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ZUDA

Commedia in tre atti

di GIUSEPPE LANZA

PERSONAGGI

GIACOMO ZUDA

MATILDE

ALBERTO

LA ZIA LUCREZIA

TALLURI - BARNABO'

TERESA

DUE CAMERIERE

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

(Una stanza va­ sta, arredata all’antica, con una certa aria pa­triarcale. In fondo, una porta vetrata che dà su una veranda, donde  si scende in giardino. La comune a destra in fondo. A sinistra, in primo piano, un divano, due poltrone e un tavolinetto. Sopra il divano, appeso alla pa­rete, il ritratto ad olio di una bambina. Verso il fondo, una consolle con sopra uno specchio. E1 un mattino chiaro di autunno).

Alberto                          - (seduto al tavolinetto, fa la prima colazione, il cui occorrente è in un vassoio. E' un giovane di venticinque anni, magro e un po' pallido, di media statura e dall''aspetto molto serio. E' vestito modestamente ma con innata eleganza. Dal modo come, mangiando, guarda attorno a se, si capisce che è nuovo della casa).

La zia Lucrezia             - (entra dopo un poco dalla comune. E' una vecchietta di circa settant’anni, magra e asciutta; sempre gaia, quasi vispa. S'ap­poggia a un bastoncino dì cui all'apparenza non dimostra la necessità) Buon giorno!

Alberto                          - (alzandosi) Oh, signora.

Lucrezia                        -  Segga, segga, e continui. Ha dor­mito bene?

Alberto                          -  Bene, signora. Grazie.

Lucrezia                        -  Se non siede e se non continua a mangiare, me ne vado. (Alberto siede. Siede anche lei). Là. Qui, sa, tutto alla buona. Niente etichetta. Io poi la gente che fa complimenti non l'ho potuta mai soffrire. Senza dire che è ridi­colo fare complimenti in questa vecchia bicocca.

Alberto                          -  Questa... « vecchia bicocca » è una bella casa.

Lucrezia                        -  Era. Quando ci stava gente gio­vane e viva. Ora ci sta solo una vecchia. E' di­verso, anche se i muri e i mobili sono gli stessi. E come va, lei, solo solo? Quel dormiglione di Giacomo non s'è ancora levato?

Alberto                          -  S'è levato prestissimo, invece. La cameriera m'ha detto che è uscito all'alba.

Lucrezia                        -  All'alba? (Ridendo) E' più pazzo di sua zia. Sua zia sono io: i miei parenti mi chiamano « la vecchia pazza ». E sa dov'è an­dato? Ma già, se è uscito all'alba, non può essere andato che in campagna: la sua passione, sin da ragazzo. E là, a Roma, si alza sempre così presto?

Alberto                          - (un po' confuso) Non so: io lo co­nosco da qualche mese soltanto.

Lucrezia                        -  Ah sì?

Alberto                          -  La sorprende, eh?

Lucrezia                        -  No. Perché mi dovrebbe sorpren­dere? Perché ho visto che Giacomo le vuol bene?

Alberto                          -  Tanto e tale bene che... non so se lo merito.

Lucrezia                        -  Là, là.

Alberto                          - (commosso) Davvero, signora. A volte, se penso al modo come ho conosciuto suo nipote, come lui m'ha accolto, a quello che ha fatto per me, mi pare di sognare. Non le parlo del coraggio, della fiducia in me che m'ha dato, che pure è un beneficio immenso; ma anche... Io ero nella miseria; e lui, quasi per forza...

Lucrezia                        - (interrompendolo) Il latte le si raffredda. Finisca di far colazione. (Alberto china il capo sul vassoio e riprende a mangiare. Ella lo guarda con compiacenza sorridente, bat­tendo lievemente il palmo della mano sul pomo del bastoncino e alzando e abbassando il capo come ad approvare. Dopo una pausa) Si ricordi che questa casa, sin che ci sta, deve essere come casa sua.

Alberto                          -  Grazie, signora.

Lucrezia                        -  Questo è il secondo grazie che mi dice. Al terzo ci guastiamo.

Alberto                          - (sorridendo) Quasi le stesse parole che mi disse suo nipote il giorno che lo conobbi.

Lucrezia                        - (ridendo) Non le ho detto che mi somiglia? « Pazzo e superbo come la zia », han­no sempre detto in paese.

Alberto                          - (meravigliato) Superbo, suo ni­pote?

Lucrezia                        -  Con certuni e in certe cose. Santa superbia. Però la mia pazzia e la mia superbia sono state sempre allegre, e le sue no, nemmeno quando era ragazzo. Com'è d'umore a Roma?

Alberto                          -  Non è triste, ma...

Lucrezia                        -  Ma nemmeno allegro, eh?

Alberto                          -  Mi pare che nei suoi occhi ci sia sempre come un velo di malinconia. Forse non è nemmeno malinconia. Non so... lo sguardo un po' assorto, un po' lontano. Oh, ma quando fissa qualcuno, specialmente se è qualcuno che lo interessa, e quando parla di certe questioni d'arte, allora il suo sguardo si fa così vivo, in­tenso, penetrante...

Lucrezia                        -  Frequenta molta gente? Fa una vita movimentata?

Alberto                          -  Al contrario: ritiratissima.

Lucrezia                        -  Vecchia e cattiva abitudine.

Alberto                          - (sorridendo) Perché cattiva?

Lucrezia                        -  Perché... Ma già, lei dev'essere della stessa razza: si vede dagli occhi. Inutile perciò toccare questo argomento. Piuttosto mi dica una cosa. Ieri sera, quando siete arrivati, io ero così -  non agitata, eh, perché io non mi agito mai -  ma... c'era molta confusione, ecco; e non ho potuto parlare con Giacomo di certe cose. Mi dica: sa quanto ha intenzione di stare qui?

Alberto                          -  Qualche giorno, mi disse a Roma prima di partire.

Lucrezia                        -  Qualche giorno? Dopo tanti anni si decide a venire e ci sta qualche giorno? (Al­zandosi) Ma è matto da legare. Gli farò vedere io !

(Dalla veranda entra Giacomo),

Giacomo                       - (è un uomo di quarantacinque anni, di media statura e ben piantato. Signore nell’abito e nel tratto, estremamente parco nei gesti. Gaio) Che cosa mi farai vedere, zietta? (Le bacia la mano, poi dà la mano ad Alberto) Buon giorno, Alberto.

Lucrezia                        -  Qualche giorno? (Quasi lamen­tosa) Starai qui soltanto qualche giorno?

Giacomo                       -  Non ti metti mica a piangere, eh?

Lucrezia,                       - (stizzita) Che piangere ! che pian­gere! Io non ho mai pianto nella mia vita. Puoi andartene oggi stesso, se vuoi.

Giacomo                       - (cingendole affettuosamente le spalle con un braccio) Non oggi e nemmeno domani-  per quanto la vista idei mio caro paese, o me­glio di certe facce di miei compaesani, mi abbia già messo addosso una voglia matta di scappare. (Ad Alberto) Ti sorprende, eh?

Alberto                          -  Un poco. (Alla zia) Durante il viaggio mi ha parlato della Sicilia e del carat­tere dei siciliani con un entusiasmo tale...

Giacomo                       -  E appunto per questo. Non posso vedere senza soffrirne la minima alterazione di quell'immagine ideale che lontano di qui mi faccio della mia terra e dei miei conterranei -  e che in buona parte corrisponde alla realtà.

Lucrezia                        -  E' vero che sei uscito all'alba? Dove sei  andato?

Giacomo                       -  Indovina. A Cafeci! (Ad Alberto) E' una campagna bellissima in cui ho passato gran parte della mia infanzia. (Alla zia) Ma che delusione, zia! Tu da quanto tempo non ci vai?

Lucrezia                        -  Non me ne ricordo nemmeno". Ma certo da prima che la tenuta passasse nelle mani di tuo zio Nicola.

Giacomo                       -  Se vedessi! Magari ci sarà poco di mutato, ma è un'altra cosa. Ti ricordi, il carrubo grande e quei magnifici cipressi? (Ad Alberto) Alberi secolari che davano alla tenuta una fisonomia singolarissima, maestosa. (Alla zia) Spariti!

Lucrezia                        -  Tuo zio Nicola diceva che davano troppa ombra alla vigna.

Giacomo                       -  Bastava levare la vigna.

Lucrezia                        -  Quello si sarebbe fatto tagliare una gamba, piuttosto di far tagliare una vite. E dimmi una cosa: hai visto i tuoi cugini?

Giacomo                       -  No, grazie a Dio. (Ad Alberto) Gente che non posso soffrire. E loro, natural­mente, non possono soffrire me. (Alla zia) Chi sa quante maledizioni avranno mandato allo zio Nicola che si permise di morire senza fare te­stamento.

Lucrezia                        -  Erano verdi dalla bile!

Giacomo                       -  E va là che anche quella buona­nima, all'altro mondo, non se lo perdonerà di avermi lasciato, senza volere, suo erede. {Ad Alberto) Uno zio, vedi... Basti dirti che ho preferito soffrire la fame piuttosto di chiedergli an­che un piccolo aiuto.

Lucrezia                        -  Che hai detto? La fame?

Giacomo                       - (pentito per esserselo lasciato sfuggire, sorridendo) Eh sì, zietta:  qualche volta.

Lucrezia                        - (accorata) Ma quando?

Giacomo                       -  Quando nessuno comperava i miei quadri.

Lucrezia                        -  E io, non c'ero? Non potevi scri­vere a me?

Giacomo                       -  Tu non hai mai avuto da scialac­quare. E poi m'ero incaponito a non chiedere niente a nessuno.

Lucrezia                        -  La solita superbia!

Giacomo                       -  No, zia: non per superbia. M'ero messo su una strada diversa da quella su cui ero stato indirizzato, e volevo comunque bastare a me stesso. Del resto non ho mai chiesto niente a nessuno. (Ad Alberto) In questi casi, per poter chiedere aiuti a fronte alta, cioè non da mendi­cante, bisogna avere la certezza di aver fatto o di poter fare opere grandi. Ora di questo io non avevo nemmeno l'illusione. M'ero messo a fare sul serio il pittore con la stessa rassegnazione un po' disperata con cui si accetta un'infermità inguaribile. Né, conoscendo i gusti che corrono, ero così ingenuo da farmi illusioni sulle possi­bilità pratiche della pittura che facevo io. (Alla zia, gaio) Come vedi, zietta, anche la fame era prevista.

Lucrezia                        -  Ma ora guadagni abbastanza?

Giacomo                       -  Eh, sin troppo. E non credere che ora io valga molto più di quanto valevo dieci anni fa. No. Ma sono stato, come si dice, lan­ciato. (Ad Alberto) Dal caso, naturalmente.

Alberto                          -  Soltanto dal caso, no.

Giacomo                       -  Dal caso, soltanto dal caso, mio caro. Il principio della fortuna di un artista -  come del resto il principio di tutto -  è sempre opera del caso. Guarda. Dieci anni fa io avevo già fatto il quadro « Amleto », che ora molti giudicano come una delle mie cose più signifi­cative. Ebbene, allora mi fu respinto ignominio-samente da ben otto esposizioni. Ricordo che dopo l'ultimo tentativo infelice presso un'esposi­zione di Firenze, pregai un amico che si trovava là di offrire il quadro per quattrocento lire -  cioè il costo della cornice -  a una specie di galleria che comperava lavori di pittori esor­dienti. Il proprietario della galleria -  sono con­tento di non averne saputo il nome -  disse al mio amico che per quella cifra avrebbe comprato la cornice, se non ci fosse stata dentro quella tela. Parliamo d'altro. Zia Lucrezia, perché mi guardi così? Sembri caduta dalle nuvole.

Lucrezia                        -  Figliolo mio, m'hai detto certe cose... certe cose... Se io avessi soltanto immagi­nato... M'hai messo una spina nel cuore, davvero!

Giacomo                       -  Ma no, zia. Io sono contentissimo d'essere vissuto come sono vissuto e d'aver pro­vato quello che ho provato. Perciò niente spina nel cuore, eh. E poi, ora, te l'ho detto, sto sin troppo bene. (Ridendo) Mi capitano anche delle eredità inaspettate e indesiderate... A proposito: non credere che io sia venuto in paese per l'ere­dità. Quando il cugino Salvatore mi scrisse che era necessaria la mia presenza per la divisione, io avevo già deciso di venire. Anzitutto per rivedere te, e poi anche per rivedere la mia terra. In quanto all'eredità: sai di che si tratta, più o meno?

Lucrezia                        -  La tenuta di Cafeci e qualche altra piccola cosa. Dei titoli e dei contanti a quest'ora in casa non ci sarà nemmeno l'odore.

Giacomo                       -  E la terza parte della tenuta, quanto può valere? No, non lo voglio sapere. Pensavo di costruirmi lassù una casetta a modo mio, ma stamattina l'idea è svanita. Non è la stessa campagna di un tempo: non mi attrae più. E poi, troppa vicinanza coi miei cari cu­gini. Senza dire che per la divisione...

Lucrezia                        -  Già i tuoi cugini sono venuti a pregarmi -  e non ti dico con quanti salamelec­chi: c'era da spassarsela -  a pregarmi di in­durli ad accettare la parte della tenuta più vi­cina alla strada.

Giacomo                       -  La meno bella, naturalmente.

Lucrezia                        - (rifacendo la voce) « Se poi lui -  dice quel birbante di Cristoforo che la sa sempre lunga -  lui che è un artista eccetera eccetera, e non si diletta di campagne, volesse sbarazzarsi della sua parte... a un prezzo ragio­nevole... ».

Giacomo                       -  Io faccio di più: rinunzio all'ere­dità.

Lucrezia                        - (di cuore) Bravo! (Ma poi) No: regalarla a loro, in coscienza, è un peccato mortale.

Giacomo                       -  Zia, la vuoi tu?

Lucrezia                        -  Io? Io, prendere la roba di Ni­cola Fongiuto? Nemmeno se mi trovassi in mezzo alla strada!

Giacomo                       - (cingendole le spalle col braccio) E poi dice superbo a me.

Lucrezia                        -  Io non ho  bisogno: per  quel poco che mi resta da vivere, ne ho abbastanza. Piuttosto fa qualche opera di carità.

Giacomo                       -  Ecco: sarà meglio che regalarla a loro.

(Sulla comune appare la cameriera).

La Cameriera                -  C'è don Cristoforo e don Salvatore.

Giacomo                       -  Falli aspettare. (La cameriera esce) Zia, fammi il favore: ricevili tu di là. Non ho proprio voglia di vederli in questo mo­mento. Di' che io non posso, che ho degli ospiti, che sono ammalato, che non sono in casa: quello che vuoi. Di' che per la divisione li ac­contenterò in tutto e per tutto, ma che almeno per oggi mi lascino in pace. E sii gentile, mi raccomando.

Lucrezia                        - (avviandosi e tentennando il capo) Devo essere anche gentile!... (Esce dalla co­mune).

Giacomo                       -  Non puoi immaginare, caro Al­berto, che cosa sia per me stare, parlare con certe persone, su certi argomenti. Mi prende un disagio fisico insopportabile: come se mi man­casse l'aria. Perché mi guardi così?

Alberto                          - (come destandosi) Pensavo a quel­lo che tu hai dovuto soffrire, a ciò che hai fatto per me, alla tua generosità...

Giacomo                       -  Caro Alberto, ti prego seriamente di non parlare mai più di generosità. Convinciti di questo: che io considero un bene prezioso l'averti conosciuto. A parte le tue qualità di artista -  che era mio dovere notare e cercare di far notare agli altri -  io ho sentito in te, per sentimenti, per aspirazioni, un fratello. Il resto per me non ha nessun valore -  e non deve averne nemmeno per te. Capito? (Gli batte affettuosamente la mano sulla guancia).

Alberto                          - (a cui la commozione impedisce di parlare, gli prende la mano e gliela stringe ca­lorosamente tra le sue).

Giacomo                       -  Piuttosto, caro Alberto, quasi mi pento di averti fatto venire quaggiù. Speravo di farti distrarre, ma ora temo che t'annoierai mor­talmente. Bisogna che ci buttiamo alla campa­gna: non c'è scampo. Hai visto il panorama dal­la veranda? (Va sulla veranda).

Alberto                          - (lo segue) E' l'Etna?

Giacomo                       -  Sì. E quelle montagne, a sinistra, sono le Caronie. Laggiù c'è la valle del Simeto e quaggiù quella del Dittamo. Quelle macchie biancastre sono paesi.

Alberto                          -  Avevi ragione: è una veduta dav­vero impressionante.

Giacomo                       -  Non è vero che ha qualcosa di bi­blico?

Alberto                          -  Vero.

Giacomo                       -  Dall'estremità del giardino, che è quasi a picco su una breve valle, la vista fa più effetto. E vedrai quando quelle montagne e le nuvole e il cielo s'accendono nel tramonto: un aspetto grandioso, irreale, e sopra tutto esal­tante. (Assorto) Certi tramonti contemplati da ragazzo, arrampicato al muretto che è in fondo al giardino! Le montagne e le nuvole, a quell'ora, erano per me come gloriose apparizioni. Studiavo la storia romana; e oltre quelle mon­tagne e quelle nuvole io vedevo Roma -  e, non so perché, il Campidoglio. Me lo figuravo come un giardino altissimo in cui passeggiavano si­lenziosamente gli eroi che avevano dato un senso alla loro vita esponendola per la patria o per una fede. I polmoni mi si dilatavano, il cuore mi batteva forte -  e tornavo a casa quasi senza vederci, con l'affanno. (Breve pausa). E queste visioni furono il mio primo nutrimento spiri­tuale. Forse devo a esse il bisogno di alte con­quiste che non ha mai cessato di torturarmi, e la ripugnanza per le cose facili, per tutti gli accomodamenti e i compromessi. (Sorridendo) Quella che certuni chiamano la mia superbia.

Alberto                          -  Quando hai incominciato a dipin­gere?

Giacomo                       -  Non me ne ricordo nemmeno.Forse prima di imparare a leggere. Con dei co­lori all'acquerello trovati in fondo a un casset­tone: ricordo di scuola di mia madre. Ma non sognavo di diventare un pittore, nemmeno nella prima giovinezza. La pittura mi pareva -  e a volte mi pare ancora -  un'arte di possibilità assai limitate: incapace cioè di poter esprimere quegli elementi spirituali che possono avere nel­la vita degli uomini un'importanza capitale.

Alberto                          -  Anch'io ho spesso pensato questo. E ogni volta, un senso di scoraggiamento, di oppressione... Ma poi la povertà, e anche il bi­sogno di evadere in un modo qualsiasi dalla so­lita vita banale, mi spingevano a lavorare con una specie di accanimento iroso. Tanto, mi di­cevo, è l'unica cosa che ora possa fare senza di­sgusto; poi vedrò.

Giacomo                       - (sorride) Proprio così. Una gran cosa, caro, la povertà. Ti mette i paraocchi e ti obbliga a camminare dritto sulla strada che hai davanti come se fosse l'unica strada esistente. Ci credi che a volte la rimpiango? Non è una posa, credimi. La rimpiango quando m'assale quel senso di smarrimento... Ti è mai capitato di uscire di casa per fare qualche cosa e poi di­menticare in istrada il motivo per cui sei uscito, provando un malessere strano, come il senso di un vuoto improvviso? Lo stesso senso di vuoto io provo a volte pensando, senza volerlo, alla mia vita. Mi pare di aver saputo sino a un mo­mento prima lo scopo preciso della mia vita -  uno scopo nobile, grande -  e di averlo im­provvisamente dimenticato. E allora il luogo dove mi trovo, le persone che mi parlano, la mia stessa persona, il mio volto, le mie mani, il suono della mia voce -  tutto mi si fa ad un tratto infinitamente strano, irreale. Sento nel cervello qualcosa che si tende e stride, come un ingranaggio che stenti a ritrovare il proprio moto -  e poi... quel vuoto. (Breve pausa). Ed è allora che per vincere lo smarrimento che quasi mi fa gelare il sangue nelle vene, per sentirmi vivo...

Alberto                          - (sorridendo appena, ma senza ma­lizia) Le donne.

Giacomo                       -  Ma non ne cerco, te l'assicuro.

Alberto                          -  Accogli quelle che ti cercano. Molte -  almeno da quanto si dice a Roma.

Giacomo                       - (senza nemmeno l'ombra di compia­cimento, anzi con un lieve fastidio) Ma niente di sostanziale, caro Alberto. Qualche ora di asso­pimento: nient'altro. Tutt'al più, nei casi più benigni... Sai, quando si spremono i colori sulla tavolozza e se ne sente l'odore: quel lieve or­gasmo che ti fa quasi vedere l'opera compiuta? Ma ci vuole ben altro per l'opera!

(Pausa).

Alberto                          -  Forse fai male a vivere così, solo. Io penso che per poter vivere serenamente e de­gnamente, noi dovremmo impegnare la nostra vita non solo nell'arte, ma anche in qualche cosa di umano estraneo all'arte: amare fortemente, farci una famiglia, crearci delle responsabilità, dei doveri.

Giacomo                       - (assorto, con un sorriso triste) Ma quando questo non avviene da sé, naturalmente... cercarlo è come cercare uno stordimento qual­siasi.

Alberto                          -  Non cercarlo: volerlo. E' diverso. La propria vita bisogna -  come dire?  farsela da sé. Io non credo al fatalismo e a tutte le fa­mose incoscienze sentimentali. Non c'è niente di incosciente in noi -  non dev'esserci. I nostri sentimenti, i nostri pensieri, anche le nostre sen­sazioni, possono, devono essere coltivati e guidati dalla nostra volontà. Solo così si può vivere in pace con sé stessi. Perché sorridi? Ho detto cose assurde?

Giacomo                       - (con un sorriso disfatto) No, caro. Sorridevo considerando che ci siamo messi a parlare della vita, della nostra vita da vivere, tu che hai venticinque anni e io che ne ho qua­rantacinque. Quello che hai detto, l'ho pensato anch'io tante volte. Ma, vedi, la volontà, in que­ste cose, conta sino a un certo punto; e quasi sempre vale soltanto come freno. Se sapessi con quanta gioia io mi sarei create le responsabilità di cui hai parlato, se avessi incontrato la «mia» donna... (Prendendolo per il braccio e conducen­dolo davanti al ritratto appeso alla parete, con un'animazione timida e insieme un po' esaltata) Una donna, per esempio, che avesse qualcosa di quello che prometteva questa bambina. Guarda, guarda. E' il mio quadro ch'io amo di più.

Alberto                          - (dopo averlo guardato) Davvero?

Giacomo                       -  Ti stupisce? Perché ci sono dei difetti? Ma che vale! Guarda il viso, gli occhi, l'espressione...

Alberto                          - (guardando il ritratto) Strano... Più si guarda e più si ha l'impressione di tro­varsi davanti a un viso...

Giacomo                       -  Davanti al viso di una creatura viva, vero? E che creatura. Guarda, guarda. (Breve pausa). Tu non puoi immaginare cosa sia stato per me, dieci anni fa, il vedere questa bam­bina: una letizia profonda, una chiarità e una lievità nuove, il rinascere dolce di speranze che mi pareva di aver perdute per sempre. Dopo, quasi me, ne dimenticai: lavoravo, lavoravo con una specie di frenesia. Ma negli ultimi tempi, nel vuoto profondo che il successo mi ha la­sciato dopo il primo momento di ebbrezza, ho capito a poco a poco che qualcosa della luce di questi occhi ha per dieci anni illuminato sempre la mia vita e la mia opera.

(Entra zia Lucrezia).

Lucrezia                        -  Ce n'è voluto, sai, per mandarli via. Ma torneranno domattina. Che hai, Giaco­mino? Sembri stanco. Eh, sfido: con la leva­taccia che hai fatto! Non ci sei certo abituato.

Alberto                          -  Se vuoi riposarti, non fare com­plimenti. Io vado a fare un giro in giardino.

Giacomo                       -  Sì: va' caro. Ne vale la pena. Poi, dopopranzo, faremo insieme una passeggiata più lunga.

Alberto                          -  Permetta, signora. (Esce dalla ve­randa).

Giacomo                       -  Ti piace, il mio giovane amico?

Lucrezia                        -  Sì, è molto simpatico. E' pittore anche lui?

Giacomo                       -  Sì. E ha molto talento ; molto più di quanto lui stesso immagina. Ma quello che più conta, è che è un uomo sul serio: uno di quegli uomini la cui amicizia conforta a vivere.

Lucrezia                        -  Tu hai bisogno di conforto per vivere?

Giacomo                       - (sorridendo) Ma tutti, zietta, ne abbiamo bisogno.

Lucrezia                        -  Hm! hm!

Giacomo                       -  Cos'è, non ti piace quello che dico ?

Lucrezia                        -  Non mi piace questa piega, qui, agli angoli della bocca.

Giacomo                       - (cingendole le spalle col braccio e conducendola verso il divano) Cara zia Lucre­zia che vede anche le pieghe agli angoli della bocca. (Siedono). Vicino a te, vedi, mi risento bambino, col cuore leggero leggero.

Lucrezia                        -  Ora sorridi davvero come da bambino. E hai anche lo stesso sguardo di al­lora; ma come quando tua madre era uscita e tu la cercavi invano cogli occhi.

Giacomo                       -  E ti ricordi quando la mamma... uscì per l'ultima volta?

Lucrezia                        -  Vecchia stolida che sono. Scu­sami, caro.

Giacomo                       -  No, zia. Anzi mi fa piacere. Non esagero se ti dico che sono venuto in paese an­che per sapere da te qualche cosa, molte cose della mia infanzia: com'ero di umore, i giochi che preferivo, le domande che vi rivolgevo...

Lucrezia                        -  Per che fartene?

Giacomo                       -  Così... Mi prende a volte il desi­derio di ricostruirmi davanti agli occhi tutta la mia vita.

Lucrezia                        -  Di': hai avuto qualche delusione d'amore?

Giacomo                       -  No, zia. Delusioni d'amore serie, davvero serie, non ne ho mai avute.

Lucrezia                        -  Mai... è male.

Giacomo                       -  Ma perché mi hai domandato se avevo avuto delusioni d'amore?

Lucrezia                        -  Perché quasi le stesse parole che mi dicevi tu me l'ha dette Matilde.

Giacomo                       -  Chi?

Lucrezia                        -  Matilde, la figlia di Assunta: non ricordi? Quando era bambina le facesti il ri­tratto. Quello là. (Indica il ritratto appeso alla parete).

Giacomo                       -  Eh, altro se ricordo! Matilde! Matì! Allora poteva avere dodici anni.

Lucrezia                        -  Ora ne avrà ventidue. E la ve­drai: deve venire tra poco. Be', quando tornò in paese...

Giacomo                       -  Perché, è stata fuori?

Lucrezia                        -  Ma come, non lo sai? Appena laureata -  era già orfana da un anno -  ebbe il posto di professoressa in continente, e partì. Era fidanzata con uno di fuori e doveva sposare presto. Ma un bel giorno me la vedo spuntare qui all'improvviso. Tu sai che con Assunta, sua madre, eravamo come sorelle; e anche a lei ho sempre voluto bene. E lo merita, sai: non è come le pettegole smorfiose di qui: è una ra­gazza come si deve, ferma, dritta...

Giacomo                       -  Insomma, ti va a genio, che non è cosa facile.

Lucrezia                        -  Be', come dicevo, me la vedo spuntare qui. « E il fidanzato, Matì? ». E lei, secca secca: « Non sono più fidanzata ». E non levava gli occhi da quel ritratto. Poi è tornata altre volte, e sempre gli occhi al ritratto. Dice che le fa ricordare... le fa vedere... non so che cosa.

Giacomo                       -  E ora che fa?

Lucrezia                        -  Mah! Vive con la sua vecchia ca­meriera; sta sempre in casa; non vuole vedere nessuno, nemmeno i parenti; ogni tanto se ne va sola in campagna, oppure viene qui, si siede là a guardare il ritratto, e mi domanda se le so­migliava e com'era lei da bambina...

La Cameriera                - (sulla comune) C'è la signo­rina Matilde.

Lucrezia                        -  Oh, eccola qui: te lo dicevo. Falla entrare. (La cameriera esce). Se non ti riesce simpatica, la mando via subito.

(Entra Matilde).

Matilde                         - (ventidue anni, di media statura; slanciata e ben fatta; capelli castano chiaro; fisonomia seria, quasi altera. Niente di provinciale nell’abito e nei modi, e niente pose) Buon giorno, donna Lucrezia. (Ombrandosi alla vista di Giacomo) Oh, scusi: credevo che fosse sola.

Lucrezia                        -  Non lo riconosci? E' mio nipote Giacomo.

Giacomo                       - (s'inchina).

Matilde                         - (rischiarandosi in uno stupore lieto) Oh! (Gli stende la mano) Sono tanto contenta di conoscerla -  cioè di rivederla -  non so come dire: non ricordavo più la sua fisonomia.

Giacomo                       -  Diciamo: contenti di riconoscerci.

Matilde                         -  Ecco. (Dopo un momento d'imba­razzo) Se avessi saputo che c'era qui lei, non sarei venuta.

Giacomo                       -  Questo non è molto lusinghiero per me.

Matilde                         -  No: volevo dire che non sarei ve­nuta a chiedere alla signora quello che volevo chiederle.

Lucrezia                        -  Sedete, per l'amor di Dio! Così, in piedi, mi fate girare la testa. (Giacomo e Ma­tilde siedono). Oh! E ora di' pure, Matì.

Giacomo                       - (vedendo Matilde imbarazzata) Se desidera parlare da sola con la zia...

Matilde                         -  No: tanto lei dopo lo saprebbe lo stesso. E poi sua zia mi direbbe che divento smorfiosa.

Lucrezia                        -  Meno male che mi conosci.

Matilde                         - (alla zia, decisa) Ecco di che si tratta. Oggi arriverà in paese una persona che io non voglio vedere. Le faccio dire dalla came­riera che sono partita da due giorni. Ma biso­gna che io non mi trovi in casa davvero, per evitare... lei capisce. Ho pensato: dove me ne vado? Dai miei parenti, no. Me ne vado da don­na Lucrezia.

Lucrezia                        -  E sei venuta.

Matilde                         -  Ma ho fatto male.

Lucrezia                        -  Perché hai fatto male? Sentiamo.

Matilde                         -  Lei ha qui suo nipote...

Lucrezia                        -  E be'? Hai paura di mio nipote? (A Giacomo) Tu hai paura di lei? (Giacomo e Matilde si guardano sorridendo) Di antipatia non ne parliamo, perché quella, quando c'è, si sente nell'aria al primo momento. E dunque hai fatto bene a venire, e farai benissimo a restare. La casa è grande, il giardino più grande ancora: vuoi stare dentro, stai dentro; vuoi andare fuori, vai fuori. Qui ognuno fa quello che vuole.

Matilde                         -  Grazie, donna Lucrezia.

Lucrezia                        -  E levati il cappello, per favore.

Matilde                         - (levandosi il cappello) Ah, già: dimenticavo che lei non può vedere in casa don­ne col cappello.

Lucrezia                        -  Mi dà fastidio: come vederle per la strada in pantofole.

Matilde                         - (a Giacomo che le prende il cappello per andarlo a posare) Grazie.

Lucrezia                        -  Secondo grazie. Al terzo ti mando via.

Giacomo                       -  Sei un'ospite tiranna, zia.

Lucrezia                        -  Certe parole mi fanno l'effetto di pugni sullo stomaco. (A Matilde) Quanto alla tirannia... Se tu, invece di venire da me, fossi andata da qualsiasi altra signora-  diciamo si­gnora -  di questo paese (rifacendo la voce): « Scusa, Matilde: non per sapere i fatti tuoi, ma capirai... dovendoti ricevere in casa mia... Chi è questa persona misteriosa che deve venire e che tu non vuoi vedere? ».

Matilde                         -  A lei lo dico chi è.

Lucrezia                        -  Ma io non lo voglio sapere.

Matilde                         -  Perché? Volevo anzi un suo con­siglio.

Lucrezia                        - (alzandosi) Ah no, cara: non sono ancora tanto pazza da dare consigli a una ragazza di ventidue anni. Se poi tu, per saperti regolare in certe cose, hai bisogno di consigli, è meglio che non mi venga a trovare: le paste frolle non mi piacciono. Vado a far preparare da mangiare: più utile del dar consigli. Volete qualche cosa di speciale? Ditelo. Tu, no? Tu, nemmeno? E allora dovrete subire i gusti della tiranna. (Esce).

Matilde                         - (sorridendo) Mi ha dato una le­zione meritatissima.

Giacomo                       -  Spero che lei non prenda a male i modi un po' originali della zia.

Matilde                         -  Nemmeno per sogno. La conosco, donna Lucrezia. Per me è più che una parente. Se non ci fosse stata lei, non so se avrei resistito sinora in paese.

Giacomo                       -  C'è da molto tempo?

Matilde                         -  Da tre mesi.

Giacomo                       -  E resterà sempre qui?

Matilde                         -  Non credo. Anzi, no certamente» Tra un anno non avrei di che vivere. Ho già fatto la domanda al Ministero per essere riam­messa in servizio.

Giacomo                       -  Perché lei insegnava: vero ?

Matilde                         -  Sì, ho insegnato per due anni. Poi ho dato le dimissioni: un colpo di testa di cui mi sono pentita.

Giacomo                       -  Non le piaceva la residenza?

Matilde                         -  Non mi piaceva... niente.

Giacomo                       -  Forse le sue dimissioni sono le­gate a...? Scusi: stavo per farle una domanda indiscreta.

Matilde                         -  L'ha già fatta, e non è indiscreta. Sì, sono legate alla persona che deve arrivare oggi:  il mio ex fidanzato.

Giacomo                       -  Viene per farsi perdonare dei torti?

Matilde                         -  Lui non ha nessun torto. Il torto è stato mio di non averlo conosciuto prima.

Giacomo                       -  E' professore anche lui?

Matilde                         -  Sì. L'anno scorso abbiamo inse­gnato nella stessa scuola; e così l'ho conosciuto bene.  Prima ci scrivevamo, ci vedevamo  ogni tanto. Vedersi tutti i giorni, stare insieme, è di­verso.

Giacomo                       -  Eh già.

Matilde                         - (con uno scatto improvviso) No! Non è stato il mio amante!

Giacomo                       - (sorpreso) Non l'ho nemmeno pen­sato. Non capisco perché lei...

Matilde                         - (pentita) Mi scusi. M'era parso che lei stesse per fare quel sorriso malizioso che molti uomini fanno quando una donna parla di certe situazioni. E' un sorriso che non posso sof­frire. E in lei mi sarebbe dispiaciuto moltissimo.

Giacomo                       -  (sorridendo, un po' mortificato) Dunque lei mi crede capace di fare quel sorriso.

Matilde                         -  E' stato un momento. Mi scusi, la prego. (Breve pausa) Ho fatto una « gaffe » im­perdonabile.

Giacomo                       - (cortese ma freddo) Ma non ci pensi più.

Matilde                         -  Parlavo di un uomo volgare,  e senza volerlo... una reazione istintiva... (Si allon­tana, poi torna e si ferma davanti al suo ritrat­to) Sa che sono stata per ore intere qui a guar­dare questo ritratto?

Giacomo                       -  La zia me lo ha detto poco fa.

Matilde                         -  (esitante) Mi dica una cosa:  da bambina io ero davvero così? come nel ritratto?

Giacomo                       - (con interesse) Vuol dire, se il ritratto le somigliava?

Matilde                         - Sì; ma non nei lineamenti: nell'espressione.

Giacomo                       -  Non mi è facile immaginare que­sta distinzione.

Matilde                         - Io non mi so esprimere.

Giacomo                       -  Credo che lei non voglia espri­mersi. (A  uno sguardo di Matilde) Forse perché teme di rivelare, con le sue domande, qual­che cosa di intimo che vuole nascondermi.

Matilde                         - (colpita, piano) Forse è vero. (Su­bito) Ma non che voglia nasconderla a lei perché... (Dopo un momento di esitazione) Lei non può immaginare che cosa sia stato per me il rivedere dopo tanto tempo questo ritratto, di cui quasi non mi ricordavo neppure. Rimasi pro­fondamente colpita. Io ero allora molto scon­volta: più che per l'aver capito quale uomo avevo amato, perché non riuscivo a ritrovarmi in me stessa. Mi vedevo davanti, con raccapric­cio, l'immagine che necessariamente lui s'era do­vuta fare di me. Avevo paura che gli altri po­tessero vedermi come lui m'aveva vista. Avevo paura di somigliare veramente a quell'immagine. Una paura tale che tutto di me, della mia vita mi divenne insopportabile, odioso.

Giacomo                       -  E fu allora che diede le dimissioni e tornò in paese?

Matilde                         - Sì. Ma non so nemmeno ora con quale scopo. La mia infanzia, la mia adolescen­za mi apparivano come in una lontananza favo­losa. Sentivo uno strano bisogno di rivedermi com'ero bambina, di rivedere i luoghi dov'ero cresciuta; come se solo così potessi ritrovare in me qualcosa che avevo smarrita -  ma non sa­pevo che cosa. Ma qui, subito, fu peggio. Arrivai di sera. La stazione piccola, come sperduta; le strade strette e un po' buie; le voci udite pas­sando; e poi la mia casa -  tutto mi diede un senso opprimente di chiuso, di mediocrità. Allo specchio mi vidi brutta, meschina. Che notte passai! L'indomani venni da sua zia. Entrando mi vidi davanti questo ritratto, come se mi venisse incontro.

Giacomo                       -  (che l'ha ascoltata con molto inte­resse) Ebbene?

Matilde                         - Vorrei farle delle domande, forse puerili. Mi compatisca.

Giacomo                       -  Mi domandi quello che vuole.

Matilde                         - La  prego  però di  rispondermi sinceramente. Ecco. Lei mi fece il ritratto... così, per fare un ritratto?

Giacomo                       -  Non ho mai fatto ritratti soltanto per fare ritratti.

Matilde                         - E allora perché me lo fece?

Giacomo                       -  Perché m'interessava la sua fiso-nomia.

Matilde                         - (confusa e un po' trepidante) Ecco: io vorrei sapere che cosa rivelava, allora, la mia fisonomia.

Giacomo                       -  Rivelava, un po' acerbamente, quello che rivela ora.

Matilde                         - (con fastidio) Non le avevo chie­sto un complimento.

Giacomo                       -  Non le ho fatto un complimento. Dieci anni fa, quando io venni qui per un mese e vidi lei bambina, rimasi incantato. Ebbi la sensazione di trovarmi davanti a una creatura rara che portasse in sé, consapevolmente e alte­ramente, il segreto magico di una vita bella, pura, nobile.

Matilde                         - (profondamente turbata, piano) La stessa sensazione provai io rivedendo dopo tanti anni il ritratto. Fui presa da una grande gioia affannosa. Ma poi, subito, pensando a come ero ridotta, che mortificazione! Per vincere lo scoramento, mi dicevo che forse non ero mai stata come nel ritratto e che certo lei m'aveva trasformata a immagine sua.

Giacomo                       -  (sorridendo) A immagine mia? Questo sì, è un complimento.

Matilde                         - Volevo dire: spiritualmente. Io la conosco. L'anno scorso, trovandomi a Roma di passaggio, visitai la mostra dei suoi quadri: per­ciò la conosco bene. E anche per questo ho dato molta importanza a questo ritratto e ho creduto che lei m'avesse trasfigurata.

Giacomo                       -  La prova che io non la trasfigurai, è che la sua fisonomia -  come le ho detto po­c'anzi, e non per farle un complimento -  rivela anche ora, nonostante il turbamento in cui lei si trova, quello che rivelava allora, con qualche cosa di più deciso e di più maturo.

Matilde                         - (con un impeto doloroso) Ma se io ora!... (Si interrompe. Poi piano) Non mi faccia parlare, la prego.

Giacomo                       -  Parli, parli invece. A meno che non mi ritenga degno della sua confidenza.

Matilde                         - Non è per questo. (Assorta) E' perché ora io... (Siede). Non riesco a parlare. Al solo pensare a me, alla mia vita, mi prende come un senso di paralisi.

Giacomo                       -  Reagisca, reagisca con tutte le sue forze. Lei è ancora ossessionata dall'immagine che il suo fidanzato s'era fatta di lei. E' vero? Ma che cosa importa se un uomo volgare, cento uomini volgari l'hanno ritenuta diversa da quel­la che è?

Matilde                         - E' che io stessa mi sono ritenuta... mi ritengo... (Coprendosi il viso con le mani) Non so... non so.

Giacomo                       -  Ma pensi: domani potrà incon­trare l'uomo  degno  di lei...

Matilde                         - (interrompendolo; esausta) Tac­cia, la prego. (Dopo una pausa, ricomponendosi, triste) Mi scusi se l'ho annoiata con le mie storie.

Giacomo                       -  Non mi ha annoiato affatto. Sol­tanto mi dispiace che ora incominci a guardarmi con quella sottile ostilità che segue sempre le confidenze non del tutto spontanee.

Matilde                         - (subito) No, davvero!

Giacomo                       -  (sorridendo, con malinconia) Pensi che forse, dopo questi pochi giorni, non ci rivedremo mai più, e le sarà facile riprendere il suo tono  abituale.

Matilde                         - (un po' turbata dall'accento di lui) Ma le assicuro che io non...

Giacomo                       -  E per farmi perdonare di aver provocato le sue confidenze, gliene faccio una io. Veramente non è una confidenza: è un ringra­ziamento.

Matilde                         - Un ringraziamento?

Giacomo                       -  Sì, signorina. Io devo ringraziarla di», di essere al mondo, di esistere. (A uno sguardo di Matilde) Proprio così. Spero che lei non interpreti male quello che sto per dirle. Sarà capitato anche a lei, conoscendo qualche persona, leggendo qualche libro, ascoltando della musica, magari contemplando un paesaggio, di aver sentito nascere nel suo intimo come un'ar­monia nuova, qualche cosa di profondo e di vi­tale... una specie di conforto a vivere.

Matilde                         - (fissandolo con gli occhi spalancati, il petto ansante) Sì, è vero.

Giacomo                       -  Ebbene, questo... conforto io l'ebbi da lei bambina, quando le feci il ritratto, e l'ho riavuto ora, dopo dieci anni.

Matilde                         - (lo fissa lungamente con uno sguardo luminoso, il volto irrigidito dalla commozione; poi, chinando il capo e tentando di sorridere) Lei crede che io sia pentita delle mie confidenze e vuole compensarmi con delle frasi gentili.

Giacomo                       -  (rabbuiandosi) Non ho più l'età per dire certe frasi gentili a una ragazza come lei.

Matilde                         - (con prorompente commozione gio­iosa) Ma come posso credere che lei, lei abbia bisogno di conforto per vivere, e che io, proprio io le abbia dato...

Giacomo                       -  (con subita animazione) Ecco: in questo momento... Venga qui, la prego. (La pren­de delicatamente per le braccia e la Conduce davanti allo specchio eh'è vicino al ritratto) Guardi il ritratto. E ora si guardi allo spec­chio. Che cosa ha perduto? Eccola qui, intatta e più splendente di allora!

Matilde                         - (come sopra) Non m'ero mai vista così.

Giacomo                       -  Ma io l'ho vista sempre così.

Matilde                         - (fissandolo) Sempre?

Giacomo                       -  Da quando incominciai a pensare a come poteva essere diventata la bambina di un tempo. E ci ho pensato tanto! Tanto che poco fa, mentre la zia mi parlava di lei, io sentivo un turbamento simile a quello che può provare un ragazzo innamorato che tema di svelare il suo segreto. E appena lei è entrata, appena ha inco­minciato a parlare, ho avuto la sensazione di ritrovare una persona lasciata ieri -  una persona... molto cara. E quando il sorriso è sparito dalle sue labbra e ho visto questi occhi farsi dolenti e cupi... lei non può immaginare quello che ho provato: un senso improvviso di oscurità, e come se qualche cosa mi si lacerasse dentro... e un bisogno struggente di rivederla serena e gaia. E sentivo che il renderla felice potrebbe essere lo scopo degno della vita di un uomo.

Matilde                         - (invasa da un affanno gioioso, lo fissa con gli occhi spalancati, come incantata).

(Sulla veranda appare Alberto).

Giacomo                       -  (con voce nuova, profonda e gioiosa) Vieni, Alberto. (A Matilde) Le presento un mio caro amico che già la conosce un poco.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

 (Dopo qualche anno, a Roma. Lo studio di Giacomo, ampio e luminoso, al primo piano di una villetta. In fondo, una finestra larga quasi quanto tutta la parete. A destra, in primo pia­no, una porta che dà nelle stanze di abitazione; verso il fondo, la comune che dà sulle scale. A sinistra, in primo piano, una piccola scrivania con sopra l'apparecchio del telefono; verso il fondo, un tavolo alto da disegno e un caval­letto. Scaffali con libri, poltrone, vasi con fiori, quadri e sculture. Semplicità e buon gusto. E' un pomeriggio di primavera. La scena è vuota).

Giacomo                       -  (entra dalla prima porta di destra. E' agitato. Va alla finestra, l'apre e respira profondamente. Poi, un po' rasserenato, sposta il cavalletto come per mettersi a lavorare; ma subito se ne allontana. Viene avanti, accende una sigaretta; e, come colto da uno sfinimento improvviso, siede su una poltrona, abbando­nando il capo sulla spalliera,  a occhi chiusi).

Matilde                         - (entra dalla stessa porta. E' un po' pallida, e il suo viso rivela una tensione ferma e tranquilla. Parlerà a Giacomo con dolcezza quasi materna. Gli si avvicina silenziosamente e gli mette una mano sulla fronte).

Giacomo                       -  (apre gli occhi e sorride) Oh, cara.

Matilde                         - Che hai?

Giacomo                       -  Niente. Fumavo una sigaretta.

Matilde                         - Sei andato via così bruscamente dicendo che venivi a lavorare.

Giacomo                       -  Sai che ho l'abitudine di fumare una sigaretta prima di mettermi al lavoro. Perché bai lasciato Alberto solo?

Matilde                         - Alberto è andato via.

Giacomo                       -  Perché?

Matilde                         - Si è ricordato di avere un appun­tamento su nel suo studio.

Giacomo                       -  (con un sorriso amaro) E' incre­dibile quanti appuntamenti ha quel ragazzo. Certe volte mi pare che li inventi per scappare.

Matilde                         - Forse per andare a lavorare.

Giacomo                       -  Ma almeno, prima, quando la­vorava, era molto gaio. Ora è sempre d'umore nero,  nonostante  incominci  ad  avere  successo.

Matilde                         - Non è mai contento di quello che fa. Dice che non va avanti di un passo, e che tu fai male a fargli tanta « reclame ».

Giacomo                       -  Io non gli faccio della « recla­me »: parlo di lui come merita. (Posa nel por­tacenere il mozzicone della sigaretta e ne pren­de un'altra).

Matilde                         - Dio, quanto fumi! E' proprio ne­cessaria,  subito  subito,  quest'altra  sigaretta?

Giacomo                       -  (guardandola, con un sorriso triste) Sei come una mammina con un bimbo am­malato.

Matilde                         - (dolce, sorridente) Non mi piace questa storia della mammina e del bimbo am­malato: lo sai. (Siede sul bracciolo della pol­trona e gli prende il capo tra le mani). Io sono tua moglie. Capito?

Giacomo                       -  (le accarezza i capelli in silenzio; poi) Sei pallida.

Matilde                         - Ma sto bene.

Giacomo                       -  Non tanto. Lavori troppo.

Matilde                         - (ridendo piano) Lavoro troppo, io?

Giacomo                       -  Ti occupi, anzi ti preoccupi trop­po della casa.

Matilde                         - Il necessario. E un tempo questo ti faceva molto piacere. Dicevi che ti sembrava di vedere su ogni cosa l'ombra delle mie mani, e di veder vagare in ogni angolo della casa il mio sorriso.

Giacomo                       -  Allora non era per te un sacri­ficio.

Matilde                         - E ora, è un sacrificio? Ma che dici!

Giacomo                       -  Volevo dire... non ti affaticava, non ti faceva male, ecco.

Matilde                         - Non mi affatica e non mi fa male nemmeno ora. E' una gioia per me. (E poiché Giacomo la guarda tristemente -  con un leggero tremore mal celato dal tono dolce e quasi scher­zoso) Ecco: ora fai la faccia lunga lunga e mi guardi come se avessi dimenticato la mia fiso-nomia e stentassi a riconoscermi.

Giacomo                       -  (in un improvviso impeto di tene­rezza, le bacia il palmo della mano; poi, come vergognoso, china il capo, trattenendo la mano di Matilde tra le sue).

Matilde                         - (materna) Sei tu, caro, che non stai bene. Da un pezzo, assai spesso, cambi bru­scamente d'umore, il viso ti si sbianca, gli oc­chi ti si fanno grandi grandi... Che c'è? Hai qualche preoccupazione? Perché non vuoi dir niente a Matì?

Giacomo                       -  (con nervosismo mal represso) Perché non ho nulla. Anche questo tuo spiare il mio viso, il mio umore, la mia salute, ti affa­tica, ti snerva; ed è una cosa che non mi piace.

Matilde                         - (sorpresa e turbata, piano) Gia­como!

Giacomo                       -  (per attenuare quello che ha detto) Non mi piace perché... le mie noie, i miei cambiamenti d'umore hanno una cattiva in­fluenza sulla tua salute, e mettono come un'om­bra  di malinconia  sulla  tua  giovinezza.

Matilde                         - (tentando di essere gaia) Tu parli della mia giovinezza come se si trattasse di una signora che passi per la strada o di un bel dipinto appeso alla parete. Io sono tua moglie; e se la mia giovinezza non riesce ad essere per te qualche cosa di... (vorrebbe dire: «qualche cosa di vitale » ma non trova e non vuol dire le parole esatte, il cui significato è però reso evidente dal suo gesto) ... allora non so cosa sia, la mia giovinezza.

Giacomo                       -  (con un sorriso amaro) Ecco: tu pensi a questo come a un dovere da compiere.

Matilde                         - (con un piccolo grido soffocato) No! (Spaventata del proprio grido; dolorosa­mente) Perché mi dici queste cose? Sono forse mutata con te?

Giacomo                       -  (alzandosi, per troncare) No, cara, no. Non ne parliamo più. Perdonami, ti prego. (Si allontana).

Matilde                         - (seguendolo, molto accorata) Ec­co: ora sei come sfinito. (Mettendogli una mano sulla spalla) Giacomo!

Giacomo                       -  (le prende timidamente il capo tra le mani).

Matilde                         - (col volto irrigidito) Ma. perché? A volte mi guardi come da lontano; e pare che abbia paura di toccarmi, come se io non fossi tua moglie.

Giacomo                       -  (la lascia) Vedi, cara: io non so­no di quelli che hanno il senso della padro­nanza, che posano i piedi sulla terra come se appartenesse a loro per l'eternità, che guardano il cielo che si vede dalla loro finestra come se, volendo, potessero chiuderselo nell'armadio. Questo senso sicuro di proprietà, di possesso stabile, io non l'ho nemmeno per la casa che ho comperata.

Matilde                         - (turbata) Non capisco che cosa tu voglia dire.

Giacomo                       -  (pentito delle proprie parole, evasi­vamente) Nulla. Volevo... giustificare quella che tu hai chiamata « paura di toccarti ».

(Si bussa alla prima porta di destra).

Giacomo                       -  Avanti!

La Cameriera                - (entra) La posta. (Da a Giacomo dei giornali e una lettera;  poi esce).

Giacomo                       -  (dando la lettera a Matilde) E' per te. (Posa i giornali).

Matilde                         - E' della zia Lucrezia. (Apre la lettera) Poche parole. (Legge) «Grazie, cari, del buon ricordo. La vecchia pazza si va facen­do sempre più mansueta e trattabile, e spesso sogna a occhi aperti di passare con voi i pochi giorni di vita che le restano ». (Pausa).

Giacomo                       -  E' straordinaria la tranquillità con cui scrive: « i pochi giorni di vita che le restano ». Come se si trattasse degli ultimi gior­ni di una villeggiatura.

Matilde                         - Cara zia Lucrezia! Ti ricordi quando, l'ultima volta che fummo laggiù, prima di partire, vedendola triste io le dissi: « Zia, vuoi che restiamo un altro giorno? ». Lei, quasi con ira: « No. Niente elemosine. Non ne chiedo e non ne voglio ».

Giacomo                       -  (quasi tra sé) E sono le più pe­nose, e le più difficili a mascherare, le elemo­sine d'affetto.

Matilde                         - Qui intanto non vuole venirci a stare.

Giacomo                       -  E d'altro canto noi non possiamo stare laggiù per molto tempo.

Matilde                         - (debolmente) Perché?

Giacomo                       -  Perché tu non ci stai bene. L'ul­tima volta, in un mese, sei dimagrita da far spa­vento, e hai preso una cera d'ammalata. Appe­na tornata qui ti sei rimessa. Ma relativamente: perché un po' di quel pallore t'è sempre ri­masto.

Matilde                         - (sforzandosi di essere gaia) T'as­sicuro, Giacomo, che io mi sento benissimo.

Giacomo                       -  Sarà. (Si allontana; gira; si fer­ma davanti al cavalletto).

Matilde                         - Lavori troppo poco. Ed è un peccato. Lo dicono tutti. Persino i tuoi colleghi.

Giacomo                       -  Dei miei colleghi lo dirà soltanto Alberto.

Matilde                         - Alberto, poi, non ne parliamo. Quando ti vede svogliato e di cattivo umore, se ne addolora davvero. Poi certe cose gli fanno un effetto... Un mese fa, quando seppe che tu avevi convinto quella signora inglese a farsi fare il ritratto da lui anziché da te, non so che cosa gli prese; aveva quasi le lacrime agli occhi.

Giacomo                       -  (nervosamente) Alberto è uno strano ragazzo. Crede di avere con me dei de­biti di riconoscenza...

Matilde                         - Ha davvero della riconoscenza...

Giacomo                       - - E va bene. Ma questo non gli deve impedire di andare liberamente per la sua strada. Certi riguardi per me, poi, finiscono con l'essere seccanti. A volte esita a farmi ve­dere i suoi quadri più riusciti e ha l'aria di volerseli fare perdonare. Mi crede invidioso, forse?

Matilde                         - No, assolutamente.

Giacomo                       -  E allora? Non l'ho aiutato per mettergli il guinzaglio. Anzi, sin dal principio, l'ho messo in guardia su certe influenze non benefiche che aveva  subito dalla mia pittura.

Matilde                         - Me l'ha detto. Durante il poco tempo che ci capita di stare soli, non fa che parlarmi di te, sempre, con un affetto e una ammirazione davvero commoventi. Mi ha rac­contato le prime impressioni avute dai tuoi quadri, la tua accoglienza fraterna, i vostri pri­mi colloqui, tutto quello che tu hai fatto per lui...

Giacomo                       -  Farebbe bene a dimenticarsene.

Matilde                         - Perché?

Giacomo                       -  Perché così si sentirebbe più li­bero e farebbe sentire più libero anche me. Sì, cara: perché io capisco che la sua ricono­scenza -  affetto, ammirazione: quello che vuoi -  lo tiene un po' legato, gli impedisce di vivere liberamente la sua vita. E questo mi... mi pe­sa, ecco. Preferirei che mi si mettesse contro. Dico per dire, s'intende.

Matilde                         - (debolmente) Ma è una tua idea.

Giacomo                       -  Sarà. Intanto anche lui non sta bene: è pallido, sempre triste...

Matilde                         - (col volto irrigidito, quasi senza voce) Perché hai detto che « anche » lui non sta bene?

Giacomo                       -  (senza guardarla) Perché... Tu non hai detto poc'anzi che io non sto bene? O almeno che ti sembra che io non stia bene? Be',  non ne  parliamo  più. Ora  mi  metto  al lavoro. Tu che fai?

Matilde                         - Vado di là.

Giacomo                       -  Perché non vai a fare una pas­seggiata? Villa Borghese è a quattro passi, e ora è un incanto.

Matilde                         - Vuoi che ci vada?

Giacomo                       -  « Vuoi »! Io non voglio nulla. Mi dispiace che tu stia sempre tappata in casa. L'anno scorso, in primavera, uscivi anche sola, facevi delle passeggiate... E quando tornavi, al solo vederti, un po' ansante e con gli occhi lu­centi, mi passava ad un tratto la stanchezza del lavoro.

Matilde                         - (con quanta gaiezza può) Vado a Villa Borghese! Saranno le quattro. Alle sei sarò di ritorno. Va bene?  Vado a vestirmi.

(Si bussa alla comune).

Giacomo                       -  Avanti. (Entra Alberto) Oh, Al­berto.

Alberto                          -  Disturbo?

Giacomo                       -  (affettuoso) Non disturbi mai: lo sai. Vieni avanti e siedi, se ne hai voglia.

Alberto                          -  No, grazie: vado via subito. Sono venuto soltanto per salutarti. La primavera mi ha messo addosso una fiacca straordinaria: non riesco a lavorare più di mezz'ora di seguito.

Giacomo                       -  Vai fuori o ritorni su nel tuo studio ?

Alberto                          -  Fuori.

Giacomo                       -  Non hai gente su? Hai detto a Matilde, mi pare, che avevi un appuntamento?

Alberto                          - (subito) Ah sì: l'avevo. Una si­gnora a cui faccio il ritratto. Ma non avevo vo­glia di lavorare e l'ho pregata di tornare un altro giorno. Ora vado a prendere una boccata d'aria a Villa Borghese.

Giacomo                       -  Oh, bravo. Ci viene anche Ma­tilde. Potete andare insieme.

Matilde                         - (con imbarazzo mal celato) E' che io...

Giacomo                       -  (scrutandola) Hai cambiato idea?

Matilde                         - No... ma... vorrei passare prima dalla sarta.

Alberto                          -  Anch'io del resto...

Giacomo                       -  Devi passare dal sarto?

Alberto                          - (sforzandosi di ridere) No: vor­rei fare un salto al « Corriere del mattino » per dire una parola a Morasco.

Giacomo                       -  (come sfinito) Fate come volete. (A Matilde, sorridendo) Non vai a vestirti?

Matilde                         - Sì, vado. A rivederci, Alberto.

Alberto                          -  A rivederla, signora.

Matilde                         - (esce dalla prima porta di destra).

Alberto                          -  A proposito del « Corriere del mattino ». Oggi mi sono dimenticato di dirti che stamattina ho incontrato il direttore, Talluri. « Dica a

Giacomo                       -  mi- ha gridato da lontano             -  che smetta di fare... ».

Giacomo                       -  Di fare il cretino, no?

Alberto                          - (ride) Scherzi a parte, mi pare che tu abbia esagerato.

Giacomo                       -  (eccitandosi, ma sempre con tono basso) Non ho esagerato affatto. Talluri è mio amico d'infanzia, siamo come fratelli, mi conosce bene -  e non avrebbe dovuto pubbli­care nel suo giornale l'articolo sconciamente laudativo di quell'imbecille. La nostra amicizia è troppo nota: si penserà, si sarà certo pensato che quell'articolo l'abbia voluto io. E di queste cose io non ne ho mai fatte e non ne faccio. Con nessuno. Immagina poi con un critico-  chiamiamolo critico-  che non scrive un rigo in buona fede. L'anno scorso mi tratta da im­bianchino, ora da maestro. E quell'ingenuo di Talluri-  perché ha voglia di fare il furbo: resterà sempre il ragazzo angelico che era venti anni fa -  quell'ingenuo non ha capito che il giocato è lui: perché quello scribacchino gli ha portato l'articolo su me, conoscendo la nostra amicizia, sicuro di ottenere così la collabora­zione al giornale, che gli era stata sempre negata.

Alberto                          -  Ma come ti ecciti. Non hai mai dato a queste cose tanta importanza. Anzi ne hai sempre sorriso.

Giacomo                       -  (ricomponendosi) E ne sorrido anche ora, figurati. E' che oggi...

Alberto                          - (premuroso) Non stai bene?

Giacomo                       -  (infastidito) Ma no: sto benis­simo. Sono un po' nervoso, ecco tutto.

Alberto                          -  Sai che la signora...

Giacomo                       -  Quale signora?

Alberto                          -  Tua moglie.

Giacomo                       -  (secco) Ma di' Matilde. (Subito pentito, sorridendo) E' più semplice. (E poiché Alberto è ammutolito, confuso) Dunque Matil­de, dicevi...

Alberto                          -  E' molto preoccupata per il tuo umore, per la tua salute.

Giacomo                       - (cupo) Non le capisco queste preoccupazioni.

Alberto                          -  Oh Dio, sono spiegabilissime, e legittime. Ti vuole bene, vive unicamente di te... Ed è una creatura rara, sai.

Giacomo                       -  Sin troppo: lo so bene.

Alberto                          -  E non è a dire che sia una delle solite mogli infatuate del marito celebre. Nem­meno per sogno. Mi ha parlato spesso di te, di certe caratteristiche della tua arte, della no­biltà e della delicatezza del tuo carattere, con una comprensione profonda, veramente rara in una donna.

Giacomo                       -  (dapprima l'ha ascoltato con un ner­vosismo crescente, che poi si è mutato brusca­mente in una specie di sfinimento. Ora, con un sorriso disfatto) Scusa, caro. Sono le quattro passate: se non mi metto a lavorare subito, oggi non combino niente.

Alberto                          -  Vado via. (Guardando con am­mirazione il quadro che è sul cavalletto) Che, ti viene una cosa...

Giacomo                       -  (interrompendolo) Lascia anda­re. Bello o brutto, la terra gira lo stesso. Ciao, caro. Buona passeggiata.

Alberto                          -  No, non esco. La vista di questo quadro mi ha fatto venire il desiderio di lavo­rare. Vado su nel mio studio. Sin che c'è luce voglio tentare di vincere la fiacca. A rivederci. (Esce dalla comune).

Giacomo                       -  (va al cavalletto, come per accin­gersi a lavorare, ma subito se ne allontana. Va­ga per la stanza in preda a una rilassatezza in­quieta, con sul viso i segni di uno smarrimento pietoso. Ogni tanto prende automaticamente qualche piccolo oggetto e lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. Ad un tratto si fer­ma, col volto irrigidito e lo sguardo nel vuoto, come se cercasse di riordinare le idee. Poi va deciso al telefono e prende il ricevitore. Ha un momento di esitazione, poi forma un numero e attende) Pronto. «Corriere del mattino»?... Mi metta in comunicazione col direttore... Sei tu, Talluri?... Zuda... Sì, sono un cretino, va bene. Non ne parliamo più. Ho bisogno di un favore. Sai l'indirizzo di quell'americano che sei mesi fa mi propose una mostra a Nuova York?... Benissimo... Come? Te ne ha riparlato l'altro giorno?... Ebbene, accetto... No, non sono matto... Senti: per telefono è impossibile spie­gare certe cose... Se vuoi venire, vieni pure. Ma prima fammi il favore di passare dall'ameri­cano... Ma se ti dico che ho deciso vuol dire che ho ben riflettuto... Sì, sono in casa. Ma passa dall'americano, ti raccomando... Grazie. Ciao. (Posa il ricevitore. E? completamente ras­serenato e padrone di se).

(Dalla prima porta di destra entra Matilde pronta per uscire).

Giacomo                       -  (con gaiezza simulata) C'è unanovità, cara Matilde.

Matilde                         - (contenta di vederlo gaio) Buona?

Giacomo                       -  Buonissima. Ti ricordi che sei mesi fa mi si propose una mostra molto rumo­rosa a Nuova York?

Matilde                         - Ma tu non accettasti.

Giacomo                       -  Non accettai perché non mi gar­bava una delle condizioni: cioè quella di do­vermi trovare a Nuova York un mese prima dell'apertura della mostra per fare il ritratto a qualche personalità in vista di là       -  che sarebbe stata designata dalla Galleria -  allo scopo di attirare maggiore attenzione.

Matilde                         - (un po' allarmata, scrutandolo) Dicevi che ti ripugnava fare dei ritratti a sco­po reclamistico.

Giacomo                       -  A scopo « esclusivamente » recla­mistico. Ma ora ho saputo -  me l'hanno detto al telefono un momento fa -  che la personalità a cui dovrei fare il ritratto è un uomo politico la cui figura morale m'interessa molto.

Matilde                         - (tesa ma tranquilla) E allora?

Giacomo                       -  E allora ho accettato senz'altro. Con molto piacere, te l'assicuro.

Matilde                         - E... quando sarà la mostra?

Giacomo                       -  Non lo so ancora di preciso; ma credo che dovrò partire presto perché la sta­gione adatta lì è inoltrata. Perché mi guardi così? E' una cosa utile e lusinghiera. Pensa che economicamente...

Matilde                         - Tu non ti sei mai curato di questo.

Giacomo                       -  Ma è bene che incominci a cu­rarmene. Tanto più che la questione pratica è legata, ripeto, a un'altra artistica che per me ha un grande valore.

Matilde                         - E va bene. Allora partiremo pre­sto, eh?

Giacomo                       -  « Partiremo » ? Ma tu, cara, sof­fri il mal di mare.

Matilde                         - Non ci pensare.

Giacomo                       -  Ci devo pensare invece. Non puoi fare la traversata da Napoli a Palermo, e vor­resti fare un viaggio così lungo?

Matilde                         - Lo farò.

Giacomo                       -  Ma perché, santo Dio? Sei mesi fa, quando s'affacciò la possibilità di questa mostra, eravamo intesi che io sarei partito solo.

Matilde                         - Sei mesi fa era diverso.

Giacomo                       -  Che cosa c'era di diverso?

Matilde                         - (senza rispondere, decisa) Gia­como, io verrò con te.

Giacomo                       -  Ma se non ti è proprio possibile stare un'ora in mare?  Perché insisti?

Matilde                         - Perché tu mi vuoi lasciare sola.

Giacomo                       -  (colpito) Ti voglio lasciare sola? (Si fissano. Breve pausa) Strano: mi dici che ti voglio lasciare sola come se mi facessi un rim­provero, e intanto mi guardi con una specie di pietà terrorizzata, come un bambino che vada incontro a non so quali pericoli.

Matilde                         - (nervosamente) Ti ho già pregato di smetterla con questa storia del bambino.

Giacomo                       -  Dovresti smettere tu! Certe cure, certe preoccupazioni pietose non le posso sop­portare.

Matilde                         - (mortificata) Se il mio affetto a te sembra...

Giacomo                       -  L'affetto è una cosa, la pietà un'altra (Riprendendosi pentito) Perdonami, Matilde. Niente lacrime, eh, ti prego.

Matilde                         - Giacomo, sii sincero. Perché vuoi andar via?

Giacomo                       -  Ti prego, Matilde: non doman­darmi nulla. Va' a fare la tua passeggiata.

Matilde                         - Io non ho più voglia d'uscire.

Giacomo                       -  Via, non fare la bambina. Torna più presto, se vuoi, ma esci. No, non mi guar­dare così. Sorridi, sorridi. Vorrei vederti sem­pre con quel sorriso felice e luminoso che avevi il giorno che c'incontrammo in casa della zia, quando io ti condussi davanti allo specchio e ti feci ritrovare la tua vera immagine. Vederti altrimenti mi dà una specie di rimorso. Va' cara. (Le bacia la mano, la fa uscire dalla pri­ma porta di destra; poi va alla finestra e chia­ma) Alberto! Alberto! Vieni giù un momento.

(Dopo un poco entra Alberto dalla comune).

Giacomo                       -  Scusa se t'ho disturbato. Devo darti una notizia.

Alberto                          -  La conosco la notizia: ho parlato poco fa con Talluri al telefono. La mostra in America, eh?  Come va, così, tutt'a un tratto?

Giacomo                       -  (sforzandosi di essere gaio) Per l'amor di Dio, lasciamo stare il come e il quan­do: l'ho dovuto spiegare a Matilde e di ripetere tutta la storia non ne ho voglia. In due parole: le nuove condizioni che mi sono state fatte mi convengono economicamente e artisticamente, e perciò ho accettato.

Alberto                          -  Parola d'onore, sino a un mo­mento fa, nonostante la notizia me l'avesse data Talluri, credevo che fosse una frottola.

Giacomo ..................... -  Perché poi?

Alberto                          -  Ma conoscendo le tue idee, i tuoi principi...

Giacomo                       -  Sono cambiate, ripeto, le condi­zioni. Cos'è, non ne sei convinto?

Alberto                          -  Se lo dici tu... (Breve pausa) E tua moglie viene con te?

Giacomo                       -  No: non è possibile, purtroppo: soffre il mal di mare. Resterà qui. Penserete voialtri amici a farle ogni tanto un po' di com­pagnia.

Alberto                          - (dopo una breve pausa) Io in­vece ho fatto, come dicono a Napoli, «'na bel­la penzata ». Vengo con te.

Giacomo                       -  (lo guarda colpito, poi) E... que­sta « bella penzata » l'hai fatta ora o prima di entrare ?

Alberto                          -  Ora, naturalmente. Se tu partissi con tua moglie, la mia compagnia potrebbe es­sere inopportuna, incomoda; ma dato che parti solo...

Giacomo                       -  (quasi tra sé, con un sorriso amaro) Me lo dovevo aspettare.

Alberto                          - (un po' smarrito) Che cosa?

Giacomo                       -  Questa tua... prova d'affetto.

Alberto                          -  Oh Dio, prova d'affetto sino a un certo punto. A un viaggio in America ci ho sem­pre pensato. In tua compagnia m'attrae di più, naturalmente.

Giacomo                       -  Se invece dell'America si fosse trattato della Siberia o del Giappone, tu mi avresti proposto lo stesso di accompagnarmi. E ciò perché credi che sia necessario darmi ancora una prova della tua devozione e della tua nobiltà d'animo.

Alberto                          - (turbato) Non capisco che cosa tu pensi.

Giacomo                       -  Ti sono grato, molto grato della tua proposta, anzi della tua offerta d'accompa­gnarmi; ma non l'accetto. Non prendertela a male. Ho bisogno di stare solo. E poi tu non devi abbandonare l'Italia giusto ora: è il mo­mento, per te, del lancio grandioso.

Alberto                          -  Me ne infischio, del lancio.

Giacomo                       -  Infischiati del lancio, se vuoi, ma non della tua arte. (Sottolineando lievemente quasi suo malgrado) Anzi rifugiati nella tua arte. Cerca di lavorare con gioia. Un giorno mi dicevi che bisogna guidare con la volontà anche i sentimenti, le sensazioni. Ora l'arte, quando si è giovani come te, può aiutare, come certe febbri, a risolvere felicemente tante cose. (Ri­prendendosi, con un breve riso) Ma che ti vado dicendo? Son cose che tu sai meglio di me.

Alberto                          - (molto turbato) Senti, Giacomo...

Giacomo                       -  Ti prego di non insistere. Poco fa ho dovuto sostenere una lotta -  una lotta af­fettuosa, s'intende -  con Matilde che vorrebbe accompagnarmi a ogni costo. Queste lotte sner­vano: spero che tu lo capisca. (Si ode la voce di Talluri:  «Si può? »).

Giacomo                       -  Da quando è direttore di giorna­le, Talluri ha imparato a urlare salendo le scale.

Talluri                            - (da fuori, bussando) Si può?

Giacomo                       -  Ma sì, entra.

Talluri                            - (entra. È quasi coetaneo di Giaco­mo. Apparentemente chiassoso e risoluto, è in fondo mite e sensibile) Salve. (Vedendo Al­berto) Oh, bravo, c'è anche lei. Dunque, inco­minciamo.

Giacomo                       -  Calma, calma. Alberto, scusa: dobbiamo parlare d'affari, di cifre: cose noiose che non possono interessarti. Mi fai la cortesia di andare cinque minuti di là, nel salottino in fondo?

Alberto                          -  Posso andar via senz'altro.

Giacomo                       -  Ma no: questione di cinque mi­nuti. Troverai libri, giornali, riviste. Va', caro. E scusa.

Alberto                          - (esce dalla prima porta di destra).

Talluri                            -  Hai dei segreti per il tuo pu­pillo?

Giacomo                       -  (perdendo la tensione che gli ha permesso di dominarsi; nervosamente) Al­berto non è un mio pupillo: è un mio amico. Be', volevi incominciare.

Talluri                            -  Incomincio. Prima di tutto, devi riconoscere che per quella faccenda dell'arti­colo ti sei comportato...

Giacomo                       -  ... da cretino: d'accordo. Ti chiedo scusa e non ne parliamo più. Va' avanti.

Talluri                            - (raffreddandosi) Di': che hai oggi?

Giacomo                       -  Ho fretta di sapere com'è andata la tua visita all'americano. Ci sei stato?

Talluri                            -  Ci sono stato.

Giacomo                       -  Ebbene?

Talluri                            -  Contentissimo della tua decisio­ne. Voleva telegrafare subito a Nuova York, ma io gli ho detto d'aspettare.

Giacomo                       -  Perché?

Talluri                            -  Per diversi motivi. Primo: perché lui dice che dovresti imbarcarti a Genova dopodomani, e io non sapevo se tu fossi pronto.

Giacomo                       -  Prontissimo.

Talluri                            -  Secondo: perché la tua partenza scombussola il mio piano.

Giacomo                       -  Che piano?

Talluri                            -  Io mi sono quasi impegnato di farti fare il ritratto a un ministro mio amico.

Giacomo                       -  Eh?

Talluri                            -  Sissignore. Questo, come punto di partenza. Dopo si vedrà per l'Accademia.

Giacomo                       -  (trasecolato) Io non capisco che cosa tu ti sia messo in testa.

Talluri                            - (battendo il pugno sulla scrivania) Mi sono messo in testa di farti avere tutti i riconoscimenti ufficiali che meriti.

Giacomo                       -  Me ne infischio dei riconosci­menti ufficiali! Lo vuoi capire, sì o no?

Talluri                            -  Dunque, dei riconoscimenti te ne infischi; dei soldi pure.

Giacomo                       -  Perfettamente.

Talluri                            -  E allora me lo dici perché vuoi andare in America?

Giacomo                       -  In America... è un'altra cosa. E poi ho dei motivi speciali.

Talluri                            - (aspetta; poi) Che non mi puoi dire, eh? (Mortificato) E va bene. (Si alza) Da quando sono direttore del giornale -  tu ti sei messo in testa che voglio diventare ministro, e non è vero, e poi non ci sarebbe niente di male -  io sono diventato per te una specie di idiota.

Giacomo                       -  Non dire sciocchezze.

Talluri                            -  0 almeno uno con cui non si può parlare di cose intime. Perché mi pare che ora non ce ne siano altre in giuoco. (Giacomo si muove inquieto in silenzio. Talluri gli si avvi­cina; molto affettuoso) Che, che hai? Nemmeno quando non avevamo di che sfamarci ti ho visto gli occhi che hai adesso.

Giacomo                       -  Oh, prima che me ne dimentichi. Io ho detto a Matilde che ho accettato la pro­posta dell'americano perché mi si vuole far fare il ritratto di un uomo politico che ammiro. Ri­cordati di questo. Dillo anche a tua moglie. Ci conto, eh.

Talluri                            - (scrutandolo) Incominci a dire bugie? Tu? E a tua moglie?

Giacomo                       -  Certe volte è necessario.

Talluri                            -  Tua moglie viene con te?

Giacomo                       -  No.

Talluri                            - (dopo una breve pausa, piano) E' accaduto qualche cosa, dopo quella sera?

Giacomo                       -  Ah, te ne ricordi di quella sera, eh? (Con un sorriso amaro) E' straordinaria la capacità che ho di capire, di sentire -  da un volger d'occhi, da un battere di ciglia, da un niente -  il nascere di certe cose. Quella sera, caro Talluri, non m'ingannavo quando ti dissi, per giustificare il mio turbamento, che la sim­patia viva che c'era sempre stata tra Matilde e Alberto incominciava a prendere un carattere speciale. Quella sera notai, non so come, che Matilde e Alberto, senza rendersene conto, in­cominciavano a essere spaventati dall'attrazione che sentivano l'una per l'altro.

Talluri                            -  Ma dopo, che cosa è successo?

Giacomo                       - Niente. Almeno nessun fatto ma­teriale. Ma la situazione, i sentimenti di allora si son fatti più chiari per me, più coscienti in loro, e naturalmente più tormentosi per tutti.

Talluri                            -  Ma infine si tratta di una sim­patia...

Giacomo                       -  Si tratta d'amore, mio caro. D'a­more! E' da mesi che io li vedo evitare di re­stare soli insieme, sfuggirsi pur sentendosi ne­cessari l'uno all'altra, aggrapparsi disperata­mente all'affetto, alla devozione che ognuno di loro ha per me.

Talluri                            -  E vai via per questo?

Giacomo                       -  Per questo. Il mio tormento s'è fatto insostenibile. Non riesco più a dominarmi. Già oggi mi son lasciato sfuggire parole che non avrei dovuto dire. Domani potrebbe essere peggio.

Talluri                            -  Ma invece di partire, non potre­sti tentare di chiarire...?

Giacomo                       -  Chiarire che cosa? Se tutto è chiaro! Se sino a due ore fa mi fosse rimasto qualche dubbio, ora non l'avrei più. Oggi, per due volte, Matilde e Alberto hanno evitato di stare insieme soli. Mi hanno parlato, separata­mente, l'uno dell'affetto che l'altra ha per me. Quando ho detto a Matilde che andrò in Ame­rica, lei si è offerta con insistenza d'accompa­gnarmi, nonostante sei mesi fa si fosse d'accor­do che io sarei partito solo. Quando Alberto ha saputo che Matilde resterà, si è offerto d'accom­pagnarmi lui.

Talluri                            -  Scusa, caro Giacomo: ma con quale scopo tu parti?

Giacomo                       -  Per allontanarmi, semplicemente. La situazione, ripeto, mi si è fatta insostenibile. E poi restare, continuare così è pericoloso. La preoccupazione di nascondere, di soffocare certi sentimenti, a volte li intorbida, li fa ingiganti­re. La lontananza toglie questa preoccupazione, fa vedere più chiaro, fa valutare più serena­mente.

Talluri                            -  Giacomo, non fare colpi di testa.

Giacomo                       -  Non è un colpo di testa. Ci riflet­to da mesi. Tutte le obiezioni possibili e imma­ginabili me le son fatte. Mi son detto persino: allontanarsi è una viltà; bisogna restare e lot­tare. Ma con chi lotto? Dove sono i nemici? Chi vuole insidiare la mia pace, il mio onore? Nes­suno! In loro non c'è, non c'è mai stata nem­meno l'ombra che avrebbe potuto farmeli ap­parire colpevoli. Lottano penosamente per na­scondere forse anche a loro stessi i propri sentimenti. Li vedo impallidire e tremare al pensiero che io possa capire e soffrirne. Mi colmano di premure, di affetto, di devozione... Matilde... Tu non puoi immaginare che cosa siano certe cure materne e pietose, certe dedi­zioni tremanti in cui io sento la volontà dispe­rata di farmi felice. E allora mi vedo, mi sento quello che sono: un povero vecchio a cui una creatura giovane fa con pazza generosità l'ele­mosina di sé.

Talluri                            -  Un vecchio! E' una fissazione, la tua. Alla fin fine non hai cinquant'anni, e sei un uomo ancora...

Giacomo                       -  ... ancora in gamba, eh? (Sorride amaramente) Eh, caro: la forza non è la gio­vinezza. E' ben altro la giovinezza! e ha bi­sogno d'altro. Cerca di rivederti com'eri a venti­cinque anni, a trent'anni. Ben altro, caro. Ma questo ha un valore secondario. Anche se io fossi giovanissimo, la situazione potrebbe es­sere la stessa. E sarebbe lo stesso il tormento ; la stessa la paura di far ribrezzo alla persona che non sente più il mio abbraccio come un neces­sario divino delirio; lo stesso il rimorso di ren­dere penosa la vita a due creature che si vogliono bene e a cui io voglio tanto bene. Lo stesso il bisogno di allontanarmi.

Talluri                            - (dopo una breve pausa) Scusa, Giacomo, se insisto. Cerca di dominare il tuo tormento e rifletti bene prima di partire. Pensa che per quanto nobili... La natura umana, lo sai, è debole... Durante la tua lontananza po­trebbe accadere... l'irreparabile.

Giacomo                       -  (dominando un improvviso turba­mento profondo) Non credo. Non credo. Sono certo -  e non ti saprei dire da che cosa mi viene questa certezza -  sono certo che, sin che io vivo, Matilde non sarà di un altro uomo. Impossibile. Ed è forse questa certezza che mi fa guardare la situazione con una certa serenità, senza quel sottile orgasmo di natura un po' sessuale che  in questi  casi  intorbida sempre la I vista. (Breve pausa). Ma anche se dovesse ac-| cadere l'irreparabile...  Io conosco Matilde, conosco Alberto... so che la menzogna e la volgarità tra noi non saranno mai possibili... Ebbene, j sarebbe una liberazione, per quanto  dolorosa! (E poiché Talluri fa per obiettare con uno scatto doloroso) Impedirlo a forza? Con quale risultato, se si amano? Con quale risultato sopra tutto di fronte a me stesso? (Esausto, con  un sorriso  amaro)  Sai: in  questi ultimi mesi ! mi son posto degli strani quesiti. Mi son chiesto, per esempio: ma in fondo che cosa è l'amore? Quando si ama una creatura, le si vuole rallegrare la vita, farla felice, no? E si è disposti, si crede di essere disposti a fare qualsiasi sacrificio per  vederla  felice.  Ma se a un  dato punto  ci  accorgiamo  che  quella  creatura con I noi non è, non può essere felice, ecco che noi, invece di lasciarla libera, ricorriamo ciecamente a ogni mezzo per tenercela ancora legata. Ora, nella volontà che ci spinge a questo, che cosa c'è? Pensaci bene. C'è un po' di tirannia e un ; po' di domanda di elemosina. Insomma, qualche cosa di vile. (Sta un momento assorto, poi i ripete, quasi tra sé) Qualche cosa di vile. (Breve pausa). E dire che nel linguaggio familiare noi diciamo « voler bene » invece di « amare », Guarda  che  c'è  un  senso profondo  nel  significato  letterale di  questa espressione: « voler bene ». Un amore che fa fare del male invece che  del bene  alla  persona  amata,  che  amore è mai?

Talluri                            - (commosso)  Sei  veramente  un uomo...

Giacomo                       -  Un uomo, semplicemente. (Con I un sorriso desolato) Un uomo che vuol bene. (Pausa).  Ti  sono  molto  grato  di  avermi dato l'occasione di parlare. Per quanto mi sforzassi d'essere calmo, qualcosa dentro mi si ingorgava j aspramente. Persino la mia voce mi sembrava quella  di  un  altro: la sentivo stridere,  e ne  soffrivo. Ora sono abbastanza tranquillo.  Mi  ritrovo. Che, s'è fatto tardi! Dunque hai detto che l'americano voleva telegrafare a Nuova York,  no? Bisogna  andarlo a  trovare  subito. Andiamoci insieme.

Talluri                            -  Hai detto ad Alberto che l'avresti chiamato.

Giacomo                       -  Ah, già. (Va alla prima porta di destra  e  chiama forte) Alberto! Alberto! (A Talluri) Non sento il bisogno di raccomandarti il silenzio.

(Entra Alberto).

Giacomo                       -  (con quanta gaiezza e affettuosità può, battendogli la mano sulla guancia) Che, dormivi? Pare che ti sia svegliato all'improv­viso. Su, sveglia e allegro. Scusa se t'ho fatto aspettare troppo. Talluri m'ha parlato ampia­mente delle condizioni della mostra. Ottime sotto tutti i punti di vista. Non accettare sa­rebbe una corbelleria  imperdonabile.

Alberto                          -  Io ti prego ancora di permet­termi di venire con te.

Giacomo                       -  Sei cocciuto, ohe. Non insistere, caro. Tanto più che ho bisogno che tu resti qui. Talluri s'è quasi impegnato di farmi fare il ritratto a un ministro. (A Talluri) Se il tuo ministro vuole per forza vedersi dipinto, cerca di farmi sostituire da Alberto. (Ad Alberto) Se il soggetto non ti piace, pazienza: è un favore  che  ti  chiedo.  Be',  noi  ora  usciamo...

Matilde                         - (entra dalla comune. Porta un mazzo di fiori).

Giacomo                       -  Oh, ecco Matilde. (Andandole in­contro) Coi suoi immancabili fiori per me. Uh, quanti! (Li prende e li odora).

(Talluri e Matilde si stringono la mano).

Giacomo                       -  (con una gaiezza tesa e vacillante che par debba da un momento all'altro mutarsi in pianto) Grazie, cara. Sono molto contento, sai. Le condieioni della mostra -  Talluri me ne ha parlato ampiamente -  sono ottime. E' una vera fortuna, te l'assicuro. Ora esco, ma torno presto. (Dandole i fiori) Tieni, cara. Ser­viranno per la tavola. (Ad Alberto e a Talluri). Voi restate a pranzo con noi, eh. Bisogna es­sere molto allegri. Andiamo, Talluri?

Talluri                            -  A rivederci, Matilde. Ciao, Al­berto.

Giacomo                       -  (sulla soglia) A rivederci, ragazzi! Arivederci! (Esce insieme con Talluri).

Matilde                         - (fa lentamente qualche passo, posa i fiori, e incomincia a sbottonarsi i guanti. A un tratto lascia cadere le braccia inerti lungo il corpo e fissando quasi suo malgrado Alberto, con voce turbata) Ma perché Giacomo va in America?

Alberto                          - (con atteggiamento e voce simili a quelli di lei) Stavo per fare a lei la stessa domanda.

Fine del secondo tempo

ATTO TERZO

 (Dopo qualche anno, a Nuova York. Una sof­fitta poveramente mobiliata. In fondo una gran de finestra; porte laterali. Una stufa accesa; un divano senza spalliera che serve da letto; una specie di cavalletto; pochi quadri senza cornice posati a terra. E' un pomeriggio d'in­verno. Nevica. La scena è vuota).

Giacomo                       -  (entra da destra. E? quasi irricono­scibile: molto invecchiato e un po' incurvato; ha la barba lunga, quasi bianca; porta occhiali a stanghetta. E' vestito di grigio assai modesta­mente. La sua voce, che s'è fatta stranamente profonda e come lontana, è a volte un po' asma­tica. Siede, stanco, sulla prima sedia che trova. Dopo un poco si alza, va alla porta di sinistra e chiama). Signora!

Teresa                            - (una giovane di ventitré anni, appare sull'uscio) La signora è fuori. Ha bisogno di qualche cosa,  signor Donati?

Giacomo                       -  Se per lei non è di disturbo... un po' d'acqua calda per farmi una tazza di tè.

Teresa                            -  C'è del tè già pronto. Ne vuole una tazza?

Giacomo                       -  Sì, grazie.

(Teresa esce. Giacomo si leva il cappotto e siede vicino alla stufa, a riscaldarsi. Teresa ritorna e gli versa il tè).

Teresa                            -  E' troppo carico?

Giacomo                       -  No: va bene.

Teresa.  E' stanco, signor Donati?

Giacomo                       -  Sì, un poco.

Teresa                            -  Perché oggi non è venuto a cola­zione?

Giacomo                       -  Mi trovavo lontano: al centro.

Teresa                            -  Ma... scusi... ha mangiato?

Giacomo                       -  Sì, ho... ho preso qualche cosa: non avevo molto appetito.

Teresa                            -  Quei due quadretti, li ha venduti?

Giacomo                       -  Non sono riuscito a vedere il direttore della galleria. Glieli ho lasciati lì. Ci tornerò domani. Come fa bene, eh, con questo freddo, una tazza di tè caldo. E lei perché ha gli occhi rossi? Ha pianto? (Teresa tace) Sem­pre liti, col suo fidanzato?

Teresa                            -  Ma questa è l'ultima.

Giacomo                       -  L'ultima per oggi, s'intende.

Teresa                            -  Per sempre. Non ne posso più di questa vita. Ora che incomincia ad avere i soldi e che io sono rimasta senza nessuno, fa il despota. E non vuole ch'io cerchi lavoro apposta per comandare lui in tutto e per tutto. Ma io non ne voglio più sapere. Poco fa gliel'ho detto chiaro e tondo. E quando io dico una cosa...

Giacomo                       -  Ha fatto male a dirla.

Teresa                            -  Perché?

Giacomo                       -  Perché gii vuol bene, e domani se ne pentirà.

Teresa                            -  Io? Piuttosto che rimangiarmi quello che ho detto, soro capace...

Giacomo                       -  Zitta, zitta. Non bisogna mai dirsi: io sono capace di fare questo, io devo fare questo; perché è una specie di impegno che si prende con se stessi; un impegno che poi non è sempre possibile mantenere senza sof­frire molto.

Teresa                            -  Lei crede che io non sia capace, anche pentita, di andarmene lontana e vivere sola, col mio lavoro?

Giacomo                       -  E' capacissima, lo so. E appunto per questo le consiglio di non dirselo, di non proporselo. Veda: quando si è orgogliosi come è lei, si sente a volte, in certe circostanze, il bisogno imperioso di fare certi atti oltre che per il vero motivo che li provoca, anche per... non so... per affermare di fronte a se stessi la propria dignità.

Teresa                            -  Ecco, precisamente: perché le assicuro che è così umiliante...

Giacomo                       -  Lo so, cara, lo so. E allora, come dicevo, è facile fare certi atti che comportano anche gravi rinunzie. E si sente subito un grande sollievo. Ma il difficile, il doloroso viene dopo.

Teresa                            -  Dopo... sarà quel che sarà.

Giacomo                       -  E' meglio pensarci prima a quello che sarà dopo. Sia più umile, bambina mia. Lei è sola al mondo; ma qui la signora la tratta quasi come una figlia, non come una pensio­nante;  il suo amico in fondo le vuole bene...

Teresa                            -  A modo suo.

Giacomo                       -  Ognuno vuol bene a modo pro­prio. Capisco: lei sognava una vita perfetta, un amore senza ombre. E' il sogno di molti, sa. E tanto più questa aspirazione è stata forte, sin da diventare un bisogno del nostro organismo, tanto più si crede che sia meglio rinunziare a quello che si ha quando non risponde perfetta­mente a quello che si vorrebbe. Ma dopo... Il cuore umano, ragazza mia, è così complicato, e sopra tutto così debole... (Assorto) E poi chi sa se in fondo la cosiddetta felicità consista nel miracolo -  ed è un vero miracolo, sa  - di una vita perfetta, senza ombre, oppure in tante! piccole cose di cui quasi non ci accorgiamo quando le abbiamo: il caratteristico odore di  una casa, il suono di una voce, un fiore donato con un certo sguardo, un gesto, una carezza abituale... che so: una mano che si posa lieve sulla fronte... (Resta con lo sguardo nel vuoto, il viso dolorosamente contratto).

Teresa                            - (guardandolo con apprensione) Signor Donati!

Giacomo                       -  (come destandosi, si volta a guardarla; poi, sorridendo triste) Sia più umile, bambina mia. Sia più umile.

(Si bussa. Teresa va ad aprire).

Barnabò                        - (da fuori) Mister Donati? (Entra. E' un uomo di sessant’anni, rubicondo e  loquace.  Accento  fiorentino). Caro  Donati.

Giacomo                       - (un po' confuso) Oh, lei?

Teresa                            - (prende la tazza e la teiera ed esce t da sinistra).

Barnabò                        -  Passavo di qui e sono salito a f farle una visita.

Giacomo                       -  Stamattina io le ho lasciato nella f galleria quei due quadretti di cui le avevo 1, parlato.

Barnabò                        -  Ho visto, ho visto. Non c'è mica ' male. Ma non si monti la testa, eh.

Giacomo                       -  (con amara ironia) Non c'è pericolo, gliel'assicuro.

Barnabò                        - (siede) Se lei fosse molto più giovane, le direi: ci sono delle buone attitudini. Non si formalizzi. Lei sa che l'età dell'artista ha molta importanza. Io, amatore -  perché io non sono uno dei soliti proprietari di gallerie: io sono un amatore ; potrei anzi dire un mecenate, ma non lo dico -  dunque io, amatore, compero il quadro di un artista sconosciuto con  la speranza che domani, quando cotesto pittore si sarà affermato, il quadro mi diventi... mi dia insomma la soddisfazione d'aver capito il merito e d'aver aiutato l'artista nei suoi primi I passi che sono duri. Glielo dico io: duri.

Giacomo                       -  Capisco perfettamente.

Barnabò                        - (un po' smontato dell'atteggiamento: di Giacomo) Lei ha mai esposto?

Giacomo                       -  No, mai.

Barnabò                        -  E come va... voglio dire... alla sua f età...

Giacomo                       -  Veda: sino a qualche anno fa io ho dipinto... così...

Barnabò                        -  Insomma, da dilettante, eh?

Giacomo                       -  Ecco.

Barnabò                        -  E poi?

Giacomo                       -  Poi... peripezie non liete... una piccola industria che avevo nel Brasile è an­data a male... ho avuto una polmonite grave che mi ha indebolito assai e mi ha lasciato degli acciacchi... Ho tentato di fare qualche altro la­voro, ho cercato un'occupazione; ma alla mia età, capirà, non è facile. E allora ho pensato di cercare di vivere con i miei quadretti.

Barnabò                        -  Eh già, eh già. Purtroppo il mo­mento non è propizio. La pittura è in crisi, si­gnore mio. Una crisi come questa non s'era mai vista. Quelle d'un tempo, roba da ridere. Ricordo, quindici anni fa, quando io ero a Fi­renze -  perché io sono fiorentino, sa. Lei, scusi, di dov'è?

Giacomo                       -  Sono... di Roma.

Barnabò                        -  Ah, è romano? Strano: dalla faccia m'era parso siciliano. Be', mi fa molto piacere: perché i siciliani non mi sono tanto simpatici. Anzi le confesso che non li posso soffrire. Gente presuntuosa, invadente, chiac­chierona... Non è vero?

Giacomo                       - (indifferente, fa un gesto vago).

Barnabò                        -  E poi, senza linea. E nella vita la linea è tutto. Non le pare? (Giacomo fa un cenno d'assenso) E dunque... di che parlavamo? Ah già: della crisi. Quindici anni fa, quando io ero a Firenze... Sa: avevo una galleria coi nocchi, mica come questa. E non per vantarmi, ne ho aiutati, sa, pittori. Sono stato io, io! a comperare i primi quadri di Zuda. (A un lieve moto di Giacomo) Giacomo Zuda, il grande pittore che perì nel naufragio del transatlantico « Excelsior ». Ora non si trova un suo quadro a pagarlo un occhio. Io ho offerto cinquanta­mila dollari per un quadretto così. Niente! La vedova non vuole vendere, e il ministro Talluri ha fatto comperare dallo Stato tutti i quadri che c'erano in giro. Be', allora, quindici anni fa, provava la fame.

Giacomo                       -  Lei l'ha conosciuto Zuda?

Barnabò                        -  Se le dico che l'ho aiutato quando non ne voleva sapere nessuno!

Giacomo                       -  Zuda era siciliano, mi pare.

Barnabò                        -  Sì. E anche lui... La razza, sa. Ma era un grande pittore! E io glielo dissi subito, sa, perché io non sono di quelli che vanno col contagocce nel riconoscere il merito. Quando Zuda mi presentò quel suo quadro giovanile «Amleto», io gli dissi subito: « Giovinotto, non si scoraggi: studi e lavori: lei diventerà un grande pittore ». Perché sorride? Non ci crede?

Giacomo                       -  Altro che! Sorridevo... pensando alla gioia che avrà provato quel povero giovane nel sentire il suo giudizio autorevole.

Baknabò                        -  Indescrivibile! E dunque, di che parlavamo?

Giacomo                       -  Senta, signore. Io non voglio che lei sciupi con me il suo tempo prezioso. Mi vuol dire, per cortesia, se si può fare qualche cosa coi miei quadretti?

Barnabò                        -  Ecco. Di mostra personale, anche se lei ha il materiale, non ne parliamo.

Giacomo                       -  Non ci penso neppure.

Baknabò                        -  E allora senta: io tengo i quadri, glieli metto in vista nella mia galleria, e quando capita l'occasione...

Giacomo                       -  Se si potesse trovare un modo più immediato...

Barnabò                        -  Capisco: lei ha bisogno. E al­lora, guardi: per aiutarla, proprio per aiutarla...

Giacomo                       -  (con un moto involontario dell'an­tica fierezza) La prego di ricordarsi che io non le ho chiesto l'elemosina.

Barnabò                        - (un po' sconcertato) Be', e questo che c'entra?

Giacomo                       -  (sorridendo) Nulla, veramente. Mi scusi. Non avevo capito bene la sua inten­zione, che è molto generosa.

Barnabò                        -  Eh ! Be', senta: dica lei una cifra. Ma non esageri, per l'amor di Dio.

Giacomo                       -  Mi accontento di poco.

Barnabò                        -  Dica, dica pure una cifra.

Giacomo                       -  Cento dollari.

Barnabò                        -  Per tutt'e due?

Giacomo                       -  Sì.

Barnabò                        - (che s'aspettava molto di più) Ve­ramente non è tanto poco, ma... date le sue condizioni... (Guardando in giro) Quei quadri sono finiti?

Giacomo                       -  Qualcuno.

Baknabò                        - (si alza e prende un quadretto) E' un ritratto?

Giacomo                       -  Sì: della ragazza che è venuta ad aprirle. Ma non ho intenzione di venderlo.

Barnabò                        - (dopo aver ben guardato il quadro) Lei ne ha visti quadri di Zuda?

Giacomo                       -  No, mai.

Barnabò                        -  Possibile? Qui c'è un'influenza di Zuda molto [forte.

Giacomo                       -  Ho visto delle riproduzioni.

Barnabò                        -  Ah, ecco. Questo basta. (Conti­nua a guardare il quadro. Poi, colto da un'idea improvvisa, molto espansivo) Caro Donati, noi dobbiamo diventare amici. L'artista, per me -  lei l'avrà capito -  è come un fratello. Per quei due quadretti ci metteremo d'accordo. Se lei ha bisogno, io li compero subito.

Giacomo                       -  Gliene sono molto grato.

Barnabò                        -  Però lei mi deve fare un favore. Favore per modo di dire. Deve accettare una commissione. Ecco di che si tratta. C'è la signora di un mio amico -  una mezza matta, sa -  che vuole per forza un quadretto di Zuda. E' una fissazione. Non dà pace al mio povero amico, il quale non dà pace a me. Be', lei mi deve aiu­tare. Io le procuro delle riproduzioni bellissime di tutti i quadri di Zuda, e lei mi fa una testa, una testina così, di quel tipo; imitando bene, s'intende.

Giacomo                       -  Impossibile, signore. Io sono un modesto dilettante: non riuscirei...

Barnabò                        -  Lei ci riuscirà benissimo: glielo dico io.

Giacomo                       -  E poi... dovrei mettere la firma di Zuda, no?

Barnabò                        -  Si capisce.

Giacomo                       -  Sarebbe un falso, scusi.

Barnabò                        -  Che falso, per l'amor di Dio! Se le dico che è per accontentare una povera pazza. Si tratta di un'opera di carità. E guardi che lei avrà un compenso tale...

Giacomo                       -  Non posso accettare. La prego di non insistere. Piuttosto, se lei vuole comperare quei due quadretti...

Barnabò                        -  Mio caro, se lei mi rifiuta un fa­vore... Be', senta. Io me ne vado. Lei ci pensi, ci pensi bene, e poi mi venga a trovare. E si ricordi che se accetta, io la metto in grado di poter vivere qualche anno senza preoccupa­zioni. No, ora non mi dica niente. Ci pensi su. A rivederla, Donati. (Esce da destra),

Giacomo                       -  (dopo che Barnaba è uscito, ha un gesto improvviso di collera e di sdegno) Ah ! (Ma subito, come sorpreso di quel suo gesto, prorompe in un sommesso riso acre. Viene avan­ti, apre il cassetto di un tavolino, prende un biscotto e lo morde quasi rabbiosamente; con un sorriso amaro) Cinquantamila dollari, un quadro di Zuda!

(Si bussa alla porta di destra).

Giacomo                       - (dopo aver chiuso in fretta il cas­setto) Avanti.

(La porta di destra si apre e appare Alberto).

Giacomo                       -  (soffoca un'esclamazione e resta come impietrito, gli occhi sbarrati su Alberto).

Alberto                          - (dopo un momento, con un grido esultante, correndo a lui) Giacomo! (Ma a qualche passo da Giacomo si arresta, come fermato dal suo sguardo. Ripete tremando, quasi senza voce) Giacomo!

(Pausa).

Giacomo                       -  (ad un tratto, con voce soffocata) Chi c'è di là?

Alberto                          -  Nessuno.

Giacomo                       -  Matilde è a Nuova York?

Alberto                          -  No.

(Pausa).

Giacomo                       -  (come esausto, amaro) Perché sei venuto? Come hai saputo?

Alberto                          -  Non sapevo: sospettavo. Due mesi fa, a Roma, vidi un quadro firmato Donati, portato lì da uno che era stato in America. Il tuo disegno, il tuo tocco, il tuo colore, sebbene alterati. Cercai la persona che aveva portato il quadro. L'interrogai, le chiesi i connotati del pittore. Quando mi parlò della piccola cica­trice che tu hai sulla fronte... Non so che cosa provai. Possibile? mi dicevo. La notizia del nau­fragio e della tua sparizione era stata data in modo tale da non lasciare speranze. Ma pur contro ragione, il dubbio ingigantiva. Mi pareva di dover impazzire.

Giacomo                       -  (con tono tra acre e affettuoso) Perché ti pareva di dover impazzire?

Alberto                          -  E me lo domandi?

Giacomo                       -  (amaramente) Hai ragione: è una domanda ingenua.

Alberto                          -  Che vuoi dire? (Con orgasmo) Io non arrivo a capire che cosa tu abbia creduto!

Giacomo                       -  Io ho creduto soltanto quello che esisteva. Nulla di più e di peggio.

Alberto                          -  Ma il naufragio? Com'è avvenuto che tu...?  Come hai potuto...?

Giacomo                       -  Calmati, calmati.

Alberto                          - (fissandolo, con terrore) Giacomo!

Giacomo                       -  No, non mi guardare così. Non sono pazzo. Non lo sono mai stato. Ho fatto quello che ho fatto per il tuo, per il vostro bene. Non m'interrompere, ti prego. Ti dirò tutto. Ormai è necessario. Il naufragio, lo sai, avvenne di notte. Non so come mi trovai su una barca, tra gli urli di terrore. Vidi, illuminata da un ri­flettore, la nave che colava a fondo. Il risucchio enorme lanciò la barca a un'altezza spaventosa. Mi trovai lontano, aggrappato a qualche cosa che galleggiava. Chiusi gli occhi. Non so quante ore passarono. Aprendo gli occhi vidi il cielo sereno e il lume di un'imbarcazione vicina. Mi misi a nuotare, ma perde i presto i sensi. Quando mi destai mi trovavo in una capanna di pescatori quasi sperduta, molto lontano dal luogo do­ve era avvenuto il naufragio. Avevo la febbre alta. Non potevo parlare. Una povera vecchia che m'assisteva sillabava un giornale: la notizia del naufragio, il mio necrologio. Sono morto, pensavo, sono morto. E sentivo una grande pace, che i dolori del corpo non riuscivano a turbare.

Alberto                          -  Ma dopo, quando fosti in grado di parlare? guarito?

Giacomo                       -  Dopo... il mio primo pensiero fu certo di tornare in Italia, nella mia casa. Ma pensai a Matilde. Pensai al motivo per cui ero partito. Mi vidi, vecchio e ammalato, in mezzo a voi, giovani sani che vi amavate, a soffocarvi la vita. Mi prese un senso opprimente di ver­gogna, di nausea di me. Allora mi ricordai di un certo discorso che avevo fatto a Talluri; e stringendo i denti, mi dissi: Giacomo, tu pen­savi di poter rinunciare davvero alla tua donna pur di vederla felice, oppure dicendo questo e partendo facevi soltanto un bel gesto per legarla a te più fortemente? Ricordati che non nascondesti abbastanza il motivo che ti faceva partire! Ora, ora che sei solo con te stesso, ora che nessuno può vedere e sapere, ora -  se tu sei davvero quell'uomo che hai creduto di es­sere -  devi fare di quello che forse era un bel gesto, un « atto », vero e definitivo! Ti credono morto per una disgrazia -  ebbene, resta morto !

Alberto                          - (dopo una pausa, come vincendo una lotta intima, piano) Tutto questo sarebbe su­blime se non fosse stato egoistico.

Giacomo                       -  Egoistico?

Alberto                          -  Terribilmente egoistico. Tu non hai pensato che a te: alla tua umiliazione di dover tornare invecchiato e ammalato alla tua donna giovane e sana, alla tua vergogna di...

Giacomo                       -  (prorompendo) Non ho pensato che a me? a me? Lo sai che cosa vuol dire ri­nunciare a tutto, persino al proprio nome? Vi­vere solo in un paese straniero, a cinquant'anni, ammalato,  affamato?

Alberto                          -  E tu lo sai che cosa vuol dire togliere a una creatura la sua ragione di vivere? Non conoscevi Matilde? Non sapevi di che na­tura era il suo amore per te? Non sapevi che nessun altro sentimento, per quanto forte, avreb­be potuto vincere in lei il bisogno di essere, di sentirsi per te qualche cosa di vitale e di inso­stituibile? Tu prima non hai pensato che par­tendo in quel modo dimostravi a tua moglie di non averle fiducia, e incominciavi a farle per­dere la fiducia in sé, che lei aveva trovata e conservata nel suo amore per te. E poi non hai pensato che, sparendo, dopo averle fatto sospet­tare il vero motivo della tua partenza, le davi un rimorso atroce che le avrebbe avvelenata per sempre l'esistenza. Tu a tutto questo non ci hai pensato. Tu hai pensato soltanto a dimo­strare a te stesso che eri davvero quell'uomo che  avevi creduto  di essere.

Giacomo                       -  (con voce affannosa) Io ero si­curo che la mia scomparsa potesse essere per lei... per voi...

Alberto                          -  Che cosa? Un rimorso comune che ha messo tra noi una barriera insormon­tabile. Il suo primo sguardo, quando dopo il naufragio andai a trovarla in Sicilia -  perché se n'era andata da tua zia Lucrezia dopo due giorni che tu partisti -  il suo primo sguardo fu pieno  di rancore.

Giacomo                       -  (scrutandolo, acre) E' per questo che mi rimproveri il mio «egoismo» ?

Alberto                          - (lo fissa in silenzio, colpito; poi, alteramente) Si ! Ma non per me: per lei. Perché in quelle poche ore che passai allora con Matilde, capii che in lei non c'era più pos­sibilità d'amare. Capisci che cosa significa que­sto per una donna giovane? Per quella donna? Capisci che cosa hai fatto?

Giacomo                       -  (si prende il capo fra le mani e ha come un mugolio di belva ferita. Fa qualche passo barcollando, poi s'abbatte su una sedia, col respiro affannoso).

Alberto                          - (mite, quasi affettuoso) Possi­bile che tu, conoscendo Matilde, non abbia mai pensato a questo?

Giacomo                       -  (piano, con aspro dolore) Ci ho pensato, dopo. Ci ho pensato. Ma era troppo tardi. E poi credevo che la sua giovinezza e il vostro amore finissero col vincere ogni rimorso e ogni tormento. E questo pensiero mi ha fatto giustificare sinora la mia rinunzia.

Alberto                          - (dopo una pausa) Giacomo, tu devi tornare in Italia.

Giacomo                       -  (subito, alzandosi, come se gli aves­sero toccato una piaga) No, mai! Niente pa­gliacciate! Niente pagliacciate!

Alberto                          -  Sarà facile trovare una giustifica­zione ragionevole!

Giacomo                       -  Per gli altri, non per me.

Alberto                          -  Devi tornare per Matilde.

Giacomo                       -  (dopo una breve pausa, in preda a una lotta intima, piano) Matilde sa che tu sei qui, e perché sei venuto?

Alberto                          -  No. Stavo per scriverglielo, anche per giustificare il rinvio della mia visita, ma non ne ho avuto il coraggio.

Giacomo                       -  (scrutandolo) Il rinvio della tua visita ?

Alberto                          - (colpito dallo sguardo di lui, debol­mente) Sì. Le avevo chiesto il permesso di andarla a trovare... per vedere come stava... se aveva bisogno di qualche cosa...

Giacomo                       -  E lei?

Alberto                          -  Mi ha risposto un semplice « venga ».

Giacomo                       -  Ah, ti ha risposto « venga » ? « venga » ? (Risollevandosi con una specie di gioia amara) Non m'ingannavo! Non m'ingan­navo! E tu non hai capito che cosa vuol dire quel semplice « venga », scritto da Matilde? Vuol dire che s'è già rassegnata per la mia scomparsa e che ti attende a braccia aperte! Non l'avevi capito? (Prendendolo per le brac­cia, gli occhi negli occhi) No? Nò? (Lascian­dolo, gelido, acre) Tu l'avevi capito. Sì! Sì! Ma mentre ti preparavi a correre da lei, ti capitò sotto gli occhi quel mio quadro firmato Donati. Ecco perché ti pareva di dover impazzire: non ti sentivi l'animo di andare da Matilde col mio fantasma davanti. Bisognava prima scacciare quel fantasma importuno. E allora sei partito per Nuova York per accertarti che quel Donati non ero io, e poi correre rasserenato da Matilde. (Alberto fa per parlare). Ma hai trovato me! E allora ti sei sentito vittima del mio egoismo -  e me l'hai rimproverato, il mio « egoismo » -  tu, proprio tu! -  come a un bambino colto in fallo, violentemente. E io quasi a chiederti perdono -  perdono a te! -  d'aver rinunziato alla mia donna, al mio nome, alla mia vita! (Prorompe in un convulso riso amaro).

Alberto                          - (con angoscia) Io ti chiedo per­dono del tono che senza volere ho usato con te... Ma tu non puoi, non devi sospettare in me... Se fossi stato spinto dai sentimenti che tu immagini, non ti avrei detto: torna in Italia.

Giacomo                       -  Me l'hai detto perché tu ora non ti senti l'animo di andare da Matilde con que­sto segreto, e il mio ritorno sarebbe per te una liberazione. E non pensi che ora, ora che Matilde s'è già messo il cuore in pace per me e attende te, il mio ritorno l'ammazzerebbe sul serio. (Esausto). Ma basta, basta. Lasciami in pace, ti prego.

Alberto                          -  Giacomo... io ti... ti giuro che non rivedrò mai più Matilde.

Giacomo                       -  Bravo! Hai dato a quella disgraziata la certezza d'essere amata, la certezza di poter diventare per te la compagna che fu per me, la certezza di poter tornare a vivere, e ora prendi la fuga. (E poiché Alberto fa per obiet­tare). Ma queste sono cose che riguardano te. Ormai non m'interessa più niente. Lasciami in pace, ti prego.

Alberto                          -  Giacomo, noi dobbiamo parlare serenamente. Ora è impossibile: siamo troppo sconvolti. Dobbiamo vederci ancora.

Giacomo                       -  No: è inutile.

Alberto                          -  E' necessario. Tornerò domani.

Giacomo                       -  (scattando) No! non tornare! Non voglio spiegazioni. Non voglio sapere più niente.

Alberto                          - (con un impeto angoscioso) Ma come puoi continuare a vivere qui, così, solo?

Giacomo                       -  Non ci pensare. Io vivo come voglio. Vattene e non tornare. E bada, bada di non dire a Matilde che io son vivo! L'am­mazzi, se glielo dici! Capisci? (Con voce sof­focata e terribile). E non devi dirlo mai a nessuno! A nessuno! Se vengo a sapere che hai parlato, mi uccido! E tu sai che sono capace di farlo!

Alberto                          - (con un singhiozzo nella gola) Giacomo! Ci stiamo lasciando come nemici! Noi!

Giacom/o                      -  Io non ho più né amici né ne­mici. Vattene pure tranquillo, senza rimorsi. (E poiché Alberto indugia; piano, imperioso) Non hai sentito?

Alberto                          - (esce soffocando i singhiozzi).

(Incomincia ad annottare. La scena è nella penombra. Il chiarore che sale dalla città illu­minata fa vedere attraverso i vetri della fine­stra la neve che fiocca densa).

Giacomo                       - (resta un poco fermo, con gli occhi spalancati senza sguardo. Il viso gli si contrae in espressioni d'angoscia e il respiro gli si fa sempre più affannoso. E' preso dalla soffoca­zione. Va barcollando alla finestra e la spalanca. Investito dalla neve e dal vento, se ne al­lontana e vaga per la stanza come invasato. Ad un tratto si ferma. Gli occhi gli si fanno vitrei. Ripete con un gesto fermo) E sono capace di farlo! (Fa ancora qualche passo e si abbatte su una sedia. Immobile, con voce spenta) Inu­tile anche questo. (L'oscurità cresce. Si ode, nel silenzio, il suo respiro affannoso di asmatico).

FINE