Vera Verk

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VERA VERK

Dramma in tre tempi

di FULVIO TOMIZZA

PERSONAGGI

FRANCESCA SARDOK

SVALDO, il figlio

ADELE, la nuora

VERA VERK, l'altra nuora

ARMANDO, il nipote

ROSA, la nipote

NINA, la serva

Prima donna Seconda donna Terza donna

Un vecchio Un uomo Una giovane

Una lattaia

 L'azione sì svolge in un villaggio del Carso istriano intorno al 1930.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

// centro di un villaggio carsico. La scena vi com­prende il cortile dei Sardok con la massiccia tavola di pietra, la porta d'entrata alla casa e parte del mu­ro frontale dì questa con una finestra nel mezzo. Davanti passa la strada principale alla quale si ac­cede dalla basso-recintata corte attraverso un can­cello di ferro. Il paese continua. La strada traccia una curva tagliando il paese nel mezzo, in salita; e prosegue orizzontalmente menando al pozzo fuori sce­na. A questo bivio una nicchia con icona o semplice Cristo in legno. Tetti ammassati e muretti che ac­compagnano le strade. I contorni dì porte e finestre sono dipinti in calce; la parete dietro la tavola di pietra in un violento, rustico indaco. L'azione si svol­ge nella corte dei Sardok, dove la sposa sta estraen-do biancheria dai bauli e la nonna cuce assorta.

Rosa                                - Che nozze sono queste? Domani all'aria, un solo giorno al sole, poi di nuovo nei cassoni, per sempre, come una zitella che qualcuno ha avuto cuo­re di burlare.

Francesca                         - È roba tua, quella. Merletti e sotta-nine che hai cucito con le tue sante mani.

Rosa                                - Per indossarli una sola volta. Potessi alme­no mettermeli tutti, qua e qua.

Francesca                         - Vorresti ingingillarti come una Ma­donna? Pazzerella. Ci butterai l'occhio sopra e dirai: è roba mia; ero lassù allora, una bambina, e mi pun­gevo le dita ogni volta sentivo il suo passo. La farai vedere alle comari. E poi non è tutta roba da cam­pagna, per tavolate di mietitori. Ci sono cose, per sotto, che a lui non spiaceranno certo.

Rosa                                - Dovrebbe essere di ritorno. L'acqua bolle sul fuoco; deve far festa con gli amici.

Francesca                         - Chissà la gente che avranno trovato al mulino. Siamo ormai nelle fiere           - San Lorenzo, San Rocco, la Madonna            - e c'è solo questo mulino per tutti i paesi. E poi la gente vuole essere pronta. Non sei la sola a sposarti, né noi i soli a partire. II mondo è un altro, non ci puoi far niente: andare anche noi. Come se tra questi quattro sassi si fos­sero d'un tratto moltiplicate le vipere.

Rosa                                - Sarà lo zio a fargli perdere tempo. In que­sti giorni gli sta d'intorno più che mai, a me non guarda affatto.

Francesca                         - Un padre ha da parlare al figlio la vigilia delle nozze.

Rosa                                - Lui ci è contro. Mi avevate detto che av­vicinandoci al giorno delle nozze sarebbe cambiato. Invece non fa che girare con la testa bassa, e fiutare e sbattere le porte, masticando bestemmie quando passo.

Francesca                         - Ha i suoi pensieri. E poi non è mai stato gran che d'accordo su queste nozze fra cugini, lo sai. Non come me che vi vedevo come due colombi nati nello stesso nido, incapaci di volervene lontani. Si vede che gii uomini la pensano diverso.

Rosa                                - Non è solo questo, lo sapete bene. Mi ha in odio, evita di guardarmi, come portassi indosso una malattia.

Francesca                         - Quand'eri bambina non vedeva altri. Veniva a casa: come sta la Rosina? Ti cercava supe­rando la moglie che gli porgeva il figlio in braccio.

Rosa                                - Io ricordo che ha sempre cercato di sfug­girmi con lo sguardo, quasi volesse impedirmi di leg­gere i suoi brutti pensieri.

Francesca                         - Da quando ti sei fatta grande. Gli uomini sono vergognosi più di quanto credi. E la bambina quando mette fuori i pomelli e s'arrotonda, per loro è ormai una donna. Tu non hai tardato mol­to a farti avanti.

Rosa                                - Gli correvo tante volte incontro per get­targli le braccia al collo. E anche adesso: è il padre del mio sposo, è poi mio zio. Un giorno mi fermò e disse che non era bello portarsi cosi.

Francesca                         - Ma di che parlare in questo ultimo quarto di sole! La Nina sta levando le pinze: che profumo. La mia colombella avrà le sue nozze coi compari più facoltosi del Carso - gente di grandi mercati. Del denaro c'è, soltanto dei manzi che ab­biamo venduto. Poi rimane la terra. Non preoccu­parti, che il tuo stanzino tutto solo l'avrai. (Sottovo­ce) Anche gli altri corrono giù, alla "fabbrica" - quante braccia potrà accogliere questa fabbrica? - ma per il tuo sposo un lavoro ci sarà. Me lo ha assi­curato il signor Marini che si diceva tanto amico di tuo nonno defunto, poveretto. Di che temere? (Alle­gra, guardando verso la strada) E poi l'Armando è un giovanotto che sotto un braccio porta il sacco e con l'altro è buono di giocarci la mora. (La I Donna passa per la strada e si ferma al cancello)

I Donna                           - Siamo in grandi preparativi, e, giusta­mente, in allegria.

Francesca                         - Comare; non mancate agli appunta­menti, voi.

Rosa                                - Salute a voi, santola.

I Donna                           - Passavo di qua e mi son detta: andia­mo dove fuma il camino. C'è un gran parlare su ogni soglia; al pozzo l'acqua trabocca dai secchi. Persino nei paesi più lontani si sente che i Sardok sposano. E a questa nuova se n'è aggiunta un'altra: oggi sposano, domani partono. Andiamo dunque dove sta la causa di tanto fumo.

Francesca                         - Di questi tempi c'è poca legna da ardere radici che s'incontrano per via, che la gente è abituata ormai ad occuparsi d'altro. Voglio dire si fa una cosa in famiglia.

I Donna                           - Si dice ; poi vengono gli amici, i parenti, gente che s'era già scordato. Se non ci si vede alle nozze e ai funerali? In queste occasioni il sangue si ritrova.

Francesca                         - Se pensate a quel sangue, esso è perso per sempre. Se volete entrare, il cancello è aperto.

I Donna                    - Bacerò più tardi la sposa. Si sente chiedere in giro se è il caso di aspettarsi altri ospiti, magari lontani e ormai dimenticati vent'anni sono molti. La voce circola, la gente corre ancora 'ai mer­cati. Oh Dio, può sempre darsi; la strada è libera per tutti, vi pare?

Francesca                  - Le pietre non sono ancora coperte di fango, ma ferme là dove ci sono cadute di mano. Anche la vostra, comare Marena; ricordate?

I Donna                    - Che contano gli altri in queste cose? La gente si mette dalla parte dei forti, si sa, per i figli, un domani. Io poi ero troppo giovane allora per sapere che questo genere di cose è meglio sentirle raccontare e tutt'al più farci sopra i nostri ragiona­menti.

Francesca                         - Me l'aspettavo. Dite magari che oggi come oggi vi lavereste le mani.

I Donna                    - Non dico. Ma col tempo ogni cosa finisce con l'avere il suo motivo. Non c'è nodo che intricandosi in un attimo non possa sciogliersi in lunghi anni di pena. A questo dovete pensarci voi stessi.

Francesca                         - Che pensare e pensare. Alle serpi la tana e quando spuntano all'orlo, schiacciarle: cosi!

Rosa                                - Voi parlate; lo so io di che cosa parlate. (Verso la casa) Zia, perché avete chiuso il balcone?

Francesca                         - L'ho detto: il cancello è aperto, e la strada è libera. La mia colombella domani spiccherà il volo per tornare a tubare nello stesso nido. Va', cara, a dare un'occhiata agli arrosti. No, resta.

I Donna                           - Ho capito. Buone feste e buone mine­stre, allora. Come ho detto, è la gente a parlare. A me non porta né danno né frutto. (Sta arrivando la Nina)

Francesca                         - Aspettate, ecco le pinze. Voglio la vostra opinione su come mi è venuta la pasta. Temo mi sia scappato troppo vin dolce.

I Donna                    - Lasciatelo per la compagnia; e poi oggi è giorno di magro. Assaggeremo i confetti. (Alla Rosa) Verrò a vederti pettinata. (È uscita)

Francesca                         - II diavolo se la porti, vecchia faina, sempre col naso negli affari degli altri. (È entrata la Nina) S'è cotto bene?

Nina                         - Queste vicine alla portella sono rimaste un po' pallidine. Una ciambella m'è caduta nella cenere.

Francesca                         - Che gusto aveva?

Nina                                 - Mi prendereste anche per ladra. Quanto pesa. (Posa la cesta sulla, tavola) Senti che profumo, cocca bella. Lasciati baciare; mi sono bruciata i ca­pelli per la tua festa. Ma che sapore, sapessi, che morbide! (Allontanandosi col cesto) Volevo dire che si son levate proprio bene. (È entrata in casa)

Francesca                         - Ti laverai per benino. Ho fatto bol­lire a parte una mannella di lavanda: dovrai profu­mare come un lenzuolo. Gli uomini non parlano, ma apprezzano queste cose. ( Guardandosi attorno, sotto­voce) Te ne sei liberata? Abbiamo lasciato a te deci­dere sul giorno. (Pausa)

Rosa                                - Parlavate di lei, l'ho capito. Non c'è altro nelle vostre parole, negli sguardi. Ma si può sapere? Non ho più dieci anni, parlate. Me l'avevate promes­so; siamo sole. Io non l'ho mai vista; è una qual-siasi per me; una cui non si è mai dato il bicchiere di latte. Nonna, me l'avevate assicurato.

Francesca                         - Cocca bella, è la tua festa, un giorno che non si dimentica. Poche ore ancora. Ho resistito per tanti anni, stringendo gli occhi e le mascelle che tra le labbra non mi passava una lama. Domani sarai donna e potrai parlare da donna.

Rosa                                - Io voglio sapere ora. Ho come un brutto presentimento.

Francesca                         - Scacciarlo. Non è l'ora dei pipistrelli.

Rosa                                - Mi tornano in mente tutte le parole sentite fin qui. Mia madre ha ferito un uomo? Ma che cosa le aveva fatto lui, perché lei perdesse la ragione? La voleva sua, e lei si è difesa; e voi l'avete scacciata per questo come una cagna.

Francesca                         - Non cercare, non sforzarti di sapere. Ora mi rendo conto che è meglio tu non lo sappia mai. Mi sento soffocare. Abbi un po' di compassione per la tua nonna che contava i giorni che la separa­vano da questo sul cerchio della botte. Lascia passare ancora queste poche ore, e domani ti sveglieranno le campane. (Compaiono Svaldo e Armando: entrano nella corte) Avete fatto macinare anche i sacchi, o avete trovato compagnia? L'acqua bolle sul fuoco, devi fare il bagno, tu. Guarda che la Rosina dice di voler mettere avanti gli orologi perché arrivi più presto domattina. Avete fatto tutto per benino? C'e­rano molti carri? Cosi; fra quanto è sottomano non resta altro da vendere. Ci vuole le tenaglie per farvi parlare. A chi l'avete venduto?

Svaldo                             - A uno di Dolenia.

Francesca                         - Da' qua. ( Prende il denaro dalle mani del figlio e lo nasconde nel seno)

Rosa                                - (all'Armando) Cos'hai? Che cosa c'è?

Francesca                         - È stanco, lo vedi. (Giunge Adele qua­si di corsa)

Adele                               - (al marito) Gliene hai parlato? Lo sa? Figlio, che ti guardi un istante negli occhi.

Francesca                         - Che guardare. Dentro tu!

Rosa                         - Si può sapere insomma?

Armando                         - Niente, Rosa. Ne parleremo.

Svaldo                             - Ho un mal di capo.

Francesca                         - Hai bevuto, lo sento.

Rosa                                - Ditelo chiaramente che non siete contenti, non siete contenti!

Armando                         - Non è questo, tu non sai...

Francesca                         - Zitti. Io sola ho da parlare. C'è gente e c'è da fare. (Un vecchio è fermo al cancello col rastrello in spalla)

Vecchio                           - Mancano solo i comparì, e la musica. Che profumo di arrosto. Questa è carne di vitello appena svezzato. Le feste, come la morte, passano di casa In casa e fanno sgombrare le sedie, slargare le pareti.

Francesca                         - Volete il bicchiere, Teodoro? II can­cello è aperto.

Vecchio                           - Devo portare in stalla le bestie e pulire tutto davanti, che la gente non manca di buttarci l'occhio anche ballando; e poi sarà più facile vedere i confetti. Si, voi la chiamate festa, per me è poco meglio di un funerale. I Sardok partono, anche loro verso questa città, la "fabbrica" di cui si parla. La famiglia più facoltosa         - generazioni di aratori, drit­ti, forti ; mi ricordo del padre di vostro suocero, Fran­cesca: un uomo che non scherzava. Ed ora lasciano questi campi che finalmente sono riusciti a liberare dai sassi. Che faremo noi, vecchi, con i nostri orti non più larghi di questa palma di mano? I giovani ci abbandonano e la vecchiaia è triste da sola; non ha più denti né voglie. Tutti in città, in città; e le città non portano che guerra. Si sposano fra cugini pur di andarsene in fretta.

Francesca                         - Teodoro, la strada vi è aperta davanti.

Vecchio                           - Non parlo di voi, Francesca, che la vo­stra facoltà è sempre meglio spartirla fra parenti. Volevo dire che non c'è più religione. Quante disgra­zie in questi ultimi anni? Vedete da voi stessi; vostro marito e il figlio più vecchio come sono andati. Que­st'altro poi vi è malato... Io avrei ripreso quella don­na in casa, Francesca.

Francesca                         - Teodoro, la strada è aperta.

Vecchio                           - Tenerla legata in cantina che non veda più il sole, questo si, ma non esporla alle intempe­rie. Ciò ha portato male a noi tutti. Il paese crolla tutto da un lato.

Francesca                         - È che vostro figlio non doveva la­sciarvi; almeno il più giovane per il quale vi siete indebitato fino ai capelli.

Vecchio                           - A voi mi pare di aver reso tutto.

Francesca                         - I patti erano quelli. Abbiamo i nostri impegni, barba Doro, capirete.

Vecchio                           - Non vi disturbo oltre. Anzi, per il no­stro Armando c'è una bottiglia con un dito di pol­vere giù in cantina; è di quell'anno della grande sic­cità in cui tutto il vino era andato in marsala. Una sola, quanto posso. Riservata agli sposi, da bagnarsi le labbra durante il viaggio, che un po' di vino fa accendere il sangue, troppo no: lo stanca.

Francesca                         - Andate con Dio, che il buon sangue a voi non manca. (Allontanandosi con gli sposi, a Svaldo e ali'Adele) Voi, andiamo, su. C'è da travasare nei fiaschi per la festa di stasera. (Il Vecchio si allonta­na, Francesca e gli sposi entrano in casa)

Adele                               - Gli hai parlato, lo sa? Lo sa di chi è figlia? Quale cagna è stata sua madre?

Svaldo                             - Ricominci.

Adele                               - Gliene hai parlato?

Svaldo                             - Gli ho parlato.

Adele                       - E lui? Che ha detto lui?

Svaldo                             - Ha detto che non gliene importa.

Adele                               - Non gliene importa, quando - schifosa  - solo a pensarci dopo venti anni mi si accapona la pelle, non ho più saliva nella gola?

Svaldo                             - Gli ho parlato bene. Gli ho detto che co­me cugina, nipote, nessuno avrebbe nulla dì ridire, le si vuole bene, nonostante qualcosa, gli occhi...

Adele                               - Ricordano troppo quegli altri, non è vero?

Svaldo                             - Pungono. Ciò solo da qualche mese a questa parte.

Adele                               - Da quando ha fiutato il maschio, dillo pure.

Svaldo                             - Ma tutto questo non importa; come ni­pote. Una dote gliela avremmo fatta.

Adele                       - Lui ha risposto che non gliene importa.

Svaldo                             - E un ragazzo; giusto nell'età in cui si provoca pur di avere motivo di difendere.

Adele                               - Che cosa ha detto insomma?

Svaldo                             - Che cercherebbe quella donna, la copri­rebbe di pietre; ma che la sua la conosce troppo be­ne; e che del resto non gliene importa.

Adele                               - Svaldo! Solo adesso ci muoviamo, a po­che ore, quando già il prete sta addobbando la chie­sa. Prima, te lo dicevo.

Svaldo                             - Che fare? Avevo la vecchia sempre alle calcagna. Temeva che anche la ragazza potesse but­tar strambo.

Adele                               - Doveva dunque raccattarla nostro figlio?

Svaldo                             - Lo temevamo tutti. E poi come iniziare il discorso? Speravo che almeno qualche estraneo si muovesse, parlasse. Pareva invece che tutti aves­sero dimenticato, la vecchia compresa, noi compresi; o che questa fosse la soluzione più giusta. Appena ora te ne accorgi, quando tutto s'ingrandisce e i con­ti tornano precisi. C'è poi qualcosa nell'aria che tie­ne ferma ogni foglia.

Adele                               - Hanno fatto tutto come se fossero avanti con le cose, lei già in altro stato.

Svaldo                             - Taci. È a questo che non mi riesce dì pensare. E a questo pensiero che il cuore mi sale al­la gola e nella bocca sento sapore di sangue. La vec­chia neppure se lo immagina; continua a parlare di colombi nello stesso nido.

Adele                               - II suo sangue è vecchio, non morde. Che cosa ho avuto io della vita? Ora anche mio figlio fi­nire cosi e ancora peggio.

Svaldo                             - (alzandosi) Basta. Il male ci ha invasi. Le case si sono spopolate; a dettar legge qui sono i gufi e le serpi. Non ne posso più, e sta facendo notte e non c'è più rimedio.

Adele                               - Quella ragazza la preparavi tu a tuo figlio. L'unico ad avere sempre avuto una parola di scusa per quella cagna, anche quando gli altri, gli estranei, avevano deciso di inseguirla. Il solo a tenere la voce bassa, la mano abbandonata.

Svaldo                      - Potevate andare dai gendarmi, subito.

 Adele                              - Chi ce lo impedì, falso?

Svaldo                             - Voi volevate dire il falso.

Adele                               - Che falsità si poteva aggiungere a quel fat­to perché esso non perdesse di effetto e magari do­mandasse pietà, comprensione?

Svaldo                             - Che so io? Che l'aveva buttato nel fuoco magari dopo essersene approfittata.

Adele                               - Che cosa ha fatto se non peggio?

Svaldo                      - Non sta a me giudicare; non sta a te, non sta in voi giudicare. Non voleva vedere, ecco.

Adele                               - Strapparsi gli occhi doveva.

Svaldo                             - II suo occhio e il suo pensiero erano di­venuti una sola cosa. Quel ragazzo era una specie di santone, un angelo per lei.

Adele                               - E bisognava ridurlo in quello stato? Per me se la intendevano anche prima.

Svaldo                             - Basta.

Adele                               - E lei temeva che quello parlasse in giro, spaurito e idiota com'era. Forse era lui a lasciarla in altro stato.

Svaldo                             - Basta, t'ho detto.

Adele                               - No! Lo sai che tuo fratello non era in grado di tenerla a sé. Lo sai meglio di me quanto lei lo sfuggisse e lui minacciasse di voler andare per via legale. Era come ammattito; ogni volta mi guar­dava pareva volesse assalirmi.

Svaldo                             - T'ho chiesto perché non siete andate dai gendarmi.

Adele                               - Qualcuno si opponeva. Anche tu ti oppo­nevi. Per noi le autorità sono state sempre dei fore­stieri che spillano quattrini. Perciò facemmo mettere nel verbale che s'era ferito da solo, per vergogna o per castigo.

Svaldo                             - Cosi s'era pensato in un primo momen­to, ma il sergente scrisse ch'era caduto nel fuoco do­po essersi addormentato sulla panca. Qui si temono le complicazioni, nessuno vuoi avere noie. E lo sai perché? Perché era un figlio di nessuno, di cui non ci si sarebbe mai occupati.

Adele                               - Appunto per questo avrebbe dovuto pre­sentarsi da sola.

Svaldo                             - Tu, ti saresti presentata tu?

Adele                       - Io non avrei mai fatto una cosa simile.

Svaldo                             - Lo avreste fatto tutte voi una cosa simi­le. Che cosa non sareste capaci di fare voi, in un an­golo, una topaia...

Adele                               - Ti attacca il mal di sera? Non fa ancora buio per stringerti addosso con i tuoi occhi da pazzo.

Svaldo                             - Perché non siete corse dai gendarmi, voi, brave donne di Dobràlto?

Adelb                              - C'era un altro, che nessuno è riuscito mai a scoprire. Chi la fece fuggire di casa e più tardi dalla capanna dei Galeb, fuori il paese, quando noi già correvamo lisciando in mano le pietre?

Svaldo                             - Volevate finirla e non v'è riuscito. Lan­ciare contro di lei le pietre che non potevate lancia­re contro voi stesse.

Adele                               - Incomincio a credere che tu sappia qual­cosa. Chi fu a correre nel fienile dei Péciar, a fa­sciarlo, prima che scappasse sulla Senizza?

Svaldo                             - Io non so niente. Io stavo al mulino; mi ha visto più di uno. Volevi incolparmi, ricordo. Ma avevo i miei testimoni.

Adele                               - C'è stata sempre una parola di difesa per lei, ed ora che vedi il male - tuo figlio che sposa sua figlia - ti senti preso nei tuoi stessi lacci. Ar­mando è nostro figlio. Dobbiamo impedirlo, fare qual­cosa. Parla chiaro, fatti avanti.

Svaldo                             - Anche tu te ne accorgi solo ora, dopo averla aiutata a cucirsi il corredo. Già. Credevamo un po' tutti di rimediare a qualcosa favorendo sua figlia. Ora il prezzo è troppo alto. (La Nina appare sulla soglia)

Nina                         - Che aria calda, dentro si brucia. Neanche fuori è meglio. Pare stiano per piovere insetti.

Svaldo                             - Che si fa dentro?

Nina                                 - L'Armando travasa nei fiaschi. La vecchia sta pettinando la sposa. (Si avvicina) Non martoria­temela, anima santa. È acqua passata, che colpa ne ha lei? Quei due giovani sono una mela spaccata. Perché ostacolarli con storie che non hanno più senso?

Adele                       - La ferita brucia più di quanto tu creda. E penso che qualcuno qui ne senta ancora il bru­ciore.

Nina                                 - Io so quanto gli altri, qualcosa forse più degli altri. E dico che non è questa l'ora dei penti­menti, né delle vendette, e proprio verso chi non ne ha colpa.

Adele                               - Che cosa sai tu? Parla. (Svaldo la guar­da minaccioso)

Nina                                 - II mio dovere è di servire, tacendo. ( Entra Francesca con la sposa)

Francesca                         - I suoi capelli sono miele, la sua boc­ca petali di rosa; non dice cosi la canzone?

Rosa                                - Volete sembrare di buona voglia, voi.

Francesca                         - Non dovrei esserlo? Sono questi sassi a pungere ancora un poco, come le lingue di questa gente. Ma con domani, via. Ogni toppa ha la sua chiave, e per ficcare il naso in casa d'altri bisogna suonare, presentarsi, e tu puoi lasciarli suonare e dire: non c'è nessuno. Non è il tempo di oziare, lo dico a voi. Vostro figlio è in gran daffare; ed è con­tento, capito? (Adele e Svaldo entrano) Aiutami a sgombrare il tavolo, Rosina. Ma ecco un'altra; ha il fuoco sotto i piedi? Viene ad annunciarci la brigata degli scapoli. (Una giovane arriva ansante) Si sono già riuniti quei matti? Puoi dir loro che nessuno lì scaccerà. Possono battere fin quando vogliono sui ferri e sulle latte          - ho sopra un vecchio orinale se può far loro comodo; il vino è nei fiaschi.

Giovane                           - Una parola, Francesca.

Francesca                         - Parla, ti ascolto.

Giovane                           - Una parola a voi, Francesca.

Francesca                         - Qui non ci sono segreti. In questo giorno non ci possono essere segreti.

Giovane                           - Fossi in voi non ne sarei tanto sicura.

Francesca                         - Che cosa brontoli?

Giovane                           - C'è una donna che viene da lontano. Chiede di voi, di questa casa, delle nozze.

Francesca                         - Siamo gente conosciuta. Con questo?

Giovane                    - Si fa un gran parlare in giro. Chi la dice mandata con uno scopo, chi è sicuro di averla già incontrata.

Francesca                         - Non è il momento di oziare, ho detto. Vai anche tu, cocca, ad aiutare il tuo Armando.

Giovane                           - Appare e scompare, gira le case, sì na­sconde.

Francesca                         - Ti faccio assaggiare le ciambelle, con il vino dolce. Fa un caldo. Avete finito di mietere?

Giovane                           - C'era una miseria di grano quest'anno, e anche quello tutto a terra, pesto dalle bestie.

Francesca                         - Vi rifarete con l'uva. Avete ancora le viti in Dolina grande?

Giovane                           - Dov'è il tempo che le abbiamo tolte?

Francesca                         - Sono anni che non giro le nostre cam­pagne.

Giovane                           - A zia Francesca, dicono, ha preso la smania delle corriere. Se si muove dai suoi orti è per scendere in città. (La Nina e la Rosa sono entra­te in casa)

Francesca                         - Che sai? Che cosa intendevi? Di' chia­ro. Di che donna parlavi?

Giovane                           - Una tutta raccolta in uno scialle nero. Non si lascia vedere. Ma pare conoscere bene il luo­go, casa per casa.

Francesca                         - Da chi si è presentata per prima?

Giovane                           - Dai Péciar. Non si spinge oltre il pozzo verso il paese.

Francesca                         - Che vuole insomma?

Giovane                           - Dice di venire la lontano; che passava da queste parti ed aveva sentito di una festa di noz­ze. Dice di conoscere una donna alla quale tutto que­sto poteva interessare.

Francesca                         - L'avete fatta parlare? Tu l'hai vista?

Giovane                           - Un istante seduta al pozzo che riposava. Sembra una qualunque di passaggio; ma diversa da quell'altra che era stata mandata anni addietro; co­me dire? più buona, meno intrigante, ecco. Ha chie­sto un pugno di fieno per passarvi la notte. I Péciar le hanno promesso il fienile.

Francesca                         - Male; i vagabondi lasciarli per la lo­ro strada che l'indomani ti trovi la stalla vuota o il pagliaio incendiato. Cacciatela via.

Giovane                           - Non mi pare una malvagia. Vi guarda dolce negli occhi...

Francesca                         - Chi non pensa al male non si nascon­de il viso. Cacciatela via.

Giovane                           - Le donne la pensano diversamente, per questo sono qua. Dicono che dovreste invitarla alle nozze.

Francesca                         - Vuoi venire anche tu alle nozze? E tuo marito, e Pietro il ciompo? Ha qualcosa da dire riguardo alla sposa? Le pubblicazioni furono lette in chiesa e sono rimaste esposte per due settimane.

Giovane                           - Chiede di lei; la chiama bambina.

Francesca                         - Cacciarla via, ho detto. E dillo chia­ramente alle altre di non seccarmi oltre con queste storie; intesi? Che sono capace di arrampicarmi fin su da voi e far vedere ancora le mie unghie. (Si odo­no i canti smodati dei giovani e un fracasso di ferri battuti, secondo l'usanza locale in caso di nozze tra vedovi o cugini) Stanno venendo. Spalancate le por­te, accendete tutti i fanali. Fuori i fiaschi e il pro­sciutto. Qui ora ha da essere solo canti e allegria. E anche le finestre: apritele. Che la casa illumini qui intorno per diverse miglia. (Voci e canti più vicini)

ATTO SECONDO

La scena del primo atto. L'azione si svolge nell'ala destra: una corte più modesta e più angusta di quel­la dei Sardok, dalla cui casa illuminata giungerà ogni tanto lo schiamazzo dei giovani.

Terza Donna                    - Dove sarà andata?

Seconda Donna               - L'ho vista avviarsi verso la Senizza. Trattiamola bene. A noi ormai che importa? - non come allora l'altra.

Terza Donna                    - Bisogna vedere se farà qualche passo. È chiaro che è venuta per conto di lei. Ha an­che la parlata di quei luoghi - te la ricordi l'altra forestiera? Questa pare diversa, non le interessa più che tanto di metterci il naso. (Pausa)

Prima Donna                   - (si alza di scatto) Deve esserci sta­to anche un secondo a coprire la fuga di quella sver­gognata. Uno da solo non poteva dividersi in due: avvertirla che stavamo arrivando e correre nel fie­nile dei Péciar a fasciare quel poveretto. (Le altre donne si guardano interdette)

Seconda Donna               - Può essere passato prima da una parte, poi dall'altra.

Prima Donna                   - L'avremmo incontrato. E poi la benda pareva appena messa, sgocciolava ancora di aceto, dicono - io non ho avuto il coraggio di guar­dare.

Seconda Donna               - Può essere stata lei stessa, per cercare di rimediare in qualche modo al male com­messo prima di darsi alla fuga.

Terza Donna                    - Tagliarsi la mano doveva, e subito. Ficcarsi le molle ancora calde negli occhi.

Prima Donna             - A lei importava fuggire e basta. A che poteva rimediare ormai? (Dopo una riflessio­ne, d'improvviso) La porta del fienile era aperta di dentro quando noi arrivammo.

Seconda Donna               - Si, lo ricordo.

Prima Donna                   - Vuoi che l'avesse lasciata aperta quel disgraziato che trovammo tutto ficcato nel fie­no? L'aveva chiusa, invece; e poi s'era trascinato ad aprirla a chi gli portava l'aceto. È. chiaro dunque. Quando entrammo, insieme a lui doveva esserci un'altra persona li dentro.

Seconda Donna               - Che vai a pensare? Non basta uno - che non si è mai saputo chi fosse stato    - ora vuoi anche un secondo?

Prima Donna                   - Un secondo che vive con noi in paese e in cui ci si imbatte più volte il giorno. Come mai non ci avevamo pensato?

 Uomo                             - Vi interessava lei allora. Quella era la pre­da per le vostre pietre, il loro unico bersaglio. Pri­ma, appena la voce s'era sparsa, un'occhiata a lui per accendersi maggiormente, riunire più veleno negli occhi e farlo scendere piano nel sangue; poi via all'impazzata.

Prima Donna                   - Zitto, tu. Il nostro solo torto è di non esser riuscite a prenderla. Poche fortune in que­sto paese da allora. I campi arsi, le piante che si rifiutano di germogliare e se pur spuntano quelle quattro gemme viene la brina a seccarle. Hai fatto un buon raccolto da allora? Non c'è famiglia che non conti almeno un morto in casa. Chi può esse­re stato?

Uomo                              - La vita va avanti. Siete voi a ricordare queste cose. Gli altri sposano, fanno festa.

Prima Donna                   - Chi è contento di queste nozze? Neanche la ragazza più, che le hanno fatto nascere il verme del dubbio in testa come dentro a una co­togna. Il ragazzo forse?

Terza Donna                    - È un far festa con il morto in ca­sa, ha ragione il vecchio Doro. Perché partono come se la terra scottasse loro sotto i piedi? Gli unici a saper ricavare una rendita da queste pietre desolate. Neppure le nozze volevano farle qua. Subito dopo il fidanzamento la vecchia è scesa in città.

Seconda Donna               - Ha disposto tutto lei. Non ha nemmeno lasciato che il nipote frequentasse qualche altro villaggio, non ha messo, dopo la fiera, un solo giorno in mostra la ragazza. È loro due hanno preso un po' alla volta a fissare gli occhi l'uno in quelli dell'altra.

Prima Donna                   - E lei ha soffiato sul fuoco, ponen­do sotto il naso del giovane gli indumenti intimi del­la ragazza.

Terza Donna                    - Che vergogna, tra cugini. E lei a fargli da mezzana.

Prima Donna                   - Temeva che qualche altro - alla ragazza non sarebbero mancate le occasioni- si fa­cesse avanti, e allora la storia avrebbe davvero fatto il giro dei paesi. Non si sarebbe sentito parlar d'al­tro. Neanche le terre le frutterebbero più tanto.

Terza Donna                    - O forse ha pensato di porre cosi fine alla disgrazia dando un marito - di nuovo il sangue suo - alla figlia di lei. Perché se tutti noi da allora ci siamo dovuti accontentare dei mezzi rac­colti, in quella casa i mali non si finirebbero di con­tare. Ancora fresca era la terra che aveva accolto il padre, che se ne andò il figlio coperto di vergogna.

Seconda Donna               - Quell'altro i medici lo danno già per spacciato.

Terza Donna                    - In questi ultimi tempi si è tutto rannuvolato.

Prima Donna                   - Sa la sua sorte. Poi non è d'accor­do sulle nozze del figlio.

Seconda Donna               - Ha la passione dentro al cuore. È quella a far piegare un uomo anche se alto come una quercia.

Prima Donna                   - L'aria sembra malata per tutti ormai. Anche il figlio della Milenka ha mandato a prendersi la roba. Non vuoi tornare nemmeno per il sabato e la domenica.

Seconda Donna               - Tutti la pensano ormai per quel verso. Qui le aie si fanno già strada.

Uomo                              - è che nessuno ha più voglia di lavorare. Ricordo io i miei vecchi e anche noialtri da giovani, sempre con la schiena piegata sulla zappa, se si pre­tendeva e questo e quello.

Terza Donna                    - I giovani soprattutto. Mio figlio dice di voler provare in una città ancora più grande ; si sta facendo le carte.

Uomo                              - Sono stati viziati questi giovani. Non han­no imparato la fatica e nemmeno ti credono. La guerra ci ha fatto ardere le fruste.

Prima Donna                   - Non è solo da noi questa febbre, ma anche in regioni dove la terra basta smuoverla con un piede per farla fruttare. E la lasciano egual­mente. Ettari ed ettari abbandonati all'erbaccia.

Uomo                              - Non c'è più religione, diciamolo pure. Qui nessuno più si cura di come viveva il padre, né delle sue ultime parole prima dell'olio santo. Oggi si cerca il nuovo. Finirà che quelli di città verranno a dormi­re sulle nostre foglie. Questi giovani, ad esempio, per non rassomigliare per niente al padre, al fratello maggiore, finiscono col diventare identici gli uni agli altri. (Entra in casa)

Prima Donna                   - Ancora un altro a sapere, a pro­teggerla. Chi può essere stato?

Seconda Donna               - Sento dei passi. È quella donna. Berta, interrogatela voi. (Compare Vera Verk)

Prima Donna                   - Che ve ne sembra dei nostri luoghi?

Vera                                 - Non sono poi tanto di lontano. Questa ter­ra è varia ma eguale; pietre e ogni tanto una vena di terra; rovi e ginepri dappertutto; dov'è un colle non manca la dolina.

Prima Donna                   - Pare l'abbiate esplorata in lungo e in largo. Siete bianca come un lenzuolo. Sedete. Vi sentite male?

Vera                                 - Sono un poco stanca.

Prima Donna                   - Un bel bagno ai piedi, se domani volete riprendere il cammino. Le nostre strade pun­gono.

Seconda Donna               - C'è questa baldoria, è festa di nozze, capirete.

Vera                                 - Già.

Terza Donna                    - E che nozze, dillo pure.

Vera                                 - Lo so.

Seconda Donna               - Non possiamo farli smettere; ma cesserà presto. Il vino ora è salito alla testa; scenderà presto alle gambe.

Vera                                 - Vorrei vedere la sposa.

Seconda Donna               - Mirate dritto voi, non vi accon­tentate di poco. Scherzavo. Del resto è una ragazza cosi degnevole.

Terza Donna                    - Una brava ragazza, si dica quel che si vuole. Lo fosse stata sua madre altrettanto.

Prima Donna                   - Sentite, levateci una curiosità. Voi la conoscete, la madre. Non è per caso che una fo­restiera passi per i nostri luoghi in un giorno come questo. Dieci anni fa ci aveva mandato un'altra co­me voi per sapere qualcosa della bambina. Diteci la verità. Siamo fra sole donne.

Vera                                 - La conosco e vengo anche per lei. Non c'è molta confidenza fra noi due.

Terza Donna                    - Lo credo bene. Una come voi, co­me ci si potrebbe immischiare?

Vera                                 - Passavo di qua diretta a Dolenia, dove ho il figlio militare. Mi ha detto di saperle raccontar tutto al ritorno, quanti erano di nozze, com'era vesti­ta la sposa, magari il corredo. Una madre si interes­sa a queste cose. È più che naturale.

Terza Donna                    - Dovrebbe esserlo. Ma quella non è una madre.

Vera                         - Non la conosco gran che, vi ho detto.

Prima Donna                   - Volete un bicchiere di latte?

Vera                                 - No, grazie.

Seconda Donna               - Ma che fa? Come vive.

Vera                                 - È in famiglia dai suoi.

Prtma Donna                   - E loro sanno? Come ne fu accet­tata?

Vera                                 - Sono da soli cinque anni in quei luoghi.

Prima Donna                   - Dicevate di esservi nata.

Vera                                 - Infatti, ma mi sposai altrove.

Prima Donna                   - La gente cosa sa, insomma? Voi che sapete di quella svergognata?

Vera                                 - Fu cacciata dalla casa dove era sposata, con l'ordine di non mettervi più piede. Le fu tolta la bambina.

Prima Donna                   - Sapete anche il perché?

Vera                                 - Un altro uomo, immagino.

Prima Donna                   - Come le raccontano al miele da voi.

Vera                                 - Da noi si lavora; non c'è tempo per le chiacchiere.

Prtma Donna                   - Sapete che cosa ha fatto quella donna?

Vera                                 - Non m'interessa. Del resto, quanti anni so­no passati? Che età poteva avere allora?

Prima Donna                   - Quando il male supera ogni limi­te non conta l'età. Perché si odiano le vipere, anche quelle che hanno da nascere? Perché si sa che na­sceranno col veleno, partoriranno altre vipere, non ne verrà che veleno.

Vera                                 - Sentite, sono stanca.

Prima Donna                   - Vi riposerete, qua nessuno vi ha negato buona accoglienza. Vogliamo che anche da voi si sappia, perché chi ha commesso il male non abbia pace. È giusto far conoscere il sano e il mar­cio, se no ognuno potrebbe fare il suo sporco co­modo.

Vera                                 - Che età aveva?

Prima Donna                   - Non tornate sull'età, che quando saprete il vero vi dimenticherete di vostro figlio per tornare al paese, gridare, prenderla anche voi a sas­sate.

Vera                                 - Da noi si lavora, ho detto.

Prima Donna                   - Mantenete la vipera sotto il tetto. Come sono i vostri raccolti?

Vera                                 - Sono anni difficili, e la nostra terra è an­cora pili avara.

Prima Donna                   - Non è ancora caduto il fulmine su quella casa?

Vera                                 - Insomma. Sono stanca, ho detto.

Prima Donna                   - Vi spazientite. È bene sappiate il vero, e sono pronta. Certo, era una donna sposata e con un uomo più anziano di una ventina d'anni; e neppure sono gente buona, loro, lo si riconosce. Ma occorreva per questo? Proseguiamo. C'era un gio­vane che girava a quei tempi le nostre contrade. Un poveretto senza mamma, un nato male; del resto un bel ragazzo con due occhi grandi come girasoli. Uno spaurito.

Seconda Donna               - Lasciate perdere. Che può im­portare tutto questo?

Prima Donna                   - Lasciatemi dire; lo tengo chiuso da vent'anni, col timore che l'aria non l'oda. Girava per i campi cantando i salmi e gli inni sacri, e ogni tanto si dava a correre come un capriolo. Mal vesti­lo, affamato, coperto e saziato dalla carità del pros­simo, potete dirlo. Passava anche in questa casa più spesso che nelle altre, non perché è la famiglia più forte - che lui da sé non chiese mai a nessuno un tozzo di pane; glielo si dava cosi spontaneamente - ma perché s'era preso una specie di affetto per quel­la ragazza sposata da soli due anni. Una cosa da bambino, state tranquilla tutti lo burlavano, che lui al massimo le avrebbe chiesto di giocare a nascondersi. Non cosi lei.

Terza Donna                    - Tornate in voi. Io non tengo oltre.

Prima Donna                   - Bisogna far sapere, ho detto. E ormai, se quelli là cantano... Quel ragazzo non c'è più, e non è giusto, non è giusto! Un bel ragazzo, un vero innocente, un angelo del Signore. Bene. Era una giornata calda, ricordo. Tutto il paese a rastrellare sulla Senizza quel colle largo, lassù, tutto pietre e un po' d'erba nel mezzo. Lei era rimasta a casa con la scusa di badare alla piccola. Dimenticavo. Aveva una bambina di otto mesi. Questo ragazzo era ma­landato, dicevo; del resto siamo tra donne. I botto­ni, uno strappo, chi glieli cuciva      - specie se in posti delicati? Era un innocente, se si vuole, ma non più un bambino. Fatto sta che lei deve aver visto le sue vergogne. Erano seduti l'uno accanto all'altro, attor­no al fuoco. Un bel fuoco perché bolliva l'acqua per far lavare i falciatori. Nessuno ha mai saputo che cosa avvenne tra di loro. II ragazzo fu trovato in un fie­nile che si strappava il pezzo di pantaloni rimastogli addosso e già farneticava. (Lo deve aver fatto con le molle che furono trovate insanguinate, e in cucina si sentiva tutto odore di bruciato.) Con quattro strac­ci avvolti in uno scialle lei aveva raggiunto la tet­toia fuori il paese, da dove potè sfuggirci solo per essere stata avvertita delle nostre intenzioni da qual­che altro malnato. Cosi, non ci restò che lasciar ca­dere a terra le pietre e maledire per sempre il suo nome.

Terza Donna                    - Che motivo c'era di tirar fuori questa storia, e davanti a una forestiera? Non si vuo­le sentirla più.

Prima Donna                   - II ragazzo fu trovato cadavere nel bosco alle pendici del monte, dove s'era rifugiato ap­pena noi lo lasciammo solo nel fienile per correre die­tro a quella snaturata. Morto fra atroci spasimi, tut­to infettato per ignoranza o per vergogna s'era buttato, sopra, una manciata di terra.

Terza Donna                    - Vi sentite male? Te Io dicevo. Da­temi un'altra sedia, aiutatemi ad adagiarla. Potevi addentrarti ancora più nei particolari, tu.

Prima Donna                   - Dovevo tacere quando anche un forestiero a sentirlo si sente mancare?

Terza Donna                    - Può essere in altro stato; la co­nosci?

Prima Donna                   - Come vi sentite? È. meglio che vi accompagni.

Vera                                 - Con te non vengo. Te ti conosco.

Terza Donna                    - Sta farneticando. Vi accompagno io.

Vera                                 - Preferisco andarmene da sola. Datemi la chiave.

Seconda Donna               - Riposate un altro istante.

Vera                                 - Devo alzarmi presto domattina.

Seconda Donna               - Cosi va meglio. Non è tanto tardi.

Vera                                 - Da che parte? Non ricordo.

Prima Donna                   - Allora non resta che andarcene anche noi. (Vera fa per avviarsi ma indugia, indeci­sa sulla strada da prendere. Alla terza donna) Partite anche voi domani?

Terza Donna                    - Domani o domani l'altro, che im­porta? Mia cognata ci aspetta già dall'altro mese.

Prima Donna                   - Io aspetto quest'ultima nidiata. La chioccia si è messa sulle uova e non c'è verso di far­la levare.

Seconda Donna               - All'alba il paese sarà tutto in fer­mento; arriveranno i compari.

Prima Donna                   - Poter dormire queste due ore. Do­popranzo ho sognato che l'acqua traboccava dal poz­zo, inondava il paese, verde. Mi sono svegliata tutta in sudore.

Terza Donna                    - Forse scenderà un po' di fresco sul­la Senizza. Buonanotte.

Prima e Seconda Donna - Buonanotte. (La prima donna entra in casa, le altre due si avviano verso il pozzo. La seconda donna ritorna sui suoi passi e si avvicina a Vera Verk)

Seconda Donna               - Vedete: quella che sta venendo è la sposa, e quello è il suo promesso. (Si avviano, Vera più lenta. Entra Rosa trascinando per mano l'Armando)

Rosa                                - Qui nessuno può sentirci. Di' pure quanto hai da dirmi, che qualcosa - immagino - avrai da dire. Non parli? Ormai è come fossimo già sposati. Tutta la sera non mi hai rivolto lo sguardo. Persino la nonna se n'é accorta e t'ha ripreso due volte. Ti ho premuto il piede sotto la tavola; non mi hai ri­sposto.

Armando                         - È, come se mi sentissi la febbre addos­so. Ho bevuto anch'io un po' troppo.

Rosa                                - Se non hai toccato il bicchiere? Ti osser­vavo.

Armando                         - C'è come una coltre sopra di noi, non spira un filo d'aria. Mi pare di poter toccare le nu­vole con un dito.

Rosa                                - E stato tuo padre ad avvelenarti e la tua cara mamma.

Armando                         - Non parlare a questo modo, non posso sentire. Certo che li ho trascurati in questi ultimi tempi e loro non hanno un altro figlio. Papa perde ogni giorno di peso.

rosa                                  - È l'odio che lo rode dentro come un for­micaio. Che cosa gli ho fatto?

Armando                         - Tu non c'entri. La ragione è un'altra.

Rosa                                - Ma tu mi conosci. Sai come la penso, sai come sono fatta. Di che cosa altro ti deve importa­re? Insomma, tu che cosa sai? Chi era mia madre?

Armando                         - Una donna per la quale non ci sono parole di scusa.

Rosa                                - Che cosa ha fatto? Dillo pure: andava con gli uomini.

Armando                         - Ha fatto morire un uomo, dopo averlo buttato nel fuoco. (Pausa)

Rosa                         - Vedi, non mi riesce di chiedere mai il perché. È come se parlassi di un'altra; di una sto­ria di un paese lontano.

Armando                         - A noi invece importa. Non so pensare ad altro. Vorrei incontrarla io quella donna.

Rosa                                - Mi pare sia stata giustamente punita. Non ha più rivisto sua figlia, la quale non chiede nem­meno se è ancora in vita da qualche parte. Potessi tu trascurare i tuoi genitori altrettanto per amor raio. Ma di che parlare, e proprio in questo momento? Abbiamo la nostra casetta ormai, che odora tutta di vernice. Ti piace? Avevi detto che ti piaceva.

Armando                         - Tutto è nuovo e fresco, laggiù; non un angolo riparato. Pare di starci in vetrina, o fuori, sot­to gli occhi della gente.

Rosa                                - Saremo soli, noi due. Non è neanche detto che la nonna dovrà stare sempre con noi. Quando scenderanno anche i tuoi, potrà andare un po' con loro; tra vecchi se la intendono meglio.

Armando                         - Sarebbe meglio abitassero loro piut­tosto con noi.

Rosa                                - Io tuo padre non lo voglio. Non farei che scontrarmi nel suo sguardo. Anche tua madre ha del rancore verso di me.

Armando                         - Non sei tu a comandare; tienlo bene in mente.

Rosa                                - Già alzi la voce. Guardami negli occhi. Ti pare che meriti tutto questo? Tu mi conosci. Ho mancato in qualcosa?

Armando                         - Perdona. È come una febbre, ho detto, e mi sento anche stanco. Ma vorrei incontrarla io un giorno quella donna.

Rosa                                - Sono io ora, qui, con te; e Io sarò domani, e lo sarò sempre. Io non vedo altri, credimi; del re­sto non ho nessuno: tu sei il mio fratello e il mio sposo. E mi sembra naturale tutto questo. A un al­tro avrei vergogna di far vedere il solo braccio nu­do. Dormivamo insieme da piccoli, e cosi sempre insieme.

Armando                         - Taci. È a questo che non mi riesce di pensare: domani stesso; e sto contando le ore."

Rosa                                - Non ti capisco. Dovrei allora chiederti: perché Io hai voluto?

Armando                         - Pensavo che sarebbe stato diverso.

Rosa                                - Come? Dillo pure.

Armando                         - Che saremmo rimasti qua.

Rosa                                            - Sì-

Armando                         - Nei nostri campi, nei nostri boschi, nel­la nostra casa. Dove sarebbe stato tutto più naturale.

Rosa                                - Una persona che vuoi bene se ne andrebbe con l'altra in capo al mondo. Per te non è cosi?"

Armando                         - Forse per me non è cosi.

Rosa                                - Come mi avresti voluta, dunque?

Armando                         - Come sei, quale sei sempre stata. Vi­cina a me quando guido il cavallo. Che mi porti da mangiare quando lavoro in campagna.

Rosa                                - Te ne portai quel giorno - il sole era alto - due mesi fa. Mi dicesti di tornare anche alla sera.

Armando                         - Per fare assieme la strada di ritorno.

Rosa                                - Infatti. Ma tuo padre venne a scovarci fin dentro al bosco. Ritornammo con lui. Ne fosti con­tento?

Armando                         - Che ritornassimo con lui?

Rosa                                - No; che passasse per il bosco. Che ci fa­cesse alzare e uscire alla svelta fuori dal bosco.

Armando                         - Ne fui contento.

Rosa                                - Dopo, forse. Ma abbracciandomi mi par­lavi del buio, di aspettare un altro po' che facesse proprio notte e ci trovassimo soli e stretti, senza al­cuna vergogna. Desideravi proprio che passasse di là qualcuno?

Armando                         - Non lo desideravo; ma lo avrei voluto.

Rosa                                - Perché vuoi allora che ci sposiamo?

Armando                         - Ti ho voluto sempre bene, lo sai. Ma è stato anche per via degli altri.

Rosa                                - Quali altri?

Armando                         - La gente. Non avrei mai voluto che qualcuno avesse da riderti alle spalle, un giorno. Non Io avrei mai permesso.

 Rosa                               - Nessuno ha nulla da ridere sul mio conto,

10 sai.

Armando                         - Avrebbe potuto averne.

Rosa                                - Come parli? Ho mai dato occasione?

Armando                         - Alla fiera di Dolina, lo scorso anno, tut­ti gli occhi ti erano addosso. C'era un gran parlare il giorno dopo in paese. E anche i ragazzi di qua si sentirono incoraggiati a venirti dietro.

Rosa                         - Fu il mio primo ballo          - ero allegra           - non sapevo come ci si porta ad un ballo. E poi, che ragazzi? Potevano farsi avanti. Di chi parli?

Armando                         - Dell'Antonio, a esempio.

Rosa                                - Anche tu ora, e di nuovo, con questo An­tonio.

Armando                         - Correvi ogni mezz'ora nella loro corte. E Io sapevi che con i suoi eravamo in lite da anni.

Rosa                                - Ero diventata amica di sua sorella, te lo dissi; e lasciai anche quella amicizia dopo che la nonna e voi tutti me lo faceste intendere chiaramen­te... (Gli si avvicina) Ma con che cosa mi vieni fuori, e proprio adesso. Erano cose sciocche, fra ragazze. Lo sai bene di chi sono sempre stata io e quante chiac­chiere ho dovuto sopportare per questo. Poche ore ancora, e poi soli, insieme, e per sempre. Dimentichi il nostro patto? Un angolo buio, tutto per noi. (Lo abbraccia)

Armando                         - E tu mia.

Rosa                         - Non parlare. Stiamo un istante cosi.

Armando                         - Mi sembra di essere nato solo per di­fendere te.

Rosa                                - E solo cosi io mi sento sicura.

Armando                         - Fuggiamo da qualche parte, che nes­suno sappia mai nulla di noi né noi sappiamo mai nulla di qualsiasi altro. Partono tanti, per paesi an­che lontani.

Rosa                         - Non parlare. Sarà sempre cosi: come se tu stessi guidando il cavallo, con le briglie allentate, ed io con il capo sulla tua spalla a guardare le stelle.

Armando                         - Che è stato?

Rosa                                - Non ho udito nulla.

Armando                         - Da quella parte. Lasciami; qualcuno può averci sentiti. La compagnia mi starà cercando. (L'Armando esce; compare Vera Verk)

Vera                                 - Ragazza, fermati. Sei la sposa. Quanti an­ni hai?

Rosa                                - Non vi conosco. Voi piuttosto chi siete?

Vera                                 - Una forestiera; sono una conoscente. Sen­za volerlo, mi è capitato di sentire parte del vostro discorso. Siete cugini? È male sposarsi fra cugini. Il sangue uguale si respinge; può scaldare soltanto la testa.

Rosa                                - Come parlate? Come vi permettete di par­lare? Stavate spiando.

Vera                                 - Hai sentito di una donna che ha chiesto di te? Sono io, e devo parlarti.

Rosa                         - Sbrigatevi che non ho tempo e a dire il vero non mi siete neanche tanto simpatica.

Vera                         - Metti fuori le unghie. Avvicinati. (Rosa si avvicina; Vera la guarda a lungo)

Rosa                                - Che volete, insomma?

Vera                                 - Che begli occhi hai, cara; e i capelli. Le donne sono tutte belle di notte, ma tu hai da esser­lo anche di mattina. Cara. Lo sai che conosco tua madre? Ti sei fatta anche il corredo da sola? Lo sai che conosco tua madre, cara?

Rosa                                - Io non ho madre.

Vera                                 - Cosi ti hanno insegnato a rispondere?

Rosa                                - Certo, se quella che ci ha partoriti non si merita questo nome.

Vera                                 - Che cosa ha fatto tua mamma?

Rosa                                - Dovreste saperlo meglio di me, visto che la conoscete. A me del resto importa poco.

Vera                                 - Devo parlarti. Sei grande, una donna or­mai, più di quanto lo fosse stata allora tua madre.

Rosa                                - Voi la conoscete. (Pausa) E dove vive? Com'è?

Vera                                 - Ti somiglia, o tu somigli a lei quand'era ragazza. Vive dai fratelli; sono una famiglia nume­rosa.

Rosa                         - Vi ha parlato di me? Vi parlava di me?

 69

 Vera                                - Sei il suo solo pensiero, insieme a un altro, fisso.

Rosa                                - Non deve condurre una vita allegra.

Vera                                 - Te l'assicuro. Bambina tu sei buona; dim­mi che sei buona. Merita vivere e camminare e cam­minare pur di imbattersi un giorno in una persona buona.

Rosa                                - Dove siete diretta?

Vera                         - Qui: a te lo dico. Questo è il termine di un viaggio che rimandavo da anni.

Rosa                                - Mi hanno detto che eravate di passaggio.

Vera                                 - Che importa di quello che ho detto agli altri? Che importa ora degli altri? È a te che devo parlare.

Rosa                                - Parlate, vi ascolto.

Vera                         - Tua madre mi ha detto di portarti via con me. (Rosa la guarda interdetta)

Vera                                 - Non è aria buona per te, questa. Devi ve­nir via. Laggiù tutti ti aspettano.

Rosa                                - Ha atteso vent'anni per mandarmi a dire questo? Che cosa può dire lei, e a chi interessa quel­lo che dice? Io non la conosco. Qui ho i parenti e tutto. Domani mi sposo.

Vera                                 - Non devi; capito? Ti manda a dire che non devi sposarti, non devi: non lo puoi fare.

Rosa                                - Tenetevi calma, voi che avete da intro­mettervi? Quanto a lei, per vivere cosi lontano mi pare sia abbastanza d'accordo con quanti la odiano tanto.

Vera                         - Chi non è d'accordo lo sa che non puoi. Gli manca il coraggio di parlare.

Rosa                                - II mio passato è come una lavagna, sape­te? Io non avrei potuto sposarmi per colpa sua - fateglielo sapere; ma che ora venga lei a dir­melo...

Vera                                 - Che cosa puoi sapere, tu? Sei stata strap­pata dalle braccia di tua madre come il piccolo di una volpe cacciata, ferita, che non ha più forza di latrare addosso a tutti la verità.

Rosa                                - Di che cosa parlate?

Vera                         - Senti: non devi sposarti. Vieni via con me. Oppure impedisci, frapponi ostacoli, fatti mala­ta; poi si vedrà. E la tua parola sia no, no. Chiaro, tondo, come un sole. E se non avrai più voce e do­vranno reggerti per le gambe e le braccia, scuoti il capo: no, no. Sia questo il tuo chiodo fitto qui nel­la mente. Non chiedere altro, per ora non chiedere altro. Ascolta me.

Rosa                                - Chi vi conosce? Venite a seminare discor­die. E la vendetta di lei? Per vendicarsi dì loro vuo­le danneggiare sua figlia, la seconda volta che si ri­corda di lei. Ditelo chiaro a quella schifosa che il mio unico male è quello dì essere figlia sua.

Vera                                 - Schifosi voi tutti, schifosa tu stessa. Tua madre non ha mai cercato di piegare le ginocchia di un uomo e farlo scendere il più possibile a terra; come tu poco fa. È stata assalita un paio di volte come una giovenca legata che deve per di più soffo­care ogni lamento per non rovinare il suo aggressore. E per non commettere una sola volta il male di sua volontà; con il cuore e la mente decisi, ha fatto quello che ha fatto, rovinandosi per sempre, condan­nandosi a un lungo castigo che vuoi dire soprattutto divieto di parlare, perché ogni parola non sarebbe che una goccia d'acqua su un grande incendio. Cara; tu non puoi immaginare quella vita. È difficile par­lare per chi si è messo fuori da ogni regola e sa che a nulla si può rimediare per poter riprendere la vita di prima. Ora fa quanto ti ho detto, che il male ri­petendosi non continui a raddoppiare di volta in volta, com'è suo costume.

Rosa                                - Voi siete pazza, una strana donna pazza. Mi guardate e vi stringete addosso come foste un uomo, mettete paura. (Allontanandosi) E ditele che non c'è niente a cui dover rimediare, che io sono contenta, e cosi lui, e anche gli altri         - se non lo sono      - lo saranno. Andremo a vivere lontani.

Vera                                 - (fermandola) Avete il vostro patto, ho sen­tito. Guardatene; capito? Proprio di questo devi guardarti. Non farmi pensare, che la mente si rimescola, la bocca mi si riempie d'acqua. Sappi inoltre che sono gente malata; il loro sangue è guasto. Tuo padre non era più un uomo, o quasi, prima ancora di sposarsi. Non farmi parlar oltre. Ho un incarico preciso da portare a termine. Ci vuole coraggio.

Rosa                                - Siete riuscita ad avvelenarmi anche queste poche ore - ne siete contenta? - che ora sento anch'io avvicinarsi le altre con un rombo alle orecchie. A tutto questo vi ha incaricato lei? Andatevene, che non vi veda più. Voi portate male, ancora giovane e tutta cosi vestita di nero.

Vera                         - Bambina, guardati. È un'ora importante per te, questa ( è entrata la Nino)

Nina                                 - La compagnia ti sta cercando, è l'ora di andare a nanna. Non ti restano che poche ore di sonno prima di infilare l'abito bianco. Chi è questa donna? Sareste voi la forestiera? Cosa avete da spar­tire con questa ragazza?

Vera                                 - Più di quanto tu creda, Nina. A te parlo chiaro: quell'abito bianco straccialo; hai sentito?

Nina                                 - Cuor mio; vieni via. Vieni via subito, con me. Chi ti ha fatto piangere? Non ascoltare una sola parola di questa donna. Ti ho preparato l'acqua, con le erbe aromate. Cuor mio, cuor mio, che cosa dove­va avvenire proprio questo giorno. Vieni cara; que­sta donna ti avrà stancato la mente con le sue chiac­chiere. È una di quelle povere disgraziate, toccate dalla sorte, che vivono per rovinare le ore del pros­simo. Una zingara che non bisogna ascoltare. (Forte) Tu, vattene; che chiamo qui attorno tutto il paese. (Accompagna la ragazza fuori scena ed è subito sui suoi passi) Che sei venuta a fare? Corvo, che fiuti ancora qui attorno?

Vera                                 - Sei la prima a conoscermi.

Nina                                 - Magari non ti avessi mai conosciuta. Che vuoi?

Vera                                 - Devi aiutarmi.

Nina                         - T'ho aiutata una volta. Che vuoi ancora?

Vera                                 - Impedire le nozze. L'ho saputo l'altro gior­no soltanto. Ho camminato senza mai vedere la strada.

Nina                                 - Tu che c'entri ormai? I ragazzi si vogliono bene; tutto è stato dimenticato.

Vera                                 - Credevo che almeno tu sapessi il vero.

Nina                                 - Non vedo altro motivo per opporsi che la tua vendetta.

Vera                                 - Neppure con te posso parlare; e su di te contavo. Aiutami.

Nina                                 - Ti ho aiutata quando un'altra al mio posto ti avrebbe presa a forcate. Ho rischiato la vita per cercare di coprire il tuo misfatto.

Vera                                 - Adesso c'è maggior ragione per aiutarmi.

Nina                                 - Non per te; l'avevo fatto per la bambina. Lui mori dopo due giorni     - l'avevi saputo? Non ser­virono a nulla i miei medicamenti che gli porgevo maledicendoti a voce alta.

Vera                                 - Se dici che lo hai fatto per la bambina, è questo il momento in cui mi devi aiutare.

Nina                                 - Non posso più coprire i tuoi mali. Tu non sei una donna. Dovetti nascondermi tra il fieno quan­do vennero gli altri. Quel disgraziato mi fuggi quan­do corsi a casa a prendere l'acquavite. Credevo fos­se scappato con te. Nella febbre ti chiamava per nome.

Vera                                 - Devi aiutarmi.

Nina                                 - Tu devi andartene, ho detto. Le pietre da sole qui ti si rivolgono contro.

Vera                                 - Quei due ragazzi non si devono sposare. La natura non lo permette.

Nina                                 - Non è come te la ragazza. E stata allevata fra queste braccia. E tu vieni a spaurirmela, ora. Vattene, che altrimenti chiamo tutto il paese.

Vera                                 - Va' a chiamare lui. Digli di venire: subito. Non c'è un minuto da perdere.

Nina                                 - Dove vuoi arrivare? Non ti riuscirà di se­minare altre disgrazie.

Vera                                 - Voglio risparmiarle. Fa' come ti ho detto. Venga subito.

Nina                                 - Vattene, t'ho detto, che comincio a chia­mar gente.

 70

 Vera                                - Ubbidisci, che altrimenti vado io a batte­re uscio per uscio.

Nina                                 - Chi ti ha portata di nuovo da queste parti? Di te la ragazza non ne vuoi sapere, non ha mai voluto sentire il tuo nome. Tu per lei non esisti.

Vera                         - Fa' quanto ti ho detto, che presto farà chiaro.

Nina                         - Promettimi di andartene subito dopo.

Vera                                 - Fa' presto.

Nina                         - Vado. E che tornando più non ti riveda.

Vera                                 - Corri. (Nina è uscita; Vera si appoggia al muro. Un gruppo di giovani esce dalla casa dei Sardok; si dividono salutandosi ed entrano nelle rispet­tive case. Ultimo avanza Svaldo che riconosce la don­na; vorrebbe tornare sui suoi passi, ma è fortemente attratto dallo sguardo fermo di lei)

Vera                                 - Anche tu mi hai subito riconosciuta. Si conosce meglio la propria mano malata che quella sana.

Svaldo                             - Che cerchi qua?

Vera                                 - Sono l'ultima persona al mondo che avreb­be dovuto presentartisi davanti, lo so. Ma qui il male è cresciuto anche senza la mia presenza come un seme già marcio caduto per strada          - tu non hai fatto nulla per arrestarlo; sono dovuta venire io, e di corsa,

Svaldo                             - Qui tutto è a posto. Nessuno ha chiesto di te.

Vera                                 - Basta guardarti per sapere come vadano­le cose qua. Come l'hai permesso? Tu solo potevi impedire che si arrivasse a questo sbaglio orribile. Dovevo ricordare che gli uomini qui contano uno zero. Dobbiamo allearci dunque, un'ultima volta. La bambina la porto con me.

Svaldo                             - Arrivi troppo tardi. La bambina è ormai una ragazza che sta per infilarsi l'abito da sposa. Il ragazzo, non è nemmeno suo cugino più.

Vera                                 - Come hai potuto permetterlo? Li ho visti qua stretti al muro. Che cosa hai al posto delle os­sa, tu? Non è avvenuto ancora l'irrimediabile. Siamo ancora in tempo, ma ora bisogna muoversi; tu devi aiutarmi. Nessuno dei due lo fa per amore dell'altro, è chiaro.

Svaldo                             - Io non ho nulla cui dover rimediare. La­sciami andare; mia moglie può accorgersi della mia assenza.

Vera                                 - Se ne accorga. Venga qua anche tua ma­dre. Che ti illudi? Ormai tutto ha da essere chiarito, preparati. O mi aiuti a portar via la bambina o bi­sogna parlar chiaro. Io non ho nulla da perdere, or­mai. Che si sappia come fui presa da te con la forza, il tradimento, un paio di volte, come una cagna con il muso nella polvere, non può aggiungere gran che al mio nome. Sta a te ora coprirti di fango.

Svaldo                             - Perché sei venuta?

Vera                         - Avresti lasciato incendiare il letame pur di salvare il tuo nome onorato?

Svaldo                             - Che potevo fare io? Ci hai coperti tutti di vergogna.

Véra                         - La vergogna è venuta tutta sulle mie spalle. Ma sono di nuovo qua, Svaldo.

Svaldo                             - Sei venuta per vendicarti. Hai covato questa vendetta per quasi vent'anni. Non ti aiuterà a levarti di un dito dal fango.

Vera                                 - Sono venuta per guardarti negli occhi, e per vedere se ci può davvero esistere persona peg­giore di me.

Svaldo                             - Quanto hai tu commesso non ho mai neppure pensato si potesse commettere.

Vera                                 - Perché ti manca il coraggio. Ma purché nulla si sappia permetteresti la più vergognosa delle unioni, al cui solo pensiero mi vengono le vertigini.

Svaldo                             - Io non ho mai voluto queste nozze, sap­pilo. Non ho mai voluto che mio figlio sposasse tua figlia.

Vera                                 - Lo dici anche con disprezzo; solo per il fatto che è mia figlia. È anche tua figlia, Svaldo; te Io dissi scappando a quelle pazze.

Svaldo                             - Che cosa inventi, e di nuovo, ora? Chis­sà quanti padri potrebbe avere tua figlia.

 Vera                                - Lo sai bene che ho sposato tuo fratello quando già aveva le ossa intaccate. Lo sai chi altri - forse per orgoglio di famiglia - pensò subito a sostituirlo. Lo sai che nella mia ignoranza di ra­gazza l'ho fatto anche per ribellarmi a quei rap­porti per me insopportabili, vergognosi, e alle con­tinue accuse di tuo fratello di aver potuto avere un figlio da altri.

Svaldo                             - Cosi l'ho sempre pensato anch'io, e lo penso ancora.

Vera                                 - Sono deboli le tue difese. Di fronte a me non puoi rifiutarti di pensare anche al peggio. Mi sono addossate tutte le responsabilità. Tuo fratello mori maledicendomi, non poteva essere diverso. Ma ora è tempo di guardare dentro. Se vuoi essere un uomo, deciditi e presto.

Svaldo                             - A che sei venuta? È sempre notte, qual­che stella resiste ancora.

Vera                                 - Non farmi sentire dì fronte a te del tutto innocente. Non Io vorrei io stessa. Mi domando: come non puoi sentire il desiderio di strapparti con le unghie ogni sporco di dosso?

Svaldo                             - Ci vuole coraggio.

Vera                                 - Avevi il coraggio di assalirmi di notte quando qualsiasi in casa poteva sorprenderci. Per­ché lo facevi?

Svaldo                             - Tu: perché me lo chiedi? vuoi risentire ancora quella storia? Mi avevi stregato il primo gior­no che entrasti in questa casa; ancora prima, quando accompagnai mio fratello dai tuoi. Perché Io hai fatto, e proprio quel giorno in cui ci saremmo visti la sera in tutta libertà?

Vera                                 - Per questo anche. Perché quella sera anch'io desideravo incontrarti, e quel ragazzo era un angelo vicino a te che approfittavi dell'assenza del fratello e davanti a tua moglie e agli altri della casa mi trattavi come una di strada; e volevo che almeno lui non somigliasse in niente a te, a voi due uomini che avevo fino allora conosciuto, untuosi, vigliacchi. Era giovane, circa della mia età; mi pareva di averci giocato insieme da ragazzi.

Svaldo                             - Eri una donna con un marito, una figlia.

Vera                                 - Finché lui mi sedeva accanto ero la bam­bina rimasta a casa a lavare la schiena ai fratelli. Avrei tutt'al più desiderato di baciarlo una sola volta sulla bocca per convincermi che potevo restare una ragazza pur avendo una figlia di otto mesi. Se­devamo pomeriggi interi l'uno di fronte all'altra sen­za dire una parola. Era un'intesa segreta, la nostra; lui veniva quando mi sapeva sola, io gli lasciavo la porta aperta. Tutto questo senza che io avessi mai mosso il labbro, senza che lui avesse detto una sola delle quattro parole che era in grado di pronunciare. E certe volte avrei desiderato che gli facesse difetto anche l'occhio e io potessi cosi trastullarmi ore e ore tra i suoi capelli, liberarli dei fili di fieno, il muschio appiccicati, e lavarlo, lavarlo, dalle dita delle mani a quelle dei piedi, perché fosse anche di fuori una cosa bianca e pulita come doveva esserlo di dentro.

Svaldo                             - Era uno da lasciar perdere per la sua strada. Dargli un tozzo di pane, e via. Chi ne cono­sceva i genitori?

Vera                                 - Quel giorno, sedendogli di fronte, credetti d'improvviso che si fosse addormentato. Rischiarato dal fuoco, aveva un'espressione dura, quel giorno, di tormento, che non gli avevo mai letto prima, come se quel fuoco ardesse sotto le sue calcagna e lui avesse le sue buone accuse da lanciare in faccia al mondo: i digiuni, le notti trascorse nei fienili o in aperta campagna. Più tardi mi accorsi che mentiva e che mentendo si è sempre costretti a falsare la nostra espressione naturale. Quando mi alzai per chetare la bambina e tornai al focolare, era tutto slacciato davanti e fingeva ancora di dormire. Lui approfittò del fatto che io mi accorsi solo più tardi che fingeva e intanto lo avevo più volte guardato. E lentamente diventava un altro: un uomo schifoso come voi tutti, incapaci a decidervi, a sputare chia­ramente in faccia sia pure un desiderio di male. Gridavo che se ne andasse, si vestisse. E lui fingeva ancora di dormire in maniera idiota come fanno i bambini. Lo minacciai un paio di volte accostandogli le molle che agitavo nel fuoco; lui si alterava senza sollevare una palpebra. Le teneva anzi strette con sforzo, non abbassate, com'è naturale nel sonno. Mi parve che si fosse atteso quel gesto - sapendo di averlo provocato, di averlo voluto - perché infilò subito la porta mugolando ancora senza sollevare lo sguardo. Perché l'ho fatto? Perché non sono invece scappata quando ancora le ginocchia erano salde? Non finirò mai di maledirmi. Perché non ho lasciato piuttosto penzolare la mano nel fuoco?

Svaldo                             - Non dovevi farlo, no, no. A me facesti il male allora, bruciandomi dentro come un albero che non ha da mostrare ormai che il tronco vuoto.

Vera                                 - Fui sposata a forza a un uomo che non sopportavo, condotta in una casa che non soppor­tavo. Avevo diciott'anni, non sapevo nulla, credevo che i figli nascessero da sotto le ascelle.

Svaldo                             - Non dovevi, no. Qual è stata poi la mia vita. E non esiste altra vita, non ne esiste altra, i giorni si accorciano, le stagioni si fanno sempre più brevi.

Vera                         - La vita è male. Non è strada, è bosco; dove le sterpaglie crescono a caso, e per procedere devi rimetterci le unghie e non sai la fine.

Svaldo                             - Non a te stessa facesti male allora, ma a me. Vera, voglio guardarti un istante negli occhi.

Vera                                 - Lasciami. La vita è anche un continuo li­berarsi dal male, ora per ora. Della preghiera io dico solo le ultime parole: liberaci dal male e cosi sia. Devi incamminarti, Svaldo; ormai albeggia.

Svaldo                      - Non ho la forza di muovere un passo. E dico che non può essere, lo sento. La mente mi si rifiuta solo a pensarci.

Vera                                 - Perché si è soliti a pensare - a sperare - che il peggio non possa accadere. Io sono ormai abi­tuata a pensare il contrario. Devi andare.

Svaldo                             - Ma come parlare? Quale parola profe­rire per prima? E il rischio, il sacrificio sono troppo grandi per spegnere un semplice sospetto.

Vera                                 - Fa' quanto ti dico: ascolta me. Mi dispiace, quasi, che debba ora toccare a te - dipendesse an­cora da me sola, correrei sorvolando la terra. Ma sei tu ora a doverti fare avanti; io non ti posso es­sere di aiuto. Devi andare. Portarmi qui la bambina e coprirmi un'altra volta la fuga. Oppure svegliare tutta la casa. Non resta altro. Ti aspetto al pozzo. (Vera si avvia, Svaldo la segue con lo sguardo)

ATTO TERZO

La stessa scena. Per la strada passa una donna col vaso dì latte in testa. Francesca è entrata nella corte. È quasi giorno.

Lattaia                             - Auguri prima a voi che governate la casa.

Francesca                         - Guarda se fai in tempo a portarmi quei fiori.

Lattaia                             - Fiori di arancio, avevate detto?

Francesca                         - Qui nessuno li ha mai visti.

Lattaia                             - Vado e torno. Tanto, chi vuole più il nostro latte? Mi restano poche famiglie ormai da servire. ( Esce)

Francesca                         - Nina, Nina! Quante volte ti debbo chiamare? Se esiste un giorno in cui non bisogna poltrire, è questo. (È entrata la Nina) Metti fuori i tavoli; apparecchia. Con i bicchieri, le posate e tutto. Le tovaglie nuove, mi raccomando, che di mattina l'occhio è pulito, ama posarsi sugli oggetti. Servirai per prima le interiora: d'agnello, di pollo. Non trop­po, che farebbe alzare spesso il gomito e c'è da an­dare prima in chiesa, dopo all'osteria.

Nina                                 - Datevi pace, Francesca. È tutto pronto. Riposate anche voi.

Francesca                         - C'è da bagnare il cortile, che non si sollevi troppa polvere. Devi innaffiare quegli oleandri.

Nina                         - Si fa all'ultimo istante.

Francesca                         - Devi far alzare la sposa.

Nina                                 - Lasciatela riposare un altro po', poverina.

Francesca                         - Insomma. Ti incastri nel rastrello, anche tu?

Nina                                 - Lasciatemi, ho fatto brutti sogni stanotte. La scrofa dei Péciar teneva tra il gnigno un pulcino e lo sbatteva contro il muro e il sangue colava, nero, finché non intervenne la chioccia e non le portò via un occhio, e la bestia ferita, pesante, grondava san­gue e correva. Mi veniva contro, non mi dava pace. Mi svegliai che gridavo.

Francesca                         - Hai mangiato troppo ieri sera. Fossi in casa d'altri, questi sogni non li faresti. Anch'io ho sognato di un lievito che levava troppo, e la pasta cresceva, cresceva, fuori dalla madia, aveva coperto tutte le mattonelle in cucina.

Nina                                 - II tredici porta male. Perché non avete spostato di qualche giorno le nozze?

Francesca                         - Tu, che t'immischi? Dovevo chiedere a te la data precisa?

Nina                                 - Sono brutti sogni; pensateci. Lasciamo dormire la sposa,

Francesca                         - Falla levare invece, e subito. Si metta in ginocchio e baci tre volte l'immagine della Sposa modello.

Nina                                 - II sole non si leva stamane. C'è aria di temporale.

Francesca                         - Abbiamo gli ombrelli. Muoviti, che presto arriveranno i compari. Bisogna preparare il fieno per i cavalli. (È entrata la cognata)

Adele                               - Svaldo dov'è?

Francesca                         - Lo hai nascosto sotto il letto? Qui non s'è ancora visto.

Adele                               - Non è neppure venuto a dormire. Il letto è intatto. Parlate. (Alla Nina) Lo dico a te.

Nina                         - Io non so niente.

Adele                               - Tu non sai mai niente. Perché mi guardi a quel modo?

Nina                                 - Una donna ha voluto vederlo.

Francesca                         - Tu che t'immischi, ho detto? Un pa­dre può vegliare la notte quando sposa suo figlio.

Adele                               - Non può essere che una donna. Nient'altro avrebbe le forza di distogliere un uomo dal proprio letto. Dove li hai visti?

Nina                                 - Parlo ancora di ieri sera. Si tratta di quella forestiera; avrà avuto qualcosa da dirgli. Non so altro.

Adele                               - Dove dovevano incontrarsi?

Nina                                 - Io non so niente. Andavo a prendere l'ac­qua, al pozzo.

Adele                               - Svergognata. Non può essere che svergo­gnata una conoscente di quella vacca. (Esce in dire­zione del pozzo)

Francesca                         - Non so chi mi trattiene dal romperti la gobba, vecchia matta. Ringrazia che è giorno di festa e il paese è già in piedi.

Nina                                 - Ho detto quello che ho visto, non una pa­rola di più. Vi illudete che tutto debba andare liscio.

Francesca                         - Che sai tu? Che cosa dunque dovrebbe avvenire?

Nina                                 - Lasciatemi il braccio, mi fate male. Per­metterei che me lo strappaste se ciò potesse rime­diare a qualcosa.

Francesca                         - Parla.

Nina                         - Quella donna l'ho vista con questi occhi. Ci ho parlato. (È entrata la sposa)

Francesca                         - Le hai parlato? Presto qui tutti le avranno parlato.

Rosa                                - L'ho vista anch'io. Che cosa si nasconde sotto a tutto questo? Non ho chiuso occhio tutta la notte.

Francesca                         - Dio, in che stato sei - che cosa di­ranno gli invitati? - tu che dovevi essere fresca come una rosa.

Rosa                                - è già molto che mi si veda in piedi, con l'abito addosso.

Francesca                         - Vatti a vestire, tu aiutala.

Rosa                                - Non mi muovo. Che cosa mi si nasconde?

Francesca                         - Mangerai un pochino, berrai mezzo bicchiere che ti torni il colore.

Rosa                                - Qui sta avvenendo qualcosa a mia insa­puta. Voglio sapere.

Francesca                         - Infilale l'abito. Le metterò io stessa la corona. Presto arriveranno anche i fiori.

Rosa                                - Devo saperlo prima di muovere un passo.

Francesca                         - E sveglia il ragazzo. Basta dormire.

Rosa                                - Non voglio; capito? Chi è quella donna?

Francesca                         - Ti ci porto all'altare nuda. Tu, prendi due uomini qualsiasi - saranno pagati. Avverti il prete.

Nina                                 - Ci dovete pensare, Francesca. Siamo an­cora in tempo.

Francesca                         - Avessi la frusta in mano non parle­resti a questo modo.

Nina                                 - Siete ormai la sola a volerlo. Non è giusto.

Francesca                  - Non è giusto che tu mangi il mio pane da oltre trent'anni. Vattene, carogna! Non vo­glio più vederti in questa casa. (Entra l'Adele di corsa)

Adele                               - li ho visti che stavano abbracciati. Quella donna è lei. L'ho riconosciuta dai capelli. Mio ma­rito ha già il pallore della morte; fate suonare le campane.

Francesca                         - Dio. Sta per venire notte, non l'alba. Spegnete le lampade, chiudete le finestre e il can­cello, che l'aria non oda. Qui tutto è di nuovo in­fetto. Nascondete la bambina che non avvizzisca di botto come un giglio accostato troppo alla candela. Tu, che parli? Di che donna parli? I tuoi fumi d'i­sterica ti hanno fatto vedere il demonio. Datele i sali, bagnatele gli occhi di malva.

Rosa                                - Che cosa succede, insomma? Ditelo a me, zia. Chi è quella donna?

Adele                               - Taci, non chiedermelo, che già mi sento il fiato avvelenato. Scostati.

Francesca                         - Chiudetela nella sua stanza. Tu che aspetti? E datemi la forca. L'aria ha da tornare sana; bisogna prima soffocare il letame. (Entra Svaldo)

Svaldo                             - Aiutatemi a sellare il cavallo; vado ad avvertire i compari. Tutto è sospeso. Non si ha da fare nulla. Questo è un giorno come un altro.

Adele                               - Stammi il più possibile lontano.

Francesca                         - Tu sei ancora mio figlio? Hai il polso fermo? Ti chiedo di guidarmi. Al resto penserò io.

Svaldo                             - Non c'è da muovere un passo. C'è da stare il più possibile fermi. Io avvertirò i compari, passerò dal prete. Voi zitti. Non mi si chieda altro.

Adele                               - Sono i consigli di quella vacca. Parla per bocca di quella vacca.

Rosa                                - Zio, parlate. Guardate contro il muro, ma parlate.

Francesca                  - Lui ha da guidarmi. Voi preparate il resto. Faremo le nozze e via. Bastano due uomini qualsiasi.

Svaldo                             - No. Deve essere un giorno come un altro. (A Rosa) Tu preparati; devi venir via. Prenditi la tua roba.

Francesca                         - Lei ha un solo abito da indossare; glielo infilerò io stessa.

Adele                       - Ed io andrò a vestire mio figlio; ora si. La vedremo.

Svaldo                             - Non possono. Non devono.

Adele                       - Che parole sono queste? Non devono? Che cosa ci nascondi?

Svaldo                             - Non ho nulla da nascondere. È cosi. Ve lo dico per l'ultima volta. Non ho altro da aggiun­gere.

Adele                               - Cambiati anche tu d'abito, e lavati; fai schifo.

Rosa                                - Chi è quella donna.

Adele                               - Rispondiglielo tu. Avanti.

Francesca                         - Se muovi un'altra parola ti faccio ve­dere che sei ancora mio figlio. Non hai che da at­taccare i cavalli, tu, per andare a prendere il prete. E tu va' a svegliare tuo figlio. Subito. (Adele sta per avviarsi) Se è ancora preso dal sonno, tanto meglio. Lo metteremo cosi come sta sul carretto. Presto; è ora di bagnare il cortile. Subito dopo accompagnerai tuo figlio e la sposa in città. Ti darò le chiavi. Il letto c'è già. La camera è nuova, delle più belle che ho vedute. (A Svaldo) Parlo a te; e che non debba dirti altre parole. Al resto penserò io. Poi mi laverò ben bene le mani, e comincerà la festa. (Vera Verk è ferma al cancello)

Vera                         - Perché non parli, Svaldo?

Francesca                         - Nessuno ci guarisce più dall'infetto. Chiudete il cancello o lasciate che mi butti sul fuoco e lo spenga saltando con i piedi uniti. Come osi, vi­pera, uscire dal tuo nido quando ogni altra bestia li sopra non attende altro che di schiacciarti la testa? Via; gli occhi si rifiutano di guardare, la vista si annebbia.

Adele                               - Hai avuto il coraggio di rifare questa strada. Vattene e subito.

Vera                                 - Perché non parli, Svaldo? Vuoi che parli io?

Svaldo                             - Non ascoltatela. Non credete a una sua sola parola.

Vera                                 - Lo sapevo. Sta' tranquillo: non dirò niente, Svaldo.

Francesca                         - Vedo ogni cosa macchiata dì rosso qui intorno e non c'è segno di sole ancora. Chiamate le donne del paese; sassi ce n'è dappertutto. Io non me la sento da sola. Sono vecchia.

Vera                                 - Non si può punire due volte per lo stesso motivo e a distanza di quasi vent'anni.

Francesca                         - Tu sei una serpe che bisogna schiac­ciare non appena si presenta alla vista.

Vera                                 - C'è qualcuno più triste di me, qua dentro. Vi chiedo una sola cosa: datemi la bambina; dicia­mole tutto. Scelga lei stessa.

Francesca                         - Se glielo dico ti salterà agli occhi. Le hai distrutto il suo giorno più bello. Non sei de­gna di avvicinarla.

Vera                         - È, uscita da me. Perché me l'avete tolta?

Francesca                         - Non sei per tenere figli, tu; ti scivo­lano dalle ginocchia.

Adele                       - Dategliela, e la casa sia liberata per sempre.

Francesca                         - Io sono sua madre. Lei non conosce altre. Non è vero, cuor mio?

Rosa                         - Questa donna mi mette paura.

Nina                         - Non parlare cosi. È tua madre, quella.

Rosa                                - Lo supponevo     - questo mi nascondevate? Che cosa strana. Non la sento mia madre. Per me resta una qualunque.

Francesca                         - Ecco. Che cosa uno è lo porta scritto in faccia; e lei non ne sa ancora nulla.

Vera                                 - Non parli, Svaldo?

Francesca                         - Che cosa ha da parlare lui? Noi ab­biamo da parlare, fi l'unico torto che ho con te, te­soro e un debito, si, che te Io avevo promesso più volte. Questa donna che dice dì essere tua ma­dre ha bruciato un uomo nella sua parte più deli­cata con un ferro rovente, dopo essersene approfit­tata.

Vera                                 - Non è vero.

Adele                               - Cagna. Le avevi messe ad arrossare nel fuoco, le molle. Tutta la casa aveva odore di bru­ciato, come quando si ferrano i cavalli. Abbiamo rin­frescato le pareti, ma da allora nessuno ha più pran­zato in cucina.

Vera                                 - Non è vero, figlia. Ho sbagliato, ma non come vorrebbe farti credere questa gente, (è entrato l'Armando)

Armando                         - È vero. Me lo son fatto raccontare que­sta notte. Il più vergognoso dei fatti di cui mai si è sentito narrare. Che cosa siete venuta a fare qua? Avete rovinato anche la figlia. Non so chi mi trat­tiene dal saltarti alla gola, cagna, cagna. (Sta per avventarlesi contro: suo padre lo trattiene)

Adele                               - Armando, no.

Vera                                 - Non sposarlo, figlia. Hanno tutti il sangue marcio. Sono loro gli infetti.

Francesca                         - Ora è stato superato ogni limite. Pre­pariamoci. Che fate? Sta accorrendo gente.

 Francesca                        - A noi ha fatto male e male e male. Ne siamo ormai i padroni.

Svaldo                             - Fermatevi.

Adele                               - La difendi? Andava anche con lui, suo cognato; cagna. Ecco chi le ha protetto la fuga.

Francesca                         - Non ci sono più parole. Chi ha por­tato questa iena in questa casa? Che figli ho parto­rito io? Ha intaccato per sempre anche la sana pianta.

Vera                                 - Siete voi marci, senza midollo. Non ascol­tarli, figlia. Liberati dal loro contagio.

Francesca                         - Ci appartiene, prendetela. ( Ad Adele) Tu, mettiti sotto; gli uomini qui non contano nulla. (Stanno per avanzare)

Rosa                                - (in un grido) No, no, no. (Fermi. Lunga pausa)

Francesca                         - Levati dunque dalla vista, e questa volta per sempre. Datele un pezzo di pane per il viaggio. Accenderemo molti ceri, faremo dir messe. L'aria sarà ripulita; si rivedrà oltre le nuvole. (Alla Nino) Si prepari questa festa senza troppa allegria. Io mi vestirò di lutto per non offendere troppo il Signore. Nessuno aprirà bocca se non per parlare, a voce bassa. Le mani resteranno conserte o appog­giate agli schienali. Tu via, via. Ti risparmiamo un'al­ tra volta. Siamo troppo piccoli noi per punirti. Solo il fulmine potrebbe farlo. E che ciò possa avverarsi presto. Pregherò per te.

Vera                                 - Figlia, hai una casa; ricordatelo. Oltre il monte, a quattro giornate di strada. Li potrai dire di essere mia figlia. Almeno tu non giudicarmi, figlia. Non c'è colpa più grande della mia. Per impedire il tuo male ora non mi resta che lasciarmi cadere a piombo sulle mani unite. (Esce quasi di corsa)

Francesca                         - Quando i compari giungeranno, non mostrate loro alcun sorriso. Siano i benvenuti, ma conviene accoglierli senza allegria. Oltretutto ci pre­pariamo alla partenza, ed è sempre duro partire, la­sciare nel guanciale l'incavo della propria testa. (Alla Nino) Tu dirai che oggi ricorre l'anniversario della morte del padrone o quello del figlio maggiore, il padre della sposa.

Svaldo                             - Non muoviamoci di un passo, il cancello rimanga chiuso.

Francesca                         - Che hai tu, uomo da nulla? Che hai da dire?

Svaldo                             - II male peggiore solo ora sta per arri­vare. Queste nozze portano sfortuna,

Francesca                         - Smettila di parlare, che tuo figlio ti sorpassa di una testa, fa per quattro tuoi pari.

Rosa                                - L'avete trattata male; non ne avevate il diritto. Ha rivisto sua figlia dopo vent'anni pronta a morderle la mano.

Adele                               - Questa ragazza io non la voglio in casa. Non ne conosco il padre. Figlio, guardatene; ha l'oc­chio della madre.

Armando                         - Non so più dove guardare, mi avete rovinato tutto davanti.

Francesca                         - Tu che parli? Ti ho accolta in casa che non avevi di che coprirti. (Alla Nina) Servirai poca carne, mescerai poco vino. Solo cosi si rende lode al Signore. Il troppo guasta, finisce col piaz­zare. Io non scenderò ; dirai che sono in compagnia di coloro che custodiscono la casa. Lasceremo il paese in silenzio come si conviene nei giorni di lutto, che qui sarà tra breve un cimitero. Se ti chiede­ranno ancora da bere, non versare fino all'orlo. Sap­piano che da mangiare e da bere non manca, né si vuole trattarli con risparmio, ma che questo è gior­no dì astinenza e di rispetto alla memoria dei pa­droni. Fa' un bel pacco ad ognuno ; si ungano e si ubriachino appena fuori il paese. Chi viene di cor­sa? Sono già qui i compari?

Nina                                 - Vedo un viso stravolto di donna, un altro che lo segue. (Due donne entrano di corsa)

Giovane                           - Accorrete. L'ho vista buttarsi nel pozzo senza rallentare un istante la corsa.

Seconda Donna               - Ho sentito l'urto della pietra e poi un tonfo come di cinque secchi colmi calati in una volta.

 

Svaldo                                         - Vera!

Rosa                                - No! Lasciatemi passare. (Rosa corre verso il cancello e poi verso il pozzo)

Francesca                         - Di che parli tu?

Giovane                           - Quella donna che tutti hanno ormai ri­conosciuta per vostra nuora.

Francesca                         - Ho una sola nuora io, ed essa mi sta accanto.

Seconda Donna               - Sì è buttata nel pozzo.

Francesca                         - Zitte, civette. È ormai notte fonda e vi siete appollaiate sul mio tetto. Via, via. Non ho nuore, non ho figli, non ho parenti. Sono sola e senza mai aver fatto nulla di male. Mi sono consu­mata le dita sgranando rosari e vuotando frumenti nel sacco del povero. Mai stata d'altri che di un solo uomo. (A Svaldo) Tu che sapevi? Parla. È tempo che io oda la tua voce. Sei ora per me un giorna­liero che ho appena sfamato. Tu sapevi qualcosa?

Svaldo                      - è tardi; è tardi. L'ha voluto impedire, lei. Allontanate queste donne.

Francesca                         - Via, soccorretela. O riunitevi tutte in­torno a pregare.

Giovane                           - Sento ancora il tonfo nelle orecchie.

Seconda Donna               - Ho visto l'acqua schizzare fin fuori. (Escono)

Adele                               - Che sapevi, tu? Parla. Che cosa ci nascon­devi?

Francesca                         - Che cosa era quella donna per te? Vi conoscevate anche prima?

Svaldo                             - Diceva di aver potuto avere da me la bambina; giurava di esserne certa. Voleva ad ogni costo impedire le nozze.

Francesca                         - No, no. L'infetto si è dilagato: è en­trato ormai nella casa, ha contagiato le pareti e il mobilio. Sento strisciare lumache sotto i piedi, pre­sto ne sarò trasportata. Aspergete tutto qui intorno di calce bianca! Innaffiate i muri, spruzzate le porte. Accendete erbe forti e fate deviare il fumo verso la casa. Essa è ormai da salvare. Qualcosa sta putrefando, là dentro. Bruciate tutto: i pani, gli arrosti, ogni cosa destinata a guastarsi. E anche i mobili di­sfateli: ne usciranno bianchi vermi. Restino soltanto i muri, anch'essi lavati di calce. Molta, da formarne cinque strati; e prima graffiare bene l'intonaco, che rimanga la nuda pietra. Ahi, ahi, è notte ormai; per simili mali non ho mai pensato il rimedio. Neanche le pietre mi danno più fiducia, che possono essere corrose di dentro; l'aria calda, malsana, entrando ne avrà spezzato lo smalto. Si sono già accartocciate tutte le foglie? Dietro a ogni erba odo crepitare d'in­setti; che figli ho partorito io? Dai lupi sono nate lumache, e su di esse è calato un nugolo di mosche. Ahi, ahi, ho partorito cose molli, senza osso; proprio il contrario dei nostri monti.

Adele                               - Tu tacevi, da vigliacco. Avresti permesso che al latte si mescolasse il sangue.

Svaldo                             - Non lo sapevo.

Adele                               - Tradivi il fratello e ti accostavi al suo stesso tavolo.

Svaldo                             - Non chiedere, non parlarmi.

Francesca                         - La vergogna ci fa piegare il capo e a terra non vedo che fango, in cui il piede sprofonda.

Adele                               - Bisogna trovare un rimedio. Le casse sono pronte. Partiamo.

Francesca                         - Stanno per giungere i compari; ve­dranno solo teste coperte di vergogna.

Adele                               - Troveranno gli usci e le finestre sprangate.

Armando                         - Andiamo senza guardarci negli occhi.

Adele                               - La ragazza non la voglio. Approfittiamo della sua assenza.

Nina                         - Non potete. È due volte sangue vostro.

Francesca                         - Non parlare, non parlare, che ogni tua parola ha sempre suonato sfortuna per me. Sia­mo tutti qua. Entriamo e chiudiamo tutti i catenacci. C'è di che vivere fino a notte alta. Tu vattene, se credi.

Nina                                 - Lasciate che raggiunga la ragazza e la porti qua svenuta; la rinveniremo.

Adele                               - Siamo tutti noi, soli. Madre, lasciatevi annodare il fazzoletto.

 74

 Francesca                        - Non voglio vederla; lo stomaco non regge. Datemi uno straccio che mi pulisca la bocca, preparate l'acqua che faccia un lungo bagno. Figlio, non mi rimane che te. Hai una buona madre, anche se il padre è misero. Non lasciatelo mai parlare, che il suo fiato è per sempre avvelenato. Tu hai bisogno di un'altra donna; pagherò io. Rimedieremo a quanto non sapevamo dì dover temere ora per ora. Ma occhio per il futuro.

Adele                               - (verso Svaldo) Avrà la sua stanza sepa­rata. Nessuno dividerà con lui il pane; pagheremo chi dovrà lavare i suoi stracci.

Francesca                         - Siamo salvi. Stringiamoci tutti attor­no per affogare ogni altro male.

Adele                               - Preparate le chiavi ; e siate voi a chiudere, madre.

Francesca                         - Riunitevi giù in cantina dove non sì oda bussare.

Adele                               - Laggiù fa fresco, c'è l'acqua corrente.

Armando                         - Io entro per primo perché chi busserà mi sia il più possibile lontano.

Francesca                         - Dentro, dentro; e nel buio. Le nuvole si abbassano mescolandosi ormai ai vapori della terra. Usciremo solo coi fanali; giungeremo in città che sarà l'alba. E li cercheremo di disperderci, per quanto sarà possibile, perché due lumini non fac­ciano una fiamma. Presto. (Alla Nino) Non mi co­stringerai a toccarti. Sei cosa nostra anche tu. Che cosa d'altro ti spetta?

Nina                                 - La bambina. Volevo almeno vederla un'ul­tima volta.

Francesca                         - Presto, pazza. Che il cuore qui san­guina a tutti. Un istante solo e la sorte di ognuno si cambia. È deciso cosi. I fatti ci tengono schiavi. Ha un brutto colore il cielo. Stanno per scendere i corvi, (Entrano in casa. Ricompare la Nino, che de-pone sul muretto un fagottino con pochi stracci. Rientra. Giunge dal pozzo un gruppo di donne)

Prima Donna             - Tutto è chiuso come allora. I! fumo gira la casa cercando invano fessure.

Seconda Donna               - L'erba può crescere nella corte, il cardo sul tetto. La casa ha occhi ciechi come allora.

Terza Donna                    - I Sardok attendono che il fango si deponga e l'acqua un poco si rischiari.

Giovane                           - L'hanno tratta fuori, distesa su una pietra.

Seconda Donna               - Non s'è per nulla enfiata; sem­brava dovesse aprire gli occhi, nata or ora dalla sorgente. Un raggio di sole ha proprio allora forato le nubi.

Terza Donna                    - Vorrei bere di quell'acqua dal ca­vo della mano.

Prima Donna                   - Solo la casa si è stretta come un pugno; si sono riuniti dentro tutti i silenzi, (è en­trata la Rosa)

Seconda Donna               - Non ci sono temporali né ful­mini; albeggia solo ora.

Prima Donna                   - Le pietre continuano a premere la terra. Nessuno pensa di piegare il ginocchio.

Terza Donna                    - I cani sono tutti legati. Si vorreb­be cospargerti la strada di fiori, ragazza.

Seconda Donna               - Congiungere gli opposti roveri perché la pioggia rimbalzi sopra il tuo capo.

Prima Donna                   - II male si è riunito tutto li den­tro. Quella casa occorrerebbe cingerla con tutti gli spini del Carso.

Terza Donna                    - Abbiamo tutti sbagliato, paesana. Non è il tempo per giudicare.

Seconda Donna               - No, non giudichiamo. Ognuno segua il vero che si dibatte nel proprio cuore.

Prima Donna                   - Non sarà diverso per noi, ragazza. Una vita tutta fatta di sospiri.

Seconda Donna               - Soprattutto non giudicare. Segui la tua strada o rispondi sempre con misura.

Giovane                           - Scende un'aria dal monte con odori di salvie e di timo.

Terza Donna                    - Prendiamo tutte un rametto di ba­silico, due foglie di maggiorana.

Prima Donna                   - Laviamoci a lungo le bocche che hanno gustato solo maldicenze.

Seconda Donna               - Non affatichiamo il capo inutil­mente. Ogni frutto ha già dentro la propria semenza.

Prima Donna                   - Dai roveri nascono i roveri, il gra­no dal grano.

Terza Donna                    - Che tu sia sempre profumata co­me un nostro orto, ragazza.

Terza Donna                    - Ogni nostro male si purghi nella fatica. La speranza è scarsa, ma già mi sorride in seno.

Prima Donna                   - Uniamoci agli altri per seguire ognuno la sua strada.

Terza Donna                    - Da tante scarse speranze apriremo un varco nel cielo. (Entra la lattaia)

Seconda Donna               - Ti hanno portato i fiori d'aran­cio, ragazza. Sono cose belle, non è giusto buttarle. (Al gesto di Rosa una delle donne prende ì fiorì e se li stringe al seno,_ già presagendo dove dovrà deporli)

Rosa                                - Ogni pianta si abbatte sulla propria radice, ogni seme torna alla terra. Fossi come te, un guscio di cicala in cui ormai sibila il vento... Ma si ha da compiere la propria strada, sentire via via le ali sec­carsi sulle spalle come foglie basse sul tronco. Ma­dre infelice e figlia infelice, divenuta donna in un grido. Date anche a me uno scialle nero, che i ca­pelli incanutiscano presto. Il petto già mi si affloscia, le gambe si fanno di cera. Di proprio restano le ori­gini, che è destino un giorno ritrovare. Davanti mi si è aperta una strada; ad ogni passo il piede ri­calca un'orma esatta. (Esce dopo aver preso l'in­volto dal muro)

Seconda Donna               - Che tu possa vedere solo cose belle, ragazza. Gerani, oleandri, le corniole rosse sui muri bianchi.

Prima Donna                   - Non ricordarti di noi, ragazza, se non quando sarai vecchia e avrai cuore per perdo­nare. (Rosa è uscita)

Terza Donna                    - Noialtre andiamo. Scaviamo la fos­sa con le nostre mani. Ognuna porti la terra dei pro-pri vasi.

Giovane                           - Cospargeremo tutto di assenzio. Su quella terra voglio piantare un giacinto.

Prima Donna             - Saranno qui presto i compari e gli altri invitati. Troveranno un paese abbandonato alle proprie erbe.

Seconda Donna               - Compiamo il dovere; poi via, in silenzio. Ognuna segua la sua strada e mormori pa­role d'amore per via, ma che l'altra non l'oda.

Prima Donna                   - Via di qua. Volpi e faine attendono la notte.

Terza Donna                    - Partiamo quando il sole si spec­chia nel pozzo.

Prima Donna                   - Restare vuoi dire ammazzare per vivere, accusarci sempre I'un l'altra. Non toccherò una formica col piede.

Seconda Donna               - Ogni pianta ha un pensiero, ogni angolo sugge a sé la tua mente.

Terza Donna                    - C'è qui una storia scritta sui muri, con segni grandi.

Seconda Donna               - Non voglio più leggerla, non vo­glio pensarci.

Prima Donna                   - Andiamo. Qui anche i sassi ricor­dano. (Le donne escono. La scena rimane deserta)

 

FINE