diversissimo modo di radersi) Ah, siete qua, amico mio! Perché non imparate a cantare la stupenda musica che Mozart ha scritto per voi?

La Statua                      - Disgraziatamente l'ha scritta per voce di basso. La mia è di tenore. Be', non vi siete ancora pentito?

Don Giovanni               - Vi rispetto troppo per pentir­mi, don Gonzalo. Se lo facessi, con che scusa verreste giù dal paradiso a discutere con me?

La Statua                      - E' giusto. Rimanete impenitente, figliolo. Mi dispiace di non avervi ammazzato, come avrei certamente fatto se non mi fosse banalmente scivolato un piede. Allora io sarei venuto qua, e voi avreste avuto una statua e una fama pietosa. Niente di nuovo?

Don Giovanni               - Sì: è morta vostra figlia.

La Statua                      - (perplesso) Mia figlia? (Ricordan­do) Ah, quella con cui siete stato sorpreso voi? Vediamo un po': come si chiamava? Come si chiamava?...

Don Giovanni               - Ana.

La Statua                      - Giusto. Bel nome Aria. Avete av­vertito quel tizio, suo marito?

Don Giovanni               - Il mio amico Ottavio? No: non l'ho visto, dopo l'arrivo di Ana. (Ana viene, in­dignata, in luce).

Ana                               - Ma che significa? Ottavio è qui ed è vostro amico! e voi, padre mio, avete dimenti­cato il mio nome?! Vi siete fatto di pietra per davvero.

La Statua                      - Mia cara: sono tanto più ammi­rato in marmo di quanto lo fossi di persona, che ho conservato la forma che m'ha dato lo scultore.

Ana                               - Padre mio! Vanità! Vanità personale! In voi!

La Statua                      - Oh, tu sei sopravvissuta quasi ottant'anni. Io sono stato tagliato fuori nel mio sessantaquattresimo anno, e quindi sono più giovane di te. E poi, bambina mia, in questo luogo « la farsa della saggezza paterna » non regge. Considerami come una creatura pari a te, non come un padre.

Ana                               - Parlate come questo villano.

La Statua                      - Giovanni è un forte pensatore, Ana. Un cattivo schermitore, ma un forte pen­satore.

Ana                               - (lasciandosi prendere dall'orrore) Que­sti sono diavoli che mi canzonano. E' meglio che preghi.

La Statua                      - (consolandola) No, no, bimba mia: se preghi, perdi il maggior vantaggio di questo luogo. Sul cancello sta scritto: « Lasciate ogni speranza, o voi che entrate ». Pensa che sollievo! Qua non v'è speranza e, di conseguenza, non v'è dovere, né lavoro, niente che possa essere con­quistato con la preghiera, niente che possa es­sere perduto facendo ciò che si vuole. L'inferno, insomma, è un luogo dove c'è solo da divertirsi. (Don Giovanni sospira profondamente) Sospi­rate, amico Giovanni; ma se abitaste in Para­diso, come me, vi rendereste conto dei vostri vantaggi.

Don Giovanni               - Siete di buon umore, oggi, Commendatore. Siete quasi spiritoso. Cos'è ac­caduto?

La Statua                      - Ho preso una decisione capitale, ragazzo mio. Ma, anzitutto dov'è il nostro amico Diavolo? Proviamo a chiamarlo. (Ad un cenno della mano della Statua, si ode nuovamente il rotolare dei grandi accordi; ma questa vol­ta la musica di Mozart è grottescamente adul­terata con quella di Gounod. Un alone scar­latto comincia a brillare; e in esso si erge il diavolo, molto mefistofelico e tutt'altro che dis­simile da Mendoza, per quanto non così interes­sante. Appare più vecchio, sta diventando pre­maturamente calvo; e, nonostante un'effusione bonaria e amichevole è permaloso e sensibile se la sua cordialità non è ricambiata. Non ispira molta fiducia nei suoi poteri di durezza o tena­cia, ed è, in complesso, una persona dall'aspetto sgradevole e borioso; ma intelligente e plausibile, per quanto chiaramente meno colto ed educato degli altri due uomini e immensamente meno vitale della donna).

Il Diavolo                      - (cordiale) Ho dunque il piacere di ricevere una nuova visita dell'illustre com­mendatore di Calatrava? (Freddamente) Don Giovanni, servo vostro. (Cortesemente) Una cliente forestiera? I miei rispetti, Senora.

Ana                               - Siete...

Il Diavolo                      - (con un inchino) Lucifero, per servirvi.

Ana                               - Io divento pazza.

Il Diavolo                      - (galante) Oh, Senora, voi venite dalla terra, dai pregiudizi e i terrori di quel luo­go gremito di preti. Avete udito parlare assai male di me; eppure, credete, io ho schiere di amici laggiù.

Ana                               - Sì: voi regnate nei loro cuori.

Il Diavolo                      - (scrollando la testa) Mi lusingate, Senora; ma siete in errore. E' vero che il mondo non può far a meno di me; ma non me ne dà mai credito: in cuor suo, diffida di me e mi odia. Le sue simpatie vanno tutte alla miseria, alla povertà, alla fame del corpo e del cuore. Io gli chiedo di simpatizzare con la gioia, l'amore, la felicità, la bellezza...

Don Giovanni               - (nauseato) Scusate: me ne vado. Sapete che non resisto a questi discorsi.

Il Diavolo                      - (con rabbia) Sì: lo so che non siete mio amico.

La Statua                      - Che male vi fa, Giovanni? Ra­gionava con molto buon senso.

Il Diavolo                      - (stringendo calorosamente la mano della statua) Grazie, caro Commendatore, grazie. Oh, per quale ironia della sorte questo freddo e cinico egoista è stato mandato nel mio regno, e voi nei gelidi manieri celesti!

La Statua                      - Non posso lamentarmi. Fui un ipocrita in vita, e mi sono meritato il Paradiso.

Il Diavolo                      - Ma perché, signore, non venite con noi, e non lasciate una sfera per la quale il vostro temperamento è troppo generoso, il vo­stro cuore troppo caldo, la vostra capacità di godimento troppo esuberante?

La Statua                      - Proprio oggi mi sono deciso. Da ora in poi, eccellente Figlio del Mattino, io sono vostro. Ho lasciato per sempre il Paradiso.

Il Diavolo                      - (afferrandogli una mano) Oh, che onore per me! Che trionfo per la nostra causa! Grazie, grazie. E adesso, amico mio - final­mente posso chiamarvi così - non potreste persuadere lui a prendere il posto che avete lasciato vacante lassù?

La Statua                      - (scrollando la testa) In coscienza...

Il Diavolo                      - Certo, voi solo potete giudicare: siete stato voi a portarlo qua, in origine; e noi avevamo riposto in lui le migliori speranze. I suoi gusti si accordavano assai bene con quelli dei migliori di noi. Ricordate come cantava? (Comincia a cantare con voce nasale e da ba­ritono d'opera, tremula e alla francese a causa d'un'eternità di disuso)

Vivan le femmine!

Viva il buon vino!

La Statua                      - (riprende il motivo un'ottava più su, con voce da tenore)

Sostegno e gloria

d'umanità!

Il Diavolo                      - Precisamente. Be', adesso, mai che canti per noi.

Don Giovanni               - E ve ne lamentate? L'inferno è pieno di melomani: la musica è la droga dei dannati.

Il Diavolo                      - Voi bestemmiate la più sublime delle arti!

Don Giovanni               - (con freddo disgusto) E voi parlate come una donna isterica che blandisce un violinista.

Il Diavolo                      - Vi compiango. Perché non vi rifugiate in Paradiso? Quello è il luogo che fa per voi. (A Ana) Senora, non potreste persua­derlo, per il suo bene, a cambiar aria?

Ana                               - Ma può andare in Paradiso se lo de­sidera?

Il Diavolo                      - Che cosa glielo impedisce?

Ana                               - E chiunque può... io posso andare in Paradiso, se lo desidero?

Il Diavolo                      - (con un certo disprezzo) Certo, se questi sono i vostri gusti.

Ana                               - Ma com'è, allora, che non ci vanno tutti?

La Statua                      - (ridacchiando) Te lo dico io, cara. Perché il Paradiso è il luogo più angelicamente noioso di tutto il creato: ecco perché.

Il Diavolo                      - Sua Eccellenza lo dice con schiet­tezza militare; ma effettivamente lo sforzo di vivere lassù è intollerabile. Si usa dire che io ne sia stato scacciato; ma, per amor di Dio, me ne sono andato di mia iniziativa, e ho messo su questo locale.

Don Giovanni               - Ma - scusate la franchezza -voi potreste proprio tornarci, se lo desideraste? O è la storia della volpe e l'uva.

Il Diavolo                      - Tornarci! Io ci ritorno spesso. Non avete mai letto il libro di Giobbe?

Ana                               - Ma senza dubbio un grande abisso separa...

Il Diavolo                      - No. L'abisso vero è la differenza tra il temperamento angelico e il temperamento diabolico. Quale abisso è più invalicabile? Pen­sate a ciò che avete visto in terra. Ci fanno delle grandi corse di cavalli, e hanno delle sale di concerto in cui eseguono le composizioni dell'amico di Sua Eccellenza, di Mozart. Coloro che vanno alle corse possono benissimo fare a meno di andarci, e frequentare invece i con­certi; non c'è legge che lo vieti; anzi, è ricono­sciuto che il concerto è più elevato, più nobile della corsa di cavalli. Ma gli appassionati di corse disertano forse il loro sport e affollano le sale di concerti? No. Vi soffrirebbero tutta la noia che il Commendatore ha sofferto in Paradiso.

Ana                               - Io andrò subito in Paradiso.

Il Diavolo                      - (offeso) Come preferite, Senora.

Ana                               - E voi dovete venire con me, padre mio. Non potete star qui. Che dirà la gente?

La Statua                      - La gente! Oh, i migliori stanno qui... Principi della Chiesa e tutti. I santi, gli eletti di ieri, sono i fuorusciti di oggi.

Il Diavolo                      - E' vero. Fin dall'inizio della mia carriera ho capito che a lungo andare avrei finito per vincere grazie al semplice peso dell'opinione pubblica, a dispetto della lunga cam­pagna di calunnie promossa contro di me. L'u­niverso è costituzionale, in fondo, e con una maggioranza come la mia non posso essere te­nuto in permanenza all'opposizione.

Don Giovanni               - Ana, fareste meglio a re­stare qua.

Ana                               - (gelosa) Avete paura che venga con voi!

Don Giovanni               - Ma come? Qua la vostra appa­renza è chiamata bellezza, le vostre aspirazioni virtù, come in terra, ma senza fatti concreti - fame, vecchiaia, morte - che vi contraddi­cano. E voi volete lasciare questo bengodi?

Ana                               - Ma se l'Inferno è così bello, il Paradiso sarà meraviglioso! (Il Diavolo, la Statua e Don Giovanni cominciano tutti insieme a parlare in segno di protesta; poi si fermano vergognosi).

Don Giovanni               - Chiedo scusa...

Il Diavolo                      - Prego, sono stato io a interrom­pervi.

La Statua                      - Stavate per dire qualcosa.

Don Giovanni               - In Paradiso, come lo imma­gino io, cara signora, vivete e lavorate, anziché recitare e fingere. E' la sede dei maestri, della realtà. Lassù affrontate le cose come sono. Sfug­gite finalmente dalle bugie e dalla volgare ri­cerca della felicità, per trascorrere in contem­plazione l'eternità...

La Statua                      - Uff!

Don Giovanni               - Senor Commendatore: io non biasimo il vostro disgusto: una galleria di qua­dri è inutile per un cieco.

Ana                               - E in Paradiso, non v'è che contempla­zione?

Don Giovanni               - Nel Paradiso che io cerco non v'è altra gioia. V'è invece la fatica di aiutare la Vita nella sua lotta per l'ascesa. Pensate a come la Vita si guasta e si sperpera! Ha bisogno di un cervello, questa forza irresistibile, perché nella sua ignoranza possa resistere a se stessa.

Il Diavolo                      - Un bel corpo vale quanto il cer­vello di cento filosofi dispeptici e flatulenti. Lo dicevo a Faust, tempo fa.

Don Giovanni               - Dimenticate che la bellezza senza intelligenza è già stata provata. Cose sconfinatamente più grandi dell'uomo, come il dinosauro e l'ictiosauro, che hanno vagato per la terra con passi da sette leghe, dove sono adesso? Fossili nei musei. Vivevano e volevano vivere; ma per mancanza di cervello non sape­vano come raggiungere il loro scopo, e peri­rono.

Il Diavolo                      - E l'uomo, è un minore distrut­tore di se stesso, grazie al suo cervello? Avete recentemente percorso la terra in lungo e in largo? Io sì; e ho esaminato le meravigliose invenzioni dell'Uomo. Be', vi assicuro che nelle arti della vita egli non inventa un bel niente; ma nelle arti della morte supera la stessa Na­tura e produce, con la chimica e la mecca­nica, tutta la strage di cui sono capaci flagelli, pestilenza e carestia. Il contadino che io tento oggi, mangia e beve le stesse cose di diecimila anni fa; e le case in cui abita si sono modifi­cate in mille secoli meno della moda del cap­pello femminile in poche settimane. Ma quando parte per uccidere, ah, allora egli porta con sé un prodigio di meccanica che sprigiona sotto le sue dita tutte le nascoste energie molecolari e lascia molto indietro il giavellotto, la freccia e la balestra dei suoi genitori. Nella meccanica industriale dell'uomo non v'è che la sua ingor­digia e la sua indolenza: il suo cuore è nelle sue armi. L'Uomo misura la propria forza con la propria distruttività. Che cos'è la sua reli­gione? Un pretesto per odiarmi. Che cos'è la sua legge? Un pretesto per impiccarvi. Che cos'è la sua arte? Un pretesto per estasiarsi davanti a immagini di strage. Che cos'è la sua politica? O l'adorazione di un despota, perché un de­spota può uccidere, o un parlamentare com­battimento di galli. I governanti non esitano un attimo a spendere centinaia di milioni, nei mezzi di strage, mentre ogni volta che c'è da de­stinare un soldo in più nella lotta contro la miseria e l'ignoranza nominano una commis­sione. La fantasia s'infiamma, le energie si rav­vivano all'idea della morte: l'adorano; e più orrenda è, più la assaporano. Dell'Inferno ne hanno notizia attraverso alcuni dei più grandi idioti che siano mai esistiti. Il peggiore di tutti, un Italiano, l'ha descritto come un luogo di ghiaccio, sterco, fuoco e serpenti velenosi: tutto una tortura. Quel somaro, quando non era in­tento a mentire sul mio conto, borbottava su una donna che aveva visto una volta in strada. E ovunque è lo stesso. La più alta forma di let­teratura è la tragedia, una commedia in cui alla fine tutti muoiono ammazzati. Potrei darvi mille esempi che portano alla stessa conclusione: il potere che governa la terra non è il potere della Vita ma quello della Morte, e l'intimo bisogno che ha spronato la Vita ad organizzarsi nell'es­sere umano non è il bisogno di una vita supe­riore, ma di una più efficace macchina di distru­zione. La pestilenza, la carestia, il terremoto, il diluvio erano troppo spasmodici nella loro azione; la tigre e il coccodrillo troppo facil­mente saziabili: occorreva qualcosa di più pe­rennemente, più spietatamente, più ingegnosa­mente distruttivo; e quel qualche cosa fu l'Uo­mo, l'inventore della ruota, del rogo, della ga­lera, della tortura, della sedia elettrica, della spada e del fucile, e soprattutto, della giustizia, del dovere, del patriottismo e di tutti gli altri ismi capaci di trasformare anche la persona più intelligente ed umanitaria, nel più feroce dei distruttori.

Don Giovanni               - Cose vecchie. Ammetto che fino ad ora la Vita ha combattuto malamente contro le forze della Morte e della Degenera­zione; le battaglie di questa campagna sono state una serie di corbellerie, per lo più vinte, come le battaglie militari, a dispetto di chi le comanda.

La Statua                      - Questa è una frecciata contro di me.

Don Giovanni               - Ma anche un generale stupido può vincerne delle battaglie, quando il gene­rale nemico è più stupido di lui: mi appello al Commendatore.

La Statua                      - (con molta serietà) Verissimo, Giovanni. Alcuni somari hanno una fortuna sba­lorditiva.

Don Giovanni               - Appunto. La forza della Vita è stupida; ma non quanto le forze della Morte. E così vince, inevitabilmente. Qualsiasi forma di civiltà capace di produrre i migliori fucili e i più nutriti fucilieri si assicura la sopravvi­venza.

Il Diavolo                      - Precisamente! La sopravvivenza dei più efficaci mezzi non di Vita, ma di Morte. Andiamo pure avanti, se vi fa piacere.

Don Giovanni               - Andiamo avanti, certo!

La Statua                      - Non vedo la possibilità di arri­vare ad una conclusione, Giovanni.

Don Giovanni               - (con una certa impazienza) Siamo già alla conclusione, vecchio capolavoro dalla testa di marmo. Siamo d'accordo che il mammut e l'uomo, il topo e il dinosauro, le pulci e i Padri della Chiesa, sono tutti esperi­menti più o meno riusciti della Vita per pla­smarsi in individui sempre più alti, essendo l'individuo ideale onnisciente e onnipotente, come un Dio?

Il Diavolo                      - Sono d'accordo, per il bene della discussione.

La Statua                      - Sono d'accordo per evitare di­scussioni.

Ana                               - Io mi oppongo energicamente per quanto riguarda i Padri della Chiesa.

Don Giovanni               - Opposizione accolta, giacché sul resto siamo tutti d'accordo. Adesso, conve­nite con me che la Vita non si è accontentata del successo che ha ottenuto nel produrre es­seri perfetti per bellezza fisica: altrimenti, dopo aver creato gli uccelli, che ci sono così straor­dinariamente superiori col loro volo e le loro splendide piume, non avrebbe seguito un'altra pista per ottenere l'orrendo scimmione del quale siamo nipoti.

Il Diavolo                      - Concludete dunque che la Vita tendeva verso la goffaggine e la bruttezza?

Don Giovanni               - No, demonio perverso che siete, mille volte no! La vita tendeva al cervello, suo figlio prediletto, organo grazie al quale po­trà conquistare la comprensione di se stessa.

La Statua                      - Questa è metafisica, Giovanni. Ma diavolo! Oh. Scusate...

Il Diavolo                      - Prego, prego, dite pure. Ho sem­pre considerato un complimento l'uso del mio nome quale appoggio all'enfasi. L'ho sempre considerato un complimento: servitevene fin­ché volete, Commendatore.

La Statua                      - Grazie; molto gentile. Io volevo chiedere a Giovanni perché diavolo la Vita dovrebbe preoccuparsi di avere un cervello, di capire se stessa. Perché non si contenta di di­vertirsi?

Don Giovanni               - Senza cervello, Commenda­tore, vi divertireste senza saperlo, e quindi non ci provereste gusto.

La Statua                      - Vero, verissimo. Ma a me basta quel tanto di cervello che occorre a farmi sa­pere che mi sto divertendo. Non voglio capire perché. Anzi, preferisco non capirlo. So per esperienza che il piacere non tollera la rifles­sione.

Don Giovanni               - Ecco perché il cervello è così poco popolare. Eppure senza di esso la Vita precipiterebbe nella morte. Infatti fino ad oggi, una sola categoria di uomini è stata universal­mente rispettata in mezzo a tutti i conflitti di interessi e di illusioni...

La Statua                      - Alludete ai militari.

Don Giovanni               - No, Commendatore! Quando il militare si avvicina il mondo mette in salvo l'argenteria e allontana le donne. No: io non canto le armi e il capitano, io canto il filosofo; colui che cerca di scoprire nella contempla­zione l'intima volontà del mondo. Tutte le altre categorie di uomini sono dei fastidiosi falli­menti. Quando ero sulla terra, professori di tutte le risme mi giravano attorno. I dottori in medicina mi offrivano rimedi ciarlataneschi per malanni ipotetici. Io rispondevo che non ero un ipocondriaco; allora mi chiamavano Ignoramus e andavano per i fatti loro. I dottori in divinità mi ordinavano di pensare a salvarmi l'anima; ma io non ero neppure un ipocondriaco spiri­tuale; allora mi chiamavano Ateo e andavano per i fatti loro. Poi, veniva il politicante, e mi diceva che lo scopo supremo della Natura era di mandare lui al Parlamento. Io gli rispondevo che, ci andasse o no, me ne infischiavo, e allora mi chiamava Assenteista e andava per i fatti suoi. Poi...

La Statua                      - Poi?

Don Giovanni               - Poi è venuto l'Artista roman­tico e da lui ho ricavato un certo vantaggio: le sue canzoni mi insegnavano a udire meglio, i suoi dipinti a vedere meglio, le sue poesie a sentire più profondamente. Alla fine, però, è stato lui che m'ha indotto ad adorare la Donna.

Ana                               - Giovanni!

Il Diavolo                      - (alla Statua) Ci siamo. Adesso che è passato all'argomento donna, chi lo ferma più? Eppure vi confesso che è per me argo­mento supremamente interessante.

Don Giovanni               - Sì: mi ridussi a credere che nella voce della Donna ci fosse tutta la musica del canto, nel suo volto tutta la bellezza della pittura, nella sua anima tutto il turbamento della poesia...

Ana                               - E ne siete stato deluso. Ma che colpa ne aveva lei, se le avevate attribuito tante perfezioni?

Don Giovanni               - Una parte di colpa l'aveva. Sì, perché prima con scaltrezza mirabilmente istin­tiva rimaneva zitta, permettendomi di attri­buirle le mie stesse visioni, i miei stessi pen­sieri, i miei stessi sentimenti e lasciandomi così persuadere che mi amava; però dopo, quando finalmente parlava, non diceva mai « Sono fe­lice: il mio amore è soddisfatto »; no, diceva subito « Quando torni? ».

Ana                               - Questo è esattamente quello che di­cono gli uomini.

Don Giovanni               - lo non l'ho mai detto. Ma le donne sì, tutte. Be', questa battuta mi ha sempre preoccupato perché significava che da al­lora in poi la signora contava le mie ore come fossero già tutte a sua disposizione.

Il Diavolo                      - Ed è qui che si rivelava la vostra mancanza di cuore.

La Statua                      - Eppure è vero, dicono proprio così. Quel « Quando torni? » mi ha sempre procu­rato una lieve scossa, salvo quando ero vera­mente cotto.

Don Giovanni               - lo fuggivo. Sono diventato fa­moso per le mie fughe.

Ana                               - Infame, volete dire, non famoso.

Don Giovanni               - Da voi non sono fuggito.

Ana                               - Perché non ve ne ho dato la possibilità. Se gli uomini non vogliono essere fedeli alla loro casa e ai loro doveri, bisogna costringerli ad esserlo. Ah, voialtri vorreste tutti sposare belle incarnazioni della musica, della pittura, della poesia. Be', non potete averle, perché non esistono. Se la carne e il sangue non vi bastano, fatene a meno. Le donne debbono pur accon­tentarsi di mariti di carne e sangue, e spesso hanno poco anche di questo. (Il Diavolo sembra dubitare. La Statua contrae il viso) Non vi pia­ce, eh? Ma è la verità, e dovete ingoiarla.

Don Giovanni               - Avete esposto in poche bat­tute tutta la mia avversione all'amore. Proprio per questo ho voltato le spalle all'uomo roman­tico con la natura d'artista. Gli ho detto che quel suo adorare la bellezza e idealizzare la Donna non valeva un'acca come filosofia della vita; e così m'ha chiamato Filisteo, e se ne è andato anche lui.

La Statua                      - E adesso passiamo agli aneddoti piccanti. Un conquistatore come voi, deve averne da raccontare.

Don Giovanni               - Conquistatore? Quando mi sono trovato faccia a faccia con la Donna, ogni fibra del mio cervello mi consigliava di rispar­miare lei e di salvare me stesso. No, diceva la mia morale. No, diceva la mia coscienza. No. Il mio orecchio e il mio occhio strappavano a brandelli la sua voce, i suoi lineamenti, il suo colorito. Io coglievo tutte le sue somiglianze col padre e con la madre, tanto da capire come sarebbe stata di lì a trent'anni. Osservavo il ba­gliore dell'oro di un dente guasto nella sua bocca ridente; facevo curiose osservazioni su­gli strani odori della farmaceutica interna del corpo. No, no, continuava a dire il mio cer­vello. Ma mentre stavo inventando un pretesto per salutare la signora, la Forza Vitale mi af­ferrava e mi lanciava fra le braccia di lei come un marinaio lancia una coda di pesce in bocca a un gabbiano!

La Statua                      - Facevate meglio a squagliacela senza pensarci tanto. Come tutti gli intellet­tuali, avete più cervello di quanto ve né gio­verebbe.

Il Diavolo                      - E siete stato più felice dopo quest'esperienza?

Don Giovanni               - Più felice no; più saggio sì. Ho capito quanto era inutile cercare di porre condizioni alla irresistibile forza della Vita; predicare prudenza, onore, castità...

Ana                               - Don Giovanni: una parola contro la ca­stità è un insulto a me.

Don Giovanni               - Io non dico niente contro la vostra castità poiché ha assunto la forma di un marito e di dodici figli! Che cosa avreste po­tuto fare di più, se foste stata la più disinvolta delle donne?

Ana                               - Avrei potuto avere dodici figli e nessun marito; avrei ugualmente popolato la terra, ma ci sarebbe stata una bella differenza!

La Statua                      - Brava Aria! Giovanni: siete anni­chilito.

Don Giovanni               - Affrontiamo la realtà, cara Ana. Alla Forza Vitale non interessano l'ono­re e la castità; essa rispetta il matrimonio soltanto perché è un suo espediente per otte­nere il maggior numero di bambini e la più attenta cura della prole. Il matrimonio è la più licenziosa fra le istituzioni umane.

Ana                               - Giovanni!

La Statua                      - (protestando) Ma via!

Don Giovanni               - (risoluto) La più licenziosa: ecco il segreto della sua popolarità. E una donna che cerca un marito è la meno scrupo­losa di tutte le bestie da preda. Aria: quando la vostra santa madre vi ha costretta a impa­rare una mezza dozzina di brani sulla spinetta - che ella odiava quanto voi - quale altro scopo aveva, se non quello di ingannare i vo­stri corteggiatori convincendoli che vostro ma­rito avrebbe avuto in casa un angelo capace di colmarlo di melodie? Voi avete sposato il mio amico Ottavio: ebbene, avete mai più aperto la spinetta dopo l'ora in cui la Chiesa lo ha unito a voi?

Ana                               - Una giovane sposa ha ben altro da fare che star seduta davanti alla spinetta; e così perde l'abitudine di suonare.

Don Giovanni               - Non la perde se ama la mu­sica. No: il fatto è che getta via l'esca appena la vittima ha addentato l'amo.

Ana                               - (con amarezza) Gli uomini, invece, non gettano mai via l'esca. Il marito non diventa mai negligente, egoista, brutale... oh, no, mai!

Don Giovanni               - E questo cosa prova? Sol­tanto che l'eroe è un impostore grande quanto l'eroina.

La Statua                      - Mio giovane amico: se aveste vissuto fino all'età di Ana, o anche solo fino alla mia, avreste imparato che chi si sottrae all'incubo della schiavitù familiare per pensare solo a godersela, non fa che cadere in un altro incubo: quello della vecchiaia brutta, sola e impotente, e della morte. Da giovane piacevo alle donne, ho avuto anch'io la mia parte, e sapevo bene che il matrimonio per me, ufficialetto smargiasso fino allora mai sconfitto, si­gnificava sconfitta e cattura; eppure sposai la madre di Ana, o per meglio dire, per essere più preciso, mi lasciai sposare da lei.

Ana                               - Padre mio!

La Statua                      - Mi dispiace di scandalizzarti, bimba mia, ma siccome Giovanni ha spogliato questa discussione di ogni brandello di decenza, posso ben spiattellare la verità!

Don Giovanni               - Ma non ho ancora finito di raccontarvi la mia esperienza di quand'ero sulla terra, e facevo delle profferte alle signore.

La Statua                      - Comincio a sospettare che non finirete mai. Vi piace troppo udire la vostra voce. Diteci piuttosto cosa rispondevano loro.

Don Giovanni               - Confidenza per confidenza. Raccontatemi cosa dicevate voi alle signore.

La Statua                      - Io? Oh, io giuravo che sarei stato fedele fino alla morte; che mi sarei ucciso di fronte a un rifiuto; che nessuna donna avrebbe mai potuto essere per me ciò che lei...

Ana                               - Lei! Chi?

La Statua                      - Quella del momento. Certe cose le dicevo sempre. Come pure che, anche a ottant'anni, un capello bianco della donna amata mi avrebbe fatto tremare più della treccia do­rata della più stupenda testa giovane.

Don Giovanni               - (indignato) Vecchio sporcac­cione.

La Statua                      - (orgoglioso) Perché? In quel mo­mento ci credevo con tutta l'anima. Ed era questa sincerità a rendermi vittorioso.

Don Giovanni               - Essere tanto avido di una donna da ingannare voi stesso, nell'ansia di ingannare lei: sincerità, la chiamate!

La Statua                      - Oh, maledetti sofismi. Io ero un innamorato, non un legale, e le donne mi ama­vano per questo, Dio le benedica.

Don Giovanni               - Ve lo facevano credere.

Il Diavolo                      - Tuttavia, Senor Giovanni, continuo a non vedere in che cosa questi episodi della vita terrena vostra e del Senor Commendatore possono screditare il mio punto di vista sulla vita. Vi ripeto che qui trovate tutto ciò che cercavate, e nulla di ciò che sfuggirete.

Don Giovanni               - Al contrario: qui ho tutto ciò che mi ha deluso, senza niente di ciò che non ho ancora provato e di cui avverto l'as­senza. Questo luogo di eterno piacere è mor­tale, per me. Nella ricerca del piacere, io non ho mai trovato la felicità.

Il Diavolo                      - Eppure è stata quella ricerca, che vi ha reso un così interessante eroe da leggenda.

Don Giovanni               - Ma non era l'amore per la donna che mi abbandonava nelle sue mani: era la fatica, lo sfinimento. Da bambino, quando mi ammaccavo la testa contro un sasso, cor­revo dalla donna più vicina a sfogare il mio dolore contro il suo grembiule. Da grande, quando mi ammaccavo l'anima contro le bru­talità e le stupidità con cui mi scontravo, fa­cevo di nuovo ciò che aveva fatto da bambino. Ma era solo un momento di respiro. V'assicuro che non troverò pace finché non arriverò a qualcosa di meglio di me stesso. La civiltà che voi schernite è il risultato dello sforzo dell'uomo per fare di sé qualcosa di più dello scopo della donna. Ma ora egli deve superare se stesso, verso mete ancora ignote.

Il Diavolo                      - Il Superuomo, eh?

Don Giovanni               - Sì, questa è la legge della mia esistenza, l'imperativo che ha ridotto per me l'amore al piacere d'un momento, l'arte a un allenamento delle mie facoltà, e la religione a una scusa per la mia pigrizia. Ed è l'assenza in voi di quell'istinto, che fa di voi lo strano mostro chiamato Diavolo. E' il successo che avete avuto nel distrarre gli uomini dal loro vero scopo, che vi ha meritato il nome di Ten­tatore. Essi seguono la vostra volontà anziché la propria; ed è questo che li rende falsi, inquieti, artificiali, sciagurati come sono.

Il Diavolo                      - Quante chiacchiere. E' già stato tutto detto; ma che cambiamento ha provo­cato. Che cura se ne è dato il mondo?

Don Giovanni               - Chiacchiere, sì. Ma perché sono soltanto chiacchiere? Perché, amico mio, la religione, la morale, l'arte, il patriottismo e quel che segue non sono che parole, utili per dar da intendere ai barbari che bisogna adot­tare la civiltà, o ai poveri civili che bisogna sottomettersi alle ruberie e alla schiavitù. Que­sto è il segreto di famiglia della classe diri­gente; e se noi, che apparteniamo a quella classe, aspirassimo a una maggior Vita per il mondo anziché a un maggior potere e a un maggior lusso per le nostre miserabili persone, quel segreto ci farebbe grandi.

Il Diavolo                      - Sulla terra, forse, alcune di que­ste cose sono vere, perché la gente non è educata e non può apprezzare la mia religione dell'amore e della bellezza; ma qui...

Don Giovanni               - Oh, sì, lo so. Qui tutto è amore e bellezza. Uff! Commendatore: vi sono belle donne in Paradiso?

La Statua                      - Nessuna. Proprio nessuna. Tutte sciatte. Potrebbero essere uomini di cinquanta anni.

Don Giovanni               - Non vedo l'ora di arrivarci. Vi si parla di bellezza? Vi sono molti artisti?

La Statua                      - Macché. Non ammirano una bella statua neanche quando se la vedono davanti.

Don Giovanni               - Vado.

Il Diavolo                      - Don Giovanni: devo proprio dirvi la verità?

Don Giovanni               - Non me l'avete già detta?

Il Diavolo                      - Fino a un certo punto, sì. Ma adesso voglio andare oltre, e rivelarvi che gli uomini si stancano di tutto, del Paradiso non meno che dell'Inferno; e che tutta la storia non è che il grafico delle oscillazioni del mondo tra quei due estremi. Una epoca non è che un bat­tito del pendolo; e ogni generazione pensa che il mondo progredisca perché il pendolo seguita a muoversi. Ma quando sarete vecchio quanto me, scoprirete la profonda verità di ciò che disse quel mio amico, secondo il quale non v'è mai nulla di nuovo sotto il sole. Vanitas vanitatum...

Don Giovanni               - Questo è ancora più insidioso del vostro inno all'amore ed alla bellezza! Voi consigliate all'uomo di smettere di mangiare, perché distrugge il proprio appetito nell'atto di soddisfarlo. Ma è possibile che quell'im­menso meccanismo non abbia scopo?

Il Diavolo                      - Nessuno scopo. Avendo uno scopo, voi pensate che anche la Natura debba averlo. Tanto varrebbe pretendere che abbia le dita delle mani e dei piedi perché le avete voi.

Don Giovanni               - Ma se non servissero e non avessero scopo, io non le avrei! E io, amico mio, faccio parte della Natura, come le mie dita fanno parte di me. Se il mio dito è un organo col quale afferro la spada e il mando­lino, il mio cervello è un organo col quale la Natura lotta per capirsi. Se non fossi posse­duto da uno -scopo che trascende il mio, sa­rebbe meglio che fossi bifolco anziché filosofo; perché il bifolco campa quanto il filosofo, man­gia di più, dorme meglio, e gode nel grembo di sua moglie con minor sospetto. Il filosofo è chiuso nella morsa della Forza Vitale. Questa Forza gli dice « io ho fatto mille cose meravi­gliose senza la coscienza di farle: adesso voglio conoscere me stessa e scegliere il mio cam­mino. E questo è ciò che tu devi riuscire a fare » ordina la Forza Vitale al filosofo; « tu che morrai, per me, finché io creerò un altro cervello e un altro filosofo che seguiti l'opera ».

Il Diavolo                      - A che serve sapere?

Don Giovanni               - Una nave non va verso la propria destinazione meglio di quanto una trave vada alla deriva? Il filosofo è il pilota della Natura. Ecco la nostra differenza: essere all'Inferno è andare alla deriva; essere in Pa­radiso significa avere un timone.

Il Diavolo                      - Per finire ugualmente sugli sco­gli. Via, via, andate per la vostra strada, Senor Giovanni, se preferite essere l'ordigno di una balorda forza universale, anziché il padrone di voi stesso. Ma con la vostra natura, alla fine, disperato e decrepito, rimpiangerete invano il più stupido fra tutti i sacrifici: il sacrificio del potere di godimento. In una parola, vi rimarrà il castigo dello sciocco, che insegue il meglio prima di essersi assicurato il bene.

Don Giovanni               - Ma per lo meno, non mi sarò annoiato. E quindi addio, Senor Satana.

Il Diavolo                      - (garbato) Arrivederci, Don Gio­vanni. Penserò spesso alle nostre interessanti chiacchierate. Vi auguro ogni felicità; ma se doveste cambiar idea, non dimenticate che le nostre porte sono sempre aperte.

Don Giovanni               - Senor Commendatore, voi conoscete la strada che conduce alla frontiera tra l'Inferno e Paradiso. Siate tanto buono da indicarmela.

La Statua                      - Oh, la frontiera non è che la differenza tra due punti di vista. Qualsiasi strada vi condurrà dall'altra parte, se proprio ci volete arrivare.

Don Giovanni               - Va bene. (Salutando Dona Ana) Servo vostro, Senora.

Ana                               - Ma io vengo con voi.

Don Giovanni               - Posso trovare « la mia » strada del Paradiso, Aria, ma non posso trovare la vostra. (Svanisce).

La Statua                      - (in direzione di lui) Buon viag­gio, Giovanni. (Lascia che il vento porti via, dietro a Don Giovanni, un finale squillo dei suoi grandi accordi rullanti, in segno di saluto. Una debole eco della prima spettrale melodia di rimando, come cenno di ricevuta).

Il Diavolo                      - (cupo) La sua partenza è una sconfitta politica. Io non posso trattenere gli Adoratori della Vita: vanno via tutti. C'è qual­cosa di innaturale in questi individui. Non ascoltate il loro vangelo, Senor Commenda­tore: è pericoloso. Il superumano conduce a un indiscriminato disprezzo dell'umano. Per un uomo, i cavalli, i cani e i gatti sono sol­tanto specie, al di fuori del mondo morale. Ebbene, per il Superuomo anche gli uomini e le donne sono soltanto specie, al di fuori del mondo morale.

La Statua                      - E che è mai il Superuomo?

Il Diavolo                      - Non avete incontrato in Para­diso, tra i nuovi arrivati, quel pazzo mezzo tedesco e mezzo polacco... come si chiamava? Ah, sì, Nietzsche.

La Statua                      - Nietzsche? Mai sentito nominare.

Il Diavolo                      - Be', è stato lui a resuscitare il Superuomo, che è vecchio quanto Prometeo.

La Statua                      - Però « Superuomo » è un bel grido; e un bel grido è una battaglia quasi vinta. Gradirei conoscerlo questo Nietzsche.

Il Diavolo                      - Disgraziatamente ha incontrato Wagner quaggiù e si sono azzuffati, e alla fine Nietzsche, furibondo, se n'è andato in Para­diso. E' stata una liberazione. E adesso, amico mio, andiamo subito al mio palazzo a festeg­giare il vostro arrivo con una bella cerimonia musicale.

La Statua                      - Con piacere: siete molto gentile.

Il Diavolo                      - Di qua, Commendatore. Scen­diamo dalla vecchia botola. (Si mette ritto sulla botola funeraria).

La Statua                      - Bene. (Riflettendo. Si mette ritto sulla botola funeraria vicino al diavolo. La pietra comincia a scendere, lentamente. Dall'abisso salgono bagliori rossi). Ah, questo mi ricorda i vecchi tempi.

Il Diavolo                      - Anche a me.

Ana                               - Fermi! (La discesa si interrompe).

Il Diavolo                      - Senora, voi non potete passare di qua. Voi avrete un'apoteosi.

Ana                               - Non è per questo che vi ho chiamati. Ditemi: dove posso trovare il Superuomo?

Il Diavolo                      - Non è stato ancora creato, Se­nora.

La Statua                      - E forse non lo sarà mai. An­diamo, le faville mi fanno sternutire. (Scen­dono).

Ana                               - Non è ancora creato! Allora la mia opera non è compiuta. (Si fa il segno della Croce, con devozione. Quindi grida all'Uni­verso) Un padre! un padre per il Superuomo. Svanisce nel vuoto; e di nuovo vi è il nulla; tutta la vita sembra sospesa all'infinito. Poi vagamente, non si sa dove, vi è il grido di una voce umana viva. Si vede, con una scossa, il picco di una mon­tagna stagliarsi contro uno sfondo più chiaro. Il cielo è tornato da lontano; e all'improvviso ricor­diamo dove eravamo. Il grido si fa più preciso e pressante. Dice: « Automobile! Automobile! ». All'improvviso riappare tutta la realtà; in un attimo è pieno mattino nella Sierra, i briganti balzano in piedi e si avviano verso la strada mentre il pastore corre giù dalla collina, avvertendo che si avvicina un'altra automobile. Tanner e Mendoza si alzano, esterrefatti, e si guardano storditi. Straker, prima di alzarsi in piedi, rimane un momento seduto a sbadigliare, poiché è per lui un punto d'onore di non mostrarsi soverchiamente interessato dalla agi­tazione dei banditi. Mendoza dà un'occhiata rapida attorno a sé per assicurarsi che i suoi seguaci abbiano ubbidito all'allarme; poi scambia una pa­rola in privato con Tanner.

Mendoza                       - Ha sognato?

Tanner                           - Maledettamente. E lei?

Mendoza                       - Sì. Non ricordo che cosa. Ma ho sognato di lei.

Tanner                           - E io di lei.

Mendoza                       - L'avevo avvertito. (Si ode sparare sulla strada). Stupidi! Giocano col fucile. (/ briganti tornano indietro di corsa, spaventati) Chi ha sparato? (A Duval) Sei stato tu?

Duval                            - (affannato) No. Hanno sparato loro.

L’Anarchico                  - L'avevo detto che bisognava cominciare abolendo lo Stato. Adesso siamo perduti.

Il Socialdemocrat. rissoso      - (scalpitando nell'anfiteatro) Scappate! Via tutti!

Mendoza                       - (lo afferra per il bavero: lo butta in terra. Subito tira fuori il pugnale). Questo lo piglia il primo che si muove. (Blocca le uscite. Tutti si fermano). Cos'è successo?

Il Socialdem. imbronciato      - Un'auto­mobile...

L’Anarchico                  - Tre uomini...

Duval                            - Deux femmes...

Mendoza                       - Tre uomini e due donne! Vi fanno paura?

Il Socialdemocrat. rissoso      - (alzandosi) Sono scortati. Oh, guarda anche tu, Mendoza.

Mendoza                       - Due autoblinde piene di soldati.

L’Anarchico                  - Hanno sparato in aria. Era un segnale. (Straker fischia il suo motivetto pre­ferito, che suona agli orecchi dei briganti come una marcia funebre).

Tanner                           - Sembra una spedizione per cattu­rarvi. Ci avevano detto di aspettare, ma io avevo fretta.

Il Socialdemocrat. rissoso      - (straziato dall'an­sia) E noi siamo qua, fermi ad aspettarli.

Mendoza                       - Silenzio, cretino. Ci penso io. (A Tanner) Compagno: non ci tradirai?

Tanner                           - Non ti tradirò, compagno. Abbiamo trascorso una gradevole serata insieme: ecco tutto.

Straker                          - lo non devo niente a nessuno, ca­pito?

Mendoza                       - (rivolgendosi a lui, con fervore) Giovanotto, la polizia mi perquisirà. Troverà il ritratto di Luisa. Sarà pubblicato sui gior­nali. Vergognati. Sarà colpa tua, ricordatelo.

Straker                          - (con ira) Porco ricattatore!

Mendoza                       - Linguaggio indegno del fratello di Luisa! Ma non importa: la museruola te l'ho messa. (Mendoza si volta a guardare in faccia i suoi uomini, che indietreggiano paurosi attra­verso l'anfiteatro, verso la cava per rifugiarsi dietro a lui, e intanto un nuovo gruppo, imba­cuccato per l'automobilismo, viene giù dalla strada, in piena agitazione. Anna, che viene diretta verso Tanner, è la prima ad avanzare; dietro a lei Violetta, che cammina sul terreno accidentato appoggiandosi a Ettore che le tiene la mano destra e a Ramsden che le tiene la sinistra. Mendoza va al suo posto presiden­ziale, e si siede calmo, con i suoi uomini in fila dietro a lui. Il suo stato maggiore, com­posto da Duval e dall'Anarchico, è a destra e i due Socialdemocratici sono alla sua sinistra).

Anna                             - E' Jack!

Tanner                           - Preso.

Ettore                            - Certo, è lui! L'ho detto che era lei, Tanner.

Violetta                         - Ma che fa qui con tutti questi uomini?

Anna                             - Perché sei partito senza avvertirci?

Ettore                            - Il mazzo di rose è mio, signorina Anna. (A Tanner) Quando abbiamo scoperto che lei era partito, la signorina Anna ha scom­messo un mazzo di rose che la mia macchina non l'avrebbe raggiunto prima di Montecarlo.

Tanner                           - Ma questa non è la strada di Mon­tecarlo.

Ettore                            - Non ha importanza. La signorina Anna l'ha inseguita tappa per tappa. E' una vera Sherlock Holmes.

Tanner                           - La Forza Vitale! Sono perduto.

Ottavio                          - (viene saltellando allegramente giù dalla strada nell'anfiteatro, e si mette tra Tan­ner e Straker) Son felice che non ti sia accaduto nulla. Pensa, avevamo paura che fossi stato catturato dai briganti.

Ramsden                       - (che seguita a fissare Mendoza) La faccia di questo suo amico non è nuova neppure a me. (Mendoza si alza cortesemente e viene avanti tra Anna e Ramsden).

Ettore                            - Anche a me.

Ottavio                          - Anch'io la conosco benissimo, si­gnore, ma non ricordo dove l'ho incontrata.

Mendoza                       - (a Violetta) Si ricorda di me, si­gnora?

Violetta                         - Oh, benissimo: ma ho così poca memoria per i nomi...

Mendoza                       - Londra, Hotel Savoy. (A Ettore) Lei, signore, veniva sempre a far colazione con questa signora. (Indica Violetta) E lei, signore- (a Ottavio) conduceva spesso questa signora- (indica Anna) e sua madre a cena prima di teatro. (A Ramsden) Lei, signore, veniva spesso dopo teatro, con (abbassa la voce, per sussurrare confidenzialmente ma in modo perfetta­mente udibile) con molte signore diverse.

Ramsden                       - (arrabbiato) E a lei che importa?

Ottavio                          - Violetta, credevo che tu e Malone vi foste appena conosciuti!

Violetta                         - (seccata) Pensavo che quest'uomo fosse il direttore.

Mendoza                       - Cameriere, signora. Soltanto il ca­meriere. Ricordo: tutti loro godevano della reciproca compagnia. L'arguivo dal modo gene­roso con il quale mi trattavano.

Violetta                         - Che insolenza! (Gli volta le spalle e si allontana, con Ettore, su per la collina).

Ramsden                       - Ora basta. Non pretenderà che le signore la trattino come un vecchio conoscente per il solo fatto che lei le ha servite a tavola?

Mendoza                       - Chiedo scusa: ma è stato lei a mostrare di conoscermi. E le signore hanno seguito il suo esempio. Comunque, questa espo­sizione dello sciagurato modo di vivere della sua classe, chiude l'incidente. Ella aveva tro­vato un uomo capace di ragionare e voi tutti lo avete insultato.

Violetta                         - I soldati! eccoli, scendono dalle loro macchine.

Il Socialdemocrat. rissoso   - (al colmo del­ l'angoscia) Oh, basta! che aspettiamo?

Mendoza                       - (a denti stretti) Avanti, parlate di politica, cretini che non siete altro: niente è più rispettabile che parlare di politica. Parlate di politica, vi dico! (/ soldati sfilano sulla strada e si schierano dominando l'anfiteatro coi fucili spianati. I briganti, lottando con l'indomabile impulso a nascondersi gli uni dietro gli altri, cercano di mostrarsi il più possibile indifferenti. Mendoza si alza in piedi, superbo, imperterrito. L'ufficiale che comanda viene giù dalla strada, nell'anfiteatro: guarda con durezza i briganti e con curiosità Tanner).

L'Ufficiale                    - Chi sono questi uomini, Senor Inglés?

Tanner                           - La mia scorta. (Mendoza, con un sorriso mefistofelico, s'inchina profondamente. Un sorriso irreprimibile illumina uno dopo l'altro il volto dei briganti. Si toccano il cap­pello, salvo l'anarchico, che sfida lo Stato con le braccia conserte).

FINE