Vis à vis
di Giuseppe Manfridi
(Ancora una volta il tempo
ha terminato se stesso;
già un dopo s’avventura
nelle sue proprie viscere.
Chi è morto ragiona
più di chi compiange)
(Rovistando in terra, con le unghie e le bracci a nude)
Io
io, carne
fattrice d’altra carne, in realtà chi sono?
Quale tra tante
madri razzolanti
tra cumuli fumanti
sono? E quale
tra tante macerie
e cose sfarinate
dirute
rotte
massacrate è lui?
Come e dove
nella catasta degli abbattuti
fra tanti figli è il mio?
Più figlio d’ogni figlio
è questo figlio mio.
Più figlio d’ogni figlio!... Nessun figlio
è tanto figlio quant’è figlio lui.
Il mio.
Eppure eppure...
eppure so,
sì che lo so, benissimo lo so,
che a onta del suo essere così tanto mio
nel maremagno dell’Apocalisse abbiamo
sia io
che lui
un nome che si mescola a quello d’ogni altro.
Confuso, opaco
nella lista delle vittime censite.
Madre assoluta
d’un assoluto figlio.
Io di lui...
lui, il mio.
(Sguardo al cielo)
Dio,
tu,
che dove sei e chi sei
chiunque presume di dirlo e dunque
di saperlo, dimmelo: dov’è?
In tanto sfascio del panorama dove?
Sparso me l’hai
tra il fosforo e la polvere.
Buio nel buio.
Non cenere:
polvere l’hai fatto.
E non si vuole
che i tuoi perché mi sia dato nemmeno d’indagarli.
E questo sì...
oh questo sì davvero che è il massimo perché.
(Sollevando qualcosa nella mano serrata)
Sai cos’ho in mano?
Un pezzo di mattone:
testimonianza
della tua emersione.
Un pezzo d’un pezzo
di un’enorme cosa
che più non c’è.
Solida e forte,
c’era,
ora non c’è.
Annichilita
Franta.
Immiliardata.
Detrimento
di se stessa, da se stessa risucchiata.
Storie che al mondo
accadono consuete.
Odiernamente al caro
tuo mondo assai consuete.
(E brandisce ancora la mano ben stretta)
Un miliardesimo,
insomma, dell’enorme.
Dell’ab-norme.
Eccolo!
Un pezzo di mattone.
Uno qualunque.
Dunque:
uno di quelli, delo sfracelo, opera tua.
Dici nulla? Non afferri?
Lo sollevo dritto a te.
(Pausa d’attesa)
Niente... stai zitto.
Troppo silenzio.
Troppo silenzio ormai.
Tanto troppo
silenzio vorrà dire
che vuoi essere - ch’è tempo
che tu lo voglia, e che tu devi
ormai volerlo - essere
da me insultato.
Da me insultato.
Insultatissimo, per dio, Dio!
Tanto silenzio
non può essere per nulla.
Tanto troppo
tuo silenzio è ben due cose:
punto uno,
metafisico
punto due, diabolico.
Ossia
divino.
Ossia:
questione tua.
Perciò dammi
la più negletta delle tue facce
la più irrisoria
delle tue bocche,
addosso versami
il tuo sguardo più frustrato.
Altro non puoi.
Io a te è così
che parlo.
E’ a questo te così
sconciato, Dio,
Dio mio, che parlo.
Ti va il colloquio?
Con me,
una madre.
Ma poi che madre
è più una madre
se è solo madre
d’un figlio morto?
(Un tempo)
Ma dimmi forse
temi le donne? Chi?...
Temi le madri?
E come mai?
Non son parte
funzionale dell’ordigno
da te congetturato, dell’umano
consistere, ed allora?
Solo un colloquio!
Vis à vis? Ti va?
Ce l’hai il coraggio?
Ce l’hai sì o no?
Ce l’hai sì o no?
(Stasi. Silenzio)
Niente. Buio sonoro al massimo. Eccellente.
Chi tace acconsente, oppure mente.
E allora, innanzitutto:
scegliti un nome,
uno che sia, definitivo,
uno che sia
di per se stesso lingua
intraducibile poiché
già traduzione d’ogni
possibile lingua dialetto idioma
sia mio che altrui.
Ma tanto a chi lo dico?
A te, uno a cui
ogni cosa gli si chieda, la più inetta
e miserabile da farsi,
è ormai evidente che va oltre le sue forze.
Sei debole e codardo
per quanto a me superno
per quanto tu sia Dio,
io, esattamente io
che a te son sottoposta,
- io col mio ventre
dimidiato, e col mio grembo,
io! Percepisci? Io! -
ti dico quel che vedo:
chi ti ignora, questo vedo,
può di te meglio curarsi
di chi è intento a lusingarti
(modo vero
per dire l’adorare
che vorresti a te dovuto).
Bene così? Proseguo?
Tu sei un di più.
Un catastrofico di più.
Non mio figlio
invece era un di più!
Lui incistato
tra le carni del giorno
e dalle mie diffuso.
Andresti, sai cosa?, scorticato
dall’affresco del mondo affinché l’uomo
in faccia guardi l’uomo. A tu per tu.
Pelle a pelle,
senza di te a diaframma,
rimarrebbero a pochi le ragioni
per dilaniarsi: a quelli
che intatti in ogni caso rimarrebbero.
Ai potenti
che infarciscono di te gli altri,
a quelli e basta.
Mai nella storia delle tante guerre
che son state combattute in nome tuo
una davvero fu mai fatta per te.
Mai nella Storia, a malapena una. Mai!
Protagonismo:
questo tuo vezzo si traduce in stragi.
Più ti vedo e meno m’interessi,
ma il punto è che
tu interessi ai morti.
Ai nostri. Ai miei.
A questo mio che sai
o che dici di sapere.
Tanto che debbo interessarmi a te.
Chidermi: “Chi sono?” è men che nulla
rispetto all’altro enigma, a quello
di chi tu sia
e di cosa mai tu voglia
Ti pare sia abbastanza? Vado avanti?
Io parlo e straparlo solamente poiché tu
non hai da dire un fico secco più
(tu, proprio tu, miserrimo
vecchiaccio costernato in imbarazzo
a pranzo con la figlia sifilitica
che così è poiché da lui proviene.
Eccomi son io!
Di me che dico!
Il male che pensasti, io l’ho contratto
e allora resti zitto),
poiché non sei capace
neanche di dir ‘basta!’
(onere questo
che lasci a me,
la sottoscritta)
e neanche, tanto meno,
d’interrompermi. Un bel nulla,
questo sai fare tu
che pure un tempo
avresti fatto me.
Tu,
me. Tu
fatto avresti l’essere umano che
ora avrebbe da se stesso,
per tua chiara intercessione,
sé da se stesso sfatto. Sé da sé
disfatto.
Come disfatto,
scaialato, dissipato, hai il mio figliolo.
L’unico,
il solo.
Siam tutti tuoi figli: così ti piace
sentirci dire. No!
Lui, il mio,
d’altri non era, ma solo mio!
Neanche tuo ma mio!
(Un tempo)
Tu, insomma,
m’avresti fatta, sputata qui,
per poi sempre
tramite mio disfarmi!
Con queste mie mani da te fatte,
per essere nemiche di se stesse.
Perciò ripeto:
tramite mio,
ma a nome tuo.
A nome d’un nome
che ha troppi nomi per conservarne uno.
Dio degli eserciti e degli altari!
Nomi negri e giallicci color fumo
e d’acqua di lavanda,
di turibolo e miseria;
nomi inodori e nomi strepitati
da aliti un po’ alticci
che sanno di vitello;
nomi di concia;
nomi di macello.
Io, signor mio...
ah,
perdono, chiedo scusa!...
Signore va maiuscolo, ci tieni,
e detto così come l’ho detto,
l’ammetto s’avvertiva:
sembrava un po’ spregiato.
E allora lo ridico:
io, Signor mio,
amarti t’amo poco, ma amo molto
chi ti ama non essendo da te amato.
Di questo non t’incolpo:
è l’amore di chi hai fatto (di coloro
che tu hai fatto) che t’impone
di esistere e ti colloca
in un dove che altrimenti non sarebbe.
Tu sei quasi l’analogo perfetto
d’un tautologico giochetto di parole.
Eppure tanto micidiale.
Ma tanto, tanto micidiale assai.
E se d’esistere non meriti,
come chiederti d’amare?
Aaaahhhhhhhhh
Ma parla, ti prego, parla!
Un po’ di senso dell’onore, neanche questo?
E sia, ti dico allora
il nome mio per te
(già proprio ebbene sì:
pur io t’ho battezzato. Che vuoi farci?
E’ rimpinzata
di teologi la terra d’oggigiorno)
il nome mio per te
è un undici settembre, tutto qui.
Un undici settembre.
Cognome e nome: te.
Nome che assomma e mescola
un nostro agosto di vent’anni fa
con altre date, d’altre stragi, e quelle a questa mescola
Mosca, un teatro, e San Giuliano, ancora
nelle tane della morte oggi…
l’atrocità d’un un numero
26,
che ormai per sempre vorrà dire:
ventisei bambini.
“Addio piccoli angeli”
scrivono tutti. La cronaca recita:
Assediati dagli uomini
e da Dio. Mescola
tante altre date ancora che fan ressa
copulando tra esse a farne una,
tante date da far di quelle un nome
che ora tante di quelle fanno questa,
e qui sei tu.
Ma questa data
già s’è rifatta quella. Come lontana: quella.
Lì eri tu.
Tutto lì.
E lì finisci.
Umano e disumano quanto vuoi,
controdivino in tutto.
Tutto lì.
In questa data che ormai è già quella
e mille altre, quella
per dire
che ha calcinato la mia carne,
qui sotto adesso
murata
appoltigliata,
ti soddisfa?
Da lì comincio
io.
Da lì iniziamo
noi. Da lì
finisci tu.
Tu che non sai, tu che non puoi.
Tu che giammai
immaginar potresti
che quello che noi siamo a te è vietato.
Il tempo delle scelte s’è inverato:
o caricarci noi d’ogni tua colpa
o attribuire a te tutte le nostre.
Ma far questo, e questo
è quello che faremo,
è dire che sei tu la nostra colpa.
Perciò ti grido contro: Torni l’uomo
umano e basta!
A essere ritorni
senza di te
umano e basta, torni
a essere uomo e basta
torni
senza di te
nella sua propria storia!
Senza più Dio
non sarà più Dio.
Perciò ritorni
senza di te in se stesso.
Togliti di mezzo e toglieremo
forno e farina ai demoni
che come ormai sappiamo
ci appartengono, e in gran parte
anche noi stessi
anche noi stessi siamo.
Togliti di mezzo, Dio,
non più ci servi se non a farci
l’un l’altro indenudabili e infraterni.
Poiché sei un padre, tu,
ignominioso e gonfio
di preferenze. Sventola
lo straccio bianco della tua insipienza.
Io con nervi di bestia te lo dico,
con nervi da animale tra animali:
ignota agli Dei è la veemenza
con la la quale si abbracciano i mortali.