Vogliamo tutto

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da: Vogliamo tutto

Vogliamo tutto!

Liberamente tratto dall’omonimo lavoro

di Nanni Balestrini


Quanti debiti compagni!

… a Enrica, che mi ha regalato il testo di Balestrini, a Balestrini che l'ha scritto, a Valentina che mi ha convinto a farne uno spettacolo, ai parenti che mi hanno lasciato solo il tempo sufficiente a terminare il lavoro, a Vittorio che ha accettato di metterlo in scena, a Oliviero buon ultimo, che se non si offende scrivo anche il nome suo, e soprattutto a tutti gli uomini e le donne di corso Traiano.

                                  


Prologo

Saverio entra in scena a luci accese, mentre gli spettatori prendono posto. A volte si guarda intorno, distrattamente. Non discute con nessuno, non risponde a nessuno. Sullo sfondo un cartellone con la data del 3 luglio 1969. Sulla scena anche un tavolo, una sedia, lampade e altri oggetti.

Saverio si interroga da solo, come saggiasse la propria memoria storico-politica.

– Saverio! Appello!

– [Voce] Millenovecentonovantotto?

– [Saverio] Euro, cioè Moneta unica europea. Lì c’ero. Anche se in effetti non è che a me… della moneta unica… Mastricht, e via dicendo…

– [Voce] Piuttosto: millenovecentonovantuno?

– [Saverio] 31 dicembre ammainano la bandiera con la stella rossa dal Cremlino… e qui, anche se mi ero preparato, un po’ di magone… Mi ero preparato perché, due punti e a capo:

– [Voce] Millenovecentonovantuno, poco prima?

– [Saverio] Il Partito comunista italiano… non si chiamerà più Partito comunista italiano. Saverio fa segno di sì con la testa. C’ero. Pausa. C’ero io e pare ci fosse anche un gran bisogno di aria nuova e di riflettere criticamente sul passato, “riflettere criticamente” purché la riflessione non superasse la durata media di uno spot pubblicitario che sennò le masse non capiscono un cazzo e si annoiano.

– [Voce] Ancora più indietro: anni Ottanta?

– [Saverio] Gli anni ottanta iniziano con due grandi eventi: abbattono un aereo sopra Ustica e arrestano Mario Moretti A parte. Secondo me sono stati gli stessi, però… A tutti. Come che sia io c’ero anche lì. No. Non in quel senso… Non facevo parte né delle Brigate rosse né dello Stato… Si ferma folgorato… Questa qui del né con le Brigate rosse né con lo Stato devo averla già sentita eh? Né con lo stato… né con le Brigate Rosse. Riprende. Prima che vengan fuori casini preciso subito che invece non c’ero a Pisa, non ho mai abitato a Massa e mai conosciuto Bompressi, Pietro, Sofri e quel furbone di Marino. Chiaro?

– [Voce] Chiaro e millenovecentosettantre?

– [Saverio] Ecco se è chiaro questo posso dire che Millenovecentosettantatre: colpo di stato in Cile. Ammazzano Victor Jara e qualche altro migliaio di cileni rinchiusi in uno stadio e a Berlinguer gli viene una tal paura che… Mima li gesto di chi si fa un cannone gigantesco… Abuso di sostanze stupefacenti! Come dire: Chiaro no? Così stupefacenti che gli viene in mente il compromesso storico. A lui, al Benigni invece gli viene di prenderselo in braccio. E io che c’ero, perché me lo ricordo bene: un’invidia per uno che viaggia così senza toccare nemmeno un bicchier di rosso!

– E già che ci siamo, confesso che c’ero anche nel millenovecentosessantonove. Autunno caldo? No. Luglio bollente. In autunno ero di nuovo un bel disoccupato coi fiocchi. E volete sapere dov’ero a luglio? In corso Traiano. Che sarebbe come a dire: la peggiore – peggiore per loro – rivolta popolare della storia d’Italia. Dunque: come sono finito in corso Traiano… A dir la verità tutto è cominciato nel millenovecentoerotti: Cassa di intervento straordinario per il Mezzogiorno. Perplessi? Spiego.

– Vita, morte e miracoli della classe operaia declassata: Dal pomodoro di Fuorni alla peggior rivolta della storia d’Italia, in mezzo: Io. Intorno: qualche milione di poveri, dei quali non glien’è mai fregato un cazzo a nessuno. Soggetto e sceneggiatura a cura del nascente capitalismo italiano, quello che il fascismo sì certo, però attenzione perché il vero pericolo… Colonna sonora… slogan sul progresso, sulla dignità, sul lavoro e sulla moralità. Quadro completo. Guarda il pubblico. Datemi qualche minuto che vedete come tutti i pezzi vanno a posto.


Atto primo, dove si parla di pomodori e progresso

– Allora, prima di tutto facciamo chiarezza. Eliminiamo un equivoco. Non c’è niente da fare: cinque milioni almeno che del progresso e della dignità non gliene frega un cazzo. Guarda il pubblico… Vediamo un po': che giorno è oggi? Aspetta che qualcuno gli risponda, poi ripete: Giusto: sette luglio anno duemila[1], esattamente calcola mentalmente esattamente quindicimilasettecentotredici giorni di Cassa di intervento straordinario per il Mezzogiorno[2], e se qualcuno ride… sardonico e minaccioso.

– Cassa per il mezzogiorno significa: fuori dai coglioni maiali, galline, olive, pomodori, pecore, asini, formaggi e vino, e con loro cafoni, braccianti, agricoli, pastori, scugnizzi a giornata e ciarpame vario. Che formale, leggendo da un volantino "lo sviluppo del Paese – in a parte: presente lo Sviluppo del Paese? – lo sviluppo del Paese urta al Sud contro sacche di endemica arretratezza sociale e culturale, povertà e mancanza di: istruzione, istituzioni, servizi e infrastrutture".

Ha finito di leggere e si rivolge di nuovo al pubblico:

– Giusto. Dunque prima cosa da fare levare di mezzo gli ostacoli. Al Sud servono industrie e operai, un sacco di operai….sospeso, cambia tono preferibilmente al Nord, che lo sviluppo segue di solito dottorale una traiettoria balistica a obice, che se uno si sviluppa al Nord in un men che non si dica si ritrova tutto bello cresciuto e sviluppato in pieno Sud, per via della traiettoria discendente…

– Ora, l'unico ostacolo una volta levati di mezzo tutti gli ostacoli è: dove cazzo li trovo tutti questi operai? Serviva un piano strategico, e hanno elaborato questo piano strategico per il Mezzogiorno in due punti. Primo: la propaganda. Riprende il mano il volantino: "Bisogna lavorare per il Progresso, e produrre per una Nuova Dignità Umana".

Un momento di silenzio e poi guardando i volti tra il pubblico:

– Guarda che non è La Malfa Ugo, padre di La Malfa Giorgio, eh? Questi qui e batte la mano sul volantino sono slogan del Partito Comunista Italiano! In a parte… Che se non portano sfiga questi… Al pubblico… Comunque: programma concettualmente chiarissimo.… va al tavolo, inforca gli occhiali e legge: "… che eventualmente si facciano operai quelli che prima lavorassero di olive, animali e piccoli commerci". Concettualmente chiarissimo ma sintatticamente improbabile… Leva gli occhiali. E questa era la fase uno. Secco, poi lento e insinuante: Dato però che gli effetti attesi di volontaria ed entusiastica adesione al passaggio da cafone a operaio generico si facevano, appunto, attendere, la linea strategica si spostò sempre più verso il punto due, più sottile e mirato: eliminiamo orti, greggi, pomodori e piccoli commerci e poi vediamo come cazzo fanno questi a non farsi operai!

Si toglie gli occhiali e si avvicina al proscenio:

– Ora, non è facile togliere in pochi anni tutti i mezzi di sostentamento a qualche milione di cittadini italiani, ci vogliono un sacco di soldi e una pazienza da lupi… che non sono santi, i lupi, ma essendo cacciatori quanto a pazienza non scherzano neppure loro detto come un inciso. Il punto secondo, la fase due alza le dita per contare si suddivideva quindi ulteriormente in due sottosezioni. Orgoglioso del suo stesso dotto parlare. Prima sottosezione: chiunque avesse già abbastanza soldi da mettere su una fabbrica non c'era bisogno che li tirasse fuori dei suoi, glieli dava lo Stato, a patto che – e questa è la seconda sottosezione – si mettesse a far concorrenza a tutti quelli che con pomodori, formaggi, olive e via dicendo, mandavano avanti una famiglia. Svagato e saltellante: C'è anche chi giura ci fosse un divieto di coltivazione artigianale del pomodoro, ma queste sono leggende…

– Ora, voi capirete che dopo qualche anno di questo andazzo, ai manifestini del Pci non ci badava nessuno, ma al solo spuntare d’un  tenero germoglio di pomodoro nell'orto dietro casa, i contadini si affrettavano a sradicare la piantina mentre le donne si segnavano la fronte. Perché avere un pomodoro che costa duecento lire quando in città li vendono a cinquanta non è solo un debito, è una sciagura vera e propria, una maledizione che dal pomodoro si sposta in tutta la casa. Sì perché una volta che il pomodoro è maturo, e che hai speso le tue belle duecento lire, come lo fai a fette e lo metti dentro una terrina… ecco che hai appena contratto un debito di centocinquanta lire. Ed è lì che capisci, senza che nessuno te lo spieghi, senza bisogno del vocabolario, perché si chiami “pomo-d’oro”. Se aggiungo che il maggior produttore di “pomi d’oro” di tutta Italia si chiamava Cirio, che apparteneva all’Iri e che l’Iri nel Sud prendeva i soldi dalla… Cassa per il Mezzogiorno, vi torna chiara la questione?

– E vaffanculo ‘sti pomodori!

Se ci fosse una piantina di pomodori in scena Saverio la prenderebbe a calci….

– E poi a queste calamità, come se non bastasse, se ne sono aggiunte altre due…

Si volta, raggiunge il tavolo, prende in mano un paio di jeans scampanati e il manubrio di una lambretta, poi torna in proscenio, alza le mani e mostra i due reperti al pubblico

– Di quale volete vi parli per prima?

Aspetta per vedere se qualcuno dica qualcosa, sorridendo, poi appoggia il paio di jeans per terra.

– Sui jeans c’è poco da dire… Se a qualcuno di voi avanzassero un paio di chilometri di stoffa blu, ruvida e di poco prezzo che farebbe?

Aspetta… e dopo, dando per scontato che dal pubblico si sarebbe risposto con qualche ripiego tipo “stracci”, “buttarla via” etc.

–  Sì però quello era genovese. Mica si può buttar via tutto quel ben di Dio no?

Risolleva il manubrio della Lambretta...

– Anzi a pensarci bene, forse anche con questo…

Saverio ha un lampo, uno solo negli occhi, di genovesità, sognando chissà quale impiego per il manubrio della Lambretta, poi guarda il pubblico e spiega…

– Che cos’è? Beh, a proposito di Lambrette, questo è tutto quello che resta della mia. Avete mai provato a scendere da Giffoni o da Cava San Cipriano fino a Salerno, ai cantieri edili di Salerno, alle cinque di mattino seduti sopra un mulo con le zampette corte venti centimetri e mentre racconta prende la posizione di chi sta andando in lambretta e che corre a novanta all'ora con il motore attaccato di lato si inclina un poco di lato e di traverso che scivoli giù di traverso come i cani anche se la strada è dritta e per finale: i freni di una bicicletta? Avere conservato il manubrio non è mica un brutto risultato eh? E si rialza.

– Beh, insomma, 'sti cazzo 'e operai, tipo io, calavano all'alba nelle fabbriche e nei cantieri; i sopravvissuti lavoravano una mezza giornata – che vuol dire dodici ore – poi scalciavano il fianco del loro muletto a due ruote, una veloce ripassatina: freno-frizione-accelleratore, e tornavano di nascosto ai loro pomodori clandestini. Totale: quattro ore di viaggio, due andata e due ritorno, con escoriazioni di lieve entità, dodici ore di lavoro, due per il pranzo e la cena, qualche minuto per la riproduzione… E quella non si tocca! E altre due per il pomodoro illegale.

– Vita intensa eh? Se uno vuole anche dormire non è che gli resti tanto tempo per i volantini del Pci! È per questo, mica per altro, che i buoni propositi del Partito per il progresso e la dignità umana al Sud non facevano molta presa.


Atto secondo, L’educazione di Saverio

Saverio si volta, cammina fin dietro il tavolo che è in fondo alla scena, dietro c'è un bidet, lo solleva e lo porta nel mezzo del palco, poi si rivolge al pubblico con l'aria di quello che insegna al suo figlio maggiore il nome delle piante…

– Bidet! E lo indica con una mano. Bidet, ti presento il mio pubblico di questa sera e indica con la stessa mano e lo stesso gesto il pubblico. Gli intellettuali avranno già capito: il mio primo lavoro lo feci all'Ideal Standard  e poi detto in a parte iih che cazz’e nomme per na fabbrica e ciessi!

– Non tutti forse sanno che la prima cosa per fabbricare cessi è il test psico-attitudinale. Che significa: un foglio con dieci domande a cui rispondere, uguale per tutti operai e impiegati. Unica differenza a loro ci davano un'ora di tempo, a noi tre. Aspetta che ce l'ho ancora.

Va al tavolo e prende tre fogli pinzati insieme, uno con le domande e due bianchi, e una matita. Torna di fronte al pubblico, scende rapidamente in platea, sceglie qualcuno e lo porta sul palco.

– Mi fa da banco per favore?

Mentre lo fa risalire e gli piega la schiena appoggiandoci sopra i fogli…

– Bella questa schiena: sua? formica? Pausa. Allora… rivolto allo spettatore sta comodo così? Non si preoccupi lo faccio durare tre minuti non tre ore.

– Allora: il Test!

– [Test] "Se durante il lavoro dovessi incontrare qualche difficoltà, chiederesti volentieri aiuto al tuo capo?"

Con aria scoraggiata guarda il pubblico, sospira e scuote sconsolato i fogli, poi si ripiega sulla spettatore-banco…

– [Test] "Credi che sia importante la puntualità, il decoro nel vestire e il rispetto per i tuoi superiori?"

Non dice nulla, si china a guardare il volto dello spettatore che gli fa da tavolo e gli chiede:

– [Saverio] Credi che sia importante? Silenzio. 'ndiamo avanti va!

– [Test] "Sapresti dire perché è necessario lavorare e produrre?"

Un largo sorriso gli incornicia il volto.

– [Saverio] Ah, questo lo so!

Lecca la punta del lapis e scrive, declamando al contempo a voce alta.

– Bisogna lavorare per il progresso e produrre per una nuova dignità umana. Si rialza e si rivolge allo spettatore-scrivania… Fregati, non capiranno mai che abbiamo risposto ai loro test usando gli slogan del Partito comunista! Poi rivolto alle spettatore-tavolo: Grazie mille. È stata un'esperienza indimenticabile vero? Detto mentre lo accompagna per qualche passo fuori dal palco.

– Si vede che avevo risposto benissimo perché sarei andato a Brescia a fare un corso di formazione, pagato. Da chi? Dlla Cassa per il Mezzogiorno. Sorridendo serafico.

– Dunque. Ci danno un cestino da viaggio, un biglietto per il treno e l'assistente sociale che ci viene a prendere alla stazione di Brescia – perché un assistente sociale? E io che cazzo ne so – poi ci fanno vedere la pensione che ci avevano trovato e l'autobus per andare dalla pensione allo stabilimento.

– Il giorno dopo tutti in fabbrica, noi venti del corso e gli operai bresciani. Qui ci danno una tuta bianca col marchio IS sopra e ci infilano in reparto, che scopriamo è una specie di sauna: nel senso che sudi tu, sudano i pezzi che devono asciugarsi e c'è caldo e vapore da per tutto, ma nessuno si diverte.

– [I tecnici del corso di formazione e Saverio] Ci spiegano: questo è il cesso, questo lavabo, la colonnina, la vasca… il bidet, si gira e mostra il bidet che è sempre rimasto in scena. Ci dicono quanti centimetri debbano essere, quanti minuti nella forma, e tutte 'ste cose. Alle dieci e mezza siamo, tutti e venti, alle macchine per fare dei pezzi. Rallenta l'espressione. Ma contenti eh? Perché mica eravamo in produzione noi, noi facevano il corso, quarantamila al mese più quaranta di trasferta. Pagamento? Ma a carico della Cassa per il Mezzogiorno no!

– Dopo un mese di questa vita una mattina troviamo i bresciani fuori dalla fabbrica che fanno sciopero.

– [Saverio] Eh?

– [Operai bresciani] Sciopero – mi spiegano – significa che vogliamo più soldi e  lavoriamo meno.

– [Saverio] Ora non è che io non avessi in mente questa roba del progresso e della dignità umana, ma l'idea di più soldi e meno fatica non mi dispiaceva affatto. Così piglio quello più grasso e gli faccio: anch'io voglio fare ‘sto “sciopero”, solo che noi non produciamo, stiamo facendo il corso di formazione. Rivolto al pubblico: Mai visto un operaio bresciano in sciopero in dubbio se darvi del coglione o una manata sulla faccia?

Curva la schiena, allarga le braccia, tira in fuori la pancia, solleva le sopracciglia e lascia a metà il gesto di un "vaffanculo", rimane così come se stesse controllando che tutto sia a posto e poi, rivolto al pubblico.

– [Saverio] Non è un bello spettacolo.

– Quello mi guarda, con l’affetto spontaneo che tutti i bresciani provano per gli immigrati, e poeticamente ma stringato, perché un operaio bresciano usa in media quattordici parole al giorno e non più di un paio di migliaia in una vita intera, mi chiede:

– [Bresciano] Quanti pezzi?

– [Saverio] Al pubblico: E su quattordici due erano andate! Quanti pezzi? Beh tra cessi, bidet e si gira e indica il bidet colonnine… Quindici? Guarda il bresciano… E quello, con la pazienza tipica dell’operaio bresciano quando spiega qualcosa a un immigrato, mi illustra la situazione sprecando altre tre parole le scandisce:

– [Bresciano] Io diciotto e prendi?

– [Saverio] Ottantamila lire! Guarda il pubblico: Doveva essere proprio incazzato il bresciano perché con un improvviso rigurgito di retorica, la tipica retorica dell’operaio bresciano quando un ragazzino salernitano immigrato gli rompe i coglioni, tira fuori altre cinque parole:

– [Bresciano] Io centosessantaquattro, e tu fai il corso? Pausa.

– [Saverio] Rivolto al pubblico: Io ancora non sapevo che “laconico” viene da “lacedemone”, cioè cittadino di Sparta, i quali cittadini spartani pare parlassero pochissimo presi com’erano a far battaglie e buttare neonati storpiati dalla rupe, e siccome neppure sapevo che il bresciano fosse pieno di profughi lacedemoni…

Si capisce che sta prendendo il giro sé, l’operaio bresciano e il pubblico…

– Guardo il mio interlocutore, non un bello spettacolo, ma questo l’ho già detto, e confermo: Certo che faccio il corso, così poi divento: capo! Pausa. Al bresciano, con il caratteristico istinto al calore umano e all’amicizia che tutti i bresciani provano per chi non capisce un cazzo, al laconico bresciano gli avanzano ancora cinque parole per le rimanenti diciotto ore di una tipica giornata lavorativa media di operaio bresciano. Volete lasciargliene quattro per chiedere, a sera alla moglie, se è pronto da mangiare?

Pausa.

– [Saverio] Una parola, una sola parola con un finto drammatico crescente per dire tutto! E quello la usa…

– [Bresciano] Bravo!

– [Saverio] E se ne va. Un momento di perplessità e poi direttamente al pubblico: Forse avete avuto dei problemi di traduzione con il dialetto bresciano… In questo contesto, perché è il contesto che conta, quando ti dicono… “Bravo!”, è… come dire… una raffinata ellissi… Presenti le tipiche raffinare ellissi dell’operaio bresciano? Ecco, in questa in particolare… “bravo” cioè… e mima il gesto di un ampio, soddisfatto e lapalissiano “ma vaffanculo”.

– Poi lo sciopero lo facemmo anche noi a Salerno. Torniamo giù finito il corso e troviamo l'impianto di Salerno pieno zeppo di operai bresciani, diciotto pezzi al giorno, dritti come una canna. Allora vado di nuovo da quello più grasso – a me i grassi ispirano fiducia – che non era quello di sopra ma ch'aveva lo stesso aspetto breve ripresa della pantomima dell'operaio bresciano in sciopero… e gli dico ma che fate? E quello:

– [Bresciano] Non siamo in produzione, siamo tecnici.

– [Saverio] Tecnici?

– [Bresciano] Tecnici per addestrare i capi qui al Sud.

– [Saverio] Ah. E vi pagano?

– [Bresciano] Paga la Cassa. Pausa.

– [Saverio] Bravo! Guarda il pubblico: Neanche col salernitano siete a vostro agio eh? Bravo cioè… Facite la cortesia.. non so come tradurvelo… Saverio fa il gesto del “ti faccio un culo”, senza dire nulla.

– Che quello capisca il salernitano o cosa, scioperiamo insieme per quindici giorni, con picchetti corteo e tutto; poi si torna al lavoro… si volta e indica con la mano: bidet! Solo che nel frattempo grandi novità in reparto: hanno montato dei cinghioni per sollevare e spostare i pezzi invece di farlo a mano.

– Bravi.

– Grazie.

– Però in cambio dell'aumento di due punti del cottimo con quelle innovazioni io dovevo fare venti o ventidue pezzi.

– [Guardione] "Tanto mica li devi sollevare tu no?".

– [Saverio] No infatti – gli dico io al guardione – anzi mi sa che te li sollevi tu se vuoi, io vado a pisciare e poi pure a fumarmi una sigaretta”.

– La mattina dopo arrivo in fabbrica e trovo due guardioni che mi stanno aspettando fuori dallo spogliatoio. Uno lo conosco dal paese, conosco suo padre, i suoi fratelli, i suoi parenti, e con l'altro ci andavo la sera a vedere in quale bar ci fossero più ragazze. Li saluto e quelli mi danno una lettera, chiusa. Licenziato! Guardo quello che conoscevo meglio e gli chiedo: posso entrare?

– [Altro guardione] "No che non puoi entrare Savè, t'hanno licenziato per insubordinazione".

– [Saverio] Mi dispiaceva fare a botte con uno di loro e allora niente. Però giurai che se andavo in una fabbrica da qualsiasi parte: mai fare amicizia coi guardioni.

Si volta, in silenzio, solleva il bidet e lo porta in fondo alla scena, come a dire: "è finita". Suona una musica, da lontano.

– Io non so per che cosa lavoriate voi, a parte il progresso e la dignità umana s'intende. Per me i soldi come motivazione non sono mica male. Licenziato ero licenziato, però volevo i miei soldi, il preavviso, la liquidazione e tutto quanto insomma. Vado da quelli del sindacato e gli spiego che mi hanno licenziato senza giusta causa.

– [Sindacalista emiliano] Il sindacalista parla con accento emiliano… "Fantastico, adesso li denunciamo e vedrai che figura di merda che fanno quelli là!".

– [Saverio] Mah. Allarga le braccia Non volevo smorzargli gli entusiasmi e così "Fantastico! – gli faccio anch'io – e i miei soldi?". E quelli sempre più entusiasti

– [Sindacalista emiliano] "Dopo la causa dal Pretore, che se poi non te li danno andiamo in tribunale che per loro è anche peggio".

– [Saverio] Mah… Io dopo un po' vado ai cancelli della fabbrica e quando passa la macchina dell'ingegnere mi metto in mezzo, apro la portiera e lo tiro fuori. L'ingegnere era bresciano e gli ingegneri bresciani non somigliano in nulla agli operai bresciani. Gli operai bresciani li conoscete già, ecco, gli ingegneri sono tutti un'altra cosa. Vedete la differenza? Esteriormente l'ingegnere è vestito molto meglio, c’ha la cravatta che si afferra benissimo… E l'ingegnere ha paura dell'operaio eh? Infatti quello mi fa fare i conti del mese e anche di quello successivo e anzi mi promette che io sono un bravo ragazzo e che se voglio mi trova subito un altro posto all'Ideal Standard o in qualche altra fabbrica del salentino. Io gli spiego con pazienza che se solo si azzarda a farmi rientrare in una fabbrica, gliela spacco davvero la faccia, poi mi prendo i soldi e me ne vado.

– L’ingegnere bresciano, con la caratteristica generosità dell’ingegnere bresciano quando viene tenuto sollevato a venti centimetri dal suolo da un operaio salernitano appena licenziato – che sarei io – mi aveva dato un bel po’ di soldi. Secondo voi che cosa potevo fare?

Qualcuno porta sul palcoscenico due sedie, un cappello e qualche altro oggetto. Suona una musica, un canto di lavoro o qualcosa del genere.


Atto terzo, la famiglia discute con Saverio

Si abbassa la musica e Saverio ricomincia a parlare.

– Io vengo da Fuorni, che è frazione di Salerno. Quando si trattò di scegliere finii alle scuole professionali, per fare di me un scandendo le parole capo-operaio-reparto… un reparto-capo-operaio… un ma come cazzo si dice…

– Avevo una madre e un padre che si divisero equamente i compiti: mia madre mi partorì e mi crebbe fino alle scuole, mio padre mi spiegò la differenza tra vita e lavoro. Perché c'è differenza tra vita e lavoro. Mio padre sapeva benissimo che cosa stava accadendo. Io scendevo in città e vedevo cose, pantaloni, borse, scarpe, mobili, stereo, vedevo donne sulle riviste in edicola, robe da mangiare nei negozi, mica le stesse cose che c'era a casa. Solo che in città tutto aveva un cartellino con sopra il prezzo e se non avevi i soldi, di tutta quella meraviglia ti restava solo la voglia. Cominciai a chiedere soldi a casa, ma soldi a casa non ce n’era.

– Chiamai mio padre e mia madre e dissi l'unica cosa che un figlio di genitori poveri non deve dire: sentite, non ci voglio più andare a scuola. Perché voglio i bluejeans, voglio andare al cinema, mangiarmi la pizza fuori, uscì… si interrompe… Ma forse voi fate fatica a immaginarvi la scena.

Recupera una sedia in fondo al palco e la mette di lato in primo piano.

– Allora, domenica mattina, quella e indica la sedia è mammà, poi la guarda per un momento e poi prosegue tanto non è che fosse molto più attivo di così anche l'originale eh?

Torna in fondo al palco e prende un'altra sedia.

– Quest'altro è mio padre e in mezzo si mette a metà distanza tra le due sedie … io. Dunque: non voglio più andare a scuola, eccetera, eccetera. Mammà e indica la sedia immobile. Mio padre immobile pure lui, ma sorride, che una cosa più triste di quel sorriso lì di mio padre io non l’ho mica mai vista. Papà sorride tristo, mi guarda a faccia in su e incomincia parlare.

Pausa.

– [Padre di Saverio] Tu Savé fai come pensi, ma statte accuorto, stai attento che il lavoro è una brutta cosa. Il padre di Saverio accende un sigaro. Ti devi svegliare presto al mattino, devi sempre stare a sentire il tuo capo. E se non c'è lavoro non mangi e se c'è lavoro devi faticare. Il lavoro non è mai una bella cosa, a te ti pare bello il lavoro, ti pare bello perché ti fa mangiare la pizza, ti fa andare a ballare, ti fa andare al cinema. Ma quando c’avrai una famiglia, questo lavoro non ti farà andare più da nessuna parte. E allora vedrai che il lavoro è brutto. Io non ti dico: vai a scuola o vai a lavorare. Ti dico solo: il lavoro è brutto, cerca di evitarlo. Io ti mando a scuola perché credo che è un modo di evitarti il lavoro. La vedi 'sta famiglia? Mi vedi a me? Ti vedi a te? È una famiglia felice questa? Ecco qua c'è una famiglia e qua c'è pure il lavoro. Io non faccio forse il lavoro?

China il capo è sta in silenzio per un poco, come se meditasse; poi si spegne.

– Feci un corso triennale per elettrauto, che è quella roba che i ragazzini imparano andando a bottega tre mesi, noi tre anni, per cinque ore al giorno, a scuola. Dopo tre anni non distinguevi la candela di una lambretta dallo spinterogeno di un camion, però ce l'avevi tutta in tasca la teoria della differenza di potenziale.

– Andammo a parlare con un professore e gli dicemmo dei ragazzini, della bottega, dei tre anni e dello spinterogeno. E lui…

– [Professore] Quelli fanno le cose così, però non sanno perché le fanno, voi invece sapete cos'è la corrente elettrica, e chist’è nu fatto superiore. Voi farete i capi e loro gli operai.

– [Saverio] Capi? Tutti e sessanta? E tutti quelli delle altre classi e delle altre scuole? Eeh, ma quanti cazzo di capi operaio gli servono a 'ste industrie? Professore?

Si guarda intorno come a cercare qualcosa, poi riprende il discorso.

– Ora non è che non volessimo fare i capi, è che finita la scuola nel mentre che aspettavamo di incapirci, si cercava di trovare lavoro, battendo gli elettrauto della zona...

Va verso il tavolo e prende in mano una cartella da scuola vecchio stile, poi ritorna di fronte al pubblico e prosegue…

– [Saverio] Buongiorno, lavoro ce ne sta?

– [Elettrauto] Che sei?

– [Saverio] Elettrauto.

– [Elettrauto] Esperienza?

– [Saverio] La scuola, e chist’è nu fatto superiore.

– [Elettrauto] Bravo!

Silenzio di sospensione, poi rivolto al pubblico:

– [Saverio]  Traduco?

Riporta la cartella dietro il tavolo in fondo al palco.

– L'unica fatica che trovai come elettrauto diplomato fu… tecnico stagionale di primo livello “c1”…  fa cenno di sì con la testa, rivolto al pubblico… in una fabbrica di conserve di pomodoro. Ve li ricordate voi i pomodori? Due mesi a sorvegliare che i pomodori non se li mangiassero gli insetti. E poi raccogliere pomodori, cuocere pomodori, mettere in scatola pomodori. Pausa. Adesso anche per me c’era il lavoro, e tutto quello che m’ero immaginato finiva lì, di fronte al cancello della fabbrica. Odore di conserva andata che dalla pelle non te lo levi nemmeno con la pietra pomice e vergogna, vergogna perché fatica o no di soldi in tasca non ce n’avevi mai. E un cazzo d’odio per tutti i pomodori che Dio ha messo in terra.


Atto quarto, la città di Milano

Musica: Lo Guarracino Nccp.

Saverio va in fondo al palco a prendere la più classica delle valigie di cartone legate con lo spago, un cappello pesante e vecchio e un altro sacco di forma e colore indefiniti, gonfio di cose. Poi Saverio torna in proscenio. Si ferma, si accorge di aver dimenticato qualcosa, torna indietro. Va a prendere dietro il tavolo una bottiglia di amaro Ramazzotti e lo appende a un filo che penzola dal soffitto.

– Adesso siamo a Milano. Chiaro?

– Milano cuore in mano, Milano che ci vai a cercare lavoro e te lo danno pure. Ti danno bistecche di carne, vino rosso di Sicilia col tappo a vite, pane vuoto, e un lavoro, con acclusa raccomandazione: Ognuno è padrone a livello suo qua. Pausa. E questa del “padrone a livello suo qua” è un’altra cosa che mi devo segnare.

– Io “padrone a livello mio” sono finito a farlo alla ‘Lemagna: “Primaria azienda dolciaria”. Pausa. E via a cuocere brioche per otto ore al giorno.

– Contratto: due mesi – a luglio il panettone non se lo mangia nessuno – cappello da cuoco, stivali da pescatore e guanti di gomma… Una breve pausa… Il fatto che mi avessero dato insieme: cappello da cuoco e stivali da pescatore avrebbe dovuto insospettirmi subito, lo so. Ma sul momento a Salerno non è che fossero arrivate tante informazioni su brioche e panettoni. Io scendevo la mattina, facevo colazione e poi inforcavo la bici e andavo al lavoro.

– Dopo un paio di settimane era quasi lo stesso: scendevo la mattina, facevo colazione, giravo alla larga dai buondì e dalle brioche, breve pausa e andavo al lavoro… si volta come a controllare la situazione dietro di sé… controllando che nessun buondì mi seguisse…

– E quanto a seguire anche io, insomma, secondo te con le ragazze come facevo?

– Le seguivo! Come dire: “chiaro no?”.

– Non state a fraintendere. Ne cercavo qualcuna, una almeno, un pezzetto?

– [Amico di Saverio] Devi bazzicare i posti giusti!

– [Saverio] Mi dicevano. E io bazzicavo, ‘azzo se bazzicavo! Ho bazzicato tanto da metter su una collezione: quelle che parlano solo l’inglese, quelle che stanno appese al fidanzato, quelle troppo belle, quelle così così ma che comunque io sono senz’altro peggio, quelle che dove diavolo le porto con le tasche vuote…

– L’unica con cui ho combinato qualcosa era: bresciana, povera, brutta, tarchiata, parlava dialetto e non gliene fregava nulla di nulla. Però io le portavo i cornetti dalla fabbrica e lei suole, stringhe e tomaie varie, perché lavorava a ore a Vigevano ma mica poteva portar fuori le scarpe fatte e finite. Era un baratto più che un amore, ma insomma.

– Una volta ho deciso di portarla in camera mia, nella pensione dove stavo, per far l’amore al caldo, una volta tanto dico.

– Come siano entrati dalla porta c’era una cartello grande e grosso, scritto a mano, che non avevo mai visto: vietato salire. Pausa. Tipico delle pensioni familiari: accoglienza e sprezzo per la logica. Allora vado dal padrone e gli dico: che significa che è vietato salire?

– [Padrone della pensione] Significa che tu non lo devi leggere, ma lei e sposta il naso di mezzo centimetro è vietato salire.

– [Saverio] Rivolto al pubblico:  Grammatica…

Riprende il racconto.

– [Saverio] Ma allora se è vietato salire come facciamo ad andar su? Pausa. Mica l’ha presa bene questa. O non gli ero simpatico…

– [Padrone della pensione] Guarda biondino che se mi pigli per il culo ci vengo su io con te in camera.

– [Saverio] Biondino? Come se lo stesse chiedendo agli spettatori. Sarà. Io comunque non ci tenevo a farlo arrabbiare, ci tenevo a portarmi in camera la ragazza, così gli propongo: e se pagassimo doppio? Pausa. Ora io non so che cosa c’avesse questo qui. Fatto sta che è uscito, ha preso il cartello e l’ha corretto: “vietato salire lei”. Non sono delle belle parole. In quel mentre è entrato un altro operaio. S’è guardato in giro, ha letto il cartello… pausa ha riletto il cartello, e poi:

– [Altro cliente delle pensione] Ma ti te s’è pirla.

– [Saverio] Ed è salito. Un lampo. Pausa. Visto che c’ero, tanto valeva oramai, ho provato anch’io la parola d’ordine. “Pirla”, gli ho fatto, anzi col tono, come se fosse una domanda – pirla? – perché non ero tanto sicuro del fatto mio. Pausa. Mi sa che non era quella la parola giusta. Salire non mi ha fatto salire, però in compenso è salito lui ed è sceso con la mia valigia. E visto che anche gli stronzi sanno essere acuti ha ripreso il cartello e l’ha sistemato di nuovo.

Saverio va al tavolo e ne torno con un cartello scritto a mano. Se lo tiene di fronte al volto senza farlo leggere al pubblico, poi declama.

– L’ho conservato: vietato salire… lei… e anche tu. Mostra il cartello al pubblico.

– Al pubblico: A Manzoni andate voi a dirglielo per favore?

Ricomincia il racconto.

– Scombinato com’ero dopo ‘sta avventura, il giorno dopo arrivo mezz’ora in ritardo dalle mie amate brioche.

Si volta indietro come se stesse ancora controllando che nessuno lo segua.

– Ferma lì Tu! Rivolto a un’ipotetica brioche che lo stesse inseguendo…

– Già che c’ero, mezz’ora, un’ora era lo stesso, mi bevo un grappino prima di entrare e mentre sono lì sulla porta che vado verso lo spogliatoio mi becca il capoturno.

– [Capoturno] Lei che cosa ci fa qui?

– [Saverio] Entro, gli dico io. Rivolto al pubblico: Sempre compiacerli i capo turno che sennò si intristiscono. Quello però non si era compiaciuto mica tanto, anzi neanche un po’. Infatti mi chiede perché sono arrivato in ritardo. Perché m’ero dimenticato.

– [Capoturno] Di che?

– [Saverio] Di venire al lavoro.

– [Capoturno] Ma bravo.

– [Saverio] Ma grazie.

– [Capoturno] Adesso ci dimentichiamo anche.

– [Saverio] Perché, che altro?

– [Capoturno] La divisa.

– [Saverio] Cos’ha la divisa… si interrompe… non è proprio come la scabbia, però un capo che ti vuole rompere i coglioni guarda che riesce a essere davvero fastidioso. Insomma quello s’arrabbia e dice che già che c’ero per quella giornata potevo tornarmene a casa, che ero sospeso per un turno. Io ho provato a intenerirlo parlando di brioche e panettoni, della pasta, dei bidoni di marmellata… pausa e poi rivolto al pubblico: non fate quella faccia, le marmellate mica arrivavano nei vasetti di nonna Lucia lì, arrivano a bidoni tipo quelli del kerosene. Lui di tenerezza pochina, si vede che li conosce i panettoni e così insiste con questa storia della sospensione. Va a finire che lo spintono via e: io la giornata di sospensione non me la prendo. E lui acconsente.

– [Capoturno] Niente giornata di sospensione, ti metto in mobilità breve, ma così breve che neanche te ne accorgi.

– [Saverio] Come sarebbe?

– [Capoturno] Sarebbe che adesso ti levi dalle palle.

– [Saverio] Licenziato?

– [Capoturno] No, in ferie premio.

– [Saverio] Mi fa, e se ne va in direzione.

– Finito il lavoro alle Lemagna incominciato il periodo della matematica. Logico no?

– Spiego: coi soldi che m’ero preso dalla Lemagna tiro avanti ancora un paio di settimane e poi fine.

– Allora ho cominciato a fare il giro degli amici. Non è solo una tecnica, è un’arte. Arrivavo una mezz’ora prima di cena, esatta esatta. E quelli:

– [Amici di Saverio] Ma tu guarda Saverio! Ma quanto tempo, e come te la passi e che fai di bello?

– [Saverio] E poi uno strillo un cucina:

– [Amici di Saverio] Saverio cena con noi, vero che ti fermi Saverio?

– [Saverio] Signorsì che mi fermo. La prima volta. La seconda…

– [Amici di Saverio] Ma tu guarda Saverio… Sei tornato di nuovo, bravo, come te la passi, Maria c’è Saverio…!

– [Saverio] Fine... Da lì in poi diventa tutto difficile. Devi calcolare i cicli, le probabilità, gli orari dei pasti di ognuno, chi ha la moglie che cucina bene, i corsi e ricorsi, mettere d’accordo i dati con il tuo stomaco, armarti di fiducia nella bontà del prossimo e allargare il giro, a scadenze variabili, perché sennò quelli mangiano la foglia e mica si fanno più beccare con il cucchiaio in mano. Come se fosse una logica conseguenza. Mi sono appassionato della matematica.

– Già al terzo turno il: Ma tu guarda Saverio! Suona appena un poco meno minaccioso di una cartolina precetto, in tempo di guerra. L’amico ti guarda dalla porta di casa con quel leggero ritardo nel farsi da parte per lasciarti entrare che ti fa capire in un lampo che se non fosse un cristiano ben educato tra te e la sua cena metterebbe volentieri quattro o cinque mandate di un buon chiavistello. Ma se ti sei tenuto qualche notizia, magari dal paese, da spendere mentre si mangia, riesci ancora a cavartela. A partire dalla quarta passata non si può più essere sicuri di nulla. Le strategie per evitarti diventano complesse e tu devi stare al passo coi tempi. Ci sono interi gruppi di famiglie che passano la sera tutti insieme a turno in casa dell’uno o dell’altro per diminuire le probabilità che tu possa sorprenderli in casa. Altri strusciano i figli piccoli contro peli di gatto, polline primaverile e, se son proprio a corto, anche qualche fogliolina tenera d’ortica per procurare ai pargoli una salvifica allergia…

– Una volta poi sono arrivato da quello più fidato di tutti. Me lo ero risparmiato per un bel po’, per tenerlo di riserva per i periodi bui e quello era proprio un periodo buio. Avevo una fame. Beh, insomma, sono andato a trovarlo. Alle sette di sera: busso, mi aprono, sorridono e, vigliacchi, mi fanno sedere a una tavola piena di avanzi, briciole, bicchieri sporchi e bottiglie vuote: finita la cena, peccato Saverio, un caffè? Sorrido, bevo il caffè e torno, dopo due giorni alle sei e mezza. Sono tutti seduti a tavola e hanno appena finito di cenare, sorridono gli infami! Li batto sul tempo e gli dico che prenderei volentieri il caffè ma che proprio sono di corsa e non posso fermarmi. Digiuno ancora un paio di giorni, scrivo una finta lettera dello zio pommarolaro e torno a trovarli. Pausa: alle cinque e un quarto!

– Busso, gran rumore di sedie e piatti, poi la porta si apre sospira vistosamente tutta la famigliola seduta a tavola ha appena finito di mangiare. E allora ho capito: quelli tenevano due dispense, una buona che usavano per mangiare e un’altra fasulla, con piatti sporchi, bicchieri vuoti, avanzi e persino le briciole da spargere sulla tovaglia, macchiata a dovere!

– Si erano esercitati, al fatidico “Ma tu guarda Saverio!” in meno di due secondi tutta la famiglia mollava quel che stava facendo e si precipitava in cucina a imbandire una finta tavola di un finto fine pasto, e il piccolino, il più carogna, metteva pure su il caffè…

– Con Milano avevo terminato. Pausa. E dopo Milano c’è Torino per un immigrato del Salentino no?


Atto quinto, lavorare in Fiat

Saverio prende una panca dal fondo e la porta in avanti, ci si siede sopra, poi comincia a parlare…

– Io a Torino, ridente cittadina industriale sulla riva di tre o quattro fiumi che adesso non ricordo, ci sono arrivato in treno. E la stazione, per un immigrato come me, era anche l’unico dormitorio pubblico, solo che…

Va di corsa al tavolo, prende un berretto da carabiniere e se lo mette in testa, poi rivolto al pubblico.

– Nessuno si offende eh? Guarda il pubblico.

– Allora. Arrivo a Torino alle dieci di sera – orario che per le abitudini locali corrisponde a notte fonda – e mi metto a dormire sulla panca… questa. Alle dieci e cinque minuti arriva una coppia di carabinieri… e indica il cappello che ha in testa.

– [Carabinieri] Documenti!

– [Saverio] Che fantasia eh? Va beh.

– [Carabinieri] Documenti!

– [Saverio] E noi: documenti? Interlocutorio che non si sa mai. E loro:

– [Carabinieri] Documenti!

Pausa, rivolto al pubblico, scandendo le parole:

– [Saverio] Il primo carabiniere che mi chiederà, chessò, la fermata del ventotto anziché i documenti… giuro che lo bacio, a costo di rischiare l’oltraggio al pubblico e all’ufficiale! Ad ogni modo: chi ha i documenti li tira fuori, chi non ce li ha, aspetta a vedere come si mettono le cose. Loro ci guardano esterrefatti anche se non sanno come si fa, – e due carabinieri che ti guardano esterrefatti anche se non sanno come si fa non sono un bello spettacolo neppure loro – ci guardano esterrefatti e precisano:

– [Carabinieri] Documenti per dormire.

Guarda il pubblico interrogativo…

– [Saverio] Scompiglio… chi si rigira la carta di identità tra le mani per controllare che magari non ci sia da qualche parte una postilla dove si parli di dormire e riposare, chi tira fuori i certificati di vaccinazione, chi una foto della zia e chi una foto di San Giovanni pausa: per i non addetti ai lavori è il santo patrono di Torino… un tantinello ruffiani va bene? I carabinieri raccolgono tutto ma scuotono la testa, raccolgono identità, vaccinazioni e santini ma scuotono la testa.

– [Carabinieri] Con questi qui mica ci potete dormire.

Pausa.

– [Saverio] Il senso è oscuro ma il significato è lapalissiano… Rumore di scarpe infilate controvoglia, imprecazioni in quattordici dialetti diversi e un centinaio di poveri cristi che si preparano a far fagotto e a scarpinare angoli – angoli retti perché a Torino l’urbanista che facesse una curva verrebbe fucilato nello stadio… Saverio si ferma come folgorato e parla rivolto al pubblico… Ma è rotondo! Lo stadio di Torino! È rotondo! Pausa e poi riprende normale. Già però lì ci gioca la Juve che è dell’Avvocato… e già… Va beh. Allora questi cento e più fanno fagotto e io, senza vaccinazioni, senza santini, l’unica cosa che… Saverio si fruga in tasca… è una lettera che da Milano… estrae un pezzaccio di carta piegato e spiegato centinaia di volte, lo sventola… è andata a Salerno, s’è fatta il giro di quattordici famiglie, più amici e parenti, è tornata a Milano e finalmente è giunta a Torino con me. La… la mostra al pubblico e candisce le parole: la lettera di assunzione alla Fiat. Eh? Ora se qualcuno avesse cercato di spiegarmi che con un’assunzione si può convincere un pubblico ufficiale a lasciarti in pace, non ci avrei creduto. Ma quelli, come tiro fuori la lettera – a parte: cos’è riconoscono la grafia delle olivetti dell’ufficio personale della Fiat? La carta da lettere dell’avvocato? – quelli sorridono! Pausa. Anche se non sanno come si fa.

– Spiego. Nella stazione ferroviaria di Torino può dormire solo chi ha in tasca la lettera di assunzione della Fiat.

– E a proposito di Fiat, e del lavoro che facevo io… Si dirige verso il fondo del palcoscenico, e torna con il sedile anteriore di una cinquecento… il sedile della nuova Cinquecento! Lo sistema in mezzo al palco e ci si siede sopra, visibilmente scomodo; si agita un poco ma la situazione non migliora per nulla, anzi come cerca di assumere una posizione di guida si trova ancora più scomodo. Poi rivolto al pubblico: C’è poco da ridire. E tenete conto che oltre a tutto qui e si mette una mano in mezzo alle gambe c’è il cambio… e qui e si mette una mano all’altezza della gola… il volante con le frecce, il clacson e tutto quanto. E infine stringe le gambe e tira su le ginocchia…accensione? Dove cacchio… Sorride. Qui! E mimando il gesto dell’accensione a mano delle cinquecento fa il rumore del motorino d’avviamento…

– Et voilà, la nuova utilitaria per il Miracolo Italiano. Pausa.

– Non è che nel frattempo vi siete scordati del Miracolo italiano vero? È quello che dal Sud bisogna lavorare per il progresso e per una nuova dignità umana… esattamente la stessa reazione degli operai di Torino.

– E noi operai a Torino per lavorare a ‘sta cazzo di nuova dignità umana siamo arrivati in duemila nel sessantanove con la promessa, previa visita medica, di assunzione alla Fiat.

– Previa visita medica, appunto. Ci chiamano tutti e duemila, operai e impiegati… Gli impiegati li distingui perché come gli danno un numero e li fanno sedere in ordine alfabetico sono tutti contenti, gli operai… di solito… il numero… Saverio rigira tra le mani un foglietto senza sapere da che parte prenderlo. Gli operai il numero non sanno leggerlo.

– Entro nella stanza e…

– [Medico delle Fiat] Buondì neh.

– [Saverio] Che abbiano saputo anche loro della ‘Lemagna? Ma no, quello voleva dire “Buongiorno”. Così anch’io “Buondì, che si fa di bello qui?”. Guarda il pubblico, e si guarda.

– [Medico della Fiat] Scrivendo Sana e robusta costituzione fisica. Stanza appresso!

– [Saverio] Adesso non fate quelle facce! Ci sono duemila nuovi da assumere cosa volete che i medici se li studino uno per uno? Nella “stanza appresso” – appresso a che? – c’è un altro medico, uguale identico.

– [Altro medico] Spogliati.

– [Saverio] Anche le mutande?

– [Altro medico] Nudo spogliati. Nome? Cognome? Data di nascita? Luogo di residenza abituale?

– [Saverio] Io rispondo ma mi resta un dubbio: perché devo spogliarmi nudo per dire nome e cognome? E mentre medito, nudo, sul mistero…

– [Altro medico] Assunto.

– [Saverio] Che velocità eh?

– E dopo l’assunzione: Colloquio di benvenuto, che te lo danno una volta e poi non te lo scordi più. Arriva il capo dell’ufficio assunzioni, personale o quel che diavolo fosse. Si presenta, cognome e nome e inizia il colloquio… cioè inizia il colloquio lui accentando il pronome perché i colloqui in Fiat sono così: uno parla, la Fiat, e gli altri ascoltano. Dunque questo si presenta e via.

– [Capo ufficio assunzioni] Amici! Vi do il benvenuto alla Fabbrica italiana automobili Torino!

– [Voci sparse] E che cazzo è? Ma come la Fiat! A minchia la Fiat!

– [Capo ufficio assunzioni e Operai] Amici! Vi do il benvenuto alla Fiat a nome mio – Grazie, Prego – e a nome della Direzione che vi ha accettati – Bene, bravo, Grazie. Applausi. L’Ufficio personale vi manda a dire che è a disposizione di quelli che c’hanno dei problemi coi bambini, problemi personali, problemi sociali. Se vi servono dei soldi ce li chiedete. Ah, fanno i napoletani, io mi servono diecimila lire. No, ce li chiedete dopo accentuando l’avverbio che lavorate. Tipo stipendio? Tipo. Meno applausi. Ma quello imperterrito: Amici!

– [Voci sparse] Ma che minchia e minchia amici!

– [Capo ufficio assunzioni e Operai] Benvenuti alla Fiat. Sapete che cos’è la Fiat? La Fiat è tutto. Se avete letto delle cose, sono comunisti, che parlano male della catena di montaggio perché sono contro il progresso e lo sviluppo di una nuova dignità umana! Pausa. Aah, e dillo prima allora no? Alla Fiat stanno tutti bene, sono tutti per bene e sono ben contenti di lavorare. C’hanno tutti quanti l’automobile e poi la Fiat c’ha le colonie per i bambini dei dipendenti, che gli tagliano i capelli gratis, e certi negozi apposta che se uno è dipendente, bene, ci può andare altrimenti niente. Va bene? Bene! E che c’hanno sti negozi di speciale? Niente, sono i negozi della Fiat. Ah beh.

– [Saverio] Dopo di che io mi aspettavo un altro bel corso di formazione, che oramai mi ci ero affezionato ai corsi, invece alla Fiat non è che devi imparare il lavoro, devi solo abituarti. E come ti abitui compare un puffo: camice bianco, occhiali, cronometro e blocknotes.

– [Puffo cronometrista] Lei ci mette molto meno di venti secondi, ottimo! Pausa.

– [Saverio] I puffi bianchi sono degli elfi maligni che c’hanno tutti la erre moscia, così io li faccio parlare apposta senza usare parole con la erre, perché io la erre moscia proprio non la sopporto! Riprende.

– [Puffo cronometrista] Questo mese aumento di paga! Il successivo invece abbassiamo a tutti il rrrrritmo gli viene una erre moscia micidiale, si blocca, fa la faccia schifata e si raspa la gola…

– [Saverio] Va bene m’è scappata! Da capo.

– [Puffo cronometrista] Il mese successivo invece abbassiamo i tempi a diciotto secondi!

– [Saverio] Et voilà spiegato il mistero del cottimo e dei premi. Per forza uno poi diventa facinoroso, sabotatore e assenteista, nell’ordine.

– Io come assenteista mi ci trovavo benissimo. Ho imparato tutto: il grasso bendato sul dito, il sapone… bestemmiare in dialetto che impressiona sempre i medici quando ti visitano… le budella d’asina intorno alla bocca… e tutti gli altri trucchi per starsene qualche giorno a casa. Non mi guardate così, non ce la fai proprio. Finisce che torni a casa e per vincere da qualche parte diventi juventino. Giuro. Ho visto gruppi di operai andare in corteo con bandiere rosse e sciarpe della Juventus al collo. Ora non è che le altre squadre di calcio fossero gran che democratiche e progressiste, però proprio la Juventus a me…

Saverio si batte la mano di traverso sul petto, e questo gesto, piano piano, diventa il ritmo della canzoncina che accenna…

– Mh, mh… ma, ma, mamma mamma lo sai che c’è? Ho visto Maradona, ho visto Maradona, Innamorato son!

Crescendo e calando, poi… Pausa.

Così uscito dalla fabbrica dopo il turno dove vado?


Atto sesto, sindacato e rivolta

Saverio dal tavolo raccoglie uno “Stalin” (piccole bandiere rosse con bastone corto e tozzo) e un megafono.

– Non lo so. Però dopo ho capito. Dopo, voglio dire. Quando abbiamo cominciato a lottare per davvero. Che cos’è che ho capito? È semplice: tu sei la Fiat…

Saverio guarda tra il pubblico, come se qualcuno avesse preso il “tu” di “tu sei la Fiat” come appellativo personale, giunge le mani e le scuote, poi indica il supposto “azionista” Fiat e gli fa cenno di no con il dito…

– Tu sei la Fiat – buono eh? – e sei una, noi siamo gli operai e siamo centocinquantamila: che fai vieni e ci prendi a calci in culo uno per uno? Che intanto non ti basta il tempo, anche se i sindacati ti aiutano, perché ti aiutano, e poi se te ne dimentichi qualcuno che fai: lo mandi a chiamare con una lettera: Gentile signor operaio di merda verrebbe, per favore, domani in direzione a farsi prendere a calci in culo, sa com’è, ne avremmo un gran bisogno…

– E allora siamo andati diretti dal sindacalista e gli ho detto: Signor sindacalista dobbiamo lottare! E quello:

– [Sindacalista] Dopo.

– [Saverio] Come dopo?

– [Sindacalista] Dopo.

– [Saverio] D’inverno?

– [Sindacalista] D’inverno. Pausa.

– [Saverio] Ma lo sa lei, signor sindacalista che a ottobre ci serviranno i cappotti, le scarpe, ci servirà pagare il riscaldamento delle case, i libri della scuola in ottobre?

– [Sindacalista] Compagni, non bisogna lottare adesso. Le lotte le faremo in autunno, insieme al resto della classe operaia, insieme agli altri metalmeccanici. Adesso significa indebolire la lotta, dividere il fronte operaio, in poche parole essere dei provocatori e fare oggettivamente il gioco dei padroni.

– [Saverio] Grazie.

– Rivolto al pubblico: ve l’avevo detto che in corso Traiano eravamo diecimila provocatori fascisti? Guarda il pubblico: Non è che nel frattempo vi siete dimenticati che questa è la storia della rivolta si corso Traiano eh? Adesso ci arrivo, un momento ancora.

Pausa. Saverio si dirige verso il tavolo raccoglie un pacco di fogli, sono delle fotocopie di un volantino[3]. Scende dal palco e li distribuisce, senza parlare, ai presenti in sala, mentre si ascolta la canzone “Ballata della Fiat” di Alfredo Bandelli. È di nuovo sul palco prima che sia finita la canzone.

– Io ve lo potrei anche spiegare che cosa volevamo, però… si siede sulla sedia… il fatto è che volevamo davvero tutto. Beh, che ci crediate o no questo era quello che volevamo. Essere operai, avevamo capito, era quasi come essere nulla, e volevamo dirlo a tutti e dircelo tra di noi, dirlo a Torino. Sorride. Ah beh sì, certo, e anche smettere di essere operai della Fiat, volevamo, smettere di essere operai del tutto. Pausa. Per questo: assemblea e manifestazione cittadina, fissata per il giorno tre luglio del mille e novecentosessantanove. Pausa. È così che siamo finiti a corso Traiano, mica per far la rivoluzione. Però poi la battaglia c’è stata. Sorride di nuovo. Ma questo è l’ultimo atto, e adesso ci arriviamo.

Saverio dal cappello del tavolo estrae un riproduzione del volantino che ha appena distribuito in sala, ma molto più grande. La fissa sopra un sostegno e poi ritorna verso il pubblico. Si toglie di tasca un foglio, inforca gli occhiali da vista e legge.

– Leggo da un quotidiano dell’epoca che: “Nella giornata di ieri alcune centinaia di studenti e giovani operai immigrati hanno tenuto un’assemblea non autorizzata”. Allarga le braccia. “Elementi di dubbia provenienza politica hanno per ore fatto opera di provocazione incitando i compagni a ribellarsi alle direttive della Fiat!”. Pausa. Guarda il pubblico: A scanso di equivoci: questa non è mica la questura eh? Quando l’abbiamo letto noi, che erano mesi di scioperi e cortei contro la Fiat, le reazioni sono andate dal siciliano:

– [Operaio siciliano] Minchia!

– [Saverio] Al partenopeo: ‘Azzo.

– [Operaio piemontese] Al piemontese: Sum al pian de barbi…

– Riassumo il denso dibattito di quei giorni a vostro uso. Lavorare? No. Capi? No. Operai? No. Fine de dibattito. Due linee politiche a confronto: andiamo a impiccare tutti, dal fuorilinea in su – e questa era la tendenza moderato-revisionista – e: dov’è quel vecchio compagno partigiano che conserva ancora i fucili? Guarda il pubblico. Fochisti e spontaneisti, esatto.

– Dopo una estenuante mediazione, di quasi cinque minuti perché ne avevamo proprio i coglioni pieni di parlare, il compromesso è stato: domani manifestiamo per portare i nostri problemi in tutta la città… dopodomani… in armi compagni! Applauso, straccio in bocca al solito pessimista, pacca sulla spalla… guarda il pubblico: ho detto “pacca”! Pacca in spalla al sindacalista allibito e appuntamento per il tre luglio, primo turno, mille e novecentosessantanove, ai cancelli di Mirafiori.


Atto settimo: la battaglia di corso Traiano

Saverio in piedi. Recita tutte le voci.

Cinque di mattina.

Davanti ai cancelli carabinieri

camionette, volantini, poliziotti,

cartelli, crumiri, chiavi inglesi.

Dal turno di notte

- occhi rossi, braccia conserte –

escono operai che sorridono

e sorridendo fermano quelli che

la Fiat, il lavoro, la violenza…

Non entra nessuno. Oggi

sciopero generale a Mirafiori.

Sciopero e

aspettare fuori dai cancelli

ore da immigrati sotto il sole

sotto il sole dialetti

in tuta blu.

Mezzogiorno.

Poliziotti sudati, vicequestore nervoso:

corso Traiano.

Scarpe sul marciapiede, divise scure,

manganello, scudo, elmo.

In città intanto striscia il corteo dei sindacati

guardato a vista da se stesso

indifferente, inerme, inutile.

Davanti alla Fiat si aspetta.

Gli operai possono fare tutto.

Possono per l’aumento scioperare

e corteo per la casa possono fare.

Eleggere, Partito, sindacato, votare,

e si possono far licenziare.

Contro il cottimo ad alta voce gridare

ferie e pretese a un qualcun altro delegare.

Davanti alla Fiat intanto

si aspetta.

Perché possono fare tutto gli operai.

Possono essere comprati

possono essere venduti

possono – devono – essere

operai sfruttati.

E semmai dire che

non vogliono più essere operai.

Anche se “calma compagni”

Anche se “che fate?”

Anche se “provocate?”

Operai, silenzio, possono.

Operai, catena, dire.

Operai, potere, tutto.

Ma forse non ce la faccio più.

 

Tutto quello che gli operai possono

è di far le cose per bene

forti braccia e rumor di sirene.

Signorsì adesso ho capito

rispettare la legge, obbedire il partito.

Lottare con discrezione,

apprendere la lezione:

cortesia e legalità

piume di struzzo e taffettà.

E più invece quelli spingono

più noi alziamo i cartelli.

Vengono avanti le centurie rossoblu

dei carabinieri e le azzurre divise

della polizia di stato.

Vengono avanti e gli operai

- quante volte “operai”, quante volte –

si afferrano le braccia e restan fermi

mentre gli sputano in faccia le parole:

“Che vuoi tu? Che c’entri?”.

A dieci centimetri di distanza.

Il vicequestore Voria

paziente tuona

sotto la luce dei suoi quattro battaglioni

minacce alla macchia scura

di corso Traiano.

Ma di qui compagni

non si muove nessuno.

Nessuno nemmeno quando:

dalla radio, il comando

di caricare, l’ordine

giunge.

Squilli di trombe

segnale lanciato.

Ci sarà battaglia oggi

in corso Traiano.

Con il calcio del fucile

inferocito il volto, le gambe, la schiena

cercano disperati i colpi andati a segno

e il corpo di un ragazzo ferito

a braccia tese trascinato

da due donne in tuta da fatica.

Scappa figlio mio, scappa amore,

compagno scappa! Nasconditi! Vieni!

Soldati in divisa, scudo romano.

Tromboncino in canna, granate pronte.

Fucili imbracciati, ferma la mano

elmo abbassato a protegger la fronte.

Carri blindati, feritoie, rumori

un metà ci viene in contro sparando

l’altra accende urla di motori

e ci sorprende alle spalle caricando.

Ma questa volta non siamo scappati.

E sassi la nostra colonna sonora

sassi sui piloni della luce

sassi sul tetto delle jeep.

Dai blindati percossi i più giovani

non hanno il coraggio di scendere.

Sassi che fanno più rumore

della paura che abbiamo noi

della paura che hanno loro.

E in un istante si decide

che siamo abbastanza e abbastanza ne abbiamo.

Avanti compagni

un’altra carica ma

questa volta siamo noi:

siamo noi questa volta.

Da Borgo San Pietro e Nichelino:

quartieri proletari in rivolta!

Andiamo a cercarli

con una pietra in mano

un bastone

occhi rossi

e d’odio il volto coperto

e un fazzoletto per bandiera.

Notte che sembra notte e dura

tutto un giorno di

barricate cariche di rottami e rulli di tamburo.

Notte mentre tornano a casa.

Muratori, meccanici, facchini.

E vedono l’aria che non si può più respirare

né dalla bocca né dagli occhi

che bruciano senza piangere.

Notte e

tornano a casa quelli che abitano lì

insieme con

le cariche disperate della polizia

pentole dalle finestre

barricate di materassi e cestini per la spazzatura.

Giovani per terra

trascinati via.

Irruzioni nei bar che lasciano tramortiti

e botte ai vecchi

botte alle ragazze

botte agli studenti.

[…]

E voi?

Voi queste notizie non le potete sentire.

Avete le orecchie e il naso pieni di fumo

gas lacrimogeni e il fazzoletto sul volto.

Tam tam delle pietre

e la corsa, schivar di bastoni, cercar rifugio

e non volere

non volere proprio andar via.

 

Però correte, eccome se correte.

Sulla strada a precipizio, dal ponte

nei campi, in cerca di un sasso

di una cosa qualsiasi da lanciare.

E siete stanchi,

siete nel vostro letto quando bussano alla porta,

quando sfondano la porta e vi si portano via

calci e sputi.

Siete alla finestra

quando casa per casa, stanza per stanza,

tutti gli uomini

e i ragazzi

e le donne

vengono perquisiti e ammassati sui pianerottoli.

Siete agli angoli, pestati e sanguinanti.

Siete in gruppo

mentre tenete la posizione, raccogliete mattoni.

Guerriglieri di guerriglia.

Siete voi tra poco a gridare

che neanche i nazisti erano arrivati a rastrellare i quartieri in quel modo.

Voi avete preso il colpo, a voi fa male la schiena

e voi non riuscite a respirare

non ce la fate proprio.

Voi cercate i portoni socchiusi,

voi vecchie pazze fate fuggire i ragazzi

sul tetto, voi da Nichelino attraversate il ponte

per raggiungere, per gli amici, per i compagni.

Voi che siete proletari e non avete scampo.

Fabbrica o polizia.

A voi dicono di aspettare,

mentre il rumore e il gas ingombrano la strada.

A voi chiedono mentre scappate

di non andare troppo oltre,

di non mettere in pericolo la salute

la fabbrica, l’economia,

la barca su cui tutti….

Però voi

- Oh Dio! Voi questa volta

non avete nulla da perdere.

Voi imparate velocemente, tra gli urli e i colpi,

a costruire barricate.

E voi guardate esterrefatti

voi quei giovani operai che lontano lottano

e scendete in strada a dare una mano.

Voi che avete preso il quartiere,

la strada dove passano finalmente le vostre parole,

voi che volete, voi che tutto,

voi che questa volta non si contratta.

Voi che in faccia si sputa

rabbia e paura.

Voi - capitale tace,

poliziotto piace, giornalista pace.

Voi colonna

quando cala la notte siete di più

 e non di meno

voi inciampate

violate il rumore, che dura ancora, della rivolta.

Voi che ascoltate

voi me che parlo

voi: racconto di voi

che aspettate l’ultima carica della polizia

cercando di fare male,

di colpire il nemico

proletari uniti, zingari rossi, ultimi.

Voi gli avete fatto paura.

Saverio di ferma. Si ferma anche il testo, si fermano i rumori. Adagio.

Voi… Che cosa volete che vi dica? Tra sei mesi salta la bomba in piazza Fontana. Dicono che bisognerebbe conservare memoria. Io non so a che cosa serva la memoria. A non aver paura? A ricordarsi che noi facciamo il mondo e noi possiamo disfarlo?

Dicono che pochi giorni prima della caduta del governo repubblicano a Madrid piccoli furgoni girassero per le strade e i vicoli recitando i nomi dei traditori e dei fascisti intercalati dal monotono monito “recuerdas estos nombres”.

Ma io non li ho i nomi di corso Traiano, e poi chi ha tradito? Che c’entrano i fascisti? Pausa. E adesso? Guarda il pubblico. Va bene, vi lascio andare ho finito. Grazie a tutti, grazie agli uomini e alle donne di corso Traiano che, senza più nome, ripetono: che cosa vogliamo? Tutto, vogliamo tutto.

                                                                                  Ezio Partesana


[1] Da sostituire con la data nella quale si tiene la recita…

[2] Trovare la data esatta di istituzione della Cassa e calcolare, prima di ogni recita, il tempo trascorso.

[3] In appendice a Diego Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano, Bfs Edizioni, Pisa 1997, p. 121. (Almeno per adesso…).