I MORTI NON FANNO PAURA

 

I morti non fanno paura

Atto unico

diEduardo De Filippo

(1952)

Persone

Enrico

Nicola

Pietro

Giovannino

Alfredo

Amalia

Carmela

Dottore

Una povera casa di due stanze. Quella che vediamo è la più misera, anche perché presenta l’inconveniente grave di non poter contare sul disimpegno assoluto di essa, per via della porta d’ingresso che da sulle scale, e che si trova in fondo a sinistra. In fondo a destra un balconcino dal quale, attraverso ì vetri, si scorgono le altre case del povero quartiere napoletano. Fra la porta d’ingresso e il balconcino, addossati provvisoriamente alla parete, si troveranno due comodini da notte e le due spalliere di un letto ad una sola piazza; accanto ad esse ben arrotolato uno striminzito materasso di crine. In alto, sulla stessa parete, notiamo tutto quanto serve di solito ad arricchire un muro sovrastante una testata di un letto matrimoniale: fotografie stinte, la palma benedetta, la rituale candela istoriata, una brutta immagine sacra (un Cristo dipinto male o una Madonna) e un ritratto-ingrandimento ovale in cornice raffigurante un massiccio uomo sulla sessantina; il padrone di casa. Alla parete di sinistra, un mobile armadio e qualche sedia; a quella di destra una piccola porta che da nell’altra stanza.

È sera. La stanza è illuminata più dalla luce «fegatosa» che entra dal pianerottolo delle scale, che dalla lampada agonizzante ormai, che pende dal centro del soffitto. In primo piano a destra, infreddolita e stanca, sprofondata in una traballante poltrona imbottita, ravvolta in uno scialle nero, spettinata e con gli occhi istupiditi e cerchiati di rosso, vediamo Amalia, denutrita figura di donna sui cinquant’anni; la recentissima vedova di Gennaro Acampora, operaio manovale della Compagnia del Gas; quello che schizza salute dall’ovale in cornice. Accanto ad Amalia, meno infreddolita, seduta in un atteggiamento apparentemente indispettito, — come se la morte avesse dovuto chiedere permesso a lei prima di pigliarsi don Gennaro, — è la signora del 4° piano, che si è fatta in quattro per l’occasione, donna Carmela. A sinistra, sinceramente addolorati, siedono l’uno accanto all’altro due colleghi del defunto: Alfredo e Giovannino. Tutti e due hanno posto sulle ginocchia i berretti da lavoro con la scritta: «Compagnia del Gas». Lunga pausa. Rompe il silenzio qualche lamento rassegnato di Amalia misto a parole incomprensibili.

Giovannino Cose da pazzi! (Sottovoce al collega) Alfre’, tu mi devi credere, io sono rimasto talmente scosso che per rimettermi ci vorranno un paio di mesi.

Il lamento di Amalia si fa più distinto.

Alfredo Tu? E io? Non più tardi di tre giorni fa, siamo stati qua, seduti a giocare a scopa fino a mezzanotte…

Giovannino Quando stamattina ho saputo la notizia, mi sono sentito talmente male… e non mi sono ripreso ancora. È stato un fulmine.

Carmela (rimostrando l’ovale sulla parete in fondo)

Guardate là… Un uomo massiccio… con una salute di ferro… (Abbozzando un tenero sorriso) Quando l’incontravo per le scale, per fare dello spirito, sapete, come si usa fra coinquilini, alludendo a quel colorito sano che aveva lui, e che si poteva tagliare a fette: «Don Gennaro, siete uscito dall’ospedale?» E lui rideva bonario. Non ci posso pensare. Da un momento all’altro. Che cos’è, che cos’è… Non esiste più.

Giovannino Non ci si può pensare.

La vedova si lamenta sempre piegandosi all’ineluttabilità del caso.

Alfredo Volontà di Dio.

Pietro (dalle scale. Costui e un altro collega del morto. Entra un po’ confuso perché non gli e riuscito di trovarsi preciso al momento del funerale) Buona sera. (Dopo una piccola pausa durante la quale il suo disagio è evidente, chiede) Il funerale s’è fatto?

Carmela Non si poteva aspettare voi certamente.

Pietro (cercando comprensione nei colleghi)

Ho fatto quistione con mia moglie. (Confidenziale) Una rivoluzione in casa… (Alludendo alla moglie) Quella dannata! Sceglie i momenti precisi, mi rovina le occasioni più belle… (accorgendosi della gaffe) … più belle, nel senso che capisce quando metto interesse per una cosa.

I due annuiscono con un lieve tentennio del capo, come per dire «a chi lo dici» forse alludono alle loro mogli. Ora si rivolge mortificato ad Amalia.

Donna Amalia… (non trova parole adatte) … in questi momenti un disgraziato non sa cosa dire… il vostro dolore… è più doloroso del nostro… che… diciamo… è un dolore… parlo del nostro… (indica i colleghi) di fratellanza e di compagni di lavoro… Voglio dire che un compagno non può avere il dolore della compagna… (Cerca la frase per racchiudere il pensiero) La compagna vera siete voi. Voi dovete piangere, noi non possiamo… noi siamo virili. Perché se non fossimo virili e sprezzanti, pure il nostro beneamato compagno dall’altro mondo direbbe : «Ma che compagni siete?» ed avrebbe ragione. Perché i compagni di una compagnia di lavoro, virili e sprezzanti… devono chiudere dentro quello che vorrebbe venire fuori. {Intanto si commuove e già qualche lagrima scorre dai suoi occhi) Sì, qualche lagrima la versiamo anche noi, ma è sempre furtiva… (Si commuove sempre più) Perché sprezzante e virile come sono, vi dico che io: Pietro Tuppo che ha litigato con la moglie, ve lo giuro sui figli… se andate a casa trovate ancora la pasta e fagioli sparsa per terra… che sto digiuno… sull’anima santa di don Gennaro, non voglio dire quello che non so dire… (Ormai non regge alla piena del pianto che gli sale alla gola) Perché le parole sono parole e la libertà è la libertà. E don Gennaro vostro marito era sprezzante e virile come noi… (Scoppia a piangere senza alcuna riserva) Povero don Gennaro… Povero compagno… (Si accascia su di una sedia dando sfogo un poco al dolore di aver perduto un caro amico, ma molto a tutto ciò che lo contraria nella vita chissà da quando e perché).

I due colleghi si avvicinano per confortarlo.

Alfredo Calmati… su…

Giovannino Sei un uomo, non sei un bambino.

Pietro (alludendo al compagno scomparso) Non doveva morire…

Giovannino Oramai…

Pietro (testardo)

No… no… Non doveva morire.

Poi si calma e piano piallo torna il silenzio come prima. La vedova si lamenta sempre.

Nicola (dalle scale. È il portiere del palazzo. Veste un abito liso ma dignitoso. Poveraccio, si moltiplica per tutti gli inquilini. Lo rende felice soltanto il berretto gallonato con la visiera di pelle lucida)

Eccomi qua. Ho chiuso il mezzo portone e sono nuovamente a vostra disposizione. Se avete bisogno di qualche altra cosa, comandate pure…

Amalia (distrutta com’è ormai si commuove pure alle premure del portiere)

Marito mio… Marito mio… (Piange).

Pietro Ma com’è successa la disgrazia?

Amalia (piagnucolando)

Bello e buono… L’altra notte è tornato a casa verso mezzanotte e un quarto…

Nicola (interviene, precisando)

Mezzanotte e venti. Io stavo ancora sveglio; entrò nel palazzo e dopo aver guardato l’orologio disse: «È mezzanotte e venti… stai ancora in piedi?» «Non avevo sonno — risposi io — mi sono trattenuto per prendere un poco d’aria». «Nico’ — disse — ti devo pagare due sigari toscani e quattro giornali, sono precisamente trecentocinquanta lire. Domani regoliamo». (Con amarezza ambigua) Chi l’avrebbe detto.

Carmela(prodigandosi in maniera dispotica e petulante nei confronti della vedova)

Adesso farete come dico io, senza discutere. (A un lamento più forte di Amalia s’inalbera decisa) Senza discutere, ho detto. Venite su da me in casa mia, e vi pigliate una tazza di brodo bollente.

Amalia emette un suono incomprensibile che vuole significare: non mi va giù nemmeno la saliva. Carmela insiste scandendo.

Una tazza di bro-do bol-len-te. E zitta e mosca! Se no non vi voglio più bene e non vi stimo più. Volete cadere per la debolezza? Ne vogliamo fare un altro di funerale? (Con dolcezza) Andiamo, venite su da me, Nicola pensa a mettere in ordine la casa.

Amalia (come richiamata di colpo alla realtà di tutti i giorni)

La camera di don Errico, non voglio dispiacerlo per nessuna ragione; è tanto amabile. Non ci sta quasi mai perché fa il commesso viaggiatore. Un vero galantuomo, paga puntualmente… Ha scritto da Milano che arriva stasera, se trova la camera in disordine mi dispiace.

Durante questa battuta Nicola chiude la porta d’ingresso.

Carmela E che vuol dire? Questa è una camera di passaggio con la porta d’ingresso là (la indica). Lo capirà benissimo. Voi non avete occupato la sua camera per un tavolo di canasta. Un morto ci avete messo.

Nicola Ma queste sono tutte chiacchiere inutili. Adesso penso io a mettere a posto tutto come era prima, e non ci sarà nemmeno bisogno di dirglielo.

Il campanello dell’ingresso suona.

Carmela Chi è?

Enrico (dall’interno) Sono io aprite.

Amalia (come colta in fallo) Don Errico…

Carmela (accomodante)

E va bene, glielo dico io. Nicola apri.

Nicola (indicando l’altra camera)

Ci sono ancora i fiori per terra e le quattro candele intorno al letto… (ed apre la porta d’ingresso).

Enrico (entra immediatamente, non vedeva l’ora di trovarsi sotto un tetto qualunque. È un uomo sui cinquant’anni abbastanza attivo malgrado la sua corporatura piuttosto pesante. Equipaggiato con panni di fortuna ma alla milanese. Cappello di panno ciancicabile. Un mezzo paltoncino di colore a disegno sportivo possibilmente con mezzo bavero di pelo. Un impermeabile sul braccio e una borsa di cuoio gonfia e patita. Batte i denti dal freddo. È in preda a uno stato febbrile che lo tiene in piedi per miracolo) Buona sera. Una sedia.

Nicola glielaporge e lui si siede quasi al centro della stanza. Parla a se stesso, non vedenessuno.

Questa vitaccia non ho più la forza di farla. (Tastandosi il polso) Devo avere per lo meno trentanove e mezzo di febbre… I primi brividi li ho avvertiti in treno. Maledetta fatalità! E come faccio? Domattina dovrei ripartire… Un affare importantissimo. Quattro balle di cotone idrofilo… un prezzo da fallimento. Prima di salire sono entrato nella farmacia all’angolo. Ho lasciato detto che il primo medico che capita lo mandino subito da me. (Ora realizza tutto l’insolito che lo circonda e incuriosito chiede) Ma che c’è? (A Nicola) Tu che fai qua? La signora Carmela?…

Ne consegue un silenzio imbarazzante. Amalia ha reclinato il capo piagnucolando e coprendosi il volto con le mani. Tutti i presenti hanno riguardo per lei, per cui ognuno di loro cerca di far comprendere a Enrico la sciagura che si è abbat­tuta inaspettata su quel povero tetto. A poco a poco l’insieme di quei gesti zelanti diventa una pantomima da teatro marionettistico. Il giuoco dura fino a quando Enrico, compiuto ogni umano sforzo di volontà per comprenderli, spazientito lo interrompe deciso.

Non vi capisco, santo Dio, parlate chiaro.

Ognuno se ne astiene per opportunità chiudendosi in un riserbo occasionale. Allora Enrico si rivolge ad Amalia.

Donna Amalia, che succede? Perché piangete? Dove sta vostro marito? (Non avesse mai pronunciato la parola marito).

Amalia (con voce selvaggia da belva ferita e tra l’altro come se accusasse responsabile Enrico stesso della morte del marito, gorgheggia il suo dolore da soprano stonato)

Non ci sta più… Non esiste più… Don Errico, abbiamo perduto il nostro angelo… Ci ha lasciati soli… Quanto vi voleva bene, e quanto vi stimava. Diceva sempre «Tienitelo caro a don Errico… non ho visto mai un galantuomo più puntuale di lui nei pagamenti. Tienitelo caro…» Quanto vi voleva bene! Non mi lasciate pure voi! Non l’abbandonate questa povera infelice che è rimasta priva di marito e di risorse. Marito mio… (Piange e si accascia sulla poltrona).

Carmela (dopo una pausa)

Ieri sera a quest’ora è morto.

Nicola (interviene precisando ancora una volta) Noo… a mezzanotte e venti.

Enrico (sinceramente addolorato)

Voi che mi dite! Questa non me l’aspettavo. Immagino la signora… (Alludendo alla vedova).

Carmela (secca)

Si è scimunita… (Precisa) È scema. Un’ora fa quando hanno portato via il cadavere… sapete… viene quel momento di confusione… non puoi avere cento occhi… è riuscita ad aprire il balcone… è stato un attimo… se non la fermavo a tempo a quest’ora piangeremmo due morti invece di uno.

Amalia (sempre piangendo)

Lo avete potuto evitare una volta, ma appena avrò un momentino di tempo…

Enrico Sicché il funerale si è fatto un’ora fa ?

Nicola Se foste arrivato un’ora prima lo avreste veduto.

Carmela (rivolgendosi ad Amalia con tono dolce come si parla ai bimbi)

Adesso donna Amaliuccia farà quello che dico io. Per questa notte dormirà in casa mia. (Agli altri da protettrice) Se no la picchio.

Enrico (conciliante)

Seguite i consigli di donna Carmela, signora Amalia, che ci volete fare… rassegnatevi. Vuol dire che don Gennaro è andato a pregare per voi. Del resto, quella è una strada che dobbiamo fare tutti quanti. (Rivolgendosi ai tre compagni del morto) Voi siete compagni di lavoro di don Gennaro?

Giovannino Precisamente.

I tre si alzano in piedi e si presentano ad Enrico.

Alfredo Siamo venuti a fare il nostro dovere verso il compagno scomparso e a congratularci risentitamente con la vedova.

Giovannino (indicando Pietro) Lui è arrivato tardi.

Pietro Se fosse dipeso da me…

I treamici si seggono di nuovo.

Enrico Io intanto me ne vado a letto perché non mi reggo sulle gambe. Nicola, per favore, se viene il dottore lo accompagni tu stesso qua e lo porti in camera mia. (Sialza raccoglie le sue cose e muove per andarsene in camera sua).

Tutti i presenti si scambiano occhiate d’intenzione.

Carmela (È la sola che abbia il coraggio d’intervenire) Aspettate, volete già andare a letto?

Enrico Ho la febbre alta… mi sembra di averlo detto.

Carmela Sì, l’avete detto… (Agli altri) È vero che l’ha detto?

Itre (compreso il portiere all’unisono)

Come no, l’ha detto!

Carmela Ecco, si deve prima mettere in ordine la camera… (Risolvendo) Facciamo così: porto prima donna Amalia su da me, poi torno e insieme a Nicola sistemiamo ogni cosa in due minuti. (Ad Amalia) Su, andiamo. Da me c’è mia sorella, i bambini… così vi distraete un poco, state in compagnia. (Costringe Amalia ad alzarsi in piedi. La sorregge).

Amalia macchinalmente cede all’insistenza di Carmela e si avvia quasi trascinata dalla casigliana. Nicola apre la porta d’ingresso perché il passaggio delle due donne sia più comodo per entrambe. Amalia sollevando lo sguardo verso l’ingran­dimento del marito, parla ad esso con lo stesso tono con cui si parla ad una per­sona viva, la quale abbia commesso la pili impensata delle impertinenze.

Amalia Hai fatto una bella azione! Hai pensato solo a te! Non ti sei ricordato che eri ammogliato e che lasciavi una povera donna sola. Cosi hai lasciato Amalia? (Ad Enrico) Se si fosse trattato di una malattia lunga… beh… sapete, quelle malattie lente che te lo fanno godere un malato caro in casa… che so, un mese… due mesi… (Poi ripensandoci meglio) Ma meglio un mese… Una disgraziata ci pensa, e quando sopravviene la morte dice: Meno male, è stata la liberazione per tutti e due. Ma da un momento all’altro… (Previdente) Curatevi don Errico, curatevi. Mio marito tornò a casa l’altra sera con la stessa febbre. Trentotto trentanove, trentanove e mezzo, e adesso sta sotto terra… (Si lascia andare, ormai non trattiene più il suo dolore e lo esterna selvaggiamente come un’aquila ferita) Sta sotto terra…

Carmela durante la scena ha sempre cercato di calmarla con mezze paroline. Ora la trascina quasi a viva forza verso l’uscita. Amalia con gesto largo da tragedia greca si rivolge direttamente al quadro del marito.

Sotto terra stai… sotto terra.

Le due donne sono uscite dal pianerottolo. Si udranno voci di inquilini che com­mentano il caso: « Povera donna », «Povero don Gennaro». Ma prevale quella di donna Amalia, la quale come cantilena ripete la stessa frase agghiacciante: « Sotto terra stai, sotto terra », durante tutta la salita delle scale, fin quando sen­tiremo sbattere l’uscio della casa di Carmela.

Nicola (dopo un silenzio)

Povera donna! È uno strazio.

Enrico (un poco insospettito)

Ma perché la signora Carmela ha detto che si deve mettere in ordine la mia camera? Perché non è in ordine?

Nicola (con evidente imbarazzo)

Ecco… Quando ieri sera morì don Gennaro, non fu possibile aggiustarlo degnamente qua, questa è una camera di passaggio… e logicamente… (Guadagna animo) Aveva un sacco di amici, infatti è stata una processione di gente che è venuta a visitare il morto per tutta la giornata. Che figura avrebbe fatto la moglie… Allora si pensò di sistemarlo in camera vostra… che è grande… bella… mi sono spiegato? Questo non può impressionare voi che siete un uomo… e poi non l’avete visto.

Alfredo Era un sant’uomo!

Giovannino Non diceva male di nessuno.

Pietro Quante volte si è adoperato per mettere pace fra me e mia moglie.

Alfredo Noi ce ne andiamo. (Ai compagni) Togliamo il fastidio al signore. (A Enrico) Buona notte e tanti auguri per la vostra salute.

EnricoGrazie.

PietroBuona notte.

GiovanninoBuona notte.

NicolaBuona notte.

I tre escono per la comune. Nicola trova aportata di mano unascopa e con essa spazza qualche fiore che è rimasto in terra al passaggio delle corone. Ne fa un mucchietto e lo mette da parte sul pianerottolo, intanto commenta sommessamente l’accaduto.

Guai a chi fa del male! Stupida vita! Lavori come un dannato, ti fai mille nemici per tirare avanti la giornata, per mettere da parte un soldo, un bel giorno si chiude il libro e ti saluto.

Carmela(tornando)

Eccomi qua. Nicola, cerchiamo di mettere tutto a posto presto presto. Vieni con me. (Ed esce per la prima a sinistra).

Nicola Sono pronto. (E segue Carmela).

Enrico solo. Si guarda intorno smarrito. Involontariamente il suo sguardo cade sempre sull’ingrandimento di Gennaro Acampora. Ogni tanto controlla i battiti del polso. La febbre aumenta. La scena che segue deve essere concertata tra Nicola e Carmela con sincronismo perfetto di entrate e di uscite. Entra prima Nicola trasportando a fatica la spalliera grande del letto matrimoniale. Raggiunto il fondo della stanza, poggia al muro la spalliera grande, prende sulle spalle quella del lettino piccolo ed esce di nuovo per la prima a destra. Dopo poco torna con l’altra spalliera. Questa volta si riporta nella camera di Enrico il materasso stremenzito. Poi viene la volta dei quattro candelieri con ceri consumati per metà. Nicola li colloca in un angolo della stanza ed esce di nuovo incrociandosi questa volta con Carmela la quale reca due lenzuola. Dopo averle sventolate ripetutamente per liberarle di qualche fiore rimastovi tra le pieghe, la donna va al balcone e le stende sulla rin­ghiera. Nicola ritorna recando il crocefisso ed una benda di lino bianco annodata due volte alla sommità. Questa ultima la regge fra due dita allontanandola più che può dal suo viso; quasi la mostra ad Enrico, perché costui ne provi lo stesso schifo che ne prova lui. Alludendo al morto dice:

Nicola È morto con la bocca aperta. (E colloca la benda alla spalliera di una sedia).

Il traffico dei due dopo poco cessa.

Nicola (accaldato per la fatica compiuta) Ecco fatto.

Carmela Abbiate pazienza, ma in questa casa da ieri non si capisce niente. Capirete la disgrazia è accaduta da un momento all’altro. (Ad Enrico) Se avete bisogno di qualche cosa chiamatemi dal balcone. (Considerando lo smarrimento di Enrico) Se volete salire da me pure voi…

Enrico Grazie signora Carmela. Ma io ho bisogno di andare subito a letto. E poi deve venire il medico. Mi corico subito, mi ficco sotto le coperte. Tanto… il morto non l’ho visto.

Carmela Se v’impressiona passare la notte in quella camera, senza complimenti, per questa notte potete dormire in casa mia.

Enrico No, no… Grazie tante.

Carmela Allora me ne vado e buona nottata.

Enrico Grazie.

Carmela esce per l’ingresso.

Nicola (che non vorrebbe trovarsi nei panni di Enrico nemmeno come pulce, bisbiglia)

Me ne vado io pure. Vi occorre niente?

Enrico Niente, grazie. Appena arriva il dottore lo accompagni qua.

Nicola Non dubitate. Mettetevi a letto… Ben coperto e fate una bella sudata… Riguardatevi… Avete visto don Gennaro… Potevate mai pensare che poteva finire così repentinamente? Le ultime parole me le disse l’altra sera nel rientrare : «Nico’, io ti devo pagare due sigari toscani e quattro giornali, sono precisamente trecentocinquanta lire, domani regoliamo»… (Con ambiguo rimpianto) Domani regoliamo… Ieri sera a quest’ora stava esposto in quella stanza. (Ricostruendo la camera ardente e il funerale) Quattro candele… due monache… fiori… il carro del municipio… quattro visite di amici e ti saluto. (Prendendo a cuore l’infermità di Enrico come per mettergli davanti agli occhi l’esempio di don Gennaro) Curatevi, curatevi… perché la morte non guarda in faccia a nessuno. Buona notte. (Ed esce rinchiudendo l’uscio dietro di sé).

Scena muta. Enrico rimasto solo raccoglie i suoi indumenti e si avvia verso la sua stanza. A metà strada rimane perplesso, torna indietro fingendo con se stesso di aver dimenticato qualche cosa. Tenta di nuovo di entrare in camera sua. Non ce la fa. Apre il balcone, si affaccia e scruta il cielo. Fischietta una canzonetta in voga. Torna nella stessa stanza, si dirige di filato alla porta d’ingresso e la spa­lanca. Va sul pianerottolo guardando in alto e in basso. Ora si fa animo: entra di nuovo nella stanza e si avvia lentamente verso la sua camera. Nel frattempo Nicola compare sul pianerottolo precedendo qualcuno al quale fa lume con una candela accesa. Giunto al centro della porta d’ingresso, solleva con la destra il candeliere per illuminare meglio la rampa delle scale e con la sinistra fa un cenno invitante e reverente a colui che lo segue. Enrico avverte la presenza di un estraneo e repentinamente si volge verso l’ingresso. Alla vista di Nicola il quale continua la sua mimica verso le scale, non realizza subito: rimane come impietrito, ma dopo un attimo emette un urlo.

Enrico Chi è?…

Nicola Calma, sono io. Ho portato una candela per accompagnare il dottore, al secondo piano hanno fregato la lampadina. (Parlando verso le scale in basso) Venite dottore.

Dottore (entrando) Buona sera.

 

Enrico Avanti dottore, buona sera. Accomodatevi.

Porge una sedia al medico, un’altra la porge a luiNicola, per caso proprio quella su cui pende la benda del morto.

NicolaLa candela la lascio qua.

DottoreSì, ve la porto io.

NicolaPermesso. (Ed esce).

DottoreDunque?

Enrico Ecco, io sono costretto a viaggiare sempre per la mia professione. Ieri a Milano pioveva e presi molta acqua. Stamattina mi sono messo in treno ed ho avvertito qualche brivido di freddo. Dopo poco mi è comparsa una febbre violenta.

Dottore Vediamo un po’. Spogliatevi. Solamente la giacca e la camicia.

Enrico esegue.

Bravo, così. (Dopo averlo osservato) È cosa da niente, per ora non vi sono lesioni, ma vi consiglio di mettervi subito a letto, non si sa mai queste forme influenzali quali proporzioni possono prendere, ci sono moltissimi casi di broncopolmonite. Sudate molto. Medicine non ve ne prescrivo, se mai domani. Ma io sono nemico dei medicinali. Il miglior medico è il nostro organismo.

Enrico Ma io domani dovrei ripartire…

Dottore Non fate sciocchezze. Domani torno e vi saròpiù preciso. Mettetevi immediatamente a letto. (Si alza per andare) A domani.

Enrico (sgomento)

E… ve ne andate?

Dottore Certo. Perché?

Enrico Avete molto da fare?

Dottore (naturalmente siede di nuovo)

No, veramente me ne vado a casa.

Enrico Siete ammogliato ?

Dottore Ho due bambine.

Enrico (interessandosi volutamente)

Eh… che cosa importante sono i figli, vero? Voi avete due femminucce?

Dottore (orgoglioso) Sette e dodici anni.

Enrico … E avreste voluto il maschio, è vero? Non c’è che fare, nessuno è felice a questo mondo.

Dottore Ma io sono contento, o maschio o femmina…

Enrico Non lo dite, non lo dite, perché si vede dallo sguardo che desideravate il maschio.

Dottore Certo, se fosse venuto. (Si muove sulla sedia impaziente).

Enrico Il maschio è il continuatore delle orme paterne. Voi siete medico specializzato?

Dottore No, io sono medico chirurgo.

Enrico Ecco perché non amate le medicine.

Dottore Non le escludo nemmeno. All’occorrenza, con molta parsimonia. Io credo alla tintura di iodio, al sublimato, e all’olio di ricino. I tre medicinali che una volta somministrati dimostrano con evidenza realistica il loro effetto.

Enrico (divertito)

Già… Oggi poi tutto è realismo. Che ne dite dei film realisti?

 

Dottore Veramente mi occupo poco di cinema. E vi saluto. (Sialza in piedi di nuovo).

Enrico (esaltato aggirando il medico vi si pone alle spalle sbarrandogli il passo) Aspettate.

Dottore Ancora? Ma perché devo aspettare? È tardi.

Enrico Non mi lasciate solo.

Dottore Ma che c’è?

Enrico Vi dico la verità, in quella camera dove io dovrei coricarmi fino ad un’ora fa c’è stato un morto. Potete comprendere allora il mio stato d’animo.

Dottore Capisco… Fa una certa impressione… Ma non pretenderete che io mi corichi con voi?

Enrico Facciamo quattro chiacchiere. Se dovete cenare faccio venire qualche cosa dal ristorante all’angolo, mando il portiere.

Dottore Ma neanche per sogno. Mia moglie mi aspetta. Ascoltate, la vostra è pura suggestione. Che cosa di male vi può fare un morto? (Siede di nuovo).

Enrico macchinalmente siede accanto a lui.

Un paio di anni fa, mi accadde un caso singolare. Un mio carissimo amico, amico di ginnasio, pensate, mi mostrò un foruncolo che gli si era formato sulla parte esterna della coscia destra. Niente di grave, un volgare foruncolo che gli procurava dolori atroci. «Vengo in clinica?» disse lui. «Macché, — dissi io — questa è una sciocchezza da niente. Un piccolo intervento da praticare in casa tua stessa». Prendemmo appuntamento per l’indomani e mi recai da lui all’ora precisa, anzi mi portai dietro il mio assistente. Dopo un vermouth servito in camera da pranzo con tutta la famiglia riunita, la moglie, il figlio, il fratello, tutti allegri e felici. Seguiti dal mio assistente il mio amico ed io ce ne andammo in camera da letto. «Quanto tempo?» disse il fratello. «Dieci minuti, — risposi io… — mentre voialtri prendete un altro vermouth». Ci chiudemmo in camera e il mio amico si sdraiò sul letto, non feci nemmeno in tempo ad appoggiare il taglio del bisturi sul foruncolo… una sincope, e l’amico mio se ne andò all’altro mondo. Ci guardammo l’assistente ed io… Chi darà l’annunzio alla famiglia. Rimasi più di un’ora col cadavere chiuso in camera da letto prima di decidermi ad uscire e dare la notizia ai familiari.

Enrico Ma c’era l’infermiere…

Dottore Più morto del morto. Mezzo morto… In quel momento la partita era pari. Un morto e mezzo contro un vivo e mezzo. Avrei dovuto spaventarmi o per lo meno perdere il controllo dei nervi, sebbene mi sentissi completamente a posto con la coscienza. Disgraziato! Una natura impressionabile… e poi… vattelappesca… Avvertivo un senso di disagio… niente più che questo. Per un poco ebbi l’impressione che il morto mi ritenesse responsabile della sua dipartita, ma poi… amico mio, il morto non è altro che un uomo disarmato sul serio, è il combattente della guerra eterna, al quale la natura ha tolto per sempre la vera arma segreta: l’anima. Io posseggo ancora questa arma, voi la possedete ancora, di me potete avere paura, io di voi. State tranquillo e andatevene a letto. (Formulando un’ipotesi per avvalorare sempre più il suo concetto e nel contempo rasserenare il cliente) Se io, ad esempio, per degli strani interessi miei personali mi fossi intromesso in casa vostra con l’idea precisa di puntare contro di voi la mia arma segreta? Se vi di cessi: «Dammi il portafoglio o ti ammazzo». Se per un equivoco vi avessi scambiato per un mio nemico al quale avevo promesso di fargli la pelle e per errore la facessi a voi? Voi legittimamente dovreste difendervi. O tu o io? Per disarmarmi definitivamente allora dovreste uccidermi. Non c’è altro mezzo per rendere inoffensivo l’uomo. Altrimenti se vi riuscisse soltanto di ferirmi, o di mettermi in fuga, la mia arma segreta funzionerebbe sempre contro voi. Funzionerebbe con la furbizia, l’astuzia, la calunnia, la diffamazione, la vendetta, l’aggressione. Andatevene a letto. Felice di trovarvi solo con l’ombra di un disarmato.

Dall’interno delle scale scoppia compatta quanto inaspettata una lite furibonda fra due uomini. Le voci di costoro roche e feline, giungono come se fossero ovattate. Infatti la lite è scoppiata nell’appartamento a piano terra. Il dottore ed Enrico accorrono alla porta d’ingresso, si fermano sul pianerottolo per rendersi conto di ciò che accade. Le due voci intanto assumono un tono bestiale: «Assassino schifoso», «Ladro fetente», «Sputa i soldi», «Lascia il coltello», «Te la faccio io la pelle». Giunge perfino il rumore sordo di mobili rovesciati. A tutto ciò si unisce il vocio di gente accorsa davanti all’ingresso del piano terra dove si sta svolgendo la lite. Difatti si odono alcuni colpi battuti furiosamente sul legno della porta dalla piccola folla la quale tenta di abbattere i due battenti dell’uscio ed irrompere nella stanza. «Fermatevi», «Aprite», «Siete impazziti ». Qualche grido di donna sovrasta. L’uscio cede, il tafferuglio diventa assordante quanto incomprensibile. Segue un tramestio concitato, poi altre voci : «Non lo fate scappare, fermatelo, vigliacco». Ora arriva ben distinta la voce affannosa di Nicola.

Nicola (dall’interno delle scale)

Dottore, dottore… scendete, dottore… C’è un ferito.

Il dottore ed Enrico istintivamente muovono due o tre passi verso l’interno della stanza.

(dal pianerottolo trafelato)

Dottore, non c’è tempo da perdere, un ferito.

Enrico Ma che cosa è successo?

Nicola Uno è scappato, evidentemente il feritore, perché aveva la camicia sporca di sangue, l’altro lo abbiamo trovato steso sul pavimento. Hanno litigato per poche lire! Che schifo! Povera umanità… Venite dottore.

Dottore (allusivo)

Se non è stato disarmato completamente, forse potrò fare qualche cosa per lui. (Ad Enrico) Io vado… (Con intenzione) Andatevene a letto.

Il dottore seguito da Nicola esce.

Enrico dopo una piccola pausa chiude la porta d’ingresso con due mandate di chiave. Poi vi addossa come sbarramento le due spalliere del letto grande e i due comodini. Si sente sicuro ormai. Per un attimo considerando il suo sciocco sgomento di prima, ora punta lo sguardo sull’ovale del defunto bisbigliandogli con serenità un deferente «Scusami!», poi con moto deciso raccoglie i suoi indumenti e se ne va difilato in camera sua. Dopo una piccola pausa sipario.