Così ce ne andremo

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COSI CE NE ANDREMO

Commedia in un atto

di VITTORIO CALVINO

PERSONAGGI

L’UOMO

L’ANGELO Abele

L’ANGELO Tobia

LA RAGAZZA

LA PADRONA

L’AMICO

LA PROFESSORESSA DI STORIA

IL PADRE

LA MOGLIE

IL COCCHIERE

Commedia formattata da

Il posto di confine per l'Ai di là. Qui c'è la bar­riera che separa i due mondi, quello dei vivi da quello dei morti. La scena, dominata da un grande arco di cielo limpido, sereno, è divisa in due parti. La prima parte sul proscenio è in pianura. Qui è situata una panchina di legno: una panchina da giardino pubblico verniciata di bianco.

La seconda parte della scena è in salita, costi­tuita da piani orizzontali ad anfiteatro, disposti irregolarmente. Sulla sommità di questo breve anfiteatro c'è il confine rappresentato da una barriera di legno dipinta di bianco. Al centro della barriera e quindi della scena c'è un can­cello bianco che può aprirsi e chiudersi. Oltre il cancello non vi è che il cielo, immenso. Al cancello ci si arriva, in salita, per un breve sentiero tracciato sui piani dell'anfiteatro. La scena è illuminata da una pallida luce ir­reale. Solo il cancello bianco, illuminato da un riflettore, risalta - magico - nel suo candore. (Al levarsi del sipario la scena è vuota. Si ode insistente il suono di un campanello, lo stesso suono che si ode nelle piccole stazioni di cam­pagna quando sta per arrivare un treno. Dopo un istante una voce metallica, la voce di un altoparlante, che avverte in tono « professio­nale »).

 

Altoparlante                  - E' in partenza la funicolare ce­leste! E' in partenza la funicolare celeste! E' in partenza la funicolare celeste!...

L’angelo Tobia              - (viene dal fondo, dall'altro lato della barriera e si avvicina al cancello. L'angelo Tobia non è più giovane. Somiglia in tutto e per tutto a un anziano funzionario delle do­gane svizzere, corretto, affabile, cortese ma senza debolezze. Anche l'uniforme che indossa, di pan­no blu, con berretto blu a visiera nera, è quella dei doganieri svizzeri. Soltanto l'angelo Tobia ha, in più, sulle spalle, due piccole ali bianche. L'angelo Tobia, dunque, si avvicina al cancello, lo apre e scende in scena guardando a destra e a sinistra come se cercasse qualche ritarda­tario).

L'angelo Abele              - (viene quasi subito dal fondo, an­che egli come Tobia. E' identico a Tobia nell'uni­forme, soltanto è molto più giovane, è biondo, roseo in volto e, come tutti i giovani che an­cora non conoscono l'indulgenza, un po' bru­sco e spicciativo. Guarda anche lui intorno poi dice) Non c'è più nessuno, mi pare...

Tobia                             - Già. Questa volta non c'è ressa.

Abele                            - E' sempre così calmo, qui?

Tobia                             - Oh, no: va a momenti. Ora troppi, ora niente. Non c'è una regola... E' così.

Altoparlante                  - (ripete) E' in partenza la fu­nicolare celeste! E' in partenza la funicolare celeste!...

Abele                            - Posso dirgli di partire? Se arriva qual­cuno aspetterà la prossima corsa...

Tobia                             - Va bene. Digli che vada.

Abele                            - (risale al cancello, fa un gesto verso il fondo a sinistra come per dare il via a qualcuno che non si vede. Il campanèllo tace. Abele scende verso il proscenio) E' andata.

Tobia                             - (si è seduto sulla panchina).

Abele                            - (in tono di leggero rimprovero) Tobia, non è permesso sedere quando si è di servizio...

Tobia                             - (sorride) Conosco il regolamento, caro. E ti dirò prima di tutto che sono stanco, e poi che il mio turno è finito. Ora comincia il tuo. Quindi non può capitare nulla se mi riposo...

Abele                            - Come credi.

Tobia                             - E' la prima volta che sei di servizio al confine?

Abele                            - Sì. Finora ero addetto alle stagioni, reparto piogge.

Tobia                             - Ah! Lì avevate molto da fare?

Abele                            - Abbastanza. E qui?

Tobia                             - Non c'è male. Dipende dai momenti. Ma in complesso, quando si prende un po' di pratica, tutto fila alla perfezione. Naturalmente occorre una certa energia...

Abele                            - Perché ? Porse quelli che arrivano non sono molto calmi?

 

Tobia                             - Ecco, proprio calmi, no. Essi giungono quasi sempre un po' sconvolti e agitati. Il bru­sco passaggio li ha sorpresi. Non si rendono bene conto di... (vuol dire « di essere morti ») di quello che è successo, insomma.

Abele                            - Sono indisciplinati?

Tobia                             - (riflette) Indisciplinati? No, non mi pa­re il termine più adatto. Hanno delle idee. Non è sempre facile guidarli e indirizzarli quando giungono qui...

Abele                            - Oh, io sono un tipo abbastanza ener­gico...

Tobia                             - Bè, ma nemmeno l'energia è il sistema più indicato. Occorre anche una buona dose di pazienza.

Abele                            - Il regolamento lo prescrive?

Tobia                             - Non precisamente. E' solo una questione di esperienza personale. Io, almeno, mi sono sem­pre trovato bene così.

Abele                            - (sicuro) Credo che riuscirò benissimo.

Tobia                             - (si alza) Te lo auguro. Non ti occorre nulla?

Abele                            - No, grazie.

Tobia                             - Bene. Allora io vado. In caso di inci­denti avverti subito l'Arcangelo Michele. E' lui di servizio. (Mentre Tobia sta per avviarsi verso il fondo, da destra in basso entra l'Uomo. E’ un uomo di mezza età, trentacinque-trentotto anni al massimo. Indossa un abito grigio, è senza cappello e porta una valigia di medie dimensioni. Entrando, l'Uomo si guarda intorno un po' sperduto poi si dirige risolutamente verso il cancello).

Abele                            - (richiama l'uomo) Ehi! Dove va?

L'Uomo                         - (si ferma sorpreso, e si volta) Dice... dice a me?

Abele                            - (senza muoversi) Certo. Non crederà mica di passare il confine senza mostrare i do­cumenti...

L'Uomo                         - (sperduto, intimidito) Oh, scusi... scusi tanto. Non sapevo...

Tobia                             - (si è fermato, in alto, e osserva la scena).

L'Uomo                         - (scendendo verso Abele) Credevo si dovesse andare di là... (Indica il cancello) Oltre il cancello.

Abele                            - (in tono un po' sostenuto) Già! Ci mancherebbe altro. E noi cosa ci stiamo a fare?

Tobia                             - (che è sceso verso il proscenio. In tono bonario all'Uomo) Chi le ha detto che deve andare oltre il cancello?

L'Uomo                         - (intimidito) Al centro di smistamen­to... Mi hanno indicato la via da seguire spie­gandomi che avrei trovato il confine e un can­cello bianco... Porse non ho capito bene... Pen­savo che si potesse passare senz'altro...

Tobia                             - No, no. Prima c'è il controllo dei do­cumenti, poi la visita doganale.

 L'Uomo                        - (remissivo) Capisco. Anche qui, vero?

Abele                            - Che significa « anche qui? » Qui più Che altrove. I confini sulla terra non hanno im­portanza a paragone di questo. Questo è defini­tivo.

L'Uomo                         - (condiscendente) Me ne rendo conto.

Abele                            - Ha le carte in regola?

L'Uomo                         - Credo di sì. La verifica è stata fatta alla prima tappa. (Estrae dalla tasca alcuni fogli, li porge a Tobia) Ecco.

Tobia                             - (indica Abele) No, no: a lui. Io sono fuori servizio.

Abele                            - (prende i fogli che l'uomo gli tende, li esamina. Dopo un momento) Va bene.

L’Uomo                        - Posso andare?

Abele                            - Un momento. Cos'è questo? (Indica la valigia con la severità del doganiere) Non si può portare bagaglio.

L’Uomo                        - Non si può?

Abele                            - (scuote la testa) No. Nessun bagaglio è ammesso. Di nessuna natura e specie, peso di­mensione e volume. Tutti coloro che varcano questo confine devono entrare assolutamente senza bagaglio.

L’Uomo                        - Ma... io pensavo... non si tratta di...

Tobia                             - (gentile) Cosa contiene la valigia?

L’Uomo                        - (con un certo pudore) Vi ho messo i miei ricordi... Al momento di lasciare la terra, non ho avuto cuore di separarmene.

Abele                            - (perentorio) Non si può.

L’Uomo                        - (deluso, guarda Tobia come se atten­desse aiuto da lui, ma Tobia allarga le braccia e va a sedersi sulla panchina).

Abele                            - Prenderò io in consegna la valigia con tutto quello che contiene. Ricordi, ha detto? Dia pure a me.

L’Uomo                        - (si ritrae un po' spaventato. Dice a voce bassa) No.

Abele                            - (scandalizzato) No? Ma si rende conto di quello che dice?

L’Uomo                        - Scusi tanto, forse ho torto, ma non posso... non posso... separarmene.

Abele                            - (c. s.) Oh! (Guarda Tobia) Tobia...

Tobia                             - (allarga le braccia) Non sono di ser­vizio.

Abele                            - Va bene. Ma potresti anche intervenire.

Tobia                             - Non credo che sia necessario. Il signore si lascerà convincere da te. Mi sembra ragio­nevole.

Abele                            - (cercando di mutare tattica, si volge all'uomo in tono gentile) Ha sentito cosa ha detto il mio collega? Che lei sembra una per­sona ragionevole. Anche io lo penso, guardan­dola in volto. Non deve essere difficile intenderci, tra noi. Lei capirà quindi che il mio modo d'agire non dipende dalla mia volontà ma da precisi ordini che ho ricevuto. E' chiaro?

 

L’Uomo                        - Certo.

Abele                            - Oh! Così mi piace. In conseguenza di questi ordini, io non posso consentire a nessuno - e quindi nemmeno a lei - di varcare il con­fine portando bagagli di qualsiasi natura e spe­cie, siano essi ricordi, sogni, speranze, nostal­gie, rimpianti, delusioni, memorie... Il regola­mento mi fa obbligo di impedirne quindi l'in­gresso a qualsiasi costo. Voglio sperare dunque che lei si mostrerà docile e obbediente e darà prova del suo spirito di comprensione conse­gnandomi subito la valigia con tutto il suo con­tenuto.

L’Uomo                        - (resta immobile, come se non avesse ca­pito).

Abele                            - (impaziente) Allora? (Tende la mano) La valigia, su...

L’Uomo                        - (si ritrae spaventato e insieme deciso a non cedere) No.

Abele                            - (meravigliato e offeso) Cosa?

L’Uomo                        - (a voce bassa, ostinato) Mi rincresce, ma non è possibile. Non posso.

Abele                            - (si volge a Tobia) Hai sentito?

L’Uomo                        - (rivolgendosi anch'esso a Tobia, come per chiederne l'aiuto) Mi creda... Non vor­rei apparire ostinato e irragionevole. Ma è più forte di me. Sento che non potrò mai... mai se­pararmi da questo...

Abele                            - Ma è pure necessario! Inevitabile! Nelle sue condizioni!

L’Uomo                        - (fissa Abele per un istante come se non capisse) Nelle mie... condizioni?

Abele                            - Eh, sicuro!

Tobia                             - (interviene. Ad Abele) Sst! Sst! La­scialo parlare. (All'Uomo) Diceva?  

L'Uomo                         - (lentamente. Con una punta di ama­rezza e di malinconia) Non credo che possano far del male o dare disturbo a qualcuno, i miei ricordi. Li conserverò io. E poi sono pochi. Non sono nemmeno tutti i miei ricordi. A dire il vero ne avevo molti di più. Moltissimi di più. (Rin­francandosi via via) I ricordi... Sono una cosa curiosa, i ricordi. Ci seguono sempre come uno sciame di api o di farfalle... A volte danno noia, a volte rallegrano. Qualcuno appare e scompare, non si sa bene perché . Altri, invece, si mostrano più tenaci: sono sempre lì... volteggiano intorno, fanno un lieve rumore, un leggero suono persi­stente che talora sembra un lamento, talora una canzone, talora invece soltanto lo stormire del vento tra gli alberi. Così, nel momento in cui me ne andavo, li avevo ancora attorno a me. Api insistenti e fastidiose o farfalle multico­lori... Cercavo di afferrarli... ma le mie mani non obbedivano... Loro mi sfuggivano... Si al­lontanavano, tornavano ad avvicinarsi... Finché, con un ultimo sforzo m'è riuscito di prenderne qualcuno... Li ho tenuti stretti... bene stretti perché non sfuggissero... Pensavo che potevano ba­stare questi a darmi, per l'eternità, la memoria e il profumo della vita che ho vissuto. Per que­sto li ho portati con me.

Abele                            - (scuote la testa) Inutile : non potranno mai entrare.

L’Uomo                        - (con angoscia) Ma allora... allora io dovrei separarmene? Dovrei proprio separar­mene?

Abele                            - Eh, sì. Così vuole il regolamento. (Un silenzio).

L’Uomo                        - (affranto, siede sulla panchina e tiene la valigia sulle ginocchia come se tenesse un bambino. Tobia e Abele si scambiano un'occhiata preoccupata. L'Uomo parla, più a se stesso che agli altri) No, no. Non potrò mai. Essi non sanno quel che vuol dire. E' la sola cosa vera­mente nostra che possediamo. (Si alza di scatto rivolgendosi ad Abele in tono concitato, con un singhiozzo nella gola) Ha capito? Sa cosa voglio dire? Che i nostri ricordi siamo noi stessi. Noi siamo un tessuto di ricordi, non possiamo la­cerarlo senza lacerare noi stessi, né abbando­narlo senza abbandonare noi stessi..

Abele                            - (dignitoso, fermo) Mi rincresce: non posso ascoltare queste sue giustificazioni. E del resto a che servirebbero? La Grande Legge che regola l'armonia del nostro universo celeste non ammette deroghe né eccezioni. Perciò io devo compiere il mio dovere e lei, nella sua presente condizione, deve inchinarsi e obbedire. Mi dia la valigia.

L’Uomo                        - (con sorda disperazione) No. Tutto quello che vuole, ma i miei ricordi no. E pas­serò con questi, vivrò con questi, e li conser­verò e saranno miei, soltanto miei qualunque cosa accada. (Si avvia di scatto verso il can­cello stringendo in pugno la valigia).

Abele                            - (con un grido) Attento! Sarà terribile!

L’Uomo                        - (esita, come spaventato di quello che sta per fare. Poi) Non importa. (Riprende il cammino).

Tobia                             - (visibilmente preoccupato, fa qualche passo)

Abele                            - (forte) No! Fermo!

L’Uomo                        - (spaventato, si ferma presso il cancello. In preda alla disperazione stringe la sua valigia come un tesoro).

Abele                            - (ha raggiunto l'Uomo. Gli ordina) La valigia, subito!

L’Uomo                        - (chiude gli occhi. Eretto sulla persona, disperato e dolente, sembra non voler cedere. Poi, d'improvviso si fa più cedevole. Non sì ri­bella: implora) Abbiate pietà di me, abbiate pietà. Non privatemi di questo mio bene, non toglietemelo...

Abele                            - (.sta per tendere la mano e prendere Ut valigia, quando Tobia, che gli è giunto vicino, lo ferma con un gesto).

Tobia                             - (calmo e grave) No, Abele.

Abele                            - (sorpreso) Perché no?

Tobia                             - Non possiamo essere crudeli con lui. Non è nella nostra natura.

Abele                            - Ma noi eseguiamo degli ordini.

Tobia                             - Sì, caro. Tuttavia possiamo anche agire di nostra iniziativa quando si tratti di non tur­bare la Suprema Armonia. Che accadrebbe in­fatti se il signore qui presente persistesse nella sua ostinazione e varcasse il confine con la va­ligia?

Abele                            - Non oso pensarlo. Sarebbe terribile.

Tobia                             - Appunto. (Si volge all'Uomo) Sia calmo. Nessuno vuole farle del male né costringerla con la violenza.

L’Uomo                        - Mi lascerete i miei ricordi?

Tobia                             - Non è nelle nostre facoltà. Lei ha udito quel che il mio collega ha detto. Tutti obbe­diamo alla Suprema Legge. Nondimeno io penso che qualcosa sia possibile fare per lei. (Dopo un momento di riflessione) Posso autorizzarla a portare con sé un ricordo.

L’Uomo                        - (illuminandosi) Un ricordo?!

Abele                            - Non è possibile! Non si può! La legge non lo ammette!

Tobia                             - (ad Abele) Sst! Sst! Calma! Calma! Che cosa è in fondo un ricordo, uno solo? Può benissimo passare inosservato...

Abele                            - Ma è contrario... contrario allo spirito e alla lettera della Legge che non consente, non consente...

Tobia                             - Sst! Sst! Assumo io la responsabilità. Va bene?

Abele                            - Non intendo in alcun modo condivi­derla. Disapprovo il tuo modo d'agire che è con­trario alle nostre leggi e che sarà causa di di­sordine e confusione.

Tobia                             - (pacifico) Va bene, va bene...

Abele                            - Le conseguenze ricadranno intera­mente su di te, Tobia. Io mi ritiro per non avere alcuna parte - sia pure di semplice spettatore - in questa deplorevole faccenda. (Esce).

Tobia                             - (incoraggiante, all'Uomo) E' molto gio­vane, non bisogna farci caso..

L’Uomo                        - (felice, commosso, balbetta) Non so proprio come ringraziarla... Lei è veramente -squisitamente - comprensivo e generoso... e buono.

Tobia                             - Per carità! (Batte la mano sulla spalla dell'Uomo) Pensi piuttosto a scegliere presto il ricordo che vuole portare con se... (Scendono in­sieme verso il proscenio) Tra breve ripartirà la funicolare celeste. Non è ammessa una sosta prolungata nella zona di confine. Lei dovrà ne­cessariamente salire...

L’Uomo                        - (felice, radioso) Ah, certo, certo... Non mi tratterrò molto...- Ora che so di poter portare con me quello che ho di più caro... Sa: mi pare meravigliosa questa idea... Penso che mi terrà compagnia... I ricordi tengono molta compagnia... Specialmente la sera. Uno sta di­steso sul letto con le mani dietro la nuca e...

Tobia                             - (con indulgente impazienza, come si fa con i bambini) Sì, sì... Faccia presto. Non ha molto tempo.

L’Uomo                        - Benissimo. Benissimo. Dò un'occhiata a quello che c'è... (Si avvicina alla panchina, depone la valigia) Posso sedermi qui?

Tobia                             - Sì, sì: certo. Io vado intanto nell'uffi­cio. A fra poco.

L’Uomo                        - Grazie.

Tobia                             - (sale fino alla barriera ed esce da destra).

L’Uomo                        - (siede sulla panchina col volto illumi­nato da una tranquilla beatitudine. Per un lungo istante egli rimane, immobile, con le mani ap­poggiate sulla valigia che tiene sulle ginocchia. L'aria attorno a lui si oscura: solo il cancello, lassù, è illuminato in pieno da una calda bianca luce. Con movimenti lenti e assorti l'uomo apre ora il coperchio della valigia. Subito si diffonde nell'aria la musica dolce di un valzer. Dap­prima in sordina, poi più forte, una musica lenta e nostalgica. E, in alto, alle spalle dell'uomo, appare una giovane bella donna che in­dossa un abito lungo da ballo. Illuminata da un riflettore     - (mentre tutto il resto della scena si oscura) la ragazza viene avanti con leggere mo­venze di danza, canterellando a mezza voce il valzer che la musica suona. E ride. Guarda l'uomo e ride).

La Ragazza                   - Buona sera! Non vogliamo più fuggire verso l'isola deserta, noi due soli?

L’Uomo                        - (rimane immobile, seduto, a guardare davanti a sé nel vuoto, assorto). La Ragazza     - Eppure non hai fatto altro che pensare a questo, da tanto tempo... Non volevi confessarlo nemmeno a te stesso, ma dentro -dentro di te - c'era questo desiderio e questa nostalgia... Non osavi manifestarlo, ma lo covavi come un bambino che si tiene stretto il suo te­soro... L'isola deserta! (Ride) E' buffo che una persona grave e importante come te - perché tu eri, tu sembravi una persona importante -se ne andasse in giro con questo sogno nel cuo­re... Se l'usciere che ti salutava cerimoniosamente mentre entravi in ufficio l'avesse potuto immaginare!... Ah, certo, il signor direttore generale (si inchina leggermente) non avrebbe mai con­fessato ai suoi impiegati questo suo impossibile sogno! Dove sarebbero andati a finire il pre­stigio e la dignità? Però... Però... Una sera di carnevale, durante un veglione, il signor diret­tore generale avvicina una ragazza vestita di rosa, con una piccola maschera nera sul viso... (La ragazza, mette sul viso una piccola ma­schera nera) E le dice : « Fiorellino, balliamo que­sto valzer? ». « Volentieri » dice la ragazza. E insieme ballano « questo » valzer. (Per un mo­mento la ragazza si muove sul ritmo del valzer, canterellando. Poi si férma) H signor direttore generale aveva bevuto un po'. Oh, non molto, Egli era sempre molto corretto, molto per bene, s'intende. Tuttavia, ecco, al termine del valzer egli tenne la ragazza stretta fra le sue braccia un attimo più del necessario. E la invitò nella serra per guardare, diceva, le piante esotiche... Nella serra faceva un po' caldo. «Perché non ti levi la maschera, fiorellino? ». « Oh, no, signore! Ho paura! ». (Ride) Ma gli occhi del signor di­rettore generale hanno una strana espressione. Improvvisamente egli si china sulla ragazza ve­stita di rosa e le dice : « Fiorellino mio, perché non fuggiamo insieme? Perché non andiamo via, noi due soli, verso un'isola deserta, una lontana isola verde circondata da una azzurra profonda laguna? ». La ragazza non disse né sì né no. Si lasciò baciare. Certo - pensava - il signor direttore generale scherza perché ha bevuto un po'... E invece il signor direttore generale non scherzava: voleva veramente andar via...

L’Uomo                        - (si è alzato lentamente, senza voltarsi verso la ragazza. Parla con voce sorda) ... vo­leva veramente andar via. (Sospira) Questa è la verità. Lo pensava al mattino svegliandosi, in ufficio dettando una lettera, al ristorante ordi­nando il pranzo... Non poteva resistere. L'ufficio, i telefoni, l'agenda, la stenografa, la casa, la moglie, i bambini, una vita diventata improv­visamente chiusa e senza scampo! Correre, cor­rere, lavorare, ascoltare, parlare, pensare, man­giare, e poi ancora lottare, lavorare, e infine dormire il sonno della fatica, e poi di nuovo correre, correre, correre, lavorare, ascoltare, par­lare, pensare, pensare, pensare.. Ah, no! Prima di finire come la mosca nella tela del ragno, imprigionati senza speranza, lasciateci andare, lasciateci partire, lasciateci fuggire, lasciateci fuggire. (Siede di schianto). La Ragazza          - (riprende a muoversi a passo di danza, canterellando).

 

L’Uomo                        - (si alza di scatto, e, rivolto alla ragazza, in tono implorante) Ascolta... verrai con me. Verrai con me. Non ti ho dimenticata. Tu sei stata il mio ricordo più bello, la mia segreta nostalgia... Non conosco nemmeno il tuo nome, ma che importa? Ti ho sempre portata nel mio cuore, soffio di primavera, profumo di libertà... Verrai con me. (Si china sulla valigia, fébbril-mente, chiude la valigia. Mentre compie questa operazione)

La Padrona                   - (entra rapidamente da sinistra, su un ripiano in alto subito illuminata dal riflet­tore. E' una donna della piccola borghesia, bassa, grassottella, vestita in modo trasandato, mal pettinata, che parla con voce acuta e arrogante. La musica cessa di colpo) Ah, no! Non puoi liberarti di me tanto facilmente, caro il mio ragazzo! Ci mancherebbe altro! C'è un conto da pagare... Guarda, guarda bene: è in mezzo alle altre cose nella valigia. Vorresti disfartene così? Non si può... Il conto risale a diciannove anni or sono... E non è stato mai pagato... (Iro­nica) il « signorino »! (Scende all'altezza della ragazza e si rivolge a lei) Mi capita un giorno nella pensione un ragazzo spelacchiato, uno stu­dente d'università... Studente? Che dico! Lo sa il cielo che cos'era! Mangiava come un affamato, e posso dirvelo io che di pensionati ne ho avuto a centinaia... E quand'era il momento di strap­pargli i soldi c'era da sudare. Be', cosa fa que­sto qui? Un bel giorno scompare, così, senza pa­gare il conto. Un conto dì tre mesi, a pensione completa e con la biancheria lavata e stirata. Tre mesi! Così: il signorino se ne va. Non dice nemmeno grazie! E il conto è ancora lì da pa­gare. (Scende all'altezza dell'uomo. Lo esanima con aria di arrogante superiorità) Ebbene? Cosa può dire il « signorino » a sua discolpa?

L’Uomo                        - (con voce sommessa)  Ero un ragazzo povero. Un ragazzo che non aveva mai abbastan­za da mangiare né un vestito nuovo da indos­sare... Quel giorno - sì, il giorno in cui avrei dovuto pagare il conto - mi venne offerto un impiego. Dovevo prendere il treno, subito, e an­dare in un'altra città dove mi aspettava un la­voro, un avvenire, la fortuna...

La Padrona                   - (ironico) La fortuna! Che paro­lona! Che significa «la fortuna»?

L’Uomo                        - (c. s.) A vent'anni aveva un suono meraviglioso. Allora si poteva credere nella for­tuna...

La Padrona                   - (ride d'una risata stridula) E adesso, ci credi ancora? Fa vedere, fa vedere le mani... Cosa stringono? Cosa hanno stretto? Vento! Aria! Niente! (Altro tono, aggressiva) E valeva la pena, per andare incontro a questa fortuna, di cominciare la strada derubando me?

L’Uomo                        - Non avevo altra scelta...

La Padrona                   - (incalzante) E il « signorino » non ha mai sentito un po' di rimorso? (Attende invano una risposta) No, eh? Avesse almeno pa­gato, una volta! Ma no: non ci ha mai pensato. Porse andando avanti nella vita, ha fatto l'abitudine alle «piccole disonestà»... (Ride).

L’Uomo                        - (scattando) Via! Vattene via! Perché mi hai sempre seguito? Perché sei ancora qui, ricordo molesto? Via!

La Padrona                   - (in atto di sfida) Il conto am­monta a seimilatrecentoventidue lire. Pagare!

L’Uomo                        - (ammutolisce).„

La Padrona                   - Ebbene?

L’Uomo                        - (con tristezza) Ora non è più pos­sibile...

La Padrona                   - (arrogante) E io non mi muoverò di qui!... (Va a sedere sul primo ripiano a destra).

L’Uomo                        - (la guarda con odio e disperazione).

L’Amico                       - (entra di corsa in alto a destra. E' un allegro giovanotto che indossa un abito da ceri­monia, calzoni a righe nere e il tight. All'occhiello ha un fiore bianco) Ehi! Lascia perdere ogni cosa e spicciati! Sei ancora così? Se non ti muovi rischierai di non trovare più la sposa! Presto! (Scende alcuni gradini fino all'altezza dell'Uomo) Su, su bello! Devo aiutarti a vestirti? Che vergogna! E' l'ora del matrimonio e lo sposo è ancora da vestire! Cosa aspetti, si può sapere!?

L’Uomo                        - (guarda il giovanotto con sorpresa) Ma chi sei tu?

L’Amico                       - Uno dei testimoni! Su, animo, il tempo stringe! La cravatta... Dov'è la cravatta? E la spilla? Dove hai cacciato la spilla?

L’Uomo                        - No, no, aspetta... Perché sei venuto qui? Non era te che volevo...

L’Amico                       - (con disinvolta noncuranza) Mi rin­cresce. Io sono soltanto quel testimone alle nozze che ti ha prestato la sua spilla per la cravatta. Tu non riuscivi a trovarla, ecco.

L’Uomo                        - (ride sommesso) E' vero. Ma è una stupidaggine, no? Perché l'ho ricordata con tan­ta insistenza?

L’Amico                       - (allarga le braccia) Non lo so. E' una cosa che capita. A me, per esempio, succe­deva spesso di ricordare nei momenti più im­pensati una sciocca canzoncina che cantavo da bambino... (Canterella) « Sette ochette in fila passavano sul ponte... » E' davvero buffo, no?

L’Uomo                        - Ma io non voglio portarti con me! hai capito? Hai capito?!

 

L’Amico                       - (ride) Ah, bene, benissimo! Non mi offendo mica, sai? Addio! (Risale alcuni gradini e siede, in alto, canterellando con voce in fal­setto)

« Sette ochette in fila

passavano sul ponte

sul ponte del castello

davanti al granatier... ».

L’Uomo                        - (disperato, con una smorfia di dolore, siede sulla panchina, si tappa le orecchie come se volesse sfuggire quella canzoncina. Entra da sinistra, in alto, subito illuminata da un riflet­tore, la Professoressa. E' una signora anziana, magra, severa, con gli occhiali, vestita di nero, pettinata un po' all'antica. Ha sottobraccio un paio di libri. Entrando batte le mani secche e nodose, come se volesse richiamare all'ordine la scolaresca. Il giovanotto che cantava la can­zoncina tace).

La Professoressa           - (con voce stanca) A posto! A posto ragazzi!

L’Uomo                        - (alza la testa e, senza voltarsi, rimane immobile seduto, in attesa).

 La Professoressa          - Oggi ripeteremo la lezione sull'ultimo periodo della guerra dei trent'anni. (Scendendo verso l'uomo) Il periodo che fu det­to... Come fu detto l'ultimo periodo della guerra dei trent'anni?

L’Uomo                        - (senza voltarsi scuote la testa in segno negativo).

La Professoressa           - (con stanchezza) Periodo francese. Fu detto periodo francese perché ani­mato dall'intervento del Cardinafle di Richelieu... In questa guerra, complicata per movimenti e intreccio d'eserciti, per battaglie sanguinose, per dolorosi assedi, per saccheggi orrendi, per de­solazione di città e campagne, acquistarono grande fama militare alcuni capi... il principe di Condé, Turenna, il generale Bernardo di Sas­sonia Weimar.

L’Uomo                        - (si alza, meccanicamente, e con voce atona continua) ...gli svedesi Bauner, Torstensohn e Wrangel, gli italiani Piccolomini e Raimondo Montecuccoli...

La Professoressa           - E in quale anno fu fir­mata la pace?

L’Uomo                        - (tace).

La Professoressa           - In quale anno fu firma­ta la pace?

L’Uomo                        - (con improvvisa violenza) La pace non fu mai firmata. Essi continuarono a tortu­rare gli scolari per sapere in quale anno era stata firmata la pace, ma ciò non servì che a perpetuare una illusione funesta, perché la pace non fu mai Armata, e le guerre continuarono e continuarono le battaglie sanguinose e gli as­sedi e i saccheggi e le stragi, e le date non ave­vano valore perché la vera pace non fu mai filmata.

La Professoressa           - (con stupore) Ma questa non è la nostra lezione.

L’Uomo                        - (con un sorriso triste) No. E' una lezione che nessuno mi ha insegnato e che ho imparato da me.

La Professoressa           - (è vicina all'Uomo, lo guarda con affettuosa tristezza) Raramente gli insegnanti sopravvivono nel ricordo dei loro allievi....

L’Uomo                        - (c. s.) E' soltanto perché quell'an­no, all'esame, fui bocciato perché non sapevo la data della pace di Westfalia...

La Professoressa           - Milleseicentoquarantotto...

L’Uomo                        - Ora non serve più.

La Professoressa           - No. Forse nemmeno al­lora serviva. Ma noi sedevamo ai due lati opposti d'un tavolo ed io ero pagata per chie­dere a te le date delle guerre e delle paci. Que­sto era tutto. Mi hai serbato rancore?

L’Uomo                        - Oh no. E' solo un attimo al quale il mio ricordo s'è fermato, così come quando si cammina in un campo e un piccolo pruno ci trattiene per un istante la falda dell'abito... (Ride) La pace di Wesfalia! Non serve sapere se essa avvenne dieci anni prima o dieci anni dopo. I morti morirono per niente e i loro nomi furono dimenticati.

La Professoressa           - Non verrò con te...

L’Uomo                        - No.

La Professoressa           - Vorrei dirti addio (Si avvicina all'Uomo, gli posa le mani sulle spalle come fosse un ragazzo) Avevo un ragazzo come te: lo amavo più d'ogni cosa al mondo. Aveva gli occhi chiari e limpidi, il cuore puro. Quante cose non sognavo per lui! Conosco la data in cui morì, combattendo, nell'ultima guerra. Set­te ottobre millenovecentoquarantadue. Ma que­sta data non è scritta sui libri di storia e gli scolari non sono tenuti a conoscerla. Solo io la conservo dentro di me, e tutte le altre date non hanno importanza. Addio. (La Professores­sa, lentamente si muove per risalire donde era venuta).

L’Uomo                        - (fa un gesto per fermarla) Signora professoressa di storia... (Le si avvicina) Noi credevamo che gli insegnanti non avessero un cuore...

La Professoressa           - (con un sorriso triste) Sì. ma non erano obbligati a mostrarlo... (Im­provvisamente severa, in tono professionale) « L'imperatore prende allora l'offensiva; gli spa­gnoli entrano nel Palatinato, i sassoni nella Lusazia, la lega trionfa sugli insorti alla Mon­tagna Bianca presso Praga. La Boemia privata dei suoi privilegi, assiste con terrore al suppli­zio dei capi dell'insurrezione, mentre trentamila famiglie cercano scampo nella fuga e nell'esi­lio... ». (Altro tono, con malinconia) Sempre così, sempre così... (Con un cenno della mano) Addio...

L’Uomo                        - (rimane fermo, in piedi, rivolto a guardare la Professoressa che si allontana, men­tre comincia a udirsi, dapprima piano, poi più forte il muggito d'una sirena da piroscafo in­tramezzata da suoni di campana).

Il Passeggero                 - (entra precipitosamente da destra. E' un piccolo signore anziano, con i capelli grigi che indossa una vestaglia e le panto­fole, che conserva ancora un residuo di energia, si avvicina all'Uomo e lo scuote) Avete sen­tito? Avete sentito? H capitano ha detto di te­nerci pronti. Saranno distribuite le cinture di salvataggio. Bisogna fare presto! Spicciatevi! Perché non vi muovete? (Gridando) Muovetevi! Io vado, ecco, io vado.

L’Uomo                        - (angosciato) No, no... Non lascia­temi solo... Ho paura... (Improvvisamente, pun­tando l'indice con ira contro il passeggero) Io lo so chi sei tu... Tu sei il ricordo di quella notte di terrore, fra Marsiglia e Gibilterra... quando credevamo di dover morire... Vattene via! Non ti voglio con me!

Il Passeggero                 - (calmo) Non mi vuoi? Forse perché ti duole d'aver dato ai miei occhi spettacolo della tua irragionevole paura? (Ride) Ecco, ecco gli uomini! Si vergognano d'aver avuto paura e non sanno che la paura è la più preziosa compagna nella vita.,. La paura ci induce a riflettere, ci rende ragionevoli... ci ren­de migliori... Fu la paura, ascolta, che avvicinò a Dio migliaia di anime, nient'altro che la pau­ra di morire e di rimanere soli... In quel mo­ mento ebbero bisogno di Lui e lo cercarono... Gridarono, ed Egli raccolse il loro grido...

L’Uomo                        - (dibattendosi) No, no: vattene! Io non voglio aver paura! (Ancora il muggito della sirena, lugubre, prolungato. L'Uomo, spaventato, cade a sedere sulla panchina e con la mano si asciuga il sudore. Il Passeggero si allontana) Non voglio! Non voglio! Non voglio ancora mo­rire... Non voglio morire così presto, prima di aver saputo, prima di aver capito... Tutto que­sto è terribilmente confuso... Chi ci ha condotto fin qui? Che cosa vogliono da noi? (Quasi con un grido desolato) Dove andiamo? E perché ? Perché ?

 

Il Passeggero                 - (in piedi, in alto, alle spalle dell'Uomo con una sorta di ieratica solennità) Tu fai ritornare l'uomo in polvere e dici: Ritornate, o figlioli degli uomini, Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri quando è passato, o come una veglia nella notte... (Ancora il suono lungo della sirena, più lontano. La luce che illumina il Passeggero si è spenta).

L’Uomo                        - (è seduto sulla panchina, immobile, col capo tra le mani).

Il Padre                         - (entra da sinistra, in basso. E' un signore anziano, alto, di bella apparenza, dì aspetto buono e gentile, che cammina appog­giandosi al bastone più per civetteria che per necessità. Si avvicina all'Uomo, gli dice in tono affettuoso e dolente) Ti duole ancora, figlio mio?

L’Uomo                        - (non si riscuote).

Il Padre                         - (si avvicina ancora più. Con affet­to) Mi dispiace, caro. Ti ho dato uno schiaffo molto forte, vero? Fammi vedere la guancia. Ti fa ancora male?

L’Uomo                        - (con accento d'angoscia infantile) Oh, babbo!

Il Padre                         - (siede accanto all'Uomo) Fammi vedere... Che razza di segno! Mi dispiace pro­prio... Non volevo farti del male... Ma ho le mani pesanti, ecco...

L’Uomo                        - Non è nulla, babbo...

Il Padre                         - (quasi scusandosi) Mi hai fatto davvero inquietare, però...

L’Uomo                        - Lo so: sono stato cattivo. Ti ho mancato di rispetto...

Il Padre                         - (scuote il capo) La colpa non è del tutto tua... Non avrei dovuto tagliarmi i baffi per...

L’Uomo                        - (come fosse un ragazzo) E' proprio per far piacere a lei che lo hai fatto?

Il Padre                         - (come scusandosi) Sì.

L’Uomo                        - A lei piacevi di più senza baffi...

Il Padre                         - Già. (Con improvvisa severità) E poi, non ero forse padrone di tagliarmi i baf­fi senza dover chiedere il permesso a quel moc­cioso di mio figlio? Avevi sedici anni, non di­menticarlo...

L’Uomo                        - (sommesso) A me dispiaceva...

Il Padre                         - E mi hai risposto con imperti­nenza, proprio perché sapevi di darmi un dolo­re... Volevi ferirmi, colpirmi... E' così!?

L’Uomo                        - Sì.

Il Padre                         - Dimmi un po', eri geloso di quella signora?

L’Uomo                        - Un poco.

Il Padre                         - Che idea! In fondo cosa potevi temere? Che non ti volessi più bene? Che non mi occupassi più di te? Che sciocchezza! Non avevamo forse vissuto come due amici, noi due soli, da quando la mamma era morta?

L’Uomo                        - (sommesso) Era proprio per que­sto, babbo... Perché ti adoravo. Per me eri come... un Dio. Forte, sicuro di te, senza paure, senza debolezze... Invece, quando ho visto che ti eri tagliati i baffi proprio per far piacere a una donna così stupida, che ti faceva le moine... Me ne accorgevo benissimo, sai? Allora...

Il Padre                         - Hai sentito confusamente che non ero più il tuo Dio ma un uomo come tutti gli altri... E' così?

L’Uomo                        - (sommesso) Sì.

Il Padre                         - L'avevo capito benissimo. Per questo ti ho dato uno schiaffo. Perché dispiaceva più a me che a te d'aver rivelato ai tuoi occhi la mia debolezza di uomo... I padri non dovrebbero mai scendere dal piedistallo sul quale li ha elevati l'amore dei loro figli... (Un silenzio) Ti fa ancora male?

L’Uomo                        - Qualche volta, babbo... Ma è un male che fa bene al cuore... Le tue mani erano calde d'affetto anche quando mi davi uno schiaffo... Oh, come avrei voluto ancora risentirlo, dopo, quel calore... Quando te ne sei andato... Non mi sembrava possibile che tu fossi davvero andato via per sempre... Camminavo nella città e dicevo a me stesso «forse lo vedrò apparire, improv­visamente tra la folla... ». E guardavo, guardavo. Ti cercavo... Ti cercavo... Mi voltavo di scatto, a volte, come se tu potessi essere a un passo die­tro di me... E ogni giorno ero più solo. E' brutto essere soli...

Il Padre                         - Sì, figlio mio. E' brutto essere soli. Vorremmo poter avere sempre accanto a noi qualcuno nella cui mano mettere la nostra mano...

L’Uomo                        - Anche tu hai pensato questo, babbo?

Il Padre                         - Tutti gli uomini lo hanno pensato...

L’Uomo                        - Non mi lascerai, vero babbo? Ora sono contento d'averti ritrovato... Verrai con me. Non mi lascerai più...

Il Padre                         - Certo, figlio mio... Sapevo che ci saremmo ritrovati, un giorno... (Durante le ul­time battute di questo dialogo, la Moglie è en­trata in alto a destra. La Moglie è una donna fine e delicata che indossa un semplice abito da casa. Subito illuminata dal riflettore, la Moglie rivela un aspetto triste e pensoso. Resta in piedi immobile, come in attesa).

L’Uomo                        - (prendendo sotto braccio il Padre, co­mincia a camminare verso il cancello. Una mu­sica suona ora la « Pavana dell'Infanta defunta » di Ravel. Quando l'Uomo giunge all'altezza della Moglie, si ferma e la guarda con sorpresa. Len­tamente si allontana dal Padre e va presso sua moglie. Il Padre siede con docile pazienza).

La Moglie                     - (piano) Ti ho portato la colazione per il viaggio...

L’Uomo                        - (.sorpreso) La colazione...

La Moglie                     - Sì, è già nella valigia...

L’Uomo                        - (come se questo destasse un ricordo so­pito) Nella valigia... (Si volta a guardare la valigia rimasta sulla panchina. Improvvisamente, di corsa, ritorna sui suoi passi fino alla pan­china, si inginocchia, apre la valigia, cerca Qual­cosa inutilmente).

La Moglie                     - (è scesa lentamente. Ora anch'essa è presso la panchina, alle spalle dell'Uomo).

L’Uomo                        - Non c'è...

La Moglie                     - Non c'è?

L’Uomo                        - (si rialza. E' triste e deluso) Mi è dispiaciuto moltissimo, sai? Quel giorno tu mi avevi preparato il pacchetto delle provviste per il viag­gio... Con quanto amore avevi confezionato quel piccolo pacco!

La Moglie                     - (con un sorriso triste) Era la pri­ma volta che partivi dopo il nostro matrimonio...

L’Uomo                        - Sì, sì: era la prima volta che ci la­sciavamo... Tu mi hai dato il pacchetto... Sono partito... In treno il sonno mi ha vinto... Poi, alla stazione in cui dovevo cambiare treno sono sceso precipitosamente e ho dimenticato il tuo pac­chetto sulla reticella dei bagagli... Non m'è mai riuscito di darmene pace...

La Moglie                     - (c. s.) Oh, non importa...

L’Uomo                        - (alza un po' la voce, come se volesse es­sere creduto) Vorrei che tu ne fossi convinta. Non ho mai potuto dimenticare quel pacchetto... Tu lo avevi preparato con le tue mani... E' strano che si possa mettere tanto amore in un cosa tan­to poco importante...

La Moglie                     - Anche adesso devi andare... Non dimenticare il pacchetto...

L’Uomo                        - (disperato) Ma non c'è! Non c'è nulla nella valigia!

La Moglie                     - (con malinconia) Lo hai perduto. In fondo non ti importava molto di me... Ero una cosa che stava al tuo fianco e non occupava molto posto... Una cosa trascurabile, come quel pacchetto. E tu lo hai perduto... (Si avvia per risalire al punto in cui era).

L’Uomo                        - (la trattiene) No, no: aspetta. Senti... Non andartene. Dimmi : qualche volta siamo sta­ti felici, vero?

La Moglie                     - (continua a salire. La musica suona più forte).

 

L’Uomo                        - (seguendo la moglie, in tono implorante) Non ho saputo darmene pace, credimi. Starò più attento, starò più attento... Avevo qualcosa da custodire. Era un pacchetto... No, non era un pacchetto: era una cosa viva, una cosa viva, calda, che palpitava nelle mie mani... Era il tuo cuore...

La Moglie                     - (è di nuovo al posto di prima, immo­bile, assente).

L’Uomo                        - (le si inginocchia accanto, disperato, a capo chino).

La Moglie                     - (gli accarezza lievemente i capelli) Non importa, caro... Non importa: è tanto dif­ficile custodire qualcosa, sì... E' tanto difficile...

L’Uomo                        - (con voce spenta) Io volevo dirti che porterò con me per sempre solo il ricordo di quel piccolo bene che non ho saputo serbare...

La Moglie                     - (sorride con tristezza) Ora è dif­ficile ritrovarlo, difficile, difficile...

L’Uomo                        - (si alza, con un grido) No! Io devo ritrovarlo! Io voglio ritrovarlo! (Di corsa egli scende fino alla panchina, come se volesse cer­care, trovare, in orgasmo).

Il Cocchiere                  - (entra da destra, in basso. E' un corpulento cocchiere padronale, bonaccione e simpatico. Ha in testa la tuba con coccarda e in mano una frusta. Si avvicina alla panchina e vi giunge nello stesso istante dell'Uomo. Si volge all'Uomo salutandolo con scherzosa gravità) La carrozza è pronta, signorino...

L’Uomo                        - (si ferma) La carrozza? (La musica tace).

Il Cocchiere                  - Sicuro: è l'ora d'andare a scuola...

L’Uomo                        - (coti improvvisa allegria) Ah! Ma sei tu! Ma allora possiamo andare subito! Prendo i libri e vengo! Ecco! Andiamo! (Siedono entrambi sulla panchina, il viso rivolto al pubblico, come se fossero seduti a cassetta d'una immaginaria carrozza).

Il Cocchiere                  - (fa schioccare la frusta) Ah! Ah! Su!

L’Uomo                        - (con allegria infantile) E' proprio una bella giornata oggi... C'è tanto sole!

Il Cocchiere                  - Certo: siamo in maggio...

L’Uomo                        - n mese prossimo finiscono le scuole... Lo sai? Si però che il babbo mi lasci stare ancora tanto tempo col nonno... Perché il nonno mi ha promesso di condurmi al mare...

Il Cocchiere                  - Al mare! Caspita! E sai nuo­tare, tu?

L’Uomo                        - No, ma imparerò. Certo, perché da grande voglio fare il marinaio... Cosa credi che sia meglio, fare il marinaio o il macchinista del­le ferrovie?

Il Cocchiere                  - Hm! Per me non lo so davvero. Però immagino che tu non farai né Italo né l'altro... Tu sei un ragazzo di quelli destinati a studiare. Studierai moltissimo e diventerai qual­cosa di veramente importante...

L’Uomo                        - Ministro!

Il Cocchiere                  - (con una smorfia) Eh! I mini­stri chiacchierano troppo...

L’Uomo                        - Allora... generale! Il Cocchiere Ce. s.) I generali non sono buoni ohe a fare la guerra e la guerra non è una bella cosa...

L’Uomo                        - Che potrei fare allora?

Il Cocchiere                  - (con gravità) Una professione in cui ci si possa rendere utili a qualcuno. Questo solo importa: poter essere utili a qualcuno...

L’Uomo                        - Anche tu sei utile, perché mi porti a scuola in carrozza...

Il Cocchiere                  - (ride compiaciuto) Io sì, ma poco. Si può essere più utili ancora, con la testa, col cuore. Sui libri deve essere spiegato come...

L’Uomo                        - Credi che sui libri si troverà tutto?

Il Cocchiere                  - Ah, certo! Altrimenti perché li avrebbero scritti?

L’Uomo                        - Hai ragione.

Il Cocchiere                  - Ed ora guarda un po'... Ti ho fatto il flauto di canna. Proprio come lo volevi tu: con tre buchi. (Cava dalla tasca un piccolo flauto e, ponendosi la frusta sulle ginocchia, co­mincia a suonare una allegra marcetta).

L’Uomo                        - (ascolta rapito, con allegria infantile. Poi, di colpo, cambia espressione, si ode infatti il valzer della scena con la ragazza. La musica del valzer copre quella del flauto. L'uomo si alza di scatto, si guarda intorno smarrito. Una luce il­lumina dal basso via via la Ragazza, poi la Pa­drona della pensione, l'Amico, che saluta alle­gramente, la Professoressa, il Passeggero, il Pa­dre, seduto e sorridente, la Moglie, sempre im­mobile al suo posto, ed infine il Cocchiere che ha preso posto anch'esso tra i ricordi. La mu­sica cresce d'intensità e tutti i personaggi dei « ricordi » segnano lievemente il tempo del valzer. L'uomo, incerto, smarrito, va ora dall'uno all'altro con l'ansia dipinta sul volto, mentre essi, ì ricordi, paiono insensibili alla sua pena. Finché il cancello bianco s'illumina di nuovo e spicca nitido contro il cielo. La musica tace di colpo. Si ode allora il suono prolungato ed insistente del campanello, come al principio. E' la voce dell'Altoparlante che avverte). Altoparlante   - E' in partenza la funicolare celeste! E' in partenza la funicolare celeste! E' in partenza la funicolare celeste...

L’Uomo                        - (in preda a uno smarrimento e a una angoscia senza nome vorrebbe resistere a que­sto imperioso richiamo che sembra sprigionarsi dal cancello. Finché, prima a cupo escono, len­tamente, pei, via via, a fronte alta e a passo spedito, egli sale verso il cancello bianco che è ora U solo punto luminoso della scena. Il cancello bianco si apre come per incanto. Senza voltarsi l'Uomo varca la soglia e per un attimo è cir­confuso di bianco chiarore. Poi l'Uomo scom­pare e il cancello lentamente si chiude. Il cam­panello suona ancora con insistenza).

Tobia                             - (appare in alto, a destra e fa segno verso l'interno, come per dare il via alla funicolare. Quindi scende lentamente verso il proscenio. Il campanello tace. I ricordi non ci sono più).

Abele                            - (da sinistra, in alto, preoccupato. Chiama Tobia e lo raggiunge) Tobia! Tobia! Ma... è partito?

Tobia                             - (calmo) Certo: è partito. Ho dato io il via...

Abele                            - (preoccupato) Oh! E' terribile! E cosa ha portato con sé?

Tobia                             - Niente.

Abele                            - Come niente?

Tobia                             - Niente. La scelta era troppo difficile, capisci?

Abele                            - No.

Tobia                             - Eh, sei ancora molto giovane, tu. Non hai esperienza. Vedi, questo è il mio metodo in­fallibile: per convincere i mortali ad abbando­nare tutto, io concedo sempre loro un solo ri­cordo... Non s"è mai dato il caso di qualcuno che abbia saputo scegliere...

Abele                            - Allora tu lo sapevi?

Tobia                             - Certo che lo sapevo! Questa è l'ultima prova. Quando si spogliano dei ricordi, allora so­no veramente morti... (Si china a raccogliere la valigia) Tienila: aprila e spargine il contenuto sulle nuvole, n vento porterà via tutto...

Abele                            - (prende la valigia, va verso destra. Im­provvisamente torna sui suoi passi, preoccupato) Tobia! Tobia! Sta arrivando qualcuno... Con due valigie!

Tobia                             - (sorride) Va bene, va bene... La cosa non cambia... Ora ti ho insegnato come si fa. Puoi cavartela da solo. Io vado a riposare... (Prende a salire lentamente il pendio, con le ma­ni dietro la schiena, come un buon funzionario soddisfatto del proprio lavoro, mentre Abele, con la valigia, esce da destra).

FINE