VIVA LA REGINA
Monologo
di ALDO NICOLAJ
PERSONAGGI
BIANCA
Commedia formattata da
BIANCA
Camera da letto: un comò, una poltroncina, al muro il ritratto di Giovanni, una finestra che dà sulla piazza. Bianca, tra i 50 e i 60 anni, è a letto, indossa una grossa camicia di lino. Sul comodino una corona di ottone dorato, come quelle che mettono in scena gli attori, un flacone, una tazza e un cucchiaio. È mattina, le imposte della finestra sono chiuse.
La mia vita… della mia vita, meglio non parlare. Tranquilla… Troppo. Sempre uguale: al mattino la sveglia presto, la Messa, la spesa, i lavori di casa… Vita monotona… noiosa… Quando mi sono sposata, sognavo ben altro… Povero Giovanni, un uomo buono, dispiaceri, non me ne ha mai dati. Né gioie. Non lo vedevo mai. Usciva al mattino prestissimo, tornava la sera tardi. Cenava, si fumava una sigaretta e, subito a letto. Mi diceva «Buonanotte» e si girava dall'altra parte. Che nel letto ci fossi io o la Bella Sulamita, per lui era la stessa cosa. Chiudeva gli occhi e russava. L'unico vantaggio era che, d'inverno, col suo corpo mi scaldava. Se mi veniva un gesto di tenerezza, un momento di abbandono, lui lasciava fare, senza partecipare. Brividi non me ne ha mai dati. A certe cose non era portato. La prima notte mi ha detto che tutte le emozioni della giornata lo avevano stancato, mi ha baciato sulla guancia e si è messo a dormire. Le notti successive era stanco per le fatiche del viaggio di nozze. Rientrati a casa, era stanco per il lavoro arretrato, che aveva trovato nel suo negozio di antiquario. Aveva bisogno di dormire e non lo dovevo disturbare. Per lui il sonno era una necessità. Troppo sensibile ed emotivo, doveva rifarsi delle emozioni quotidiane dormendo. E io dovevo lasciarlo stare. Tant’è che, per indurlo a fare quello che i mariti fanno con le loro donne sposandosi, ne è passato, del tempo. Io, poi, oltretutto, ero una ragazzina inesperta… della vita non sapevo nulla… Finché una notte, non so nemmeno come, capitò, ecco. Capitò così all'improvviso e con una rapidità tale, che, quasi, non me ne resi conto. E lui sospirò di sollievo. Si era tolto il pensiero. E non so se, per abilità o per fortuna, riuscì anche a mettermi incinta. Mi trovai così sposa e madre. E siccome ci si sposa per avere figli, io avevo avuto quello che era giusto che avessi. Perciò, la sera, quando lo raggiungevo nel suo letto, lo lasciavo dormire. Una gravidanza che non auguro a una bestia: nausee, capogiri, vomiti, dolori di testa, male alle reni… il corpo tutto indolenzito. Dolori immeritati, perché se i dolori della gravidanza servono per far scontare le gioie dell'amore, io quelle gioie, non le avevo mai avute. Una volta che ho detto a Giovanni che mi sentivo male rispose «Hai visto? Sarebbe stato meglio che mi avessi lasciato dormire, quella notte… ». Tutto lì. Ho preferito patire in silenzio, rassegnata. Quei lunghissimi nove mesi sono passati e, come Dio ha voluto, con dei dolori d'inferno, ho messo al mondo una femminuccia. Giovanni avrebbe preferito un maschio, ma, ha accettato, pur senza entusiasmo, la femmina. Dopo qualche mese, gli ho detto di fare un altro tentativo, per avere un maschietto. Mi rispose che nella vita bisogna accontentarsi e non pretendere troppo. Così ho capito che la mia vita di sposa, dovevo considerarla chiusa e dedicarmi, alla mia missione di madre. Senza far domande. E senza stare a sentire i pettegolezzi che facevano in paese. Perché, quando raccontavo che Giovanni era troppo sensibile e aveva bisogno di dormire, perché le emozioni lo stancavano, tutti ridevano. Mi consigliavano di domandarlo ai ragazzotti, che lavoravano con lui, il motivo della sua stanchezza… Non davo retta. Giovanni era un uomo buono: amava i giovani. Ricordo in viaggio di nozze, le gentilezze che aveva fatto a un cameriere che ci serviva: mance, sorrisi, parole gentili… Siccome abitava lontano dall'albergo, la sera, lo accompagnava persino a casa. Si dava da fare per aiutare il prossimo, ecco com'era Giovanni. Lasciavo che la gente dicesse: parlava per invidia e basta. Io dedicavo ogni momento della giornata a Eugenia. La bambina cresceva bene, così attaccata a me… Tra noi due non c'era bisogno di parlare: bastava guardarci negli occhi per capirci. Non mi sono preoccupata che di farla contenta, cercando di non lasciarle mancar niente, di farla crescere sana e forte, preparata alla vita, affinché riuscisse a strappare al destino qualcosa di più di quello che avevo avuto io, povera donna. E, così, è venuta su furba, svelta, con caratterino pepato, una volontà di ferro, idee precise. Quello che voleva, voleva. E io l'accontentavo sempre. Voleva imparare musica? E io le facevo prendere lezioni. Le piaceva il ballo? E io la mandavo a lezioni di danza. E come ballava bene, piccinina. Mi pare ancora di vederla: con quel suo tutù bianco, le gambette dritte, le mossettine aggraziate… Tutti, a cominciare dal maestro, a dirmi che avrebbe avuto un grande avvenire, sembrava nata per l'arte. Io felice come una Pasqua. Giovanni, lui, scettico, diceva che altre cose servono a una donna per essere felice: saper cucinare, stirare, ricamare… Già, ma io che tutte quelle cose le sapevo fare, cosa avevo avuto dalla vita? Non gli davo retta. Mi bastava vedere Eugenia felice. Il mio mondo era il suo, vivevo di riflessi. Non che la mia vita fosse cambiata, ma, ora, in casa, cercavo di sbrigarmi, per uscire con lei: andavamo a passeggio, al cinema, a teatro, in città. Lei adorava il teatro. Tanto che, quando mi confidò che aveva deciso di fare l'artista, non mi sono sorpresa. Avrebbe vissuto la vita che io non avevo mai vissuta: viaggiato, visto cose belle, conosciuto uomini, che l'avrebbero ammirata… Mi spiaceva che partisse, ma per lei era meglio. Se ne andasse a cuor contento, senza pensare a me. Giovanni, protestava, diceva che il mondo dell'arte non è l'ideale per una ragazza… Ma, Eugenia a battere i piedi, a piangere, a strepitare, a dire che si sarebbe ammazzata, così che lui, l'ha lasciata partire. E io sono rimasta sola. Vivevo aspettando le sue lettere, la telefonata domenicale… Ero in ansia per lei… Ma, Eugenia ha saputo subito imporsi. Tanto che, una sera, me la vidi in televisione, più bella che mai col suo sorriso… gli occhi splendenti… Si capiva che era felice. Non spegnevo mai il televisore perché, ogni tanto appariva lei, che faceva la pubblicità a una salsa di pomodori. Una volta mi mandò anche una rivista, dove c'era una sua fotografia col suo nome, con scritto che era una sicura promessa per l'arte. Giovanni scandalizzato, perché non è che fosse molto vestita. Ma, quella foto gliel'avevano scattata, mentre prendeva il sole, in piscina, in una villa. Aveva tanti di quegli amici… Frequentava un ambiente scelto: artisti… letterati… industriali… titolati… Il meglio del meglio. La invitavano sempre, non aveva mai un giorno libero. Altro che ammuffire in un paese, come me… E le sue lettere erano così carine, piene di espressioni di affetto: scriveva che capiva la mia vita, ma che non fossi triste e continuassi ad essere cosi come una bambina, perché un giorno lei avrebbe fatto qualcosa per me, per ricompensarmi di tutto… Insomma, anche da lontano, continuava a riempirmi la vita. Poi è morto Giovanni. Un infarto, mentre era là, nel retrobottega a trafficare con uno dei ragazzi. Eugenia, che era in tournée, non ha potuto venire nemmeno al funerale. Mi sono sentita così sola, quell’inverno. A letto, mi veniva un nodo alla gola: mi ero così abituata al calore di quel corpo, che dormiva accanto al mio. E, ora, non c'era più… Mi ha lasciato bene, anche se il negozio, l'ha destinato ai due ragazzi, che lavoravano con lui e ai quali era tanto affezionato… A me non manca niente. Eugenia, non chiede mai soldi… Quando gliene mando si arrabbia… All'improvviso è venuta a trovarmi. Bella, un angelo. E così affettuosa: mamma qua, mamma là, voleva farmi mangiare, farmi bere, voleva che fumassi, mi voleva allegra. E le risate quando ha saputo che il povero papà il negozio, lo aveva lasciato ai ragazzi. Rideva, diceva che ero un fenomeno, perché io non avevo mai capito niente. E che cos'è che avrei dovuto capire? Mah! Prima di partire mi ha voluto fare un regalo, che, mi avrebbe fatto sentire più serena. Quel barattolo lì. (lo indica) Pensavo fosse zucchero, ma mi ha spiegato, che era qualcosa di meglio, dovevo prenderne un cucchiaino, quando mi sentivo sola. Quando volevo. Faceva bene… Le ho domandato se erano vitamine, lei si è messa a ridere e mi ha detto che era mille volte meglio, che bisognava provare per credere, nel suo ambiente lo prendevano tutti e nessuno poteva più farne a meno. Dopo che è partita, del barattolo, mi sono dimenticata. Poi una mattina, vedendolo, mi è venuta la voglia di provare la polverina. Come sapore, nessuno, anzi, la prima volta mi è parsa anche disgustosa. Ad ogni modo, ne ho preso un cucchiaino, ci ho bevuto sopra il caffè e sono rimasta a letto, stordita: non ho avuto nemmeno voglia di andare a Messa. Non so quanto sia rimasta nel dormiveglia, poi, mi sono accorta che il sole era già alto ed entrava dalle persiane, mi sono alzata, ho aperto la finestra, ho guardato fuori… Mamma mia, la piazza piena di gente… tanta di quella gente, come non ne avevo mai vista in tutta la mia vita. E, appena mi sono affacciata, tutti a guardarmi, a battere le mani e a gridare «Viva la Regina! Viva la Regina!». Mi sono sentita svenire. Ho chiuso la finestra, sono rimasta a guardare dai vetri. La gente non si muoveva, guardava verso la finestra ed aspettava. Mi sono di nuovo affacciata e tutti di nuovo a gridare e a battere le mani. Perché? Non mi aspettavo una dimostrazione del genere. Chissà perché mi avevano eletto la loro regina!?! Lo strano è che, poi, quando sono uscita, sulla piazza non c'era più nessuno. E la gente, che incontravo, mi guardava, come se niente fosse successo. E, se domandavo, mi guardavano stupiti, fingendo di non sapere. Ho capito che non dovevo fare domande. Però, quello che è strano, è che ogni mattina, quando prendo la polverina ed apro la finestra, tutta la gente del paese è lì, sulla piazza ad aspettare che io compaia. E c'è anche il sindaco, la banda, le guardie, le bandiere… E come mi affaccio, applausi, acclamazioni… E non solo gente del paese, ci sono anche cinesi… negri… turchi. .. E le donne sono sempre meno. Solo uomini… ragazzi… (mette un cucchiaio della polverina nella tazza con un po' di acqua e beve)… bei ragazzi… arrampicati dappertutto… sui pali della luce… sui lampioni… aggrappati ai cornicioni… dritti sui tetti… abbarbicati sui comignoli… Belli, col torace nudo, gli occhi di fuoco. Un mattino me ne sono trovato addirittura uno, in camera. L'ho mandato via e lui è saltato dalla finestra gridando «Viva la Regina! Viva la Regina!»… I primi giorni, sbalordita, cercavo di capire che ragione c'era per festeggiarmi tanto, poi, mi sono detta che era meglio non far domande, era così perché era così, la gente mi voleva bene… mi vuole bene e mi ha fatto regina, ecco. (ora è sotto l'effetto della droga e parla esaltata, frenetica) Ho scritto ad Eugenia, spiegandole quello che succedeva e lei mi ha mandato la corona. (la prende e la guarda) Questa. Mi è arrivata ieri. Chissà che gioia, quando me la vedranno in testa… Ecco… cominciano a gridare… ad applaudire… Vogliono che mi affacci… che mi faccia vedere… che li saluti… Vogliono incominciare la loro giornata col sorriso della regina… (grida) Un momento! Vengo, ora vengo! (si alza dal letto, si mette la corona in testa, si guarda allo specchio compiaciuta, poi, verso la finestra) No, no, ragazzaccio, giù… giù con gli altri… Giù dalla finestra. Vergogna, tutto nudo… (dolcissima) Ora mi affaccio… diglielo… vai… vai… (con regalità va verso la finestra, apre i vetri, poi le imposte) Eccomi qui… con la corona… con la corona… Ecco la vostra regina! (si affaccia raggiante)
FINE