Vicolo senza sole

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VICOLO SENZA SOLE

Commedia in tre atti e un epilogo

Di ROBERTO ZERBONI

PERSONAGGI

IL BOIA

PACHUCA, sua figlia

LA SIGNORA ENRIQUETA

LUIS, suo figlio

CAMELIA

LA CHUMACERA

TULA

MARUYA

JNES –

MANOLO

CAYETANO

CHIQUITO

IGNACIO MARQUEZ

IL BETTOLIERE

IL COMMIS­SARIO

UNA GUIDA

Uomini, guardie, turisti.

Un vicolo: a destra, la casa del boia dipinta di rosso. La facciata della casa, verso la platea, è spaccata. L'in­terno è una stanza con un tavolo e delle sedie, un albero portapanni, una lampada spenta e una tenda scarlatta che nasconde un'altra stanza. Una scala sale al primo piano. Una porta mette in quinta, l'altra nel vicolo. Al primo piano una piccola finestra guarda nel vicolo. A sinistra del vicolo, un'altra casa con una facciata aperta. L'interno è il retro di una bettola; con tavolo, sedie e la lampada accesa. Una porta mette in quinta, l'altra nel vicolo. Tra le altre case, a destra, spicca luminoso l'ingresso di una povera casa di piacere. Poi, case e case cieche fino al nero.

(E' sera. Nel retrobettola il boia e Ignacio Màrquez stanno seduti al tavolo. Bevono. Sul tavolo c'è un pacco avvolto in carta gialla. All'ingresso della casa di piacere, su una piccola seggiola impagliata, siede Camelia che sferruzza a maglia).

Ignacio Màrquez           - No. Dovete raccontarmi tutto. Dall'a alla zeta. Se continuate a tacere non concluderemo nulla. Gli affari sono affari. E, se a voi secca raccontare una storia che non è la vostra, che curiosità ne posso avere io?... Lasciamo andare!... Ecco il vostro pacchetto. Ridatemi il danaro. Parliamo d'altro.

Il Boia                           - Credevo l'avreste comperata senza darmi noia. Se la vendo è perchè mi abbisogna danaro. Quando voglio fare una spesa mi devo arrangiare in qualche modo. Volevo prendermi mn lusso, capite?! E questa volta mi sono detto: vendila! Perchè vi ostinate con tanta difficoltà?... Vi occorre proprio sapere?

Ignacio Màrquez           - Come volete. Non sono disposto a ricercare il fatto sul 'giornale. D'altro canto... devo raccontare la provenienza di quello che vendo. I miei clienti vogliono conoscere la storia. Vogliono sapere tut­to, di punto in punto. Pensate che ve ne andrete in santa pace col danaro in tasca! Al giorno d'oggi, per me, non è facile rivenderla.

Il Boia                           - Cribbio! Voi la tagliuzzate filo a filo e fate un sacco di quattrini. Lo so che questo mondo è pieno di pazzi che ve la comprano se sanno che è auten­tica. La pagano cara e pensano che io l'ho venduta a caro prezzo. Per questo non vorrei parlare. Ma loro, che si divertono a scavare nelle nostre piaghe, non sen­tono come un filo di questa corda può bruciare le dita quando ha stretto fino a staccare una vita? Loro ridono, dicono: « portafortuna! ». Volevo venderla senza pen­sarci su, invece voi... racconta, sputa quello che sai! Ma, signor Màrquez, sapete che tra me e questa roba (indica il pacco) c'è ancora di mezzo la morte? (Il signor Mar-quez beve. Un giovane esce dalla casa di piacere, con­segna qualche moneta a Camelia e se ne va).

 Camelia                        - Grazie. Grazie signorino e auguri.

Il Boia                           - E va bene... Vi accontenterò.

Ignacio Màrquez           - Finalmente! (Versa da bere al boia).

Camelia                         - (canterella improvvisando un motivo)

...Canto d'amore il giorno

e per amor piango di sera...

(Il boia e Ignacio Màrquez bevono).

Il Boia                           - Questa corda fu adoperata per un giovane. Era della montagna, una montagna a picchi. La roccia frana, frana continuamente. Là, si può (battere la testa contro i sassi, tanto il sole fa male. Mi sembra ancora quasi impossibile che un ragazzo come quello abbia po­tuto commettere un delitto simile. Io dico che è il «ole. Era agosto allora. E là, non c'è paese. Ci sono capanne, e solo qualche casa sparsa vicino all'erba. Non un al­bero verde: eppure, tutti gli uomini vivono di capre e di agnelli. Il fatto avvenne che il ragazzo non aveva vent'anni. Lo ricordo nel giorno dell'esecuzione. Gli cam­minavo al fianco e lo guardavo. Era un ragazzo, alto, forte, dagli occhi così chiari che camminando mi dicevo: sembra innocente! Una donna fu la causa 'di tutto. Una di quelle che si trovano dovunque, anche sulla montagna. Insomma, di quelle che hanno l'animo rovesciato. Altre, come lei, sono serpi buone, ma quella, era una male­detta. Io l'ho vista al processo. Eh, che 'dite, non era lontanamente bella. Eppure, ha fatto morire non uno, ma due innocenti. Aspettate... Il ragazzo si chiamava... Joselito; sì, mi sembra, Joselito Martin Caro. Un giorno, capite, quella donna si invaghì di lui e incominciò a girargli intorno. Lui, non capiva; sapete come sono a volte quelli della montagna: restano innocenti fino al giorno in cui vanno soldati. Così lui, un innocente, e quella allora pensò di andare per casa, dove, perduta la speranza di godersi il ragazzo, incominciò a molestare il padre di lui che subito si innamorò di lei. Il padre, per alcun tempo, fece l'amore di nascosto dalla moglie, poi, un giorno, decise di abbandonare la casaccia e di andare con la nuova donna sopra un'altra montagna. La moglie e il figlio restarono soli. Il padre si era portato via tutte le capre e tutti gli agnelli. Non c'era altro lavoro per le case intorno, però si abituarono a campare così; quando la donnaccia, stanca, si vede, dell'amore del vecchio, costrinse il padre a portarsi nella capanna anche il figliuolo. Joselito non ci voleva andare. Lo disse al pro­cesso. Ma un giorno il padre ritornò da lui e gli regalò dodici agnelli. Allora, sapete come sono i ragazzi... la­sciò la madre e se ne andò coi idue. La poveretta, senza marito e senza figlio, sola, in miseria, pianse come Dio, poi una notte raggiunse la capanna degli altri sulla mon­tagna idi fronte. I tre dormivano sopra la paglia. La madre allora entrò nell'ovile, e trovati gli agnelli del figlio, che avevano un segno azzurro dipinto sulla fronte, li prese ad uno ad uno e stringendo loro la testa nella veste e tra i ginocchi, senza farli belare, li sgozzò. Poi... gettò via il coltello. Sulle dodici bestie tutte morte lasciò un biglietto che si era fatto .scrivere. Lo si faceva leggere al processo: Torna da tua madre». Al mattino Joselito, con l'alba, trovò tutti gli agnelli sgozzati ed il biglietto. Senza dire nulla a nessuno raccolse il coltello e scese la montagna. Io dico, ohe deve essere stato il sole, proprio il sole. Agosto! Arrivò alla casaccia. Nel viottolo che scende al pozzo vide sua madre. Sembra che i due non si siano detto nulla. Trovarono la povera donna, morta, in­sanguinata sull'orlo del pozzo da venti coltellate. Il figlio, due giorni dopo, si costituì. E quando lo accompagnai a morire, sorrideva, sembrava che aspettasse da giorni quel momento. Era contento di essere punito. Ecco; questo è il fatto, e questa la sua corda. Dite pure che è la corda di un matricida che aveva gli occhi còsi chiari e così innocenti da farmi spavento. Ho raccontato quello che so. Vedete, signor Màrquez, io credo sia più facile amare che sopportare la vita quando si odia qualcuno. E' stata una sola goccia di odio che lo ha perduto. Una goccia di sole che l'ha picchiato qua. (Batte con un dito nel mezzo della fronte).

Ignacio Màrquez           - Quello che avete detto ora mi basta. Farò un breve riassunto. Lo stamperò su un ret-tangolino di carta. Sopra gli attaccherò un pezzetto di corda. I miei clienti saranno soddisfatti. E se cerche­ranno, troveranno che il fatto è veramente accaduto, e io e voi, non avremo imbrogliato nessuno.

Il Boia                           - Beh, allora, datemi ancora cinquanta pesetas!

Ignacio Màrquez           - Voi scherzate! L'ho già pagata troppo!

Il Boia                           - Va bene, va bene, come volete! Non insisto.

Ignacio Màrquez           - Ora, scrivo la dichiarazione di vendita... La firmerete. (Dal fondo del vicolo appare la Chumacera; si avvicina a Camelia).

La Chumacera               - Buona sera. (Ignazio Màrquez scrive).

Camelia                         - Tò, la Chumacera! Come mai? Credevo non saresti più tornata!

La Chumacera               - Volevate che restassi sempre là!? Ma voi... siete venuta una volta all'ospedale?

Camelia                         - No. Io mai, perchè?

 La Chumacera              - Mi sembrava di avervi visto dietro la vetrata. Io ero a letto e avrei avuto piacere di parlare con qualcuno.

Camelia                         - Poverina...! Non sapevo che eravate ma­lata.

La Chumacera               - Adesso sto bene. Un incidente da Bulla. Di tanto in tanto ci vuole un po' di riposo. Ditemi, non avete più visto Fvascuelo?

Camelia                         - No, per fortuna. Ma tu, che hai buon senso, come potevi stare con quello?

La Chumacera               - Cara signora, sono le ferite che si ricevono quando si ascolta il cuore. Adesso basta, però. Ora, mi sono messa con Chiquito. Sapete... lui o un altro, per me, è lo stesso, pur di avere qualcuno.

Camelia                         - Stattene sola, stattene sola, è molto meglio!

La Chumacera               - E' facile dirlo!

Camelia                         - Il cuore è un conto, anche se ci soffri ti rimane dentro qualcosa; ma dell'altro non restano che i malanni.

La Chumacera               - Vivere devo pur vivere. In gabbia non ci so stare, e nemmeno andare qua e là. Allora è me­glio qualcuno finché dura. Dalla quinta, entra nel retrobettola il bettoliere).

Il Bettoliere                   - (rivolgendosi a Màrquez e al boia) Avete chiamato? Volete ancora bere?

Il Boia                           - No, no.

Ignacio Màrquez           - (continuando a scrivere) Adesso veniamo di là.

Camelia                         - (alla Chumacera) Che vuoi che ti dica? Cerca almeno di stare in salute.

Ignacio Màrquez           - (mostrando al boia quello che ha scritto) Ecco, leggete. Se va bene mettete la firma. (Gli porge la stilografica).

La Chumacera               - (a Camelia) Così è la vita, cara si­gnora Camelia. Ora, vado a cercare Chiquito. Se non lo trovo dovrete prestarmi dieci pesetas.

Il Boia                           - Sì, sì. (Firma il foglio).

Camelia                         - (alla Chumacera) Nemmeno le banche fan­no prestiti, cara mia; però, le altre, me le hai ridate, e anche questa volta... speriamo bene.

La Chumacera               - Grazie, signora Camelia, e arrive­derci. Se non dovessi ritornare... auguri eh! (La Chu­macera attraversa il vicolo dirigendosi al retrobettola).

Ignacio Màrquez           - (ripiegando il foglio firmato e met­tendolo nel portafogli e prendendo il pacchetto con la corda) Avete fatto un ottimo affare! Erano anni che ve lo dicevo. Non ho mai compreso la vostra ostinazione.

Il Boia                           - Vi prego, non parliamone più. E 'guarda-tevi dall'andare in giro a far chiacchiere.

La Chumacera               - (entrando nel retrobettola) Buona sera, signor Ignacio.

Ignacio Màrquez           - Buona sera.

La Chumacera               - Che diavolo fate qui?

Il Boia                           - (a Ignacio Màrquez) r- Arrivederci allora. Io me ne vado.

Ignacio Màrquez           - Buona sera. (Il boia esce nel vicolo).

La Chumacera               - Che belle amicizie avete! Io mi farei cavare tutti i denti piuttosto che sorridere a un uomo come quello! Ehi, dico, giù le mani!

Ignacio Màrquez           - Come siete lunatica! Dovreste es­sere allegra, è la Vigilia.

La Chu macera              - Oh, io divento subito allegra se mi pagate da bere.

Ignacio Marquez           - (prendendo la Chumacera per un braccio) Venite. Andiamo di là.

La Chumacera               - Voi, siete sempre molto gentile; però, non ho mai capito perchè un signore come voi, alzi soltanto un po' le mani, e poi non va al di là della 'gentilezza. (Ride. 1 due entrano in quinta. Il boia si ferma vicino a Camelia).

Camelia                         - Buona sera!.-

Il Boia                           - Oh, buona sera Camelia, come va?

Camelia                         - Così così, e voi?

Il Boia                           - Non bene. Ma, non avete freddo?

Camelia                         - Eh, io non lo sento quasi più. Poi, come vedete, sferruzzo per terminare questa sottoveste di lana. Guardate quanti bei colori! Erano due anni che racco­glievo le maglie che le ragazze gettavano via. Sono con­tenta. Riesce un bel lavoro.

Il Boia                           - Quattrini, tutto per i quattrini! Anch'io, vedete, con lo stipendio, riesco solo a mangiare. Se vo­glio fare qualche cosa di diverso, allora, mi devo arran­giare. E io sono uno stupido, perchè quando faccio da­naro mi viene a galla quello che ho dentro.

Camelia                         - Fate come me. Ricordate quello che vi la piacere. Vedete, io, non voglio mai stare in casa con le ragazze perchè fanno troppe chiacchiere e quan­do si parla molto si finisce sempre col litigare. E allora, vengo qui coi miei qnattro ricordi. E mi dimentico di tutto. Se posso, non penso; non penso mai a nulla.

Il Boia                           - Voi donne siete fortunate.

Camelia                         - Sì, lo so, noi saltiamo con il cervello qua e là, invece voi, vi fermate sempre in un solo pensiero. Vi rovinate perchè non vedete che un punto. Ma, dite, cosa avete questa sera?

Il Boia                           - Nulla. (Pausa) Per fare un po' di bene bisogna sempre prima fare del male.

Camelia                         - Proprio non vi capisco.

Il Boia                           - Anche un delinquente ha un'anima e quando muore sono io che gliela stacco. Qualche cosa di lui resta attaccato alla corda e io non ho il diritto di venderla. Sono sicuro che questa notte vedrò i suoi occhi celesti grandi, e chiari chiari.

Camelia                         - Ma, voi, avete bevuto?

Il Boia                           - No, no! Se non parlassi con voi, parlerei solo,

Camelia                         - Se è così sfogatevi pure.

Il Boia                           - Mi dispiace di aver fatto del male per fare un po' di bene alla mia bambina. Avevo chiesto un anticipo sullo stipendio. Non ime lo hanno dato. Non ho avuto più scrupoli. Mi sono detto: è la Vigi­lia, pezzo d'idiota, che aspetti?!

Camelia                         - Già, è sera di Vigilia. In casa non c'è quasi lavoro. Non viene mai nessuno nelle sere coma questa. Si vede che tutti hanno un parente e allora- anche il vicolo resta in pace.

Il Boia                           - A proposito... Dove posso comperare un bel vestito chiaro, un vestito da signora per la mia bambina? Ditemi... come deve essere?! Ho qui le mi­sure e anche il numero delle scarpe. Non è più una bambina, è già fanciulla. E' venuto per lei il tempo di guardarsi allo specchio. Lei, non dice niente; ma anche il suo sguardo è mutato. L'altr'anno, quando mi sono accorto che le erano cresciuti i seni, ho avuto come uno spavento, e tutti i giorni ho pensato che in lei crescevano sempre nuove cose. Ora, vorrei vestirla bene, povera creatura! Così quando le permetterò di uscire sola dal vicolo, nessuno potrà pensare che è mia figlia. Non volteranno via la testa... Non si accorgerà di non essere come le altre. Un angelo, dico.

Camelia                         - Datemi ascolto: quando si ha una figlia bella come la vostra, nessuno pensa chi è suo padre.

Il Boia                           - Brava, come se non lo sapessi io. Sua ma­dre, poveretta, fu subito lasciata sola. Lo ricordate! Peggio di una cagna quando è venula a stare con me. I parenti l'hanno maledetta. E lei, a poco a poco, credo, sia morta anche di questo. E' triste, sapete, avere una bambina e vedere che tutti quando passano sputano con­tro la mia casa per scongiuro. Quando ero ragazzo, era un'altra cosa allora. Chi mi faceva il verso scappava quando gridavo: dirò a mio padre che ti impicchi! Como farà una creatura così delicata?! Se muoio, finirà in una casa come questa, e lei, non ne ha nessuna colpa, povera creatura!

Camelia                         - Non bisogna lasciarsi trascinare dalla ma­linconia. Su, su, pensate che in città le comprerete un bel vestito. Domani la vostra figliuola sarà molto felice. Comperatele una veste lunga, leggera, di quelle bianche a fiori, per la primavera. Adesso si usano più lunghe. Io, non so darvi un vero consiglio, e nemmeno le ra­gazze. Sapete, loro portano certi abiti poco adatti. Nello stesso negozio vi sapranno consigliare 'bene. Dite loro quanti anni ha.

Il Boia                           - Già... forse è vero. I negozi saranno ancora aperti?

Camelia                         - S5, oggi fino alla mezzanotte. Che strana sera, non si direbbe di vigilia. C'è un'aria leggera come dopo il caldo.

Il Boia                           - Beh, allora, io vado in su. Tanti auguri!

Camelia                         - Anche a voi, e in gamba! (Il boia si allon­tana e sparisce nel buio. Nel vano luminoso della casa appare Maruya).

Maruya                          - (fumando) Disturbo forse un tenero collo­quio?

Camelia                         - Non fare la stupida!. Che hai?

Maruya                          - Nulla. Nervi. In casa c'è una vipera che morde, e allora mi fumo una sigaretta in santa pace.

Camelia                         - Che magra questa sera...

Maruya                          - Meglio così. Sapete, quella cretina diceva che ho i fianchi grossi, e che ho ciccia di qua, ciccia di là, come se lei non fosse un violoncello; ma che dico... un contrabbasso. Il sedere le arriva ai polpacci e ha le gambe lunghe un dito. E tutte le altre a ridere di me.

Camelia                         - Ma di chi parli?

Maruya                          - Della ragazza nuova, dell'argentina.

Camelia                         - Non hai ancora capito che ha sempre vo­glia di scherzare?

Maruya                          - Oh, lo so. Fa così per tenerci allegre, dice lei... ma questa sera non sopporto scherzi. Ho i nervi, cara mia.

Camelia                         - Chiedi il permesso e va a dormire allora.

Maruya                          - Non posso. (Lunga pausa) Avete visto pas­sare il mio soldato?

'Camelia                        - No, questa sera non l'ho visto.

Maruya                          - Mi aveva fatto tante promesse... E questo e quello... i miei non sapranno nulla... senza di te io muoio. Mi ha fatto fare mille giuramenti e poi... Mah! Io, non gli ho mai creduto, sapete. Ma adesso, da quando non lo vedo più, sento un po' di disperazione; non vi è mai accaduto di non credere una cosa, poi quando sapete che questa non si avvera, allora, incominciate a credere a tutto quello che vi è stato detto? Non mi man­cava che questo!

Camelia                         - Sarà andato al paese. Avrà avuto una li­cenza.

Maruya                          - No, mi aveva detto che non sarebbe andato via, che sarebbe stato qui per me.

Camelia                         - Gli avrai fatto fare tardi l'ultima volta che ti è venuto a trovare e allora lo avranno chiuso in prigione.

Maruya                          - Può essere. Infatti diceva che il capitano era una carogna...

Camelia                         - Se la padrona si accorge che tra voi c'è qualche cosa, \o dice alla signora Enriqueta e la co­stringe a mandarti via.

Maruya                          - Non me ne importa nulla. Io, non lo andrò certamente a cercare. E se non torna... pazienza. Mi fa­ceva bene avere una speranza. Però, gli uomini, li odio. Non mi dicono nulla. Questo è stato il mio male. Non mi fanno schifo; ma mi sono indifferenti. Per me, è come bere un bicchiere d'acqua. Per questo sono stata troppo gentile con tutti, così, quasi per nulla, ed ora, senza accorgermi, eccomi qui. (Dalla quinta entrano nel retrobettola e si mettono a sedere Cayetano, Manolo e Chiquito).

Camelia                         - Non è solo il tuo caso. Molte ragazze sono come te. Però, una volta o l'altra, tracchete; il cuore le chiude in trappola.

Cayetano                       - Qui staremo tranquilli. Aspettiamo che il padrone porti da bere. (Dalla casa appare Jnès).

Jnès                               - (a Maruya) Oh, eccoti! Vieni, vieni subito dentro. La signora Enriqueta ti cerca. (Maruya rientra) Camelia, domattina fatemi una cortesia. Ho un paio di calze da rammendare.

Camelia                         - Va bene, va bene. (Jnès rientra. Dalla quinta entra nel retrobettola il bettoliere portando tre bicchieri e un litro di vino).

Il Bettoliere                   - Eccovi serviti: ma non cominciate eh! E via se viene qualcuno. Quando siete soli tutto va bene; ma insieme, fate saltare la mosca al naso.

Chiquito                        - State tranquillo! C'è di là la Chumacera. Quella ci avverte.

Manolo                          - Già... il signorino si è fatto la bella. Però, non so come faccia; quella, non la sopporto.

Chiquito                        - Senti chi parla! Proprio tu, che raccatti le briciole di tutti. (Con un lungo coltello serramanico incomincUi a curarsi le unghie).

Cayetano                       - Ha ragione Chiquito. (Il bettoliere rien­tra in quinta) Una donna ci vuole. Le mie, per esempio, le mando subito a quel paese... (Ride).

Manolo                          - (a Cayetano) Basta! Su, quando intendi darci i quattrini?! Credi forse che tutte le volte noi dobbiamo discutere? Sai quello che ci tocca. Domani è festa e io non sto con le tasche vuote.

Cayetano                       - Perdio, finiscila! Stupido io che l'altra volta ho scucito la borsa. Adesso però: stop.

Manolo                          - Come?!... Il bello non è ancora da comin-ciare. Sai... te lo ripeto, guarda che c'è la galera! Furto con scasso e ferimento. Quanto fa, dillo tu, Chiquito!

Chiquito                        - Con un buon avvocato, anche dieci anni.

Cayetano                       - Se ho lavorato, ho lavorato per me e non dò nulla a nessuno. (Beve).

Manolo                          - Certo... è stato una lotteria quella, eh! E invece noi, poveri disgraziati, per cento pesetas ritor­niamo dentro. Questa volta... voglio campare un anno da signore e se non ti avranno beccato, quando te ne andrai magari oltre mare, ricordati che a me e a Chi­quito devi sborsare una bella sommetta. Altrimenti i giornali riparleranno del furto alla banca.

Cayetano                       - Ho già detto che vi darò qualche cosa. Ma liquidiamo una volta per sempre.

Manolo                          - No, bello, non voglio farmi prendere con il conto in banca. Un po' per volta, invece, non dà nell'occhio. Ma tu, li devi sborsare, ogni quindici giorni, e regolarmente, caro mio Cayetano incensurato.

Cayetano                       - Chi mi si mette contro, presto o tardi me la paga. I ricattatori, io... li schiaccio.

Manolo                          - Benone! Però, ricordati che -siamo in due, e uno o l'altro, può sempre cantare.

Chiquito                        - Beh, li sborsi o non li sborsi?! (Agitando il coltello) Poche storie!

Cayetano                       - Sentite... per il futuro... facciamo società. Tutti gli utili in cassa e dividiamo in tre.

Manolo                          - Bello il merlo! Ho trovato il modo di vivere con la pensione e tu mi vuoi far tornare agli antichi amori...

Chiquito                        - In galera, questa volta, ci devi andare solo, amico!

Manolo                          - Lui (indica Chiquito) ha la bella, capisci?! E la Chumacera non la può lasciare...

Cayetano                       - Va bene. Ma perdio, ricordatevi che...

Manolo                          - Ullallà, non farti cattivo sangue!

La Chumacera               - (entrando dalla porta che dà in quinta)

                                      - Ps ps! E' entrato il Gallo...

Cayetano                       - (si alza e si dirige alla porta che dà in quinta) Domani mattina vi porterò il danaro. Però, andremo in un posto dove si potrà parlare.

Manolo                          - (si alza, si dirige alla porta che dà nel vicolo)

                                      - Alle dieci nel vicolo. Non farci aspettare. (Esce « sparisce nel buio).

La Chumacera               - (appoggiandosi a Chiquito che con­tinua indifferente a curarsi le unghie) Quei due... non mi piacciono. Io, amo la vita pulita...

Chiquito                        - Anch'io!

La Chumacera               - Vieni. Andiamo a casa. Non so an­cora dove abiti. E' lontano?

Chiquito                        - Tu... sai accomodare le unghie?!

La Chumacera               - Sì, perchè?

Chiquito                        - (mostrando le mani alla Chumacera e al­zandosi) Allora ricordati. Una volta alla settimana: manicure! (Dalla casa appare Tùia. Si avvicina a Camelia che si è addormentata)-

Tula                               - Camelia!

Chiquito                        - (prendendo a braccio la Chumacera e av­viandosi con lei verso la porta che dà in quinta) Non farti più pagare da bere, hai capito?!

La Chumacera               - Sì, sì. (I due entrano in quinta).

Tula                               - (scuotendo Camelia) Sveglia!

Camelia                         - Che c'è? Oh, non dormivo!

Tula                               - Dove posso trovare una candela, un ino eco letto?

Camelia                         - Per farne che?

Tula                               - Jnès si è comperate tre statuine di (gesso e dei fiori di carta. Sul cassettone ha combinato un alta­rino. Ma ha dimenticato il più importante: un lume. Senza candela l'altarino non vale nulla.

Camelli                          - Cara la mia ragazza, per trovare un ne­gozio ancora aperto bisogna salire in città.

Tula                               - E qui, non c'è nessuno che possa averne?... (Due giovanotti, quasi seguendosi, si avvicinano alle donne. Uno è Luis).

Camelia                         - Non è uno spillo sai... però, prova alla bettola. Loro hanno le cantine, e un pezzo di candela forse lo puoi trovare. (Uno dei due giovani entra nella casa, l'altro, Luis, si ferma quasi accanto a Camelia).

Tula                               - Grazie. (Attraversando il vicolo) Se mi cer­cassero... non dite che sono uscita. (Entra nel retrobet-tota, esce in quinta).

Camelia                         - (rivolgendosi al giovane che le sta accanto) E voi, giovanotto, non entrate?

Luis                               - No. Sono io!

Camelia                         - Oh, santo cielo! Scusa. Non ti avevo guardato in faccia. Come stai? Bene? Ogni volta che ti rivedo mi dico: come cresce quel ragazzo, come cresce...

Luis                               - Scusate, signora Camelia, la mamma, è sem­pre occupata?

Camelia                         - Sì; ragazzo mio, e sai che non vuole che tu la venga a cercare. Tu te ne infischi però! Giri qua e là e poi, paffete, sempre nel vicolo. Se lo sapesse... guai. Se la prenderebbe con me. Come se avessi l'autorità per mandarti via. Credi che non ti veda quando ti fermi davanti alla casa del boia?!

Luis                               - Camelia, questa sera ho bisogno di parlarle, fatemi questa cortesia. Chiamatela.

Camelia                         - No, no. Oggi ci siamo già punzecchiate; però, se non puoi farne a meno, aspetta «lue minuti. Deve rientrare Tula, lo diremo a lei.

Luis                               - Grazie.

Camelia                         - E così, come va? Bene?

Luis                               - Sì, c'è molto lavoro. Ho le mie soddisfazioni. Quando si guadagna, anche il mondo diventa bello. I no­stri occhi vedono le cose tutte al loro posto. Quando esco dall'officina... corro a lavarmi... e dentro, sento come l'aria, il vuoto, lo spazio. Mi asciugo. Metto le mani in tasca e fischio contento. Peccato che questa sensa­zione duri un minuto. Mentre fischio, a poco a poco, torno giù.

Camelia                         - Sicuro. E' proprio così, però la colpa è tutta nostra. Non sappiamo restare dove ognuno di noi per un attimo riesce ad arrivare. Andiamo su, come in paradiso; ma non riusciamo ad attaccarci a quello che abbiamo raggiunto... e siamo da capo. E’ questo che vo­levi dire? Ho capito bene?

Luis                               - Sì, sì, cara Camelia, è la medesima cosa... Nulla da raccontarmi?

Camelia                         - Figlio mio, tutto il bene e tutto il male della mia vita è già passato. Non ho che piccole cose, piccolissimi fatti. « Camelia fa questo, Camelia fa quello! ». I miei ricordi, non li guardo quasi mai. Li lascio in un angolo. Sono contenta quando non li ritrovo. Qui è la solita vita. A poco a poco sconto i miei peccati. Non dovrei parlarti in questo modo. Ma ormai, sei uomo. Oh, non mi trovo male, anzi sono contenta. (Tula rientra da dove era uscita e correndo attraversa il vicolo. Nelle mani tiene due candeline rosse).

Tula                               - Camelia... guardate, guardate che belle! Dne candeline rosse! Me le ha comperate un giovanotto, in un negozio in fondo alla strada... (A Luis) Oh, buona sera, signor Luis!

Luis                               - Buona sera, signorina.

Camelia                         - (a Tula) Senti. Dì alla signora Enriquetà che qui c'è suo figlio. Ha bisogno di parlarle. Hai capito?

Tula                               - Sì, sì, sarà fatto! E' arrivato il barone?

Camelia                         - No.

Tula                               - Che impostore! Aveva promesso che ci avrebbe portate delle paste... (Entra in casa).

Luis                               - Chi è questo barone?

Camelia                         - Un vecchietto. Lo chiamano così perchè ha una piccola rendita. Vive in una stanza che guarda nella strada. Lava, cuce, si fa da mangiare da solo, poi, ogni tanto, viene qui. Se c'è gente, tua madre lo manda via, se invece non c'è nessuno, allora, si ferma. Scherma con le ragazze. Qualche pizzicotto, due sculacciate, poi, torna a casa allegro come se avesse passato la sera chi sa dove!... (Dalla casa appare la signora Enriquetà).

La signora Enriquetà     - Chi mi vuole?

Luis                               - Ciao, sono io.

La signora Enriquetà     - Senti Camelia, per favore, entra subito in casa e stai attenta... questa sera, mi sem­brano tutte pazze.

Camelia                         - (alzandosi) Sì, sì, state tranquilla. Buona sera, Luis, e auguri...

Luis                               - Grazie... e tanti per voi... (Camelia entra in casa).

La signora Enriquetà     - Oh il mio caro ragazzone! Che vuoi?... Dimmi.

Luis                               - Nulla. Non mi sgridi?

La signora Enriquetà     - Vuoi proprio che ti dica che questa sera ti aspettavo? E' la Vigilia. Volevo vederti. Avevo nostalgia di te.

Luis                               - Mi hanno fatto capo reparto. La paga è an­data su. Sono contento.

La signora Enriquetà     - Bravo, ragazzo mio! Credi che un giorno staremo insieme, noi? Io credo di sì. Cambieremo città. Un'officina per te... che bello! Però devo far presto, prima che sia troppo tardi. Prima che te ne vada da me. Perchè non mi rispondi: «dovevi tenermi vicino quando ero ragazzo »... oh, non ho mai potuto, figlio mio! E adesso... ho sempre paura che sia troppo tardi. E' inutile avere un figlio come te e tenerlo solo nel cuore senza vivergli accanto. Non è vero?

Luis                               - Io ti vengo sempre a cercare, sei tu che...

La signora Enriqueta     - Sì, sì, troppo spesso sei nel vicolo. Come se non ti sentissi! Ma qualche volta hai paura e non ti fai vedere. Io so che qua tu giri, giri, ed è come se dicessi delle cose che non mi fanno piacere. Vorrei lasciare tutto, sai... ma ancora non Iposso. Forse un altr'anno. Si crede di avere accumu­lato danaro; ma un giorno lo si conta e ci si accorge che è ancora poco. Gli hai corso dietro venti anni. Per questo si ricomincia a lavorare... Ho altri pro­getti per te. Una domenica mattina ti parlerò di tutto.

Luis                               - Anch'io volevo dirti qualche cosa... ma non to come...

La signora Enriqueta     - Un guaio? Una donnac­cia, forse?

Luis                               - Nooo!...

La signora Enriqueta     - Ti hanno parlato male di me?

Luis                               - Oh, se ci fosse qualcuno... come lo concerei!

La signora Enriqueta     - Allora?

Luis                               - Non ti inquietare. Vedi, è una cosa nostra. Non so come dirla... Tu, forse, non ricordi più, io si. Fu quando mi ruppi la gamba. Avevo appena incominciato ad andare a scuola. Volevo imparare anch'io a fare gli scivoloni sul ghiaccio. E trac, la gamba, qui. Tu, subito, sei accorsa al paese. E tutto il giorno mi hai tenuto in braccio con la gamba ingessata. Non ri­cordi? Io, giocai con una catenina che tenevi al collo. Ricordo ancora il ciondolo; un elefante. Ma nel gioco, la catenina si ruppe. Tu l'appoggiasti sul tavolo, poi, prima di partire, con gli altri, llhai cercata per tutta la stanza. La catenina non fu trovata più. Mamma... io l'avevo rubata! Per anni l'ho tenuta nascosta. Quando volevo, lei mi parlava di te. Poi, un giorno, l'ho per­duta. Da allora ho sempre pensato di ridarti una cate­nina d'oro quasi simile a quella. Ora che guadagno, ne ho comperata una; ma non con l'elefante. Tra operai molti hanno vergogna di portare una medaglia di stagno col cordoncino. Se la tolgono; certe volte, però, la mam­ma cuce la medaglia in fondo alla tasca interna della giacca. Lì, nessuno la vede. Fingono di non saperlo, e la portano cosi; però se un amico se ne accorge la ributtano via. Io credo che tutti porterebbero un'im­magine se gli altri non la vedessero. Mamma, la cate­nina ha una medaglietta con la Madonna. Dimmi... lu porterai senza avere vergogna? Ecco, è qui dentro. (Le porge imo scotolino bianco) Come sono felice! (// gio­vane che era entrato nella casa riesce e si allontana dal vicolo fischiando allegro).

La signora Enriqueta     - (commossa) E' inutile, i© ono una stupida... non posso dirti niente!...

Luis                               - Non ti ho regalato un brillante per ©ssere Commossa. (Appare Camelia sull'uscio della casa).

-Camelia                        - Signora Enriqueta: Maruya vuole andare a letto!

La signora Enriqueta     - Dille di aspettare un mo­mento. Vengo subito. Senti, Luis, vuoi che ci vediamo domani mattina? (Camelia rientra).

Luis                               - Come vuoi. Ti aspetto a casa. I miei com­pagni di stanza sono andati al loro paese. Sali al quinto piano. Bussa alla prima porta, a destra. Verrà la pa­drona oppure una ragazzina dai capelli biondi. Dirai che sei mia madre. Io cercherò di dormire fino alle nove. Così mi verrai a svegliare. D'accordo allora?

La signora Enriqueta     - Sì, come vuoi. Arriva derci, Luis. Grazie. (Lo bacia e si allontana).

Luis                               - Auguri, allora.

La signora Enriqueta     - Va a casa. Mi raccomando, E grazie, figlio mio, grazie!

Luis                               - Ricordati... non venire troppo tardi! (La si­gnora Enriqueta entra in casa. Il bettoliere dalla porta della quinta rientra nel relr-obettola. Chiude a chiave la porta verso il vicolo. Solleva e rovescia le sedie sul tavolo, prende il vassoio coi bicchieri, la bottiglia, spegne la luce, poi torna via).

Il Bettoliere                   - (come parlando con qualcuno rimasto oltre la porta che dà in quinta) Caricalo tu, cari­calo io, e la molla è saltata. Non bisogna lasciarlo più toccare a nessuno, hai capito?... Tieni. (Cava di tasca un mazzo di chiavi) Ecco le chiavi (te getta oltre la porta che dà in quinta). Chiudi, chiudi bene il cassetto. Se lo romperanno ancora staranno senza piano mecca­nico. Lo rivenderò piuttosto che spendere ancora quat­trini. Domani mattina corri subito a cercare qualcuno. Speriamo di trovare questa molla di ricambio. Se no, addio ballo! (// bettoliere rientra in quinta. Dal fondo del vicolo appare il boia con uno scatolone e un pac­chetto sotto il braccio. Entra in casa. Accende la luce. Apre lo scatolone. Ne cava un vestilo chiaro che appende all'albero portapanni. Dallo scatolone toglie anche un cap­pello e dal pacco un paio di scarpe. Dispone tutto con cura, teneramente, poi contempla il tutto soddisfatto. Spegne la luce e piano piano sparisce dietro la tenda rossa).

(Luis gira nelVombra del vicolo. Camelia esce dalla casa. La segue Tula che sì ferma nella luce della porta).

Camelia                         - (prendendo la seggiolino di paglia) Senti che freschetto! Eh... questa arietta non mi piace! Non ricomincerà a piovere?! Santo cielo, ha finito ieri! Prima... (guarda il cielo) c'erano stelle... ei vede che i anti mi hanno voltato le spalle!

Tula                               - Che ve ne importa se domani piove?... II sole... non lo vediamo mai!

Camelia                         - Ma io lo sento; lo sento quando è sulla città. E' come se l'aria si mutasse intorno. Allora si sta bene anche nel vicolo. Prima... avrei giurato che domani ci sarebbe stato il sole. Chiudi tu?! Chiudi bene. (Ca­melia con la seggiolino rientra in casa)-

Tula                               - (chiudendo la porta) Accidenti come è duro questo catenaccio! (Nella casa si spegne a poco a poco tutta la luce).

(Luis esce dall'ombra, si avvicina alla casa del boia, guarda la finestrella del primo piano, resta fermo, come incantato, poi, vedendo la tenda della finestrella solle­varsi, si scuote cercando di nascondersi nel buio. Alla finestrella appare Pachuca).

Pachuca                         - Non andate via...! Senza saperlo, mio padre, rientrando, mi ha svegliata. Ero così contenta di dormire! Avevo paura del giuramento. Non sta bene, lo so, non sta bene perchè sono ragazza. Ma Io avevo giurato : « Se alla Vigilia non mi avrà ancora salutalo per primo, gli parlerò ». Di giorno in giorno mi rimproveravo questo; ma dentro... una voce mi diceva; « Puoi dirgli tutto, puoi dirgli tutto ». Come sono lunghi i mesi quando batte forte il cuore! Domani avrò tanta vergogna! Non dovevo... la colpa è anche un poco vo­stra. Perchè mi guardavate quando uscivo nel vicolo, sempre così, in questo modo? Non sapevate che i vostri occhi mi facevano male? No, non è vero. Non facevano mai male! Che vergogna! Perdonatemi. Buona notte... e auguri... (Si ritrae un poco).

Luis                               - No, vi prego, restate ancora...! Ora che avete parlato non ho più paura. (Pachuca si riaffaccia).

Pachuca                         - Voi non avete mai avuto paura, non avete mai tremato. Vi siete avvicinato ogni sera a questa casa, vi siete appoggiato a questo muro, avete guardato per ore questa mia finestra. Io, stavo dietro la tenda... vi vedevo. Sapete il mio nome?

Luis                               - Sì.

Pachuca                         - Anch'io conosco il vostro. Non l'ho chie­sto a nessuno. L'ho saputo... senza volerlo. E' bello il vostro nome!

Luis                               - Come sorridete questa sera!

Pachuca                         - E' veramente una gran bella sera!

Luis                               - E' come quella di mille e mille anni fa, quando apparvero gli angeli ai pastori. Gli angeli par­lavano. Allora, i pastori, picchiando le pecore, per fare in fretta, andarono a Betlemme. Trovarono un bambino sulla paglia. Si chiamava Gesù; era figlio di Dio.

Pachuca                         - Anche mio padre mi parlava di Dio, ma Ini, non sapeva chi era Gesù.

FINE DEL PRIMO ATTO

ATTO SECONDO

(Il vicolo: è il tramonto. A poco a poco verrà sera. Dalla casa appaiono la signora Enriqueta e Camelia. La signora Enriqueta è come se avesse appena terminato di abbigliarsi. Nel vicolo, incomincia ad infilarsi i guanti).

La signora Enriqueta     - Non starò lontano più di mezz'ora. Se Maruya continua a fare la stupida, quando ritorno dimmelo; faxa i conti con me! Ti pare possibile che possa portarle tutte al funerale? Sappiamo forse se il morto aveva altre conoscenze? E allora?... Vuoi che tutte assieme non ci riconoscano? Sarebbe stata una cosa poco carina per lui, ti pare?... Poi, quando ci vado io, vuol dire che rappresento tutte.

Camelia                         - E' vero. Ma le ragazze, non pensano a certe finezze.

La signora Enriqueta     - (terminando di agghindarsi) Va bene così?!

Camelia                         - Tutto a posto! Sembrate proprio una si­gnora!

La signora Enriqueta     - Arrivederci allora, e se viene qualcuno, corri subito dentro. Ciao. (Si allontana verso il fondo, esce).

Camelia                         - State tranquilla! (Camelia siede sulla seg. giolina e mormora) Eh, santo Cielo... poveretto! Ma!... (Incomincia a cantarellare) Lasciami in pace, amor, lasciami in pace... (Dalla casa appaiono Maruya, Tula e Jnès).

Maruya                          - Se n'è andata?

Camelia                         - Non incominciate adesso... su, andate dentro!

Tula                               - Ma noo! Non c'è nessuno...

Camelia                         - E va bene! Fate pure come volete.

Jnès                               - Vi sembra forse giusto quello che ha fatto? Il danaro era per tutte, dunque... voleva dire che tutte dovevamo andare al funerale. E invece, no; ha voluto an-darci sola, la tacchina.

Camelia                         - Ha fatto per evitare le chiacchiere della gente.

Tula                               - Uff! Come se lei non la conoscessero!

Maruya                          - Dopo tutto, quello che ha ereditato lei, lo abbiamo ereditato anche noi.

Camelia                         - E anch'io!...

Jnès                               - Dunque, vedete, è giusto quello che dico.

Tula                               - Oh, non è per il danaro che dobbiamo an-cora avere. E' perchè a questo morto noi, gli dobbiamo riconoscenza.

Camelia                         - Eh, sì, va bene! Ma lui, non sta a contare se ci siete o non ci siete.

Maruya                          - (mettendosi tra le labbra una sigaretta) Di­cevamo per principio, capite?! La signora Enriqueta non. è un ministro. Non rappresenta il governo lei!

Tula                               - Adesso non fare la stupida, dammi piuttosto una sigaretta. (Maruya le porge una sigaretta e anche Jnès ne prende una. Le ragazze le accendono, fumano)

Camelia                         - Avete visto, però! Al mondo c'è sempre qualcuno che si ricorda anche di noi.

Jnès                               - Sì, poveretto! E dire, che quando veniva a trovarci erano più le volte che lo si mandava via.

Tula                               - Era come un bambino. Un po' noioso...

Maruya                          - Forse, stare con noi, era per lui... come nel gran mondo.

Jnès                               - Certo. Ma chiacchierava troppo. Raccontava sempre le stesse cose. Allora, gli facevo qualche scherzo e lui...

Tula                               - Sta' zitta. Non lo potevi vedere. Eri sempre villana.

Jnès                               - Oh, non ero come te, sai! Tu eri la favorita. Quella che sta sempre ad ascoltare le chiacchiere di tutti.

Camelia                         - Su, su, basta adesso!

Maruya                          - Trecento pesetas per uno... non sono da gettar via.

Tula                               - (a Maruya) Sai di che cosa è morto, tu?

Camelia                         - Lo so io! Si era messo in letto proprio il igiorno della Vigilia. Credeva fosse nulla. Non ha chia­mato nessuno. Poi, il dottore ha trovato che era la ve­scica. Data l'età, non l'hanno nemmeno tagliato. Ed è rimasto lì, così, per più di cinque mesi, poi, poverino, se ne è andato.

Maruya                          - Ma il barone, non aveva parenti?

Camelia                         - Il notaio ha detto di no. Ha lasciato quel poco ohe aveva ai frati e a noi.

Tula                               - Quando l'ho saputo non volevo credere. Lo credevo uno scherzo.

Maruya                          - Tu dubiti sempre di tutto. Non so come si laccia ad essere così.

Jnès                               - Se quella sciocca dell'argentina non se ne fosse andata, prendeva qualche cosa anche lei.

Camelia                         - Oh, ma quella, lui, non l’ha nemmeno ri­cordata.

Tula                               - Dal primo giorno «he l'ho vista, ho subito detto, che non resisteva tanto. Era troppo abituata a correre qua e là.

Jnès                               - Per me, vorrei starmene qui iìno a chi sa quan­do. So cosa vuol dire girare. Invece, così, è come se avessimo casa nostra.

Maruya                          - Sì, ma il vicolo è terribile, sempre senza sole.

Camelia                         - Quando saranno vent'anni che starete qui, il sole, lo sentirete dentro... (Da destra, accanto alla casa del boia, entrano Manolo, la Chumacera e Chiquito. Ma­nolo sputa in direzione della casa del boia, poi rivoh gendosi alla Chumacera e a Chiquito).

Manolo                          - Sputate!

Maruya                          - (a Camelia) Non tutte abbiamo questa for­tuna.

La Chumacera               - (sputa) Ecciù!...

Tula                               - Basterebbe un po' di sole!...

Manolo                          - (a Chiquito che non ha sputato) Ti dico sputa!

Chiquito                        - Sciocchezze. Lascia perdere!...

Manolo                          - Finirai impiccato, va' là...

Jnès                               - (indicando i tre che attraversano la «cena) Guardate chi si vede!

La Chumacera               - (a Chiquito) Su, ti prego!

Chiquito                        - Eh, va bene, mi libererò i polmoni... (Si volta indietro e sputa verso la casa del boia).

Camelia                         - (indicando la Chumacera) Quella, cerca sempre i peggio.

La Chumacera               - (come continuando un discorso) Ma poi, voi, non avrete delle noie?

Camelia                         - Non è cattiva; ma non iha nulla dentro.

Manolo                          - Anzi... la polizia, è sempre riconoscente quando riceve certe letterine d'amore!...

Chiquito                        - Be', adesso, aspettiamo ancora, va... Gliene canteremo quattro per l'ultima volta.

Manolo                          - Che ultima volta, ultima volta, in galera Io voglio mandare! E’ una carogna! Eravamo d'accordo. E' lui che llia voluto.

Tula                               - (indicando la Chumacera) Ma quella... non è la donna che fa le carte?

Camelia e Jnès              - Sì, ai, è lei.

La Chumacera               - Ve li deve proprio questi danari? (In fondo al vicolo appare Pachuca vestita a festa. L'ac­compagna Luis. I due si fermano a parlare piano, poi Luis saluta la ragazza e si allontana verso il fondo. Pa­chuca tiene in braccio un fascio di fiori di campo)

Manolo                          - Certo. Che giustizia ci sarebbe a questo mondo se non si facesse un po' così? (La Chumacera, Manolo e Chiquito entrano nel retrobettola).

Tula                               - Come vorrei sapere qualche cosa del mio avvenire!

Camelia                         - E’ meglio non sapere nulla. Anche lei, come vedi, non sa.

Chiquito                        - Però, la lettera la scrivi tn.

Maruya                          - Oh, al gioco delle carte, certe volte credo.

Manolo                          - Sicuro che la scrivo io.

(Dal retrobettola la Chumacera, Manolo e Chiquito scompaionoper la porta che dà in quinta).

Camelia                         - Un tempo, sapevo predire l'avvenire.

Tula                               - Allora, dovete dirmi qualche cosa.

Pachuca                         - (saluta Camelia e le tre donne) Buona sera, signora Camelia... buona sera, signorine!

Camelia                         - Oh, buona sera, fanciulla!

Jnès                               - Che bei fiori!

Maruya                          - Quanti!!

Tula                               - Dove li avete raccolti?

Camelia                         - Hanno molto profumo?

Pachuca                         - Odorateli, prego. (Camelia odora i fiori imitata dalle tre donne).

Tula                               - Sanno quasi di fieno.

Maruya                          - (indicando un fiore) Come si chiama?

Pachuca                         - iNon lo so. Sono fiori.

Camelia                         - Questi... sono i fiordaliso e questa una spiga verde.

Tula                               - Ecco le margherite.

Jnès                               - Un rametto d'ulivo.

Camelia                         - Queste foglie però non le conosco.

Tula                               - Quanti anni che non ho più fiori!

Pachuca                         - Prego allora... (offre alcuni fiori a Tula poi rivolgendosi a Jnès) anche voi se volete!

Jnès                               - (prendendo alcuni fiori) Grazie.

Maruya                          - (facendo gesto di prendere un solo fiore) Per me uno solo.

Pachuca                         - (offrendo altri fiori a Maruya) No, no, tenete.

Tula                               - Che profumo!

Pachuca                         - Oh, scusatemi, aignora Camelia! (Offre la metà dei fiori che le sono rimasti).

Camelia                         - No cara, grazie, teneteli voi.

Pachuca                         - Allora così non ini piace. Ne raccoglierò j altri.

Camelia                         - Mi avete fatto un grande regalo.

Pachuca                         - (offrendo a Camelia anche gli ultimi fiori) Prendeteli tutti!

Camelia                         - No, no.

Pachuca                         - Tutti! Credete. Sono molto contenta.

'Camelia                        - Vado subito a metterli in fresco. (Camelia entra in casa. Pachuca, senza fiori, cammina circondata dalle tre donne verso il centro della scena).

Jnès                               - (odorando) Che profumo!

Tula                               - (odorando) Ooh!!...

Maruya                          - Dove avete raccolto questi fiori?

Tula                               - Sarete andata lontano.

Pachuca                         - (fermandosi al centro della scena) Io non ero mai andata oltre quel negozio in fondo alla strada, al di là del vicolo. Non ero andata mai, lo giuro. Ma lui, ha voluto. Ho attraversato tutta la città. Non sapevo fosse così grande. Quanti occhi e quanta gente intorno! Mi teneva per mano. Io avevo paura. Paura perchè il cuore batteva forte. Forte come se non volesse starmi più dentro. Di strada in strada lui rideva narrandomi delle cose. Ho visto case, negozi, case alte, giardini, palazzi e sono rimasta tanto così (alza la testa)... a guardare una magnifica torre. Dappertutto, sui muri, negli angoli, fra le foglie, c'era un po' di sole. E quanta gente... E poveri come noi, e altri più felici. Voleva farmi salire su di un tranvai. Non ho voluto. Allora ha detto: vieni, facciamo la strada più corta. (A poco a poco il centro del vicolo cambia luce. Tutto diventa intorno alle donne chiaro, irreale, come se la luce di un prato fosse caduta dal cielo all'improvviso. Le donne a poco a poco parleranno con atteggiamenti di sogno) Ho visto tanto, che quasi mi sembra di non ricordare più niente. Poi, sempre per mano, abbiamo lasciato la città. Io non me ne ero accorta. Non mi voltavo indietro. Ma dopo un po' di polvere, ho visto un prato.

Maruya e Jnès               - Un prato?!

Pachuca                         - Si, un prato.

Tula                               - Quanti anni!

Maruya                          - Quanti!...

Pachuca                         - Non avevo mai visto un prato. Non avevo mai odorato la terra. Non sapevo che le cime dei monti e le rocce brillassero da lontano. Che fosse così bello un fiume!

Jnès                               - Conosco la sua sabbia. Dicevo che era oro. Io sono cresciuta sopra una grande barca.

Pachuca                         - Si, le sabbie sono oro, oro da lontano, e largo il fiume. Immensa la terra, i campi, la pianura, i monti. Ma lui diceva, che più grande ancora è l'oceano.

Maruya                          - Un mondo fu la portineria. La madre che picchia. Il fratello che trema.

Pachuca                         - Ogni campo ha un limite, un sentiero, un muro di sassi. Ogni campo - un rettangolo di fiohi d'India...

Jnès                               - Vivevo sul fiume, il lavoro era quello, si por­tava farina e carbone. Poi sulla sabbia un vecchio e l'amore.

Pachuca                         - Un braccio mi sembrò del fiume, non era che un ruscello. Le ali dei mulini sono lunghe.

Tula                               - All'ultimo piano c'era solo il cielo. Fu lui che mi lasciò, morì, e allora...

Maruya                          - Il vino. Mia madre ubriaca. Il fratello che trema, ucciso come un topo da una trave.

Pachuca                         - Gli uccelli sono leggeri, più leggeri della neve!

Tula                               - Il bambino, dov'è il mio bambino?!

Maruya                          - Credevo che il mondo fosse dove si vuole andare.

Jnès                               - Uno mi diede la mano.

Tula                               - Polvere, polvere!...

Jnès                               - Ti chiedono di pagare il pane.

Tula                               - Chi non ama le cose, le creature, è male­detto?

Maruya                          - Chi non vede, non vede.

Pachuca                         - Il vento muove l'erba; ma gli alberi sono fermi, lontano. Sembra fermo anche il fiume.

Jnès                               - Vagabondaggio...

Maruya                          - Prigione...

Jnès                               - Vita.

Maruya                          - Sul tavolaccio con le guardie.

Jnès                               - Amore!?...

Maruya                          - Nessuno era chi volevo. Perchè?

Jnès                               - Perchè?!

Pachuca                         - Farfalle indecise, liete; vespe, e voci in­visibili, come note, come gocce di canto. Il calore ei alza dalla terra, cresce sul prato, diventa una striscia in cielo.

 Tula                              - Il mio bambino, dove l'ho lasciato? Dove... dov'è?

Jnès                               - Dopo l'abbraccio il pentimento.

Maruya                          - Un pensiero che passa. (Dal fondo del vicolo appare un giovanotto che si avvicina alla casa).

Pachuca                         - Un pezzo d'erba bionda, e sotto nel ru­scello, lavano due agnelli.

Tula                               - (quasi disperata) No, nooo!...

Maruya                          - Non posso ricordare. (Dalla casa appare Camelia. La luce di prato che aveva invaso il vicolo si spegne di colpo).

Camelia                         - (al giovanotto) Entrate, entrate. Adesso chiamo subito le ragazze. (Il giovanotto entra nella casa; Camelia batte le mani rivolgendosi alle ragazze ancora trasognate) Via, svelte, su, venite qui, andate in casa.

Jnès                               - Perchè?

Camelia                         - Avanti, su! (Jnès, Maruya e Tula corrono in casa lasciando cadere qualche fiore. Tula si volta indietro).

Tula                               - (a Pachuca) Arrivedervi... (Le donne scom­paiono in casa seguite da Camelia. Pachuca si china a raccogliere i fiori che le donne hanno lasciato cadere. Poi entra nella sua casa. Accende la luce).

Pachuca                         - Babbo! Dove sei?... Babbo!... (Spegne la luce, sale di sopra. Dal fondo del vicolo appare la signora Enriqueta che incomincia a sfilarsi i guanti. Nel vano della porta della casa appare Camelia).

La signora Enriqueta     - (a Camelia) Novità?

Camelia                         - Nulla. Ma come avete fatto presto!

La signora Enriqueta     - L'ho accompagnato in chiesa. Poi tutti se ne sono andati. Allora, ho avuto vergogna e sono tornata indietro. Se vuoi che ti racconti tutto, vieni dentro. (La signora Enriqueta e Camelia entrano in casa. Da sinistra entra Luis. Cammina davanti alla casa del boia, poi, deciso, fischietta un motivo. Alla finestra appare, con le braccia nude, Pachuca).

Luis                               - Pachuca! Scendi, ti debbo parlare.

Pachuca                         - Mi sono tolta il vestito, non posso.

Luis                               - Ti prego, scendi subito!

Pachuca                         - Non c'è nessuno. Parla. Oppure aspetta...

Luis                               - No. Senti, vorrei conoscere tuo padre.

Pachuca                         - Non c'è.

Luis                               - Ti sei stancata oggi?

Pachuca                         - Oh, no; avrei voluto camminare sem­pre. Se non avessi avuto timore del babbo, sarei rima­sta anche la notte nel prato. Era bello guardare il cielo, l'orizzonte, i tuoi occhi! Si chiama orizzonte quella linea in fondo? Vero?

Luis                               - Sì.

Pachuca                         - Quando mi porterai ancora?

Luis                               - Tutte le volte che vorrai. Andremo nel mio giorno di permesso.

Pachuca                         - Però abbiamo fatto tardi. Se avessi tro­vato il babbo mi avrebbe sgridata.

Luis                               - Non sa nulla di noi?

Pachuca                         - No. Ma forse, qualche cosa ha capito. Mi dice: «Pachuca, non ti fermare con nessuno». Credo, che lui abbia capito, perchè mi sente sempre cantare. Ieri l'ho visto scuotere la testa. Mi ha chiesto : « Sei felice?». Gli ho risposto: «Sì». E' diventato triste.

Luis                               - Scendi, scendi, un momento.

Pachuca                         - Infilo la veste e vengo giù. (Pachuca si ritrae dalla finestra. Dalle casa del vicolo esce il giova­notto che era entrato, e se ne va. Pachuca scende le scale, attraversa la stanza infilandosi il vestito di casa. Accende la luce. Apre la porta e resta ferma nel vano) Sta attento che non arrivi. Se lo vedi va via subito di qui (indica la quinta).

Luis                               - Ho da dirti una cosa importante. Una cosa diffìcile. Non potevo alzare la voce. Pachuca, mi vuoi (bene?

Pachuca                         - Sì. Ma sai... mi sono accorta che il bene è una cosa troppo piccola. Anche l'amore è una cosa piccola. Quello che sento per te, invece, è tanto più grande! Più grande del prato, della terra; è l'orizzonte. Hai detto che l'orizzonte non finisce mai. Divide il cielo dalla terra. Perchè però mi domandi questo? Io, non ti chiedo mai nulla. Io sento il tuo cuore. E' come se me lo avessi dato da tenere. Batte batte anche quan­do io dormo.

Luis                               - Avevo detto così, ma, sai, è perchè ho de­ciso. (Lunga pausa).

Pachuca                         - Allora?! Non parli più?

Luis                               - Voglio vedere tuo padre. Domandarti. Ma se lui non volesse, resteremo egualmente fidanzati?

Pachuca                         - Fidanzati!! Oh Luis, non dire più nulla! Come mi sento... che bello!

Luis                               - Perchè? Pachuca, no... perchè piangi?

Pachuca                         - Non è... E' l'anima che piange. Verrai questa sera hai detto?! Oh, Dio, Dio, come sono felice.

Luis                               - Tu però, devi parlare con tuo padre, dirgli qualche cosa, perchè io, ho paura.

Pachuca                         - Gli parlerò di te, come quando da sola parlo dei mio Luis con mia madre.

Luis                               - Busserò due volte. Vieni tu ad aprire.

Pachuca                         - Come mai, come mai questa sera non torna?

Luis                               - Ora me ne vado. Non è bello che ci trovi qui. Vado nella bettola. Aspetto là.

Pachuca                         - E' meglio aspettare che lui abbia mangiato. Torna tra un'ora.

Luis                               - Ciao, Pachuca. Allegra. Fammi coraggio.

Pachuca                         - No, no, non è paura. (Luis si avvia verso il retrobetlola. Entra, sparisce in quinta, incontrandosi con la Chumacera. Pachuca rientra contemporaneamente in casa, risale la scala, sparisce sopra, poi riscende. Dal fondo del vicolo avanza Cayetano. Si incontra sulla porta del retrobetlola con la Chumacera).

Cayetano                       - Tò, dove vai?

La Chumacera               - In nessun posto. Sono stanca, an­noiata.

Cayetano                       - Io, non faccio mai annoiare le donne!

La Chumacera               - Uhm, fai lo spiritoso adesso... Se avessi avuto bisogno di te, avrei dovuto mangiarmi tutte le unghie.

Cayetano                       - Non sono fatto con carne da legare.

La Chumacera               - Allora, cosa vuoi?

Cayetano                       - Vorrei stare un paio di volte con te. E' forse una proposta che non ti va?

La Chumacera               - No ma... tu sei suo amico, poi lui, mi basta. Mi vuole bene. Finiscila di trattarmi così.

 Cayetano                      - Facciamo quattro passi?

La Chumacera               - Non importa. Dimmi, è vero che devi del danaro a Manolo? (Durante questa scena, Pa­chuca va e viene dalla quinta alla stanza preparando »jj piatti sulla tavola, come se in quinta stesse cuocendo del mangiare).

Cayetano                       - Che cosa vai pescando adesso?

La Chumacera               - Nulla, ti domando se è vero.

Cayetano                       - Non devo nulla a nessuno, cara. Ma tu, come hai certe storie? Te le fai raccontare di notte da Chiquito?

La Chumacera               - Smetti quel tono. Poi, Chiquito, essi, quando vorrei mi parlasse un po' incomincia a I russare. Ma dimmi ; è vero del danaro che devi a quei due?

Cayetano                       - Non devo nulla. Mi stanno ricattando. I Avevano incominciato quattro o cinque mesi fa, poi sono stato via tre mesi e adesso ricominciano. Vogliono vivere alle mie spalle tutti e due e forse anche tu, bella mia.

La Chumacera               - Ehi, se lo avessi saputo, non te ne avrei parlato. Se volessi qualche cosa da te non mi man­cano gli argomenti.

Cayetano                       - Mi ricattano, capisci! Ma da quando son tornato ho chiuso la borsa.

La Chumacera               - Sta attento allora. Manolo tu non lo conosci.

Cayetano                       - Che diavolo vuole?!

La Chumacera               - Non so. Ho intuito qualche cosa da mezzi discorsi. Ma ti posso assicurare che Chiquito non c'entra. Non prendertela con lui.

Cayetano                       - La farò pagare a tutti e due.

OLa Chumacera            - E' inutile. Credo abbiano buone carte in mano.

Cayetano                       - C'è puzza 'ài denunzia, eh?!

La Chumacera               - No. Ma è meglio che non ti metta nei guai. Ora ne andrei idi mezzo anch'io. Mettiti d'ac­cordo, con un po' di tatto, accomoderai la cosa.

Cayetano                       - Sì, sì, vedrai cosa farò. (Dal fondo del vicolo appare il boia, cammina come un uomo che ha bevuto e che è molto preoccupato. Fa due passi avanti, poi si ferma, fa ancora due passi avanti e così fino al­l'uscio di casa).

La Chumacera               - Di te, perdio, non mi posso proprio mai fidare.

Cayetano                       - Non aver paura. Io rifletto. Poi, insom­ma, che sai?

La Chumacera               - Che volevano il tuo danaro. Niente altro. Non esagerare la cosa. Ti metterai d'accordo. Tut­to sarà finito. Manolo fa parole grosse, poi...

Cayetano                       - Questa storia mi secca. Ma dopo tutto... non me ne importa nulla. Ciao, bella.

La Chumacera               - Dove vai? Su, non farai questione, eh?

Cayetano                       - Mi lascerai andare dove voglio!

La Chumacera               - Vengo con te. Se dici una parola di quelle che non vanno, racconterò a Chiquito le tue sporche proposte.

Cayetano                       - (ride) Ah, ah!...

La Chumacera               - Non lo conosci. E’ molto geloso. (Ride. Attraversano insieme il retrobettola).

Cayetano                       - Ti sembra che questa sera abbia voglia di avvelenarmi il sangue?

La Chumacera               - Così mi piaci. Tutto andrà come l'olio. Spero che ti ricorderai di me. Lo devi a me se ti ho avvertito.

Cayetano                       - Su, muoviti. (/ due entrano in quinta. Il boia spalanca l'uscio di casa, poi, come per non fare rumore, lo richiude piano piano).

Voce di Pachuca           - (dalla quinta) Babbo, sei tu? (Pachuca, felice, entra con una forchetta in mano; si ferma e diventa triste vedendo il padre quasi ubriaco).

Il Boia                           - E' pronta la cena? Perchè non rispondi? E' pronta? Oh, Pachuca, non guardarmi. (Abbassa la testa quasi per nascondersi dallo sguardo di Pachuca) No, tu mi guardi, mi guardi ancora. Mi fai male. (Pachuca abbassa la testa) So cosa vuoi dire. Non tremare. Parla! Avevo promesso: è vero. Avevo giurato: lo so. Bam­bina, non ne potevo più. Due bicchieri. Era di quello cotto. Che dico, molti di più. Una volta, nella testa mi faceva una giostra di sogni e di pensieri. Oggi invece, dopo tanto, è come se avessi una gran foglia dentro. Una foglia che piange e tutto il corpo, questo brutto cor­po piange. Avevi ragione. Non dovevo più bere. Sono 6tato sull'orlo un'altra volta; ma questa, sono caduto giù. Fingi di non vedermi. Come se non fosse tornato a casa. (Pachuca si volta come per andarsene, poi si avvi­cina a suo padre che vedendola avvicinarsi si lascia ca­dere su di una sedia) No, non andar via. Sono solo. Dimmi qualche cosa! Hai vergogna, vero? Vergogna di me? Non perchè bevo! Hai vergogna -di queste mani. Di queste mani grandi che strappane la luce. Uh, le vene! Come sono cresciute le mie vene in questi anni. (Pachuca appoggia una mano sulla spalla del padre che subito gliela stringe ripiegando la testa) Non muoverti. Come sei calda! Mi sembra che il sangue dalle tue dita mi entri nell'orecchio. Mi parla, gocciola dentro. Il tuo sangue ha trovato il mio sangue. Le tue vene si allun­gano come radici, entrano nelle mie vene. (Il boia rialza la testa) Anch'io una volta ero un albero buono: un innocente. (Pachuca volta via la testa) Perchè... Puzzo di vino? (Con la testa Pachuca fa cenno di no) E parla allora, parla una volta! Sai che quando sento la tua Voce è come se Dio mi chiamasse. E allora... Pachuca... non...

Pachuca                         - Babbo, non vuoi riposare? Dormire? Un po', credi, dormire. Ti ha fatto tanto male dentro. Non lo farai più. Ma quando uno non può bisogna che lo faccia. Capisco. Ma questa sera, per me, è stata una cat­tiva sorpresa. Ti volevo parlare. Sarebbe stata una sera bella per tutti. Ora va, riposa, poi, quando ti sveglierai, mangeremo la cena.

Il Boia                           - Cosa volevi dirmi? Parlarmi? Oh, dì, io capisco tutto, parla.

Pachuca                         - No. Avevo pensato che saremmo stati qui a parlare. Niente altro.

Il Boia                           - Ti sembra che possa dormire? Non vorrai lasciarmi solo, steso di là. Verrebbero come durante la notte a morsicarmi il collo. Lasciami sbattere in terra tutti i miei pensieri. Con la tua innocenza li potrai sce­gliere. Ti dirò tutto, perchè tuo padre, dentro, non ha nulla che non si possa udire. Altre volte fui tentato di parlare; ma il vino non mi aiutava allora. Tu eri bam­bina, avresti avuto paura. Ho sempre pensato: parlerò domani. Ma se non avessi avuto questa certezza, questa speranza di confidenze, un grido avrebbe schiacciato i miei giorni e l'anima, che non è mai muta. Domani, sempre domani. E al mattino, quando butti via il len­zuolo, ti vedi tutto una piaga. Ti ricopri per paura; ma la piaga ti si ingrandisce dentro. Anche in viso la pelle diventa carta. Sono loro che mi fanno invecchiare! Ven­gono di notte come tanti mantelli. Stringono nelle mani la loro lingua. La lanciano nell'aria. Nel buio splende, diventa più rossa. Arde. La lingua salta, salta, salta! Ven­gono tutti senza faccia; non dicono mai parola. Ballano come mantelli. E per la stanza mostrano certe volte gli occhi. Sono piccoli occhi quasi bianchi, di bambino. Li lasciano cadere, mi scivolano tutti dentro. Nulla di male vi ho fatto e voi tornate sempre! E tutto questo con i miei occhi aperti. Insonne. Ed altro vedo. Non te lo posso ridire. Sai, credo che tutto questo avvenga per­chè la gente quando mi vede mi guarda male. Volta via la testa, sputa contro la nostra casa, si dà nel go­mito per dire: «E' il boia». (Pausa) Mai nessuno, nes­suno si è fermato per guardarmi invece dentro. Io che mi aprivo il petto. Perchè Pachuca non 'guardano negli altri, non entrano con il loro pensiero dentro? Forse bisognerebbe gridare quello che noi abbiamo in cuore. Bisognerebbe avere il coraggio di alzare la testa e dire: io sono un uomo libero, simile a tutti gli altri! Allora i morti, non tornerebbero più. Pensa però che risata farebbe il mondo! E' pazzo, griderebbero i giudici. E' vecchio, ma non ha ancora diritto alla pensione. Non ne ha strozzati abbastanza per essere pagato. Ed io e tu, bambina, gettati via di casa si morirebbe qua e là, così; nel inondo. Per questo, quando viene sera aspetto ancora i morti.

Pachuca                         - Papà, non devi aver paura di sognare i morti. Non vengono a maledirci loro. Vengono perchè noi li dimentichiamo. Sono fratelli. Anch'io, quando non la ricordo, vedo di notte, la mamma. Tu sei il (boia. Sei la giustizia. Un istrumento; non la condanna. Un istru-mento è anche la giustizia. Chi ha studiato condanna. Hanno il potere loro. E sono giusti.

Il Boia                           - Sì, dicono di essere giusti, ma dentro non lo credono mai. Tutto questo che penso, avviene forse, perchè io amo troppo te. Quando sei nata, tua madre si sgravò da sola, non volle nessuno, nemmeno me. Re­stai contro la porta. Poi, all'improvviso, cessato un urlo, non udii più nulla. Tu eri là con lei che dolorava con i lenzuoli in bocca. Non sapeva ancora che cosa tu fossi. Io, ti guardai... Mi abbandonai sul letto e piansi. Per me tu fosti come un segno divino; eri una donna. La catena che di padre in figlio ci legava a questo mestiere era spezzata. Per questo durante lunghi anni io e tua madre avevamo sempre cercato di non avere figli. Quan­do non aspettavamo più nulla, sei nata tu. Una donna cresceva dalla nostra pianta. Una bambina che non avrebbe mai toccato corda. Se mio fratello, da ragazzo, non fosse fuggito per sempre da questa casa, forse, avrei potuto cambiare mestiere. Ma anche da bambino tutti sapevano la mia sorte. Tu no, tu potevi crescere come una vita nuova: lontano. (Pachuca è come assente e ascolta come se qualcuno fosse nel vicolo). Non fu pos­sibile nulla. Ora, che hai già mutato il modo di cam­minare, ora che sei completa, io, non so ancora dove potrai andare.

Pachuca                         - (all'improvviso, come se qualcuno avesse bus­sato alla porta di casa) Taci. Papà, taci un momento.

Il Boia                           - Lasciami parlare. Mi fa così bene...

Pachuca                         - Ti prego, taci. Hanno ibuasato due volte.

Il Boia                           - (senza muoversi, come preso da sonno) Aspetta, vado io.

Pachuca                         - No. Non muoverti. (Mormora) Taci. (Pa­chuca corre alla porta di casa: l'apre. Guarda nel vi­colo. Scende il gradino, mormora) Luis... Luis!... (Non vede nessuno. Richiude l'uscio).

Il Boia                           - Chi è?

Pachuca                         - Nessuno.

Il Boia                           - Mi sembrava strano. Nessuno batte mai alla nostra porta. Chi credevi fosse? Pachuca, io ti vo­glio tanto bene, ti amo tanto, anche se non ti accarezzo mai, anche se ti proibisco di andare al di là del vicolo. Ma io non so cosa fare per te, per la mia bambina.

Pachuca                         - (aiutando il padre ad alzarsi) Vieni. Ti accompagno di là. Hai tanto sonno.

Il Boia                           - Non ho sonno, non dormo...

Pachuca                         - Appoggiati, e non pensare a nulla. Io, sono felice. Ti dirò anche il perchè quando avrai dor­mito. Ti dirò perchè cantavo tanto. Sono felice; ma avrei voluto che questa «era fosse un'altra sera. Doma­ni... domani... (Scompare accompagnando il padre dietro la tenda rossa. A sinistra, in quinta, dove dovrebbe es­serci la bettola, cresce a poco a poco il rumore di una lite. Pacluica rientra, si volta verso la tenda rossa da dove giunge la voce assonnata del boia).

La voce del Boia           - Pachuca, mangia!

Pachuca                         - Non ho fame.

La voce bel Boia           - Mangia!... (Pachuca, spegne la luce, sale la scala, sparisce sopra. Nella bettola il rumore e le voci della lite sono cresciuti, poi, all'improvviso, silenzio, poi ancora voci. La porta che dalla quinta dà nel retrobettola si spalanca di colpo. Come fuggendo entra Luis. E' tutto arruffato, con il vestito in disordine come dopo una lotta. Si rifugia terrorizzato in un angolo del retrobettola. Lo insegue la Chumacera e il betto-liere. Altri visi, tra cui quello di Chiquito, appaiono sulla porta che il bettoliere richiude respingendo la gente).

Il Bettoliere                   - Via, via. E tu (alla Chumacera) chiudi quella porta! Non lasciarlo fuggire! Non voglio altri guai. (La Chumacera chiude con chiave la porta che dà nel vicolo; la consegna al bettoliere).

La Chumacera               - Tieni. Ecco la chiave.

Luis                               - Non voglio fuggire.

Il Bettoliere                   - (alla Chumacera) Se tentasse, urla; ti chiudo con lui. Se hai paura mando qui un uomo.

La Chumacera               - No. Ora non ha più il coltello.

Il Bettoliere                   - (a Luis) Maledetto, che guaio hai combinato! (Rientra in quinta cJdudendo come a chiave la porta).

 Luis                              - Io, non ho toccato il coltello! Non l'ho ferito.

Chumacera                    - Cosa hai fatto?!

Luis                               - Non sono stato io!

La Chumacera               - Tutti ti hanno visto.

Luis                               - Era sul banco, sì, mi è venuto in mano, l'ho gettato in terra. Non sono stato io!

La «Chumacera             - Nemmeno le corna di un toro fanno una ferita così grande nel ventre di un cavallo. Se morisse allora, povero ragazzo!

Luis                               - Non l’ho ferito, non l'ho ferito!

La Chumacera               - Puoi negare davanti alle guardie… non a me. Anch'io giurai di essere innocente quando falsificai delle ricette di morfina. Speriamo se la cavi. Che guaio però; ti hanno visto tutti.

Luis                               - Non importa. Non possono dire di avere visto quello che non ho fatto. Erano tutti intorno, per dividerci. Non avevo nella mano il coltello. Non l'ho ferito. Sono innocente. Non ho fatto nulla.

La Chumacera               - Non era il caso di attaccar lite. Manolo si voleva divertire. E' fatto così.

Luis                               - Io non potevo ascoltarlo. Non doveva parlare di lei così. E' la mia mamma, sapete! La mamma, capite?! E lui, cosa ne diceva... Per tutti la madre è santa più delle sante; la mia è anche lei come le altre. Che vigliacco, che vigliacco! Ma io non l'ho ferito.

La Chumacera               - Forse non ricordava di avere avuto una madre. Anch'io, se toccassero la mia sarei capace di cavare gli occhi. Ma tu, il coltello dovevi lasciarlo stare.

Luis                               - Venissero presto almeno queste guardie!

La Chumacera               - Coraggio. Quello se la caverà. (Siede) Se stavo di là stavo male anche io. Non posso vedere sangue.

Luis                               - Voi, vi prego, non dite nulla.

La Chumacera               - Come nulla?!

Luis                               - Sì, dite quello che volete; ma non il motivo, non una parola sul perchè della lite. Non voglio che si parli di lei. Ci siamo picchiati, ecco tutto. Fatemi questa grazia. Vi farò un regalo. Non nominate mia madre. (Dalla tasca toglie una scatoletta. La getta a la Chumacera) Vi regalo questo, guardate.

La Chumacera               - (apre la scatoletta) Un anello? Dove l'hai rubato? E’ oro?

Luis                               - Non l'ho rubato, è mio. L'ho comperato, lo giuro. Questa sera dovevo andare da...; ora, ora non serve  più. Non serve a nulla.

La Chumacera               - Come vuoi. Tanto, meno si sa e meno si dice, meno noia ti danno. Ma come è piccolo questo anello. Non mi si infila bene. Ci vorrebbero dita da bambina. Lo nasconderò qui. (Alza la veste e lascia scivolare l’anello nella calza, poi spacca la scatoletta e la getta in un angolo).

Luis                               - Ditemi, ci sarà chi avrà visto che non sono stato io? (La porta che dà in quinta si apre, entrano il bettoliere seguito dal commissario e da due guardie. Entra anche Chiquito).

Il Bettoliere                   - (indicando Luis) Eccolo, signor commissario.

Il Commissario              - Ma non lo sapete che dovevate aspettarmi prima di toccare qualche cosa?!

Il Bettoliere                   - Non potevamo lasciarlo così, con il coltello in pancia.

Il Commissario              - (alle due guardie che stanno per chie­dergli qualche cosa) Sì, sì, portatelo via. Resto io con gli altri. (Le guardie si avvicinano a Luis, lo ammanettano).

Chiquito                        - (alla Chumacera) Quando ti avrà inter­rogata torna a casa sola. Ho da fare.

La Chumacera               - L'hanno portato all'ospedale?

Chiquito                        - No; è morto.

Luis                               - Non sono stato io! Signor commissario, non l'ho ferito! Non ho fatto nulla, nulla! (Grida) Nooo!...

Il Commissario              - (alle guardie) Via, via.

Il Bettoliere                   - (alle guardie) Passate di qui, è me­glio. (Apre con la chiave la porta che dà nel vicolo. Le guardie conducono via Luis. Tutti tacciono. Al commis­sario) Posso offrirvi qualche cosa?!

Il Commissario              - E' inutile che ciarli, tanto, la bet­tola, la chiudo. E voi (alla Chumacera e a Chiquito) che fate qui? Avanti, di là! (Al bettoliere) Siete sicuro che non è uscito nessuno?

Il Bettoliere                   - Noo, signor commissario!

La Chumacera               - (mormora) Povero Manolo!

Chiquito                        - L'abbiamo messo su un tavolo ed è ri­masto lì. (Rientrano tutti in quinta. Dalla casa appaiono Camelia e Jnès).

Camelia                         - Un tempo, si lavorava come al sabato; ora, non ci sono più monete. Santo cielo! Ho una pulce! Non riesco a prenderla.

Jnès                               - Già, anch'io da diversi giorni me le trovo addosso. Deve essere il gatto della padrona.

Camelia                         - No, sai cos'è?! E' il divano; ogni tanto bisogna batterlo, pulirlo.

Jnès                               - (prendendo la seggiolina di Camelia) Lasciate, ve la porto io.

Camelia                         - Grazie Inés. (Pausa) E' presto. Torniamo dopo a chiudere. (Camelia e Jnès rientrano in casa. Da sinistra entra Cayetano, cammina come chi non vuole essere visto. Tiene la mano destra nella tasca dei cal­zoni. Entra quasi correndo Chiquito, raggiunge Caye­tano. Lo ferma, lo afferra per il braccio).

Chiquito                        - Tira fuori la mano! Tirala fuori, è mez-e'ora che la tieni nascosta. Hai paura?! Tremi. Corri, corri a lavartela. Io so, la tua mano è tutta sporca di sangue. Quel ragazzo, è vero, aveva toccato un coltello, ma lo ha gettato via. E' caduto ai tuoi piedi. Ti ho visto, sai; ti sei chinato adagio, lo hai raccolto, te lo sei infilato nella manica. Prima, tu urlavi contro Manolo, ma quando hai stretto nella mano quel coltello ti si è chiusa la bocca, hai fatto silenzio. Io ti ho guardato sempre. Ti sei gettato in mezzo a loro, urlando agli altri: divideteli, divideteli! Tutti li circondavano e tu eri il più vicino a loro. Ti è uscita così una delle tue coltellate. Non hai detto nulla. Hanno gridato che è stato il ragazzo. Ti ho visto sorridere. Hai avuto for­tuna anche questa volta. Manolo non ha potuto più par­lare; ma quando l'abbiamo messo sul tavolo, ti guai-dava; ti sei accorto come ti guardava? Ti eri fatto pal­lido. Ora non tremare. Lui poveretto, aveva scritto una lettera alla polizia parlando un po' di te. Quella lettera l'ho io.

Cayetano                       - Ah, ah. (Ride nervoso) Bella la storia!... continuala.

Chiquito                        - Cayetano, non avvelenarmi! Questa volta non è un furto sai! E' una coltellata d'altro mondo. Non sono come il povero Manolo, io! Gli affari li regolo solo. Senza la polizia. Ora ti accompagnerò a casa. Voglio vederti in faccia quando ti laverai la mano. Dormirò forse da te. Il danaro aggiusta tutto. Non ci pensare. Tu, danaro ne hai, e di quello buono; quello nuovo di banca. Mi devi comperare. (Alla finestrella della casa del boia appare Pachuca) Ne parleremo al sicuro. Se fai lo stu­pido, ti agguanto. Chiamo gente. Ti porteranno via. Le coltellate le sai dare; ma si vede che ti fanno perdere la parola. Andiamo, su. Non avere paura di me. Io, sarò tutto silenzio. (Sospingendo Cayetano, Chiquito si allontana con lui, nel buio).

Pachuca                         - E' tardi. Ora verrà. Gli dovrò dire di tor­nare domani. (Guarda alto verso il cielo, allunga una mano come per sentire se piove) Che cielo!!... una goccia... piove!... Quanti fiori c'erano nel prato!

FINE DEL SECONDO ATTO

ATTO TERZO

(Il vicolo. È notte. Un uomo è fermo in mezzo al vicolo. Accende un sigaro, si allontana, esce. Camelia se­duta stilla seggiolina parla con Tula).

Camelia                         - Vendevo le gassose nell'arena: ai terzi posti.

Tula                               - E lui?

Camelia                         - Non era ancora nulla. Veniva dalla pro­vincia; da un allevamento di tori. Debuttò quando venne l'autunno. Fece subito carriera. Oh, per lui, ci vollero solo due stagioni! Diventò un grande torero. Sentiva la gioia di uccidere e uccideva bene.

Tula                               - Io, non vidi che una sola corrida. Anche oggi non ci vorrei più andare. La prima volta presi tanto spavento. Fu un toro rosso, sapete, uno 'di quelli con le corna larghe. Non so come fu; ma quello, presa la corsa saltò la palizzata, si gettò tra il pubblico dei primi posti. Io ero lontana, ma lo spavento mi teneva con gli occhi attaccata alla bestia. Vidi il toro prendere una donna, gettarla nell'arena. Una cosa terribile. Poi, una guardia civile tirò fuori il revolver. Sparò due colpi. Le spalle del toro luccicarono di sangue. Ma la pallottola gli attra­versò i muscoli del collo e andò a finire nel ventre di un ragazzo. Nel portarlo via morente passarono davanti a me. Poi finalmente presero il toro, col laccio. Lo ucci­sero subito a colpi di pugnale.

Camelia                         - Anch'io vidi tori uccisi, uomini feriti; morti; ma non potevo non andare all'arena quando Antonio combatteva. Solo lui sapeva far sentire con un lungo silenzio tutta la morte. Quando abbassava la mu­leta per affondare la spada che io gli tenevo sempre pu­lita, tremavo e mordevo il fazzoletto, fino a quando la lama entrando nel collo del toro arrivava a tagliargli la vena del cuore. Era uno stordimento quel mugigito d'ago­nia! Nessuno; solo Antonio, metteva così bene a morte. Lavorava leggero e tutto vivace, vicino vicino alle corna della bestia. Regalava al pubblico un brivido fino in fondo alla schiena.

Tula                               - Era un bell'uomo?

Camelia                         - No. Pallido, caviglie sottili, piede nervoso; piccolo. Però, quando attraversava la città a cavallo, per andare all'arena, aveva un profilo nobile, orgoglioso. A me sembrava un santo o un imperatore.

Tula                               - Lui, non hai mai avuto paura, paura di morire?

Camelia                         - Solo per qualche tempo; ma fu la morte di Manuel. Pensa... era il più .grande torero che fosse nato qui. Aveva venti anni. Fu ucciso davanti a me da un toro di Veragna. Lo gettò quattro volte contro la paliz­zata. Con le corna gli spaccò la testa, così (fa con le mani il gesto di spaccare un fiore) come un fiore rosso. Antonio gli voleva bene, lo amava e pianse. Fu lui che lo portò nudo nella cappella dei toreri. Lo depose ai piedi dell'altare. Mi ricordo che Manuel, suonava bene il vio­lino...! Da allora, Antonio, disse, che quando scendeva nell'arena, vedeva nelle pupille dei tori il profilo di Ma-nuel che gli sorrideva. E un giorno, per questo, un toro lo toccò. Era un toro difficile. Gli fece più di una ferita e una di cinque pollici. I compagni gli portarono a casa la testa del toro impagliata. Me la fece appendere sopra il nostro letto. Non aspettò di essere guarito. Scese in combattimento con la coscia fasciata. Mah!!...

Tula                               - Non ti ha mai detto che ti avrebbe sposata?

Camelia                         - No. L'ultima volta che lo vidi fu in un caffè. Ci lasciammo «osi. Aveva una scrittura in America. Partì per il Messico. Mi scrisse solo una cartolina. Allora mi abituai a pensarlo, morto come lui voleva, al tra­monto, in un'arena. Dopo anni, per caso, seppi invece che aveva avuto un infortunio; che non combatteva più; che si era sposato.

Tula                               - E' bello avere il ricordo di una cosa ohe è durata a lungo, lo non ho che briciole, Camelia... tutte briciole!

Camelia                         - No, no, è meglio non avere ricordi. Ci si «ente più giovani. Io, cerco di non ricordare mai. E' stra­no che abbia parlato. E' forse la tristezza che sento per la povera Enriqueta; è la tristezza che questa sera mi butta così giù.

Maruya                          - (dall'interno della casa) Camelia, avete vist... (Entra in scena e vedendo Tula) Oh, sei qui? E' mez­z'ora che ti cerco.

Tula                               - Cosa vuoi?

Maruya                          - Nulla. Volevo stare con te. Dentro, quella povera donna mi fa troppa pena.

Camelia                         - Perchè l'hai lasciata sola?

Maruya                          - C'è Jnès. Poi, a me, non dà ascolto.

Tula                               - Ora, che fa?

Maruya                          - E’ salita nella sua stanza. Si è vestita. Hai vuotato i cassetti come per cercare qualcosa. Non ha trol vato niente. Si è messa a piangere. Allora Jnès l'ha fatta! sedere sul letto. Trema. Allarga gli occhi. Guarda fissai un punto vuoto. Scuote la testa.

Camelia                         - Ma si è decisa ad andare?

Maruya                          - Non so.

Tula                               - Aveva detto che l'aspettava.

Camelia                         - Questa notte, ragazze, dobbiamo vegliarla! (Nella luce della porta della casa appare la signora Erariqueta seguita da Jnès. Camelia si alza e in silenzio, con Tula, Maruya, e Jnès segue per alcuni passi la signora Enriqueta che senza volgere la testa mormora)

La signora Enriqueta     - Camelia... e tu Jnès, e voi! Tula e Maruya, entrate in casa. (Le quattro donne, una! dopo l'altra ritornano verso la porta. Si fermano tutteu nella luce. Enriqueta, giunta quasi alla porta della casali del boia, rimormora) Entrate... (Le donne entrano in casa. La signora Enriqueta, esitando, batte sulla porta della casa del boia un colpo con la mano aperta. Dopo una  pausa, con disperazione, batte dei colpi con tutte due le mani. Nell'interno della casa, dalla tenda, che alzandosi lascia filtrare un po' di luce, appare il boia. Sul tavolati nel centro della stanza c'è un lungo coltello).

Il Boia                           - (cercando nel buio di accendere la luce) Vengo, vengo! Subito... Eccomi... (La signora Enriquetaì\ continua a battere sull'uscio. Il boia appena accesa la luce corre a spalancare l'uscio di casa) Siete voi? Prego! signora, entrate. (La signora Enriqueta entra. Il boia, ricliiuso l’uscio, premuroso le offre una sedia).

La signora Enriqueta     - No, no.

Il Boia                           - Accomodatevi. Sona più di due ore che vii aspetto. Quasi quasi mi costringevate a venire da voi. Ma,| se non sedete, non potrò incominciare a parlare. (Il boia dolcemente fa sedere la signora Enriqueta che si lascia  guidare impaurita) Ho tanto insistito perchè era inutile! che io venissi a casa vostra. Ho bisogno di voi, qui.

La signora Enriqueta     - (con uno scatto, folle, alzandosi) Voi lo ucciderete! Lo ucciderete all'alba! E ora me! Uccidetemi! Boia!!

Il Boia                           - Il vostro grido me lo sentivo dentro da tanti giorni! Ma è così grande il mio dolore che il vo­stro insulto non mi tocca più. Se vi ascoltassi non saprei parlare. Capitemi, Enriqueta, io, devo, parlare!

La signora Enriqueta     - Sono venuta per gridarvi il mio odio! Per dirvi che sono giorni che vi auguro la morte! La morte per voi e per tutti quelli che uccide­ranno mio figlio! Vi ho maledetti quasi col sangue in bocca! Ogni minuto! Le maledizioni si muovono nel mio ventre come mille vermi!

Il Boia                           - Enriqueta, tacete!!

La signora Enriqueta     - (gridando) Noo!... No!!

Il Boia                           - (gridando) Ho visto vostro figlio! (La si­gnora Enriqueta, colpita da queste parole, tace stordita. Breve silenzio, poi, il boia, dolcemente) Gli ho parlato. Mi aveva fatto chiamare.

La signora Enriqueta     - (sedendo lenta) Voi... solo voi... e io? Non mi ha voluto!

Il Boia                           - Mi ha detto di chiedervi perdono. Ha rifin­tato il colloquio per non accrescere il vostro dolore.

La signora Enriqueta     - (come un lamento) Oh, Luis, mio piccolo Luis, come vorrei che prima dell'alba ve­nisse la fine del mondo! Perchè, perchè ha voluto parlare con voi?

Il Boia                           - Doveva dirmi che sulla terra lasciava voi e un'altra creatura. Una ragazza; quasi una bambina! Un giorno, l'aveva condotta in un prato. L'aveva tenuta per mano parlandole dei fiori e della terra. Disse a me, di portarle il suo primo bacio. Si erano già fidanzati, da solL

La signora Enriqueta     - Una donna!

Il Boia                           - No, una bambina.

La signora Enriqueta     - E' per lei che non ha potuto parlare, non ha voluto dire nulla al processo! Una donna?! Ora capisco il motivo della lite. O figlio, figlio, perchè hai ucciso!?

Il Boia                           - Tacete. Non dite nulla. Vostro figlio è inno­cente.

La signora Enriqueta     - Non è stato lui, non è stato lui, lo so, lo sento; ma perchè non ha voluto dire il nome di quella donna?! Lei, me lo ha rovinato!

Il Boia                           - Non fatemi dire il suo nome.

La signora Enriqueta     - No. Voglio saperlo. Gri­darlo a tutti! Chi è la svergognata?! Dite, chi è?

Il Boia                           - Siete voi, Enriqueta.

La signora Enriqueta .   - Io?... (Ride nervosa) Cosa c'entro io?!

Il Boia                           - Eh, fu per voi!... Vi avevano insultato nella bettola. Avevano gridato in faccia a vostro figlio qualche cosa di brutto. A me ha giurato ohe non fu lui a ucci­dere. E io gli credo. Credo nei iuoì occhi, nelle sue mani di operaio, nella sua fronte bianca, nella sua innocenza. Anche se al processo avesse parlato, a nulla, a nulla gli sarebbe servito. Ha taciuto per tenere nascosto il vostro nome nell'anima, per amore. Voi non potevate fare nulla per lui. E' il destino che gli ha tagliato la strada. Ora, sapete che l'altra, la bambina, non ha nessuna colpa. Ma anche voi, non avete colpa! E' stato il destino assassino che si è messo sulla strada di chi ha troppa innocenza! E' come quando ci sono troppi fiori sulla terra e allora viene l'uragano. Tutti i peccati degli uomini li sconta sempre un innocente. Vostro figlio semina intorno la bontà; chi l'avvicina diventa quasi come lui. E la bontà, anche quando non è santa, si paga; si paga morendo sulla croce, si paga forse anche vivendo.

La signora Enriqueta     - Ma la donna, l'altra, quella che mio figlio ama, ditemi; se lo sapete: chi è? Dove si trova? Io non l'ho mai vista!

Il Boia                           - Oh, come si è mutata! E' come un'erba Iun- ga, impallidita. Non beve, non mangia. Non è più una crea­tura, è una cosa, una pianta, una povera pietra! Nei primi tempi, di notte, si metteva alla finestra ad aspet­tare il giorno; poi, di giorno, vagava qua e là ed aspet­tava la sera; ora non aspetta più nulla. Dopo il tramonto esce sempre di casa. Una notte, io, l'ho seguita. Non »o come i suoi piccoli piedi abbiano potuto camminare così tanto. Ha attraversato tutta la città. E fuori, lontano dalle mura, si è inginocchiata sedendo sui calcagni, in mezzo a un grande prato. Così, tutte le notti se ne va ed è come se andasse sempre più lontano, perchè di giorno in giorno torna sempre più tardi. Se ne va quando piove; quando ci sono le stelle, il vento. E questa cosa che va è la mia bambina!

La signora Enriqueta     - Pachuca?!

Il Boia                           - Sì. Anche lei è stata pugnalata dal destino; due volte sulla sua piccola strada. E io, per amore, sento che non posso togliere a mia figlia la « sua vita ».

La signora Enriqueta     - Pachuca vivrà per dimenti­care; ma all'alba il mio figliuolo...

Il Boia                           - Un amore come il loro è più della nostra vita. Lui, morto, Pachuca non crederà più a nulla. Sarà come se una orribile bestia, approfittando del suo dolore, le togliesse tutta l'innocennza. E io, ditemi, io, proprio io, devo condannare la mia bambina? Io che già la con­dannai dandole vita! Tutti sputeranno in grembo alla figlia del boia.

La signora Enriqueta     - Non c'era che la grazia. E’ stata respinta...

Il Boia                           - Solo una persona può salvare vostro figlio. (Pausa) Io!

La signora Enriqueta     - Avete pensato di farlo fug­gire? Ma dove lo nasconderemo, dove posso nasconderlo, dove?

Il Boia                           - Anche se riuscisse a fuggire, dovrebbe vi­vere murato nella paura. Poi, dalla sua cella non si fugge mai.

La signora Enriqueta     - Allora?!... Avete scoperto un filo? Avete dei dubbi? Conoscete il colpevole? L'as­sassino?!

Il Boia                           - No, no, no. Nulla. Ho scoperto solo quello che devo fare per la mia bambina. Per lei, sapete, per la sua gioia. Le regalerò la cosa più bella del mondo. E vostro figlio, le regalerà l'amore. E’ vero che i morti sono più vicini?! Pachuca, amali più dei vivi! Mi si torce la lingua. Mi si torce in bocca; non mi fa parlare chiaro! (Pausa) Solo di 'mesi e pianti è piena tutta la vita! Non riesco più a spiegarmi! Tacete, signora Enri­queta! Lasciate che trovi senza pena, senza grande do­lore, senza stento, quello che devo dire. Tutto quello che ho da dire: quello per cui vi ho chiamata! Oh come la mia voce raschia questa .gola! La ,gola!! (Si copre con le mani la faccia mormorando) Ohi, ohi, ohi...!! (La signora Enriqueta, impaurita, si alza e resta ritta accanto alla sedia; cerca di parlare, ma il boia, scoprendosi la faccia, le dirà con vigore e quasi con un'altra voce) La legge dice... che quando muore il boia... il primo con­dannato... riceve la grazia... (Pausa) Enriqueta; io mo­rirò questa sera! e voi, dovrete correre, correre tutta la notte; correre al palazzo di giustizia; alla sede dei gior­nali; alle carceri e gridare, gridare con tutta la gioia che io sono morto: che il boia è morto.

La signora Enriqueta     - Non lo dovei nemmeno dire, non dovete!

Il Boia                           - Se non mi uccido, chi può salvare vostro figlio? Che cosa ve ne importa di me? Che madre siete?! Basta. Vi impongo di tacere! Tacete!! (Mormora) Pa­chuca!!... All'alba io non dovrò più camminare. Ho chiamato voi, non per sentire quello che avete dentro; vi ho chiamato solo per gridare, gridare che sono morto! Non girerà più una corda intorno al collo di vostro fi­glio! E' certo che dovrà vivere ancora dei mesi, forse un inverno nella cella; ma poi, poi, sono sicuro che gli occhi della giustizia vedranno in lui solo un innocente. Sì. Troveranno il colpevole. L'assassino sarà punito e vostro figlio uscirà da quelle porte! Verrà a cercare la mia bambina! Sapete... anche questa sera è uscita di casa, io non ho nemmeno tentato di trattenerla; avevo bisogno anch'io di rimanere solo; ma prima di uscire da quella porta le ho chiesto, era la prima volta: « Pachuca, dammi un bacio! ». Non mi ha sentito. E' andata via senza voltar la testa, senza chiudere l'uscio! Era nuvolo, ma speriamo che questa notte non piova, si bagnerebbe più di una piccola pianta!

La signora Enriqueta     - (quasi aggrappandosi al boia) Cnore dolcissimo, figlio, figlio!! Se non sentissi quello che quest'uomo ha detto, io, non avrei cuore! (Al boia) Voi non dovete, capite, non dovete!!

Il Boia                           - (liberandosi da Enriqueta) Via di qui! Via! Andate! Andate via di qui! Avevo bisogno di voi e non del vostro pianto! Uscite da questa casa! Oh, non farete in tempo a dire che mi voglio uccidere. Mi chiudo in casa e in un minuto io chiamerò la morte! (Il boia continua a sospingere la signora Enriqueta verso la porta) Sono due giorni che ho già tutto deciso. (Enriqueta, quasi di scatto, ritorna sui suoi passi, in mezzo alla stanza).

La signora Enriqueta     - Cosa volete da me, cosa volete?!

Il Boia                           - Sedete! (Enriqueta siede; pausa; il boia con dolcezza) Ora andrò di là; poi, quando non mi sen­tirete più camminare, dite due parole a Dio, per me. E quando sentirete solo il silenzio di questa casa e il tarlo di questo tavolo, allora, per pietà, fatevi coraggio e venite nella mia stanza. Prima di sollevare la tenda, chiudete gli occhi, apriteli, poi, piano piano. Mi vedrete appiccato vicino al letto. Salite allora su di una sedia e con questo coltello (solleva il coltello che sta posato sul tavolo) tagliate a poco a poco la corda. State attenta che io non vi cada addosso. Sono pesante. Mettetevi un po' di fianco, così, quando la corda sarà tagliata, cadrò sopra il mio letto. Componetemi allora come un morto qualunque. Voglio solo questo da voi, in cambio della vita e poi, correte a gridare. Non voglio che la mia bambina, ritornando, mi trovi ancora appeso. Le farei paura. Cercherebbe di cancellare dalla sua mente il mio ricordo. Invece così addormentato io non le sembrerò quasi mai morto. (Enriqueta piange) Raccontate tutto a vostro figlio! (Il boia si avvia verso la sua stanza) Addio, Enriqueta! Grazie! E' bello, sapete, amare due figli! (Il boia sparisce oltre la tenda rossa. Enriqueta, dopo aver guardato intorno, scoppia in singhiozzi. Il boia riap­pare rialzando un po' la tenda) Non fate così! Mette­tevi il fazzoletto in bocca! Non posso sentire singhiozzi. (Il boia lascia ricadere la tenda: scompare. Enriqueta, per non urlare, si chiude la bocca col fazzoletto, si ode qualche passo, poi Enriqueta guarda intorno disperati Tutto è silenzio. Allora, atterrita, ella si alza, prende i coltello di sopra il tavolo, tremante si avvicina alla tendi si ferma, retrocede, lascia cadere a terra il coltello, j volta, corre all'uscio della casa ; impazzita lo apre, eso nel vicolo, si mette subito a correre, a correre, perde i fazzoletto che teneva ancora serrato alla bocca, attn versa tutto il vicolo correndo, sparisce nel buio, eso incontrandosi con un gruppo di turisti, uomini e donnt che avanzano preceduti da una guida che si ferma ad um certa distanza dalla casa del boia).

Una Guida                    - Prego, signori, si fermino un momento. Vedono quella casa oscura, malinconica e nera? Di giorno, per il suo colore, spaventa più che di «era E' tutta di un rosso violento. Oh, no, non si avvicinano, porta sfortuna! E' la casa « dei boia ». Fu costruita in torno al mille e nessuno ha mai più osato distruggerla Guardino, sembra quasi una scena! Peccato che il cielo sia greve questa sera; se ci fosse stato un riflesso di luna, avrebbero visto maggiormente il suo disegno, la sua fao ciata rossa. Da secoli è abitata dai carnefici. E, corat vedono, intorno è sorto solamente un vicolo orribile] il vicolo più malfamato di tutta la città. Lo spettacolo di questa casa sembra distruggere l'illusione di una borni nel mondo. Ma ora... signori, lasciamo questo vicolo tenebroso. Oh, no, no... per di qua! (Si dirige, seguite dal gruppo, a sinistra) Il torpedone ha girato per un'altra strada. Ci aspetta in una piccola piazza. Ora, andremo in un locale caratteristico; in una taverna, dove si sta sempre allegri, dove si balla. (La guida esce, seguita da tutto il gruppo dei turisti).

FINE DEL TERZO ATTO

EPILOGO

(Il vicolo a poco a poco, si apre. La casa del boia e il retrobettola entrano in quinta; così tutte le altre case. Dal fondo avanza lentamente il pendio di un prato. La luce, da oscura, si fa sempre più chiara, bianca, accecante. Sulla scena si vede solo il cielo e il pendio di un prato. L'erba è lunga; ma quasi senza stagione. Intorno, cinguettano vari uccelli, come se volassero di siepe in siepe. Da destra entra Luis con un fagotto in mano. Lo segue, un po' addolorata e stanca, Pachuca, che indossa il vestito della festa, tinto a lutto. Luis sale il pendio e, giunto in cima, si inginocchia sedendo sui calcagni. Guarda verso Vorizzonte. Pachuca, raggiunta la cima, si ferma in piedi e guarda anche lei lontano. E, a unì tratto, Luis si abbandona con la faccia a terra; Pachuca, girandogli dietro, gli si inginocchia accanto, guardando verso la platea. Luis, si rigira; resta disteso con la faccia al cielo. Piega una gamba).

Luis                               - Pachuca, senti... come tuo padre parla!

Pachuca                         - E' l'erba, è l'erba. (Indicando verso la platea) Non vedi come il vento muove l'ala di quel mu­lino? (Luis si rigira verso la platea alzando il busto ed appoggiandosi su di un braccio).

Luis                               - Oh come vorrei sentire la sua voce, baciare le sue mani; io, che l'ho ucciso!

Pachuca                         - Furono lunghi i mesi e disperati i pianti, poi, la tua voce, dentro, rimormorò più calma. Ed io, parlai di te con lui; con Falba! Diventò rosso il cielo. Ma tu, ti sei mutato.

Luis                               - Sapevi, come era grande il suo cuore?

Pachuca                         - No. Nessuno sa. E prima, nemmeno io! Ora, tutte le cose, le più piccole cose, i gesti, igli sguardi, vivono accanto a me, nella più bianca luce. Quello ohe lui diceva è diventato legge. Una legge d'amore!

Luis                               - Solamente lui, mi ha creduto innocente!

Pachuca                         - Se non lo fossi stato, quale delitto orri­bile! Ma anch'io ti ho sempre creduto, e della sua morte, io solo, colpevole! Le sue parole, quelle dette a tua ma­dre, mi ricondussero a te, come lui voleva. Ora tu, però, mi sei così lontano! Alzati, Luis. Ti prego. Andiamo via!

Luis                               - No, ti ho igià detto di no. Tutta la gente mi riconoscerà. Non voglio!

Pachuca                         - Nessuno sa che si è ucciso per noi!

Luis                               - Ho la galera negli occhi, sempre la galera! Non voglio vedere gli uomini!

Pachuca                         - Bisogna credere a tutte le creature. Siamo al mondo per amare. Mio padre te lo insegna! Luis!!

Luis                               - Non vengo, non vengo in città! Non voglio prendere il tranvai!

Pachuca                         - Come vuoi, come vuoi; restiamo qui. Que­sta sera, quando sarà buio, non ci vedrà nessuno. Ma tu, oh, come sei mutato!

Luis                               - Hai aspettato molto fuori dalla prigione?

Pachuca                         - Sì, èro giunta con l'alba. C'erano nuvole come canarini, mi sembrava fosse più breve il tempo. (Pachuca segue il suo pensiero).

Luis                               - (monotono e assente) Uh, mi hanno fatto fare il bagno! E dopo un'ora, il mio vestito. Hanno scritto, sai, scritto in varie carte. E' suonato mezzogiorno. Mi ha voluto parlare anche il Direttore. Non l'ho ascoltato. Pensa, fu lui che mi disse della grazia respinta, lui, che mi fece capire il giorno in cui avrebbero eseguita la sentenza. Questa mattina invece, sorrideva come un ami­co, battendo la sua mano sopra la mia spalla. Mi ha accompagnato fino alla sua porta. Sono andato per ritirare il mio fagotto. L'impiegato era uscito. Volevo lasciarlo là. Non hanno voluto. Sono stato più di tre ore seduto su una panca. E quando sono uscito dall'ultima porta, io non ti ho vista, perchè il sole era forte e mi aveva accecato. Oh, se non avessero trovato l'assassino! Tanto... la condanna che hanno «ancellato, dentro, non mi si cancella più!

Pachuca                         - Parli, parli; ma non dici quello che vor­resti dire. Io lo sento però. Ascoltami Luis! La tua ani­ma è tanto ferita, e io ti lascio andare! La mia presenza ti ricorda troppe cose. Io sono l'ombra di mio padre! Devi andare. Se rimani con me la tua anima muore!

Luis                               - Non mi devi guardare così, non mi devi ascol­tare! Non so, non so. Io sono triste più della tristezza.

Pachuca                         - Tu devi andare lontano per ritrovare la tua anima. (Si alza) Io, scenderò in città. Ti aspetterò. Ritor­nerai, fra un giorno, un mese, nn anno!

 Luis                              - (alzandosi) No, Pachuca, no!

Pachuca                         - Devi andare. Aspetterò la tua anima gua­rita! (Luis afferra ai polsi Pachuca).

Luis                               - Pachuca!

Pachuca                         - Lasciami. Grido. (Luis la lascia) Guarda, Luis, guarda la terra. Attraversa il prato, trovati una strada; cammina, striscia i ipiedi nella polvere, guarda tutte le foglie, i fiori; ascolta l'aria, il vento che tesse le stagioni; piangi, al ramo che si spezza e allo sguardo del mondo! Non chiedere mai il sole, il pane; lavora, e se puoi, quando sei stanco, canta. Riposa, nel sogno del fumo lento dei camini! Oh, a poco a poco, rinascerà la fede, la tua speranza! Il male degli uomini ritornerà bontà. Tu guarirai, guarirai la tua anima ferita e pro­verai a ricontar le stelle! Io voglio che tu vada via. Prendi. (Pachuca si china a raccogliere il fagotto di Luis, glielo consegna) I miei pensieri, tutto l'amore mio, ti se­guiranno senz'ombra e senza peso! Arrivederci, Luis! Voglio vederti attraversare il prato. La solitudine è dolce per la tua anima amara. (Luis tenta di abbracciare Pa­chuca) No. Non baciarmi. (Pachuca sospinge Luis, che triste scende l'altro versante del prato, fino a sparire. Poi, lentamente, Pachuca, alzando un po' la testa, guarda orizzontalmente il cielo. Pachuca, chiamando con un sof­fio) Luis!... Guarda!... Una stella. (Nel cielo ancora chiaro, brilla bassa una stella verde).

FIN E