Gli addii

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GLI ADDII

Commedia in tre atti

Di GUIDO CANTINI

PERSONAGGI

DARIA

DINA

LA SIGNORA AGUS

CORRADO

CARLO

GINO

FILIPPO

IL SIGNOR AGUS

IL SIGNOR PISANO

Quando e dove volete

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

A tela abbassata, s'ode un pianoforte suonare Les adieux di Beethoven (primo movimento). Dopo un poco s'alza la tela. Vediamo allora la sala di soggiorno della Villa Agus. Il pianoforte occupa, a sinistra, il fondo della scena, che forma una specie di veranda sopraelevata. La persona che suona è Daria Saal, giovane, bellissima, vestita di chiaro. D'improvviso nel giardino appare la figura del Signor Pisano : un uomo sulla cinquantina, dai baffi lunghi e spioventi, che porta una giacca d'alpagà e sotto il braccio una busta di cuoio, gonfia di carte.

Il signor Pisano             - (già su la soglia) Permesso? (E poiché nessuno risponde ripete) Permesso?

Daria                             - (s'interrompe, si alza, muove qualche passo).

Il signor Pisano             - Scusate, ma il cancello era aperto.

Daria                             - È sempre aperto. Per comodità.

Il signor Pisano             - La signorina Saal? Vengo per l'Enciclopedia Matematica.

Daria                             - Avete portato i moduli d'abbona­mento?

Il signor Pisano             - Naturalmente. (Posa la busta su un tavolino, l'apre)

Daria                             - Accomodatevi pure.

Il signor Pisano             - Grazie. (Siede) Ecco qua. (Porge a Daria degli stampati) A contanti, i dodici volumi legati in mezza pelle coste­rebbero duemila e cinquecento lire; a rate mensili...

Voce della signora Agus        - Daria! Daria! (Dal giardino, avvenente ancora nonostante l'età, viene la signora Agus. Veste con ele­ganza piuttosto eccentrica).

La signora Agus            - Daria... (Scorgendo il si­gnor Pisano che subito si alza) Ah! Hai gente?

Daria                             - Sì, mamma, ho qui il signor...

Il signor Pisano             - ... Pisano. Marziale Pisano della CI.P.A.S. Compagnia Italiana Pubbli­cazioni Arti e Scienze.

La signora Agus            - (distratta) Piacere. (Poi alla figlia) Senti, Daria, ho bisogno di par­larti.

Daria                             - Subito. (Al Signor Pisano) Volete la­sciarmi questi moduli? Telefonerò.

Il signor Pisano             - Io però potrei spiegare forse meglio... Se ora vi disturba, aspetterò in giardino.

(Intanto la signora Agus ha aperto la bor­setta, ne ha tratto un piccolo specchio, il piumino della cipria, il lapis delle labbra).

Daria                             - No no, mi basta sapere quanto è la rata mensile.

Il signor Pisano             - Duecentocinquanta.

Daria                             - Perfettamente.

Il signor Pisano             - Guardate. Avevo già pre­parato il contratto...

Daria                             - Davvero hai molta fretta, mamma?

La signora Agus            - Terribilmente. D'aria          - E allora scusatemi, signor Pisano, ma dobbiamo proprio rimandare a un altro giorno. Il signor Pisano          - Come volete. Soltanto... (Una porta improvvisamente si spalanca. Irrompe nella stanza Dina: una ragazzetto di quindici anni. Acerba, angolosa, non inte­ramente formata).

Dina                              - Mamma! Mammina! (Si getta nelle braccia di Daria).

Il signor Pisano             - (spalanca gli occhi) Ma...

Daria                             - Sudata, al solito... (Bacia la figlia).

Dina                              - Ho fatto tutta una corsa, per portarti la bella notizia. L'ottavo dieci in algebra questo mese.

Daria                             - (la carezza).

La signora Agus            - Che fenomeno! A me non somigli certo. I conti io non li ho saputi mai fare.

Dina                              - (prestando attenzione alla nonna) Ciao, mamma al quadrato. (Si getta addosso a lei per baciarla).

La signora Agus            - Per carità, non mi toccare. Mi rovini tutta. Tu, quando ti avvicini, sei un vero cataclisma.

(Allontana la nipotina con una specie di terrore).

Dina                              - Bada, se fai la cattiva, ti chiamo nonna.

La signora Agus            - (rivolta senza parere al si­gnor Pisano) Che sciocchezza sposarsi tanto presto!

(Durante queste frasi' il signor Pisano è rimasto in disparte, ma ora Dina si accorge di lui).

Dina                              - Oh!

Il signor Pisano             - Ero venuto per l'Enciclo­pedia Matematica...

Dina                              - Finalmente! Ho dovuto telefonare non so quante volte. Son duri nella vostra Casa Editrice.

Daria                             - Dina!... (al signor Pisano) Scusate, ma mia figlia è molto maleducata.

Il signor Pisano             - Dovrei scusarmi io, signora.

Daria                             - Di che?

Il signor Pisano             - (con un sorriso scialbo) Di avervi chiamata signorina. Ma chi poteva mai supporre...

La signora Agus            - (guardando il signor Pi­sano con simpatia) La chiamano tutti così.

Il signor Pisano             - (in ammirazione) È una co­sa meravigliosa. Tre sorelle. Parola d'onore, tre sorelle.

La signora Agus            - (con involontaria comicità, rivolta alla figlia) Fagli portare qualcosa da bere.

Il signor Pisano             - No, grazie, signora.

Dina                              - Posso avere un fascicolo di saggio, si­gnor Pisano? Voglio esaminarlo bene.

Il signor Pisano             - Io, veramente, credevo che conosceste già questa nostra opera monu­mentale.

Dina                              - Certo. La conosco, ma capirete che pri­ma di compromettersi, uno vuole...

Il signor Pisano             - Già, già, sicuro.

La signora Agus            - Quand'è così, noi, Daria, andiamo a parlare di là.

Dina                              - No. Vado io nello studio del nonno col signor Pisano. Qui non si starebbe tran­quilli. Ci capita sempre troppa gente. (Al signor Pisano) Venite.

Il signor Pisano             - (raccoglie in fretta la sua roba. Uscendo) Con permesso, signore.

(Scompare con Dina).

Daria                             - È impressionante.

La signora Agus            - Che cosa?

Daria                             - Quella bambina ha quasi sedici anni.

La signora Agus            - Oh, ne ha appena quindici.

Daria                             - Compiuti.

La signora Agus            - Beh, ne ha ancora quin­dici... Perché glie li vuoi crescere?

Daria                             - Io non glieli voglio crescere. Figurati! Ma mi pare che dovrebbe essere già più donna.

La signora Agus            - Non hai sentito? Scommet­to che tu avresti firmato subito; lei non so da quanto tempo ci seccava con quella En­ciclopedia, e prima d'impegnarsi ha voluto riesaminare i fascicoli di saggio, ha voluto... Ma, via via, parliamo di cose serie. Hai quat­trini ?

Daria                             - Quattrini? (Con un sorriso) No, mamma.

La signora Agus            - (agitatissima a un tratto, si alza) Ah, io speravo proprio...

Daria                             - E come potevi sperarlo? Quello che ho io lo sai meglio di me.

La signora Agus            - Cosa vuoi farci? Speravo lo stesso. Non si sa mai.

Daria                             - (sorridendo ancora, involontariamente) Al solito, tu sogni, mamma. Hai sempre sognato.

La signora Agus            - Per grazia di Dio. Era l'unico modo per dimenticare d'aver sposato tuo padre.

Daria                             - Povero babbo!

La signora Agus            - Povero? Perché povero? Fammi il santo piacere! Non è mica morto. Povera a me, semmai. Tutta la vita un uomo molto più vecchio che non ha con noi nessuna affinità: né di sentimenti, né di., di... Basta, è toccato a me, disgraziatamen­te. E ormai non c'è più nulla da fare.

Daria                             - Al solito! Tutti i momenti torna in tavola questo discorso. Quante volte ne ab­biamo parlato? Un milione? Due milioni.

La signora Agus            - Per forza. Di che parla un malato? Della sua malattia. E io non sono come un malato cronico?

Daria                             - In ogni caso, colpa tua.

La signora Agus            - Ah! Colpa mia?

Daria                             - Ma naturalmente. Avresti potuto be­nissimo separarti da lui.

La signora Agus            - Già, ma lui non ha mai preso l'iniziativa.

Daria                             - (dolcemente) E non ti sei mai doman­data perché ?

La signora Agus            - Ma è semplice. Per indo­lenza. Perché è un uomo fatto così. I libri, la scuola, i compiti degli allievi... Niente altro.

Daria                             - (dolcemente) No, mamma, perché ti voleva bene.

 La signora Agus           - Può anche darsi. Ma non ti pare che avrebbe dovuto cercare di gua­dagnar di più? Perché mi ha fatto far sem­pre queste figure con le sarte, coi pellicciai, con le modiste, perfino col parrucchiere?... Sicuro, col parrucchiere. Sai che ci ho un conto di millecinquecento lire? Tu non lo sapevi, vero... Per forza, se una vuol man­tenersi niente niente un po' carina, un po' giovane, se proprio non vuol buttarsi giù... Intanto, eccomi qua, con dei gioielli falsi, ed anche tu, povera Daria... (Daria ha un gesto) Oh, sì, anche tu... Ridotta a vivere con quello che ti ha lasciato tuo marito. E non è molto. Ma tu hai giudizio. I soldi, beata te, ti figurano in un modo... Io non so come tu faccia... A volte, pare impossibile, sei anche più elegante di me... Ma io vorrei che tu avessi di più. Te lo meriteresti. E con la tua bellezza...

Daria                             - (ha il solito gesto vago) Quello che ho mi basta.

La signora Agus            - No no, non venirlo a dire a me. Eppoi quand'anche fosse, non si vive mica di solo pane. Una donna giovane, sul fiore, ha diritto ad altre soddisfazioni.

Daria                             - Quali?

La signora Agus            - Oh, beh, beh. Non sarai di marmo, spero. E non vorrai darmi ad intendere che qualche volta tu non ti senta sola, troppo sola.

Daria                             - Ma si, mamma. Perché no?.. I cattivi pensieri vengono a volte all'improvviso, quando meno ci si aspetta. Uno se li trova a un tratto nella gola, nel cervello; ma non è poi tanto difficile ricacciarli giù.

La signora Agus            - I cattivi pensieri... Ma la vita, cara mia, la vita...

Daria                             - Ebbene?

La signora Agus            - Ah, è terribile! (Ella si passa le mani sul viso. Va verso il fondo. Daria resta a guardarla. D'un tratto, volgen­dosi) Basta. Non ci pensiamo. Si diceva?... Ah, sì, che non hai denaro, vero? Questo mi imbarazza terribilmente... Ma non fa nulla. Pazienza. Io esco, addio, cara. (Uscendo, sfiora il pianoforte, sembra esitare. Si volge) Ah, a proposito... Sai che i Tolni cercano un pianoforte d'occasione?

Daria                             - No, non lo sapevo.

La signora Agus            - Già.

Daria                             - Beh, non sarà poi tanto difficile per loro trovarne uno.

La signora Agus            - Oh no. Difficilissimo. Cer­cano un Steinway. Come questo...

Daria                             - Ah!

La signora Agus            - A volte penso a che serva un pianoforte oggi, con la radio, il gram­mofono... (Passa una mano sulla tastiera) Sono sicura che da un pianoforte simile in questo momento tu protesti benissimo rica­vare almeno trentamila lire.

Daria                             - Si si, ne sono persuasa anch'io.

La signora Agus            - E non è una pazzia tenere lì un capitale morto? Pensa alle cose che ti ci potresti comprare. Tanto, questo o un altro da meno prezzo...

Daria                             - Non credo che sarebbe la medesima cosa.

La signora Agus            - Perché ?

Daria                             - Per la voce.

La signora Agus            - Oh bella! Come se tutti i pianoforti non avessero la stessa voce.

Daria                             - Tu non sei una pianista, mamma.

La signora Agus            - Per me commetti un'enor­me sciocchezza.

Daria                             - Forse; ma che vuoi, non è facile ri­nunciare a un amico.

La signora Agus            - (un po' bruscamente) Va bene. Addio.

Daria                             - Addio, mamma!

(La signora Agus esce. Daria resta immo­bile qualche istante. Dal giardino giungono le voci di Dina e Carlo e di Gino. Daria si scuote. I tre ragazzi entrano).

Gino                              - Buongiorno, signora.

Carlo                             - Signora... (Le baciano la mano).

Daria                             - Buongiorno, Gino; buongiorno, Carlo.

Dina                              - Sono venuti per copiare l'esercizio di algebra questi due fannulloni

Daria                             - (materna) Ah, male, male...

Dina                              - Cominciano per tempo a vivere alle spalle delle donne. Non ti pare?

 Daria                            - (severa) Ma Dina, cosa dici?

Dina                              - (sinceramente stupita) Ho detto qual­cosa di male?

Daria                             - Va bene che è la moda, ma non mi piace che tu parli così, nemmeno per ischerzo.

Dina                              - Come vuoi, mammina.

Daria                             - Che fine hai fatto fare al signor Pi­sano?

Dina                              - Liquidato.

Daria                             - Non vuoi più l'enciclopedia?

Dina                              - Tutt'altro, mamma. Ho già firmato il contratto.

Daria                             - Tu? Ma la tua firma non è valida.

Dina                              - Lo so bene.

Daria                             - Lo hai fatto firmare al nonno?

Dina                              - Per carità! Gli avrei dovuto spiegare un'infinità di cose prima che capisse, se pure...

Daria                             - Allora?

Dina                              - Oh, niente: ho falsificato la tua firma.

Daria                             - La mia?

Dina                              - Sì.

Carlo                             - Falsifica le firme in un modo straordi­nario. Se vedeste, signora.

Gino                              - Tutti in classe ricorriamo a lei quando abbiamo bisogno d'una giustificazione.

Carlo                             - Rifà a meraviglia anche quella del Preside.

Daria                             - (non sapendosi riavere) Oh! È una cosa bruttissima.

Dina                              - (ingenuamente) Ma io lo faccio per di­vertirmi.

Daria                             - ...e io ti dico una volta per sempre...

Dina                              - Ma allora parli sul serio, mammina?

Daria                             - Certamente.

Dina                              - No, mammina, no... Se tu non vuoi...

Daria                             - (avviandosi) Oh, insomma. Sono birichinate che passano i limiti.

Dina                              - (trattenendola) Mammina... Davvero non credevo di far male. Davvero. Sei in col­lera? Non essere in collera, mammina. Non voglio (Ha le lacrime nella voce) Mammina mia, no... Guardami... Non tenermi più il broncio, via... (Quasi è lì lì per piangere) Non mi tieni il broncio, vero? È vero che non sei più in collera?... Mammina. (L'abbraccia. Daria non sa più resistere).

Darta                             - Ma no, cara; lo sai che non ci posso stare in collera con te.

Dina                              - Cosi va bene, mammina. (La bacia) Noi siamo sempre le migliori amiche, no? Non lo farò più sai?         - (Si asciuga gli occhi).

Daria                             - Si, si... (Con altro tono) Ma ora basta. Non ti vergogni? Bello spettacolo! Ci sono là due giovinotti che ti stanno a guar­dare.

Dina                              - Me ne importa un bel tanto di loro! Sono due stupidi che non sanno neanche quello che sia un'equazione di secondo grado.

Daria                             - E allora, su, da brava, insegnaglielo.

Dina                              - Bisogna restare qui. Il nonno mi ha cacciata via dallo studio.

Daria                             - Va bene. Restate pure. (Si stacca dalla figlia) A dopo, ragazzi.

(/ due ragazzi salutano con un cenno del capo. Dina va verso di loro, continuando ad asciugarsi gli occhi. Gino ride).

Dina                              - Sarai poco stupido? Cosa c'è da ride­re? (Per dispetto, tira fuori la lingua).

Gino                              - Non rido di te, ma di Carlo.

Dina                              - Cos'ha fatto Carlo?

Carlo                             - Non gli dar retta. Starà per dire qual­che cretineria, al solito.

Gino                              - (continuando a ridere) Vedendo pian­gere te, per poco non si è messo a piangere anche lui.

Dina                              - Anche lui? E perché ?

Gino                              - Domandaglielo tu il perché .

Carlo                             - Gino, andiamo, finiscila.

Dina                              - Cosa c'è?

Carlo                             - Ma nulla! Nulla.

Dina                              - Allora, questo compito? Volete che ve lo spieghi?

Gino                              - Io però ho un mal di testa d'inferno.

Dina                              - Ho capito: le solite scuse... Avanti, venite. Non facciamo storie. (Li prende per mano, e li trascina verso il tavolino). Sedete. Ah, benissimo. La mia cartella è rimasta qui. (Apre la cartella. Ne trae il libro dell'algebra) Questa volta cominciamo dall'esercizio numero trenta. Va bene?

Gino                              - Oh per me, l'uno o l'altro... (comincia a leggere) «I numeri razionali rap­presentano la misura di grandezze commen­surabili ». È chiaro, no?

Gino                              - No, per me non è chiaro per niente. Ma io, te l'ho detto, oggi non sono in grado di fare sforzi mentali.

Dina                              - Né oggi né mai.

Gino                              - Lo ammetto. Ma dimmi un po', a che serve l'algebra?

Dina                              - Come, a che serve? Non lo so. Se la fanno studiare, servirà bene a qualche cosa, poi. Intanto c'insegna a ragionare.

Gino                              - Ecco. Vedi? Ragionare per me è la cosa più noiosa: quando non ho più soldi, credi che io mi metta a ragionare?

Dina                              - No? Che fai?

Gino                              - Vado dalla mamma e me li faccio dare. Tanto, quando ragionassi ben bene, i soldi in tasca non mi ci nascerebbero di certo.

Dina                              - E allora, non stare a far perdere tem­po a noi. Noi vogliamo studiare. Vero, Carlo?

Carlo                             - Si.

Gino                              - Vado a fumare una sigaretta in giar­dino. (Ha già acceso) Ne vuoi una boccata. Dina?

Dina                              - Non mi piace.

Gino                              - Toh, prova.

Dina                              - Ho provato tante volte. Non mi piace. Tu ci trovi molto gusto?

Gino                              - Che discorsi! Lo credo bene. E poi fu­mano tutti. Perché non dovrei fumare io?

Dina                              - (restituendogli la sigaretta) No. No. Tieni, non mi fa né caldo né freddo. E pro­prio non capisco come Laura possa stare tutto il giorno con la sigaretta in bocca.

Gino                              - Ma Laura è una donna.

Dina                              - Ha la mia età.

Gino                              - Si, ma lei è una donna.

Dina                              - E io cosa sono?

Gino                              - Tu sei una che prende dieci in algebra.

Dina                              - Scemo!... Beh, ora finiscila.

Carlo                             - Si. Ha ragione. Vattene.

Gino                              - Ho capito... me ne vado. (Va in giar­dino)

Dina                              - (di nuovo curva sul libro) Allora... « I numeri razionali rappresentano la misura di numeri commensurabili, i) Infatti, date due grandezzedelle quali la seconda presa quale unità di misura, può accadere che la grandezza A contenga la grandezza u un numero esatto di volte; ossia : A A = m che si scrive pure = tn u che si legge: il rapporto  (misura) di A ad u è il numero intero m... (Ma Carlo non ascol­ta. Egli fissa intensamente la giovinetta; poi, non polendo resistere, le fa una carezza sui capelli. Dina scuote il capo come per scacciare una mosca importuna, assorta com'è nello studio. D'un tratto accorgendosi di quello che fa Carlo). Smettila, Carlo. Si fa sul serio o si scherza? Smettila di farmi il solletico. (Ma Carlo improvvisamente la stringe a sé).

Dina                              - (stupita) Carlo, cosa ti prende?

Carlo                             - Ti voglio bene.

Dina                              - Lasciami.

Carlo                             - Ti voglio bene, te l'avevo anche scritto. Guarda. (Cava una lettera di tasca gliela dà).

Dina                              - (prende la lettera, un po' confusa) Ave­vi scritto a me?

Carlo                             - Ma si (Egli si alza, fa l'atto di allon­tanarsi). Leggi.

Dina                              - (lo trattiene) No. Aspetta. (Straccia in fretta la busta. Scorre la lettera. Poi, fis­sando Carlo) Davvero?

Carlo                             - Sì.

Dina                              - Tu provi tutte queste cose che dici?

Carlo                             - Di più anche. Non riesco più a dor­mire. Mi pare d'aver sempre la febbre. Non posso pensare ad altro.

Dina                              - Sai che mi fai quasi paura?

Carlo                             - Paura?

Dina                              - Ma si. Perché parli come un esaltato. Sembri un altro, da ieri, da pochi momen­ti fa.

Carlo                             - Eppure non è da ieri che soffro in questo modo.

Dina                              - Io non me n'ero mai accorta.

Carlo                             - Perché sei un'insensibile. Non so che cosa tu ci abbia nelle vene...

Dina                              - Ma no. Ti sbagli. Mi fai molta pena.

 Dina                             - Che altro dovrei dirti? Non so. Cerco, lo vedi.

Carlo                             - Cerchi... Quando si vuol bene, non si cerca; si trova naturalmente, spontanea­mente.

Dina                              - Si. Forse hai ragione. Ma non è colpa mia.

Carlo                             - Dunque non hai mai pensato all'amore?

Dina                              - Si che ci ho pensato. Tante volte.

Carlo                             - In che modo?

Dina                              - Non ti saprei dire. Ci ho pensato... Credo anch'io che dev'essere una cosa molto bella, l'amore.

Carlo                             - Ma non hai mai provato nulla per nessuno?

Dina                              - Non so che cosa, avrei dovuto provare.

Carlo                             - Ma... L'amore. Sai, ci si trova la notte svegli, con gli occhi spalancati, e ci si mette a pensare, a pensare... E il cuore batte forte forte che si sente rimbombare nella stanza... Così è l'amore.

Dina                              - Così, no, mai.

Carlo                             - Lo vedi? Io non riesco a farmi voler bene.

Dina                              - Ma si che te ne voglio.

Carlo                             - Non come piacerebbe a me. Dammi le mani, Dina. Mi basta le mani, un mo­mento. (Le prende le mani che ella gli ab­bandona docilmente) Non senti come scot­tano le mie?

Dina                              - Si.

Carlo                             - Ecco. Ho tutto il sangue così. Tutto il sangue in rivoluzione sempre, e tu?... (Ella lo guarda senza rispondere immobile). Non provi quello che provo io? (Dina scuote il capo, fissandolo con un lieve stupore Allora Carlo le prende la testa, gliela rovescia. La bacia su tutto il viso con una specie d'insaziabilità. Ella lo lascia fare inerte, glaciale. Egli rialza il capo. È scon­volto. Poi i due si guardano. Dina con occhi grandi, opachi).

Carlo                             - (mormora) Scusami, Dina. Non ho sa­puto resistere. (Dopo un istante) Non dici nulla ?

Dina                              - Ma non saprei... (Con deliziosa inge­nuità) Non soffri più, ora?

Carlo                             - Si, sempre. Come prima... Perché tu sei rimasta fredda. Perché tu ai miei baci non hai risposto.

Dina                              - È stata una cosa così improvvisa!

Carlo                             - Vieni. Facciamo come al cinemato­grafo. Vuoi?

Dina                              - ...Si.

Carlo                             - Ecco. Attenta. Lo faccio.

Dina                              - ...Si. (Carlo di nuovo le prende la testa: la ba­cia sulla bocca. È un bacio lungo questa volta, studiato nel silenzio buio della sua camera di ragazzo. Dina si agita, si vuol liberare. Finalmente riesce a farlo).

Dina                              - (sputando, rivoltata da una nausea in­sopportabile) Mascalzone! Vigliacco! Via, vai via! E con la bocca che sa di sigaretta a quel modo... Hai bevuto, vero?... Di cer­to devi aver bevuto... Vattene via di qua, hai capito? E non metterci più piede. (L'altro sembra tornare in sé).

Carlo                             - Avevi detto di si.

Dina                              - Ma io non sapevo...

Carlo                             - Perdonami.

Dina                              - Ti ho detto d'andare via... E subito. Vai via, vai via, vai via.

Carlo                             - Dina, ti prego...

Dina                              - Vai via... (Ella sempre più eccitata afferra i libri che sono alla portata delle sue maniglieli scaraventa dietro).

Carlo                             - (ancora un po' stordito) Si, vado via, non gridare... (Esce).

(Dina siede sul divano, si mette a piangere in silenzio. Dopo qualche istante entra il signor Agus. È un uomo d'oltre sessanta anni. Veste di néro. Ha una barbetta a pun­ta, tutta bianca, porta delle lenti trattenute da un cordoncino di seta, ha un libro sotto il braccio).

(Attraversa la stanza per andare in giardino. Ma tutti quei volumi per terra lo fermano, ne raccoglie uno, lo esamina. Dina cerca di ricomporsi alla svelta e fa per scappar via. Ma il nonno però l'ha vista, la trattiene).

Il signor Agus               - Dina!... Hai pianto?

Dina                              - No.

Il signor Agus               - Che t'hanno fatto?

 Dina                             - (impaziente) Nulla, nulla.

Il signor Agus               - Avanti, voglio sapere.

Dina                              - Non c'è da saper nulla.

Il signor Agus               - Oh, infine... Cos'hai?

Dina                              - Come devo ripeterti che non ho nulla?

Il signor Agus               - Va bene. Se non vuoi dirlo a me, lo dirai a tua madre. (Chiamando) Da­lia! Daria!

Dina                              - Oh, come sei noioso, nonno.

Daria                             - (appare) Mi hai chiamato?

Il signor Agus               - Guarda... Ho sorpreso tua figlia a piangere là, su quel divano.

Daria                             - (subito allarmata) Cos'hai? Ti senti male?

Dina                              - Ma no, mamma. Sto benissimo.

Il signor Agus               - (ha raccolto la lettera caduta. Vi ha posato gli occhi) Ah!

Daria                             - Cos'è?

Il signor Agus               - Una lettera d'amore?...

Dina                              - Dammela... (Poi semplicemente) È di Carlo.

Il signor Agus               - (ridacchiando) Ah! Ah!

Daria                             - Fai vedere. (Legge) Ragazzate.

Dina                              - Stupidaggini. Cretinerie. È pazzo. Di certo è pazzo.

Daria                             - E allora perché piangevi?

Dina                              - Ma perché ... Perché mi ha dato un bacio.

Il signor Agus               - Ah! Ci vuole una lezione, per quel ragazzo.

Dina                              - Non dubitare che ci ho già pensato io. Non ci si proverà più.

Daria                             - Cos'hai fatto?

Dina                              - L'ho messo fuori della porta. Ecco quel­lo che ho fatto.

Daria                             - (pensosa) E poi?

Dina                              - E poi che?

Daria                             - Se piangevi...

Dina                              - Beh, non lo so neanche io il perché. Forse perché non ho potuto fargli quello che avrei voluto... ho provato... Non lo so, mamma. Non lo so quello che ho provato. (Ella nasconde con moto infantile la testa nel seno materno).

Daria                             - (la carezza).

Il signor Agus               - (è presso la porta del giardino. Guarda in alto lontano).

Dina                              - (dopo un po' di tempo) Mammina...

Daria                             - Cara...

Dina                              - Non ti ricordi la promessa?

Daria                             - Quale?

Dina                              - Avevi detto che se avessi preso un al­tro dieci in algebra, mi avresti comprato una racchetta nuova.

Daria                             - Davvero? Ti ho promesso questo?

Dina                              - Sì. Ma ora abbiamo firmato per l'en­ciclopedia...

Daria                             - Non importa. Te la comprerò lo stesso.

Dina                              - Grazie, mammina... Adesso vado a studiare. Ho un compito grosso grosso per domani.

Daria                             - Va a studiare, si.

(Dina lascia la madre, va a prèndere la sua cartella, esce. Allora padre e figlia si guar­dano, si guardano a lungo, profondamente. Quindi a lenti passi il signor Agus viene verso Daria).

Daria                             - Babbo.

Il signor Agus               - Mi sembra ieri.

Daria                             - (sorridendo lievemente) Anche a me, babbo.

Il signor Agus               - Ma... non capisce. È un fio­rellino. (Con altro tono) E poi, quando uno comincia a sentire, a capire... cambia. E di­venta un uomo...

Daria                             - E una donna.

Il signor Agus               - (dopo un attimo) Tua ma­dre è uscita?

Daria                             - Si.

(Ella va verso il pianoforte. Siede. Mette le mani su la tastiera).

Il signor Agus               - Sai che credo di aver fatto una straordinaria scoperta nella biblioteca dei Certosini?

Daria                             - (col pensiero altrove) Davvero?

Il signor Agus               - (le si è avvicinato, le mormo­ra all'orecchio, quasi furtivamente) Questa volta è l'Accademia, sicura. E allora... Al­lora, con quell'assegno mensile, fisso, capi­rai... Quante belle cose vorrò comprarti!

Daria                             - (con un sorriso) Oh, avrai ancora molti libri da comprare.

Il signor Agus               - Anche i libri, naturalmen­te... I libri prima di tutto; perché , senza quelli... A proposito, oggi c'è un'asta importantissima... E sono già in ritardo... Addio, figlietta.

Daria                             - Addio, babbo. Buona passeggiata. (Il signor Agus a capo chino esce). (Daria riprende il pezzo che aveva dovuto interrompere, ma, inaspettatamente, da una casa vicina giunge la voce di un altro pia­noforte. È lo stesso motivo. Daria stupita s'alza, va sulla porla, rimane qualche attimo in ascolto; poi come sospinta da una forza irresistibile, torna al suo strumento, trovan­do un perfetto unisono. L'altro però s'arre­sta subito; non per questo s'arresta Daria che continua a suonare con impeto straordi­nario. Dopo un poco, preceduto dalla sua ombra nel sole, appare sulla soglia Corrado Veisl. È un uomo magro, alto: ha un volto fine spirituale. Fissa qualche momento Da­rla).

(Daria svegliata da quello sguardo con un piccolo grido stacca le mani dalla tastiera. S'alza).

Corrado                         - Vi prego di scusarmi. Ma il can­cello era aperto. So benissimo che questo non è il modo di presentarsi nelle case degli altri... Però veniva quasi fatto di pensare che voi mi aveste chiamato.

Daria                             - lo?

Corrado                         - Si. Quando avete ripreso a sonare, confondendo la voce del vostro pianoforte con quella del mio. Del resto, poco prima io non avevo fatto altrettanto?

Daria                             - Eravate voi?

Corrado                         - Mi rallegro. Siete un'artista.

Daria                             - Io? Voi piuttosto. Io non sono che una dilettante.

Corrado                         - Per solito le dilettanti suonano cose diverse.

Daria                             - Adoro « Gli addii » di Beethoven; ma le mie mani disgraziatamente non rispondo­no troppo bene. (Agita le mani nervosa­mente).

Corrado                         - Al contrario. Tutt'al più mi è par­sa un po' debole la sinistra. Ecco.

Daria                             - Come l'avete capito bene! Sembrere­ste un pianista di professione.

Corrado                         - Mi chiamo Corrado Veisl.

Daria                             - Siete Corrado Veisl? Oh, Dio mio! (Si copre la faccia con le mani).

Corrado                         - Perché ?

Daria                             - Perché mi vergogno terribilmente... Che sciocca! Avrei dovuto immaginare qual­cosa di simile. Anzi avrei dovuto riconosce­re addirittura il vostro tocco.

Corrado                         - Da molti anni io non venivo in Italia.

Daria                             - Ma vi ho udito alla radio, ho tutti i vostri dischi...

Corrado                         - Non basta, credo, per riconoscere la maniera di un maestro.

Daria                             - E abitate qui?

Corrado                         - Da qualche giorno. Ho preso in af­fitto la villa vicina.

Daria                             - Come mi dispiace!

Corrado                         - (sorridendo) Veramente speravo il contrario.

Daria                             - Eh sì. perché io, adesso, non potrò più sonare. E il pianoforte è la mia vita. Ma scusate. Non pensavo che semmai potrò rifarmi ascoltando voi.

Corrado                         - Io faccio tanti di quegli esercizi, noiosissimi!

Daria                             - Beh, avrò da imparare qualcosa an­che da quelli. Ma com'è che non vi ho sen­tito prima d'oggi?

Corrado                         - Il mio pianoforte è arrivato soltanto stamani. Appena il tempo di farlo accordare. Però se la mia voce non era ancora giunta fino a voi, io da una settimana ascoltavo as­siduamente la vostra.

Daria                             - Oh! Era una specie di furto. Quando uno si chiama Corrado Veisl, avrebbe il do­vere di avvertir subito tutti i vicini del suo arrivo, per non metterli poi alla dispera­zione.

Corrado                         - Vi avevo anche vista.

Daria                             - Dove?

Corrado                         - Ma... nel vostro giardino... dal mio.

Daria                             - Questi piccoli giardini delle città sono così pettegoli!

Corrado                         - E ho imparato anche a conoscere il vostro nome.

Daria                             - No!

Corrado                         - Sicuro. Senza doverlo domandare. Vi chiamano tutti : vostro padre, vostra ma­dre: « Daria! Daria! ». Il vostro nome è sempre nell'aria, fatto d'aria.

Daria                             - Vi avverto che questo giuoco di pa­role non è nuovo.

Corrado                         - Peccato. Vorrei averlo inventato io.

Daria                             - Perché non sedete?

Corrado                         - Perché ancora non mi avete invi­tato a farlo.

Daria                             - Fatelo.

Corrado                         - Grazie.

Daria                             - E ora spiegatemi perché avete preso in affitto questa villa.

Corrado                         - Detesto gli alberghi.

Daria                             - La ragione?

Corrado                         - Ho troppo bisogno di sonare a tutte le ore del giorno e della notte, secondo l'estro.

Daria                             - Amate dunque molto la vostra arte?

Corrado                         - Non capisco la domanda.

Daria                             - Per solito, gli artisti, passata la prima giovinezza, non amano più molto la loro arte. È come per certi matrimoni: subentra l'abitudine, il dovere... Non è così?

Corrado                         - Per me, no.

Daria                             - Questo mi piace molto. Credo che an­che per me sarebbe la medesima cosa, se io fossi un'artista.

Corrado                         - Siete un'artista.

Daria                             - Sapete che se non la credessi un com­plimento, questa frase, detta da voi, mi riem­pirebbe d'orgoglio e di gioia?

Corrado                         - Vi assicuro che non era un compli­mento.

Daria                             - Grazie, allora. Resterete molto in Ita­lia?

Corrado                         - Spero.

Daria                             - E i vostri concerti?

Corrado                         - Vorrei riposare qualche mese. Mi sento stanco...

Daria                             - Non si direbbe.

Corrado                         - È una stanchezza che non si vede. (Con un gesto vago che vorrebbe indicare la mente, il cuore, tutto l'essere) Qui.

Daria                             - Ah!

Corrado                         - ...e solo.

Daria                             - Solo?

Corrado                         - Sì.

Daria                             - Ah, già. È vero. Dove ho letto una vostra biografia? Dove?... Sul Diario Musi­cale. Senza moglie, senza prole... Un po' strano, un po' lunatico, con crisi di misan­tropia. ..

Corrado                         - Quell'articolo mi dipingeva benis­simo.

Daria                             - Vi si parlava anche molto di vostra madre. E della vostra casa. Rivedo la foto­grafia. Una casa bianchissima fra alberi al­tissimi e nerissimi. Non è così?

Corrado                         - Proprio così.

Daria                             - E perché non siete andato a riposarvi a casa vostra?

Corrado                         -Provavo un gran bisogno di questo bel sole. Ho sempre adorato l'Italia.

Daria                             - E vostra madre?

Corrado                         - Mi aspetta. Mi aspetta da quando avevo sedici anni.

Daria                             - Sì sì, ricordo. Cominciaste la vostra carriera a sedici anni, con vostro padre, pia­nista anche lui, che poi morì tragicamente. Non andate mai da vostra madre?

Corrado                         - Fugacemente. Ma le ho promesso di passare tre settimane tutte con lei.

Daria                             - Quando?

Corrado                         - Fra quattro mesi. Non potrò man­care.

Daria                             - E abitate solo in quella grande villa? Non avete un segretario, una segretaria?...

Corrado                         - Un servitore...

Daria                             - Fedele?

Corrado                         - Fedelissimo.

Daria                             - È abbastanza.

Corrado                         - (sorridendo) No. È peggio che essere soli. Sapete cosa vuol dire essere soli?

Daria                             - No. Io ho la mia figliola.

Corrado                         - Dina!

Daria                             - Ma conoscete tutta la famiglia! (Ride).

Corrado                         - Che indiscreto, vero?

Daria                             - Un po'.

Corrado                         - So perfino che vostra figlia è un asso in algebra.

Daria                             - Mio Dio, mi spaventate. Che altro sapete?

Corrado                         - Nulla. Fuorché quello che tutti i vostri gridano ai quattro venti. Vostra ma­dre specialmente.

Daria                             - Già. Mia madre parla sempre forte-

Corrado                         - Simpatica signora, del resto. E il contrario di voi.

Daria                             - Mah, forse.

Corrado                         - Voi dovete essere silenziosa, invece. E anche riflessiva, molto giudiziosa. O sba­glio?

Daria                             - Ma dite un po', questa settimana l'ave­te passata proprio tutta alla finestra?

Corrado                         - Lo confesso. Quasi.

Daria                             - Ho capito. Farò mettere delle grandi tende.

Corrado                         - Inutile. Un uomo più curioso di me sarebbe difficile che lo trovaste. Dunque? Il mio giudizio è sbagliato? Non avete una mente molto ordinata, voi?

Daria                             - Può anche darsi. Del resto, per forza. Altrimenti mi sarei trovata male. Mio ma­rito è morto così presto! Io son dovuta tor­nare in casa dei miei genitori... Ma nem­meno voi mi sembrate un artista scapigliato.

Corrado                         - Ne esistono ancora? In ogni modo, io ho sempre cercato di cancellare dal mio aspetto tutto quello che poteva rendermi di­verso dagli altri.

Daria                             - Perché ?

Corrado                         - Mi dispiace essere notato, segnato a dito. Voi non lo crederete, ma il mio pia­cere più grande è quello di salire a volte in certi loggioni stipati, e confondermi tra la gente.

Daria                             - Beh, questa, per esempio, è una stra­nezza.

Corrado                         - Nonostante, il mio ideale sarebbe di poter suonare dietro una tenda, col pub­blico al di là, il più possibile lontano. Sarà vergogna...

Daria                             - O pudore. Ma questo proprio non lo capisco. (Con entusiasmo) A me pare che debba essere così bello: tutti quegli occhi fissi su noi, quella massa nera tutta nostra...

Corrado                         - Non ci si pensa. Quando uno è al pianoforte, vengono momenti di assorbimen­to totale; e gli applausi, voi non lo crede­rete, sono spesso un risveglio quasi fasti­dioso. Non è una posa, ve lo giuro.

Daria                             - Sì sì, può essere, non discuto. Non ci avevo mai pensato.

Corrado                         - Questo mi succede sopratutto da due o tre anni. Sento che qualche cosa av­viene in me. È un vuoto che si allarga sem­pre di più, che si fa sempre più profondo... Ma forse io vi annoio con tutti questi di­scorsi che riguardano soltanto la mia persona.

Daria                             - No no, anzi. Son cose interessanti.

Corrado                         - Anche voi vivete molto sola?

Daria                             - No. Ve l'ho detto. Ho mia figlia.

Corrado                         - E vostro padre e vostra madre. Ma, eppoi?

Daria                             - Non capisco.

Corrado                         - Siete giovane... Una figlia può ba­stare a riempire l'esistenza di una donna gio­vane?

Daria                             - Evidentemente.

Corrado                         - Non avrei creduto. Nel vostro caso particolare poi anche meno.

Daria                             - Perché ?

Corrado                         - Perché siete una creatura troppo sensibile.

Daria                             - Pensate dunque che io abbia una vita interiore fatta di rinunce, di macerazioni?

Corrado                         - Forse.

Daria                             - V'ingannate. In ogni caso, io non sa­rei donna da comprimere un mio sentimento profondo, vivo, quando lo provassi.

Corrado                         - Non m'ero ingannato. Vi conoscevo già abbastanza.

Daria                             - Perché qualche volta avevate sorpreso la vita di questa casa? Non mi fate ridere.

Corrado                         - Noi artisti abbiamo intuizioni ful­minee.

Daria                             - Scusate, ma non volete mica scivolare verso una dichiarazione d'amore o qualcosa di simile? Da voi non mi piacerebbe..

Corrado                         - No. Stavo per dirvi che, non so come, la vita di questa casa mi aveva ap­passionato. Tanto da non poter concepire la mia fuori di questa casa.

Daria                             - Lo dicevo? Ci siamo. In un altro mo­do, ma ci siete arrivato.

Corrado                         - Era fatale. Ma io sono libero, voi pure... Naturalmente, non pretendo una ri­sposta, netta, precisa...

 Daria                            - (sorridendo) Ci mancherebbe altro! Sa­rebbe piuttosto esagerato...

Corrado                         - ...e sciocco.

Daria                             - Eppure, ripensandoci bene, la risposta posso darvela subito. Che volete, io ho l'abi­tudine di tagliar corto nelle cose. (Dopo un attimo con altro tono) No.

Corrado                         - No?

Daria                             - No.

Corrado                         - Perché ?

Daria                             - Perché no.

Corrado                         - È la risposta dei bambini.

Daria                             - E di quelli che non vogliono darne un'altra. (Lungo silenzio).

Corrado                         - (con amarezza) Già. Al solito ho avuto troppa fretta. Ma il mio carattere mi ha sempre trascinato dove ha voluto lui... Eppoi erano tanti giorni che ci pensavo... Eppoi il mio nome non v'era del tutto igno­to... Insomma, non mi pareva che ci si fosse conosciuti soltanto oggi... Non vi meravigliate. Mia madre dice sempre che io sono rimasto un ragazzo, a dispetto dell'età.

Daria                             - (osserva qualche momento in silenzio Corrado, poi mormora, calma) Ma via, come potrei prendere sul serio le vostre pa­role?

Corrado                         - È giusto. Ma, ve l'ho detto, sono giorni e giorni che io penso a voi.

Daria                             - Peccato. Veramente. Perché mi sa­rebbe piaciuta molto un'amicizia, un'amici­zia però, con un uomo come voi. Disgrazia­tamente avete escluso ora anche questa pos­sibilità.

Corrado                         - È come dire che mi mettete gentil­mente alla porta.

Daria                             - No. Questo no. Ma infine...

Corrado                         - Ho capito. E non mi meraviglio. Tutto è sempre andato così male nella mia vita.

Daria                             - E i vostri successi?

Corrado                         - Quelli non contano. Parlo d'altro. (Egli va verso la porta del giardino, guarda fuori qualche momento. D'un tratto vol­gendosi) Le mie sono state sempre passioni disgraziate.

Daria                             - Possibile?

Corrado                         - Non voglio dire le avventure banali e passeggere che capitano a tutti gli artisti. Del resto, io butto sempre via senza leggerle le lettere che ricevo... Le altre. Ho sempre sofferto molto. Come vedete, non mi vergo­gno a confessarlo.

Daria                             - È un bel caso. In generale gli uomini tendono a vantarsi. Voi avreste potuto farlo più d'un altro. Vi ringrazio.

Corrado                         - Insomma: vorrei convincervi che io non andavo in cerca di un piacevole passa­tempo.

Daria                             - Ma questo l'ho escluso subito. Altri­menti non si sarebbe ancora qui a parlare di queste cose. Neanche per cinque minuti avrei potuto pensare che Corrado Veisl po­tesse essere un bellimbusto qualunque.

Corrado                         - Allora, perché non potete accettare almeno la mia amicizia?

Daria                             - (ridendo) Vedete? Il vostro sentimento era così profondo che non esitate a cambiar­lo con una buona e superficiale 'amicizia.

Corrado                         - Tento d'ingannarvi e d'ingannare me stesso. Lasciatevi ingannare. E vi pro­metto che d'amore io non vi parlerò mai più, almeno fino a che non me lo permetterete voi.

Daria                             - Allora... mai.

Corrado                         - Va bene. Mai. Procurerò di credere che noi insieme dovremo parlare soltanto di cose... comuni.

Daria                             - Di cose comuni, no. Non mi piace­rebbe. Si potrebbe parlare d'arte, piuttosto, di musica...

Corrado                         - Si potrebbe andare a qualche con­certo insieme.

Daria                             - Fare delle lunghe discussioni.

Corrado                         - Dir male dei miei colleghi.

Daria                             - Questo no. Io cercherò anzi di difen­derli, i vostri colleghi. Ve ne sono alcuni che io ammiro molto.

Corrado                         - Ecco. Avete trovato il modo di far dileguare l'amore. (Ridono) Volete qualche lezione?

Daria                             - Lezioni da Corrado Veisl! Sarebbe troppo pretendere. Voi non ne avrete il tempo.

 Corrado                        - Qualche suggerimento... sonando a quattro mani.

Daria                             - A quattro mani? Me infelice!

Corrado                         - Ma no. Andrete magnificamente. Ne son certo. Vedete bene che non sarà soltanto un'amicizia banale e superficiale, la nostra.

Daria                             - Magari potesse diventare una vera ami­cizia. Ma amicizia. Dunque, bando a qua­lunque altra allusione.

Corrado                         - Obbedirò. Ecco, facciamo finta di conoscerci in questo momento.

Daria                             - E sia.

Corrado                         - Guardate: io ho la convinzione che anche senza esserci mai visti, noi ci si cer­cava...

Daria                             - Ci si cercava?

Corrado                         - ...nell'aria.

Daria                             - (ridendo) Ooh! Cominciamo benino!

 Corrado                        - Lasciatemi finire. Ci si cercava. No­nostante, noi ora vogliamo dimenticarlo.

Daria                             - Comincio e credere che abbia ragione vostra madre.

Corrado                         - In che?

Daria                             - Siete ancora un po' ragazzo.

Corrado                         - Vi dispiace?

Daria                             - Non so... t

Corrado                         - Avanti. Io credo di già alla mia finzione. E voi?

Daria                             - No.

Corrado                         - Bisognerà farlo... e perché questo avvenga subito... venite.

Daria                             - Doye?

Corrado                         - Al pianoforte.

Daria                             - Per che fare?

Corrado                         - Quello che si fa al pianoforte. Gli Addii di Beethoven sono già sul leggio.

 Pronti. È il colmo cominciare un'amicizia dagli addii, non vi pare?

Daria                             - Eh, sì, è proprio il colmo.

Corrado                         - Voi eseguirete la vostra parte, rego­larmente, com'è scritta. Io improvviserò la mia lì per lì.

Daria                             - A quattro mani?

Corrado                         - Ma sì.

Daria                             - Che stranezza!

Corrado                         - Oh, non temete. Lo farò senza di­sturbarvi. Sarò molto discreto. Un piccolo concerto improvvisato. Una cosa di fantasia. Io adoro le improvvisazioni

Daria                             - Ma com'è possibile? Io non saprò. M'imbroglierò.

Corrado                         - Proviamo. Ve ne prego.

(Seggono al pianoforte. Daria comincia a sonare. Dopo qualche misura, Corrado si ac­compagna con lei. Poi).

CALA LA TELA

ATTO SECONDO

La stessa scena. Pomeriggio d'un giorno qua­lunque. Fuori piove. Dopo un momento contro la porta del giardino appare la figura di Gino. Egli batte con le unghie sui vetri. Dina entra da una delle porte laterali. Va ad aprire.

Gino                              - Ci vuole il tuo muso per farmi venire qua con questo tempo.

Dina                              - Ti devo parlare.

Gino                              - Sei sola in casa?

Dina                              - Sì. Mia madre è al concerto.

Gino                              - .Sentiamo. (Accende una sigaretta).

Dina                              - Non puoi proprio fare a meno di fu­mare?

Gino                              - Da quando in qua ti dà fastidio?

Dina                              - Non mi dà fastidio. Ma in casa fumano tutti. Perfino mia madre, figurati, da qual­che tempo. Non senti? C'è un puzzo qua dentro che non si respira. Che sigarette sono almeno?

Gino                              - Calypsos. Spero non me ne vorrai chie­dere una. Mi trovo a corto.

Dina                              - Ah! Credevo fossero Sahara.

Gino                              - Magari, Ma quelle non me le posso per­mettere.

Dina                              - Io detesto le Sahara.

Gino                              - Se non fumi.

Dina                              - Le detesto lo stesso. Tutti qui fumano Sahara. Hanno un odore insopportabile.

Gino                              - Disgraziata! Sono le più squisite...

Dina                              - Idiota.

Gino                              - Chi?

Dina                              - Tu.

Gino                              - Ah, grazie. Ed è per farmi di questi complimenti che mi hai telefonato?

Dina                              - No. Ma perché ho bisogno di parlare con Carlo.

Gino                              - Me lo figuravo.

Dina                              - È stupido che non sia più venuto.

Gino                              - Capirai, dopo quello che successe quel giorno.

Dina                              - Cosa successe?

Gino                              - Beh, lo cacciasti via, no?

Dina                              - E se n'è avuto a male? Sarebbe un bello scemo.

Gino                              - Macché! Anzi è più cotto di prima.

Dina                              - Quand'è così, digli che può tornare.

Gino                              - Che? Mi credi balordo sul serio? Glie l'ho già detto.

Dina                              - Quando?

Gino                              - Dopo la tua telefonata. Sono andato a prenderlo a casa.

Dina                              - Per che fare?

Gino                              - Per portarlo qui, toh! È fuori che aspetta. E piove!

Dina                              - Chiamalo.

Gino                              - (va su la porta. Fa un fischio. Poi, a Dina) Trattalo bene, sai? Ti adora.

Dina                              - Credi proprio? Lo metterò subito alla  prova.

Carlo                             - (appare. Porta un impermeabile tutto bagnato) Ciao, Dina.

Dina                              - Carlo, prima di tutto butta via quel coso bagnato...

Carlo                             - (si leva l'impermeabile).

Dina                              - ...poi vieni qua.

Carlo                             - Allora mi hai perdonato?

Dina                              - Non dire stupidaggini. Cosa c'era da perdonare? Sai, lì per lì m'erano venuti i nervi.

Gino                              - Ma io cosa ci sto a fare? Il terzo in­comodo?

Dina                              - Ora puoi anche andartene, se vuoi.

Gino                              - (a Carlo) Sono da Piero.

Carlo                             - Bene.

Gino                              - Ciao, Dina. Però mi fa piacere che tu ti sia emancipata. (Esce).

Dina                              - Carlo, vieni qua.

Carlo                             - (si avvicina a lei).

Dina                              - Ho da dirti una cosa importante.

Carlo                             - Parla.

Dina                              - Sei ancora dello stesso parere?

Carlo                             - Non capisco.

Dina                              - Mi vuoi ancora bene?

Carlo                             - Di più.

Dina                              - (con sforzo) Allora, guarda, io ho de­ciso di fuggire con te.

Carlo                             - (trasecolato) Eh?

Dina                              - Si, dobbiamo fuggire.

Carlo                             - Ma... ma cosa dici?

Dina                              - Ohi, non sarai mica diventato sordo, spero.

Carlo                             - No, ma capirai... chi se l'aspettava?

Dina                              - Ho pensato a tutto, io ho un libretto di risparmio, non so se lo sai... (Carlo scuote il capo) Ebbene io ho un libretto. Anche tu ne avrai uno.

Carlo                             - No.

Dina                              - Non importa. Sui primi tempi potremo vivere col mio denaro. Intanto tu troverai un posto, io ne troverò un altro. Sui gior­nali ci sono continue offerte per dattilografe, computiste... C'impiegheremo.

Carlo                             - Ma...

Dina                              - Ma, che cosa?

Carlo                             - Tua madre, i miei genitori...

Dina                              - (nervosissima) Ah, questa è bella! Tu ti preoccupi di loro?

Carlo                             - Naturalmente. La mamma dal dispia­cere sarebbe capace d'ammalarsi.

Dina                              - Stupido.

Carlo                             - Eh?

Dina                              - Stupido. Sei uno stupido. Letteratura, frasi fatte, roba superata.

Carlo                             - Che cosa?

Dina                              - Tu credi che tua madre veramente ti voglia bene? E che se le gira, non sia pronta a fare il comodo suo?

Carlo                             - (indignato) Dina! No che non lo credo.

Dina                              - Ah, già, naturalmente. Tu non lo credi.

Carlo                             - E tu credi una cosa simile della tua?

Dina                              - (non risponde).

Carlo                             - Ma scusa, che bisogno abbiamo di fuggire? Noi possiamo benissimo amarci... così? Poi, quando sarà il tempo, ci spose­remo.

Dina                              - Dio, come sei borghese! Eppoi io non posso aspettare. Non posso, capisci?

Carlo                             - Perché ?

Dina                              - Il perché lo so io.

Carlo                             - Ma- bisognerebbe che lo sapessi anche io, mi pare.

Dina                              - Cosa te ne importa? Quel giorno non dicesti di amarmi, di non poter vivere senza di me?... Ebbene, io sono qua, pronta. Non vedi che sono pronta? Avanti. Cosa aspetti? Baciami, se vuoi. Baciami pure.

Carlo                             - (resta immobile, con gli occhi fissi su Dina).

Dina                              - Ho capito. Hai paura. Sei un vigliacco anche tu, come tutti gli uomini... Tutti vi­gliacchi, gli uomini. Tutti vigliacchi. Io li odio, gli uomini. Li odio. Li odio.

Carlo                             - E cosa t'hanno fatto?

Dina                              - A me? Nulla. Naturalmente. Nulla.

Carlo                             - Ma Dina, cos'hai? Io non ti riconosco più. Parli come un'esaltata.

Dina                              - Per forza. E come dovrei parlare? Co­me dovrei parlare? (Ha le lagrime in pelle in pelle. Sta per scoppiare in singhiozzi).

Carlo                             - Cosa ti succede?

Dina                              - Non lo so. Vedi, Carlo, non lo so nem­meno io quello che mi succede. Avrei voglia di morire. (Si lascia cadere su una sedia).

Carlo                             - Dina!

Dina                              - Sì. Di morire. E ho pensato anche a questo. L'altro giorno, col temperino, mi sono fatta un taglietto qui, vicino al polso, guarda, si vede ancora, per sentire se avrei provato molto dolore. È uscito un po' di sangue. Allora ho avuto paura. E ho ca­pito che morire dev'essere una cosa spaven­tosa... Ho pensato a te.

Carlo                             - (commosso) Grazie, Dina.

Dina                              - Sicuro, ho pensato che tra morire e fuggire con te questa era la cosa meno spia­cevole.

Carlo                             - Ma io non posso fuggire. Te l'ho detto.

Dina                              - Eh già, ho capito.

Carlo                             - Eppoi, tu credi che sia così semplice? Quelli ci fanno riprendere e riportare a casa.

Dina                              - Vorrei veder proprio. In un'altra città chi ci conosce?

Carlo                             - La Questura esiste pure per qualche cosa.

Dina                              - La Questura?

Carlo                             - Ma come! Non leggi mai i giornali? Tutti i giorni ci sono fatti di questo genere.

Dina                              - Non ci avevo pensato.

Carlo                             - Mi dici, Dina, com'hai fatto in poco tempo a cambiarti così? Prima non ti sareb­be venuta in mente di certo un'idea simile.

Dina                              - Ma prima non soffrivo mica.

Carlo                             - Soffri tanto?

Dina                              - Tanto.

Carlo                             - Perché non ti sfoghi, non mi dici tutto?

 Dina                             - Ascolta, Carlo... (Ma subito pentita) No. (S'allontana da lui).

Carlo                             - (dopo qualche attimo) Ti farebbe bene.

Dina                              - No. Vattene.

Carlo                             - Come?

Dina                              - Adesso puoi andartene. So quello che volevo sapere. Non mi occorre altro. Fuggi­rò da sola.

Carlo                             - Ma io non voglio, Dina. Io...

Dina                              - Oh, insomma, vuoi lasciarmi tran­quilla?

Carlo                             - ...io te lo impedirò.

Dina                              - Mi piacerebbe saper come.

Carlo                             - Parlerò a tua madre.

Dina                              - (spaventata) No. Giurami che questo non lo farai.

Carlo                             - E tu giurami che non commetterai sciocchezze.

Dina                              - Si si. Te lo giuro. Ma tu non dirai nul­la a mia madre, vero, Carlo?

Carlo                             - No. Però continuerò a sorvegliarti.

Dina                              - Non sarà necessario. Sai, certe cose si dicono, ma quanto a metterle in pratica... (Con improvvisa disperazione) Dio mio, io non so come potrò fare a vivere qui.

Carlo                             - Dina...

Dina                              - Ah.. Carlo, tu sapessi, tu sapessi...

Carlo                             - Che cosa?

Dina                              - Com'è la tua mamma?

Carlo                             - Ma... non capisco questa domanda.

Dina                              - Com'è? Io non l'ho mai vista. È molto bella?

Carlo                             - Sì. E anche mio padre è molto bello.

Dina                              - E si amano molto?

Carlo                             - Si.

Dina                              - Como fai tu a sapere che si amano molto?

Carlo                             - Ma... si capisce.

Dina                              - Da che cosa?

Carlo                             - Non so. Da tutto. Da come si parla­no, da come si guardano. Da come mio pa­dre posa qualche volta a tavola la sua mano su la mano di lei.

Dina                              - E tu, allora, che cosa provi?

Carlo                             - Io? Nulla. Io non provo nulla... O meglio, non so... È come se tra noi si strin­gesse più forte un legame. Capisci?

Dina                              - (scuote il capo).

Carlo                             - Non capisci?

Dina                              - Forse perché io non ho un padre... e tu continui a voler bene alla tua mamma, quando lei fa così?

Carlo                             - Ma si. Non te l'ho detto? Di più.

Dina                              - Di più? Che stranezza!

Carlo                             - Ma come c'entra questo?

Dina                              - Oh, niente. Così. Sai, a volte si pensa a tante cose. La mente se ne va, per conto suo. Sta bene. Grazie, Carlo.

Carlo                             - Non hai da dirmi altro?

Dina                              - Non c'è altro... se ne togli questo scon­tento continuo.

Carlo                             - Ma perché ?

Dina                              - ...non lo so.

Carlo                             - Possibile?

Dina                              - Ti giuro che non lo so. Non so nulla di quello che mi succede. (Piange).

Carlo                             - Ma piangi.

Dina                              - Appunto perché non lo so. E in certi momenti mi odio... Anche tu, Carlo, credi che io sia molto cattiva?

Carlo                             - Se lo credessi, come potrei volerti bene cosi?

Dina                              - E io invece credo di essere una ragazza malvagia... A volte vorrei fare del male.

Carlo                             - A chi?

Dina                              - Non so. A tutti. (Dal giardino giun­gono le voci di Daria e di Corrado: Daria ride. È un riso fresco, lieto. Dina s'alza di scatto) Mia madre col Maestro Veisl. Tornano dal concerto. Vieni, vieni. Passa per di qua. Non voglio che mia madre ti veda. Vieni. (Prende Carlo per mano, lo trae verso una porta. Scompaiono).

(Daria e Corrado entrano ridendo nella stanza).

Daria                             - Che acquazzone! Siamo grondanti. Presto. Toglietevi quell'impermeabile. Non vorrete prendere un raffreddore... Venite qua, v'aiuto.

Corrado                         - Prima voi. Corriamo lo stesso ri­schio, mi pare.

Daria                             - Oh, no. Voi dovete partire per un paese così freddo! Se vi ammalaste?

 Corrado                        - Se morissi?

Daria                             - Che sciocchezza! Dove mettiamo que­sto impermeabile? Ecco. Qua. Ed ora, un bel tè caldo. Il samovar è già pronto.

Corrado                         - (va al pianoforte. Accenna il primo movimento de « Gli addii ». Vi ricordate Daria? sono quattro mesi... Voi eravate se­duta qui. Vi ricordate? Dov'è ora quel gran­de vestito a fiori azzurri? Non avete un'idea di quanto eravate bella. E non so ora dove trovai la forza di parlare.

Daria                             - (meccanicamente dispone su la tavola dei dolci, della frutta) Non avete fame? Io ho una fame terribile.

Corrado                         - No. Io non ho fame.

Daria                             - (addentando una pesca) Squisita. Una anche voi. (Gli porge una pesca).

Corrado                         - Sì, ma non questa. Quella.

Daria                             - Quale?

Corrado                         - La vostra.

Daria                             - Perché proprio la mia?

Corrado                         - Perché in questo modo mi parrà di baciarvi.

Daria                             - Allora, no.

Corrado                         - Ve ne prego.

Daria                             - Che sciocco capriccio. (D'un tratto) Prendete. (Gli porge il frutto).

Corrado                         - C'è dentro tutto il sapore delle vo­stre labbra.

Daria                             - (con un sorriso falso) E anche un po' di rosso probabilmente.

Corrado                         - Mi piace anche il rosso. (Ma subito posa il frutto e cerca di prendere Daria per le inani).

Daria                             - (ritraendosi) No. No, Corrado. Stia­mo ai patti.

Corrado                         - Non posso più.

Daria                             - Stiamo ai patti.

Corrado                         - Non posso più. Partite con me.

Daria                             - In qualità?

Corrado                         - Di moglie, di amante.

Daria                             - E poi?

Corrado                         - E poi, che cosa?

Daria                             - Andiamo, via... Dovete essere un po' matto, voi.

Corrado                         - Voi siete matta...

Daria                             - (Eccitala, ridendo) Perché ?

Corrado                         - Perché continuate in una finzione sciocca e inutile.

Daria                             - (continuando a ridere) Ohi, ohi! Diven­tate offensivo!

Corrado                         - Quando una donna fa quello che fate voi, è peggio che se acconsentisse.

Daria                             - E che faccio io?

Corrado                         - Voi fate di tutto per esasperare la la mia passione. E con questo credete di mantenervi pura.

Daria                             - Corrado!

Corrado                         - Io invece sono qua, sincero, col mio tormento che non cerco di nascondere, che tutti possono conoscere, vedere...

Dario                             - E questo vi par bello?

Corrado                         - Bello o brutto, so che se anche cer­cassi di frenarmi, non vi riuscirei; mentre voi continuate a credere di poter tenere na­scosto quello che provate. Ma vorrei che vi vedeste fumare: così, come ora con gli occhi socchiusi come se qualcuno vi baciasse. (Involontariamente ella smette di fumare, posa la sigaretta). E la vostra bocca, dianzi, quando avete mor­so quella pesca... E il vostro sorriso, quan­do me l'avete offerta, quando vi ho detto che ci sentivo dentro il sapore delle vostre labbra...

Daria                             - Avete finito?

Corrado                         - No. Quello che fate è contro natura.

Daria                             - E quello che fate voi non è onesto.

Corrado                         - Non sarebbe onesto se io non sentissi continuamente i vostri baci.

Daria                             - I miei baci? Ma cosa dite?

Corrado                         - Quando mi guardate, quando mi parlate, quando a volte restiamo per tanto tempo uno di fronte all'altro, senza saper cosa dire, visto che non possiamo dire quel­lo che si vorrebbe. Non è così, forse? Ab­biate il coraggio di negare.

Daria                             - (Si allontana di qualche passo, poi vol­gendosi improvvisamente) E se fosse?

Corrado                         - Daria!

Daria                             - Mi avete obbligato a dirlo. Ma avete fatto male.

Corrado                         - Ho fatto bene.

Daria                             - Male. Perché io non credo al vostro amore. Credo soltanto al vostro desiderio.

Corrado                         - E fate bene a crederci. Sicuro. De­siderio. Anche desiderio. Io non ho come voi ipocrisie inumane. Desiderio, si. Un de­siderio infernale. Come il vostro del resto.

Daria                             - (Si copre il viso con le mani).

Corrado                         - Ma di che vi vergognate? Di voler essere mia? E questa vi pare una cosa tanto obbrobriosa? Ma via, Daria. Nemmeno a voi piacerebbe che io vi amassi in un altro mo­do... E allora perché avete lottato tanto con­tro voi, contro me, senza ragione, sapendo benissimo come doveva andare a finire? (Egli le allontana le mani dal viso, le dice piano, su la faccia) Stupida. Stupida. Stupida. Sia­mo innamorati pazzi. Tutti e due. Tu ed io, innamorati pazzi. (La prende fra le braccia e la bacia).

Daria                             - (tornando in se) Perché , Corrado? (Si lascia cadere su un divano) Ma è vero. Nes­suna forza umana avrebbe potuto impedirlo. Sono stati quattro mesi d'inferno. (Improv­visamente, alzando il viso su Corrado sen­za poter credere ancora alla sua felicità) Ti ho qui... Tengo le tue mani. È proprio vero? Ah, come avevi indovinato! Io le ba­ciavo le tue mani quando volavano su la ta­stiera. Te n'eri accorto, mentre credevo di farlo soltanto dentro di me. (Ella porta alle labbra le mani di lui).

Corrado                         - Cara!

Daria                             - (con voce spenta) Carezzami. (Si ca­rezza il viso con le mani di lui). Non ne posso più. Carezzami. E baciami ancora. (Ora è lei a gettarsi fra le braccia di lui, a farsi baciare) Che cosa stupida! Abbiamo buttato via quattro mesi!

Corrado                         - Ma abbiamo dinanzi a noi tutta la vita.

Daria                             - La vita! Ma allora non sono più mor­ta. Perché io credevo d'essere morta, lo sai? Davvero credevo di non poter sentire più nulla... È stato come una che a poco a poco esca da una malattia, di quelle che ti la­sciano senza conoscenza per tanto tempo... E si ritrova il senso delle cose, il gusto dei cibi, i colori, i suoni...

Corrado                         - Vuoi che non lo sappia? Se ho se­guito ora per ora...

Daria                             - (troncandogli la parola su le labbra) Davvero? Come? Come?

Corrado                         - Ma si! Passavi da un'estrema alle­grezza a un'improvvisa malinconia, senza ragione...

Daria                             - Proprio?

Corrado                         - Mutavi d'idea nervosamente da un momento all'altro... E poi, non so, tutto quello che toccavi, sembrava che tu lo ca­rezzassi.

Daria                             - Sicché tu avevi la certezza che ero innamorata di te?

Corrado                         - L'ho avuta subito.

Daria                             - E hai aspettato pazientemente?

Corrado                         - Per averti così: senza falsi e scioc­chi ritegni. L'amore è più bello.

Daria                             - E pensare che io credevo di custodire così bene il mio segreto, che mi pareva così mio, che mi piaceva tanto appunto perché mi pareva soltanto mio!

Corrado                         - E ora che non è più un segreto?...

Daria                             - Mi sembra incredibile che non sia più un segreto, che noi siamo qui a dirci queste cose... Che non ci lasceremo mai.

Corrado                         - Lasciarci? Ma cosa dici? Durante i miei concerti tu dovrai stare da un lato, nascosta. E io guarderò soltanto te.

Daria                             - E questo ti darà una grande forza. E tutti dovranno riconoscere che non sei mai stato più grande di ora... Perché prima d'ora nessuno ti ha mai voluto bene così. (Ella gli circonda il collo con le braccia) Caro! Anima mia! Caro! Caro! (Ma ad un tratto si scio­glie dall' abbraccio). Mi è venuto un pensiero.

Corrado                         - Un pensiero?

Daria                             - (passandosi una mano su la fronte) Nien­te... (Dopo un momento) Guarda là.

Corrado                         - Dove?

Daria                             - Dietro di me, in quell'altra stanza, non c'è nessuno?

Corrado                         - No.

Daria                             - Mi è parso che il cuore si fermasse.

Corrado                         - Perché ?

Daria                             - Ho avuto l'impressione che qualcuno ci guardasse.

 Corrado                        - Chi?

Daria                             - Che stupidaggine! In casa non ci sia­mo che noi!

Corrado                         - Dina?

Daria                             - È andata da una compagna... Però avrebbe potuto anche essere in casa.

Corrado                         - E con questo?

Daria                             - Avrebbe potuto entrare da un mo­mento all'altro, sorprenderci...

Corrado                         - Un giorno dovrà pure sapere.

Daria                             - Ma non così. Avrebbe potuto vederci abbracciati, avrebbe potuto vedere come ti baciavo... Forse sentire quello che ti dice­vo... Non ci avevo pensato. A questo non ci avevo pensato.

Corrado                         - Mi sembra una preoccupazione fuori luogo.

Daria                             - Ma se fosse entrata!... È strano. Sai che mi ero completamente dimenticata di lei?

Corrado                         - Ma via...

Daria                             - Si. M'ero dimenticata di lei, come se lei non esistesse, non fosse mai esistita.

Corrado                         - Sciocchezze... (Egli la riprende fra le braccia. Daria lo lascia fare. Ma è as­sente).

Daria                             - Per quindici anni io non avevo avuto che un pensiero: lei. E all'improvviso lei è sparita dalla mia mente. Cancellata. Abo­lita... Era un'altra cosa, un'altra vita, la mia, che non aveva più nulla a che fare con quella di prima.

Corrado                         - Non ti capisco proprio.

Daria                             - Oh già, tu non puoi capire. (A un tratto). Aspetta un momento. (Corre via).

Corrado                         - (accende una sigaretta).

Daria                             - (rientra) Dina era in camera sua. Stu­diava. (Sorride. Le sembra d'essersi liberata d'un peso).

Corrado                         - (vicino a lei) Vedi? (Fa per ripren­derla fra le braccia).

Daria                             - No. Aspetta. Dopo... Le ho detto di venire di qua.

Corrado                         - Perché ?

Daria                             - Capirai, l'avevo lasciata sola tutto il giorno.

Corrado                         - Sola ci sta volentieri...

Daria                             - Si. Ma io provavo un piccolo rimorso.

Corrado                         - ...e forse, obbligandola a venire di qua, l'hai infastidita.

Daria                             - Non l'ho mica obbligata. Le ho detto semplicemente di venire. Ah, eccola!

Dina                              - (entra. A mezza bocca) Buonasera.

Corrado                         - Ciao, Dina!

Daria                             - Studi troppo, sai? Hai la faccetta sciu­pata. (Le fa una carezza).

Dina                              - Ma no, mamma. Che idea! Studio co­me gli altri. Se non studiassi alla mia età, che cosa dovrei fare?

Corrado                         - Giocare.

Dina                              - (con un'occhiataccia) Io non ho mai giocato.

Daria                             - (ridendo) Ah, no! Questo poi non è vero. Tu giocavi come non ho mai visto gio­care nessun altro bambino. E anche ora a volte giuochi.

Dina                              - Ti sbagli.

Daria                             - Giuochi. Sicuro. Ti vergogni? Ma an­zi è molto bello. Figuratevi, Corrado, che spesso se ne sta lì delle ore con una sua vec­chia bambola. La Carolina. ;

Corrado                         - La Carolina?

Daria                             - Si. La chiamiamo così in casa. È il nome che le mise lei. Ma ora è ridotta a brandelli.

Corrado                         - Povera Carolina! La sostituiremo con una bambola nuova. Domani. Va bene, Dina? .

Dina                              - Potete risparmiare quei soldi.

Daria                             - Che modo!... Del resto, è inutile che tu voglia fare la ragazza. Sei ancora una bambina.

Dina                              - Se a te fa piacere, mamma, farmi pas­sare ancora per una bambina. Ma fra un anno e mezzo avrò diciassette anni.

Corrado                         - Beh, ci vuole ancora un anno e mezzo.

Dina                              - Si, ma non crediate. Sono già in grado di giudicare...

Daria                             - Di giudicare che?

Dina                              - Persone e cose.

Corrado                         - Non mi meraviglia punto... Tutti voi ragazzi d’oggi vi sentite in grado di giudicare.

 Dina                             - Non la musica, naturalmente. Perché io la musica non la capisco. Anzi, mi dà terribilmente sui nervi.

Daria                             - Questa, per esempio, non è una cosa gentile.

Corrado                         - Ma no. Lasciatela dire.

Dina                              - La musica no. Le persone però, si.

Corrado                         - Ce l'hai già detto, no?

Dina                              - Gli uomini. Almeno, certi uomini.

Corrado                         - Chi? Me?

Dina                              - Perché no?

Corrado                         - Oh, guarda! Mi piacerebbe molto conoscere il tuo giudizio su la mia modesta persona.

Dina                              - Non so quanto potrebbe rallegrarvi.

Daria                             - Oh, insomma, Dina...

Corrado                         - Scherza. Mi diverte.

Dina                              - Si si, illudetevi pure che io scherzi.

Daria                             - Basta, Dina. Adesso lo scherzo passa i limiti.

Dina                              - Come vuoi, mamma.

Daria                             - Avanti, Dina. Chiedi scusa al maestro.

Dina                              - Ma no, perché ?

Daria                             - Devi assolutamente chiedere scusa al maestro. Sei stata scortese.

Dina                              - Proprio? Non me n'ero accorta. (A Corrado) Scusate.

Corrado                         - Sei una piccola orsacchiotta, Dina.

Daria                             - Oh, non è sempre stata cosi. Vi prego credere.

Corrado                         - Umori di gioventù. Ma io ti domerò.

Dina                              - Credete veramente?

Corrado                         - Sicuro che ti domerò

Dina                              - E quando mi avrete domata?

Corrado                         - Diventeremo i migliori amici.

Dina                              - Speriamo.

Corrado                         - Sai che una volta, al mio paese, ho domato un orsacchiotto vero?... Lo tenevo per cas-a come un cane. E mi veniva .dietro. E sedeva a tavola con me, su un grande seggiolone che io gli avevo fatto costruire apposta. Poi è morto.

Dina                              - (ridendo istericamente) Storie!

Corrado                         - Come?

Dina                              - Storie. Avete inventato questa favola lì per lì, per rendervi interessante, per far colpo.

Corrado                         - Ma no. È vero.

Dina                              - Storie. Tutte storie quelle che raccon­tate voi. Io non credo a nulla di quello che dite.

Daria                             - Questo è un po' troppo. Finiscila, Dina.

Dina                              - Ma no, mamma. È così. Ti assicuro che è così. Niente di vero. Sarà forse perché a me la musica non fa nessunissimo effetto.

Corrado                         - Ah! Fai proprio cader le braccia, cara Dina. Se dobbiamo diventare amici, bi­sogna che anche tu ci metta un po' di buo­na volontà.

Dina                              - Ma infine, che bisogno c'è che noi di­ventiamo amici? Non ci siamo riusciti in questi quattro mesi : è segno che non siamo fatti l'uno per l'altro.

Daria                             - E questo mi dispiace, Dina.

Dina                              - Io non posso farci nulla.

Daria                             - Mi dispiace moltissimo. Il maestro è amico mio, amico nostro. Dovrebbe diven­tare anche amico tuo.

Dina                              - (non risponde).

Daria                             - Sai, col maestro la nostra amicizia non deve finire qui... Continuerà... Noi do­vremo vederlo spesso.

Dina                              - Lo so bene.

Daria                             - Come lo sai?

Dina                              - Lo so che dovremo vederlo spesso, che starà molto con- noi... Che forse un giorno noi dovremo andare a trovarlo fin laggiù, al suo paese. Mi pare che ne abbiamo parlato sempre di questa cosa.

Daria                             - Noi?

Dina                              - Ma si... O se non ne abbiamo parlato, è come se lo avessimo fatto. Era diventata una cosa naturale. Il maestro è sempre qui da noi, mangia quasi sempre con noi: insom­ma, fa già parte della nostra famiglia.

Daria                             - E allora, se sai questo, anche tu do­vresti provare per lui la stessa amicizia che prova la nonna, il nonno, io...

Dina                              - Va bene. Come vuoi, mamma. Se a te fa piacere.

Daria                             - Ma sicuro che mi fa piacere.

Dina                              - (A Corrado, con lieve canzonatura). D'ora innanzi io vi tratterò bene, non sarò più scontrosa con voi, non vi dirò più delle insolenze. (Fa per andarsene).

 Daria                            - Dove vai?

Dina                              - In camera mia. Ho ancora molte cose da fare.

Daria                             - Aspetta.

Corrado                         - Ma perché ? Lasciatela andare.

Dina                              - Non vedi? E' contento. E' soddisfattis­simo di quello che gli ho detto. Siete soddi­sfatto, non è vero?

Corrado                         - Non molto. Perché io ti voglio bene, Dina.

Dina                              - (ridendo) Come? Voi mi volete bene? E perché ? Io non ho fatto nulla finora perché voi mi vogliate bene.

Corrado                         - Forse; ma io ti voglio bene lo stesso. Ti voglio bene, perché per tutti in questa casa tu sei l'essere più caro... Non potrei non volerti bene.

Dina                              - Ah, è una specie di dovere.

Corrado                         - Ti assicuro che non è soltanto un dovere. Da questo momento vogliamo essere amici, sul serio?

Dina                              - Vi ho già detto di si, mi sembra.

Corrado                         - E allora, vieni qua.

Dina                              - Per che fare?

Corrado                         - Per stringerti la mano. Non dev’essere un patto, il nostro?

Dina                              - Il patto è già avvenuto Non c'è biso­gno di stringerci la mano.

Daria                             - (ridendo) Non mi pare che cominci troppo bene.

Corrado                         - Avanti, avanti, porgimi la tua bella manina.

Daria                             - Vai, Dina, vai. (La spinge verso Cor­rado) .

Dina                              - (si avvicina a Corrado, gli porge la mano).

Corrado                         - (scherzosamente gliel'afferra, attraen­dola a se) Ah. eccoti, finalmente! Ci sei, ora, non è vero?... Sei prigioniera. Non ti lascio più... Piccola bambina cattiva, che mi ha sempre tenuto il broncio... Perché , poi? Che cosa ti avevo fatto?... Ma ora pos­so dirti che ho giurato di volerti bene, e di farmene volere... Hai capito?... Tanto bene, come a un papà... Sicuro, come a un papà... Perché io sarò il tuo buon papà... (Fa per baciarla).

Dina                              - (svincolandosi) Lasciatemi...

Corrado                         - Ti sbagli, cara. Ti ho qui, e non ti lascio.

Dina                              - Lasciatemi.

Corrado                         - Un bacio, via, un bel bacetto.

Dina                              - Lasciatemi, vi ho detto. Non vi provate a baciarmi, sapete? Non vi provate.

Corrado                         - Ed io invece ti voglio baciare. E quando sarà rotto il ghiaccio finalmente, sa­rai tu che verrai a baciare il tuo papà!

Dina                              - Voi non siete mio padre. Lasciatemi.

Corrado                         - Ma guardatela, Daria, questa pic­cola ribelle. Guardatela... Dobbiamo do­marla?

Dina                              - Badate, se vi azzardate a darmi un ba­cio, io non so quello che faccio... Badate. Lasciatemi.

Daria                             - Andiamo, Dina... È una sciocchezza. Non vedi che scherza?...

Dina                              - Non voglio che mi baci.

Corrado                         - E io invece lo farò. (Ma ella resiste. Cerca di liberarsi. Non sapendo come riu­scirvi, gli morde una mano, Corrado ha un piccolo grido di dolore. Lascia la stretta) Mordi? Sei proprio un'orsacchiotta, allora.

Daria                             - Dina! Cos'hai fatto? (Prende la mano di Corrado) Ma esce del sangue! Ah, cattiva!

Dina                              - (è immobile, rigida, il volto contratto. La madre la colpisce sul viso. Ma lei non pian­ge. Spalanca enormemente gli occhi fissando sua madre. Mormora:) È la prima volta, mamma. Non l'avevi mai fatto da che ero nata. Non mi avevi mai battuta. (Madre e figlia restano a guardarsi in silenzio; poi la madre si copre la faccia con le mani. Si ab­batte su una sedia. Dopo qualche attimo Dina si scuote, corre presso di lei) Mamma! Mamma! (Daria non risponde, continua a singhiozzare silenziosamente) Mamma! Mam­mina mia!

Daria                             - (tra le lacrime) Lasciami stare, Dina!

Dina                              - No, mamma. Non ti voglio lasciare. E neanche tu mi devi lasciare, mamma. Non devi andar via. Non voglio che tu vada via! (Poi d'un tratto, volgendosi a Corrado) Siete stato voi! Tutto per colpa vostra! Vi odio!

Daria                             - (alza la testa, guarda la figlia).

Dina                              - Lo odio. Lo odio.

 Daria                            - (piena di stupore) Ma perché , Dina?

Dina                              - Perché ti vuole portar via. E io non voglio. (A Corrado) Andatevene. Andate­vene. Eravamo tanto felici. E poi siete ve­nuto voi. (Quindi gettandosi sul divano ac­canto alla madre) Mamma! È vero che non andrai via con lui? È vero che non mi la­scerai?

Daria                             - No, no, cara.

Dina                              - (abbracciando la madre) Saremo felici ancora, come prima. Quando tu eri tanto buona. Eri sempre con me. Volevi bene sol­tanto a me. (Fuori ha smesso di piovere. Corrado lentamente va verso il giardino. Lo vediamo sedersi su una panchina. Intanto Dina): Ti ricordi, mamma? Tu non uscivi mai allora da sola. Eravamo sempre insie­me... E quando tornavo da scuola ero sicura di trovarti in casa. Ora non pensi più a me.

Daria                             - Ma cosa dici?

Dina                              - Lo so, mamma. Lo so. L'ho visto. Tu sapessi quante cose ho visto.

Daria                             - (spaventata) Che cosa?

Dina                              - Non mi guardavi più come prima... E poi tu cantavi, ridevi sempre... Capivo che pensavi ad altre cose... Non pensavi più a me.

Daria                             - (insincera) Che sciocchezza!

Dina                              - Ho sofferto tanto, mamma.

Daria                             - Tu, cara? Tu hai sofferto?

Dina                              - Mi facevi soffrire tu.

Daria                             - Io?

Dina                              - Perché tu non mi volevi più bene.

Daria                             - Tesoro mio!

Dina                              - E una volta ho pensato anche... an­che...

Daria                             - A che cosa?

Dina                              - (in un soffio) A morire.

Daria                             - No!

Dina                              - Sì, mamma. Ma poi ho avuto paura. Allora volevo fuggire con Carlo. Perché qui, fra voi due...

Daria                             - Dina!

Dina                              - Fra voi due non potevo più starci.

Daria                             - Fra noi due? Ma che cosa dici?

Dina                              - Sì, sì. Mi ero messa in mente d'essere di troppo; che forse, se non fossi esistita...

Daria                             - Zitta. Queste cose non le devi nem­meno dire.

Dina                              - Perché , mamma? Io non ti ho sempre detto tutto? E tu non hai sempre detto tutto a me?... Vedi, soffrivo tanto appunto perché non potevo parlare... Ma ora ci sentiamo più libere, vero, mamma? È vero che ci sentiamo più libere?

Daria                             - Sì, cara. Ma tu... tu dovresti capire anche...

Dina                              - Che cosa?

Daria                             - Oh, Dio mio, è molto difficile... Sei quasi una donnina... Dovresti capire che... che anch'io sono una creatura umana.

Dina                              - Lo so, mammina.

Daria                             - Che non sono ancora vecchia...

Dina                              - No, mammina. Tu sei tanto bella, tan­to giovane.

Daria                             - E allora... ammetterai che una donna ancora giovane possa provare un sentimento che...

Dina                              - Quale sentimento?

Daria                             - Ah, Dio mio, come si fa?...

Dina                              - (con grande sconforto) Ah, sì, ho ca­pito, mamma... vuoi dire che vuoi la­sciarmi...

Daria                             - No, questo no.

Dina                              - E allora?

Daria                             - Nulla.

Dina                              - Volevi dire che tu hai creduto alle sue parole. A tutto quello che ti ha detto. Io no, mamma. Io ho veduto subito chiaro... Ho capito subito che era venuto soltanto per farci del male, perché noi due insieme si era troppo felici. Mandalo via, mamma. Io non ti basto?

Daria                             - Sono domande da farsi?

Dina                              - Mandalo via. Se no, fa tanto che parti con lui. E se tu parti con lui, mamma, se tu parti con lui, bada...

Daria                             - Che cosa?

Dina                              - Bada, non so... Che disperazione, mamma. Tu non capisci. Lo vedo che tu non capisci. Che. disperazione... Non ne posso più. (Scappa via).

Daria                             - Dina! (Ma le manca la forza di se­guirla. Riflette).

Corrado                         - (s'alza, si avvicina alla portarientra) Non vi angosciate. A quell'età tutte le ra­gazze sono un po' esaltate.

Daria                             - Lo so, lo so, Corrado.

Corrado                         - Lei poi in modo esagerato.

Daria                             - Forse.

Corrado                         - Esaltata ed egoista come tutti i figli.

Daria                             - Avete ragione; ma ora...

Corrado                         - Ora?

Daria                             - Bisognerà... Non so. Non so più.

Corrado                         - E perché ?

Daria                             - Dio mio, qualcosa è pure successo, lo ammetterete.

Corrado                         - Ma non è assolutamente successo nulla.

Daria                             - Per voi, forse.

Corrado                         - E che cosa è successo? Sentiamo.

Daria                             - Ora io so con sicurezza quello che fino a mezz'ora fa ero lontanissima dall'immaginarmi.

Corrado                         - Cioè?

Daria                             - Che lei aveva visto.

Corrado                         - Che cosa?

Daria                             - Tutto.

Corrado                         - Come devo ripetervi che in quella stanza non c'era nessuno?

Daria                             - Ma sì, questo lo so anch'io.

Corrado                         - E allora?

Daria                             - Non potete capirmi.

Corrado                         - Infatti, è molto difficile.

Daria                             - Non capite che ora io mi vergogno?

Corrado                         - Di che?

Daria                             - Di volervi bene, in questo modo... Con tutta me stessa.

Corrado                         - Di fronte a chi?

Daria                             - A lei.

Corrado                         - Sicché, secondo voi, ogni donna, a un certo momento, perché ha una figlia, o dei figli, dovrebbe cessare di essere una don­na, anche se, come voi, è ancora giovane e piena di salute.

Daria                             - Vi prego. Non dite frasi inutili. Tutto questo non c'entra.

Corrado                         - Ah, non c'entra?

Daria                             - No. Una donna maritata può benis­simo avere altri figli, anche se i primi sono già grandi. Credo che nessuna donna si sia mai vergognata di questo. Per me la cosa è diversa. Mia figlia mi ha sempre conosciuta in un modo. E a un tratto si è accorta che io sono cambiata, che non sono più quella di prima. E ha ragione. È vero. Ha sentito che io non appartengo più interamente a lei. Che io ora non penso soltanto a lei. Anzi che a lei io in certi momenti non penso per niente. Ed è vero. È vero. Tutto questo l'ha sentito, l'ha visto. Ha visto probabilmente anche i baci che io vi davo con gli occhi, con le parole... Non bastava che io cercassi di tenere nascosto, chiuso il mio sentimento. Dinanzi a lei era chiaro, evi­dente. E forse sono stata io che senza vo­lerlo ho rivelato a quella bambina cose che comunque non avrebbe mai dovuto appren­dere da me.

Corrado                         - Siete di una sensibilità eccessiva.

Daria                             - Forse. Eccessiva. Ma voi dovete capire e lasciarmi riflettere.

Corrado                         - Perché poi mi veniate a dire candi­damente che non potete farne di nulla? No, cara.

Daria                             - Se lei fosse una donna, tutto sarebbe più facile; ma è una bambina, non dovete dimenticarvi di questo.

Corrado                         - Voglio ammettere tutto quello che dite, ma a giorni noi partiremo; Dina vi ri­vedrà tra qualche mese; di qui ad allora... Intanto si sarà fatta più donna, eppoi avrà avuto modo di pensare, di capire.

Daria                             - Si si, ma voi non avete sentito dianzi, eravate di là. Non avete sentito.

Corrado                         - È quanto dire che per il capriccio insensato di una ragazza senza cuore, voi siete anche disposta a rinunciare a tutto.

Daria                             - Se fosse necessario, Corrado...

 Corrado                        - Ma io mi ribello. Io non sono uomo da adattarmi così.

Daria                             - Dovete capire.

Corrado                         - Io non accetto. Che cosa avete det­to mezz'ora fa?

Daria                             - Sì. Ma ora tutto è cambiato.

Corrado                         - Non è cambiato nulla. La vostra fantasia vi fa apparire le cose più grandi di come sono. Ecco la verità.

Daria                             - Qualche giorno di riflessione. Ve ne prego.

Corrado                         - Mia madre è ammalata. Mi aspetta. Le ho già parlato di voi. Partiamo.

Daria                             - Vi scriverò.

Corrado                         - Daria, non mi abbandonare. Ho tanto bisogno di te.

Daria                             - Ma io non voglio abbandonarti.

Corrado                         - Sì, che lo farai. Quando io sarò partito, tu mi abbandonerai.

Daria                             - Vedi che anche tu hai questa persua­sione?

Corrado                         - Io ho una sola persuasione. Che tu non mi vuoi abbastanza bene; che se rinunci a me con questa facilità, è segno che non mi vuoi abbastanza bene.

Daria                             - Io non ti voglio?... Ah, non posso dirti quello che sei per me... Non si può dire... Se parti, io non so quello che suc­cederà. Non lo so, capisci?

Corrado                         - È proprio vero? E allora, io senza di te non partirò. (La prende fra le braccia) Senza di te non parto.

Daria                             - Lasciami.

Corrado                         - Ti amo.

Daria                             - Te ne scongiuro, lasciami finché sia­mo in tempo. Finora non è successo nulla di male fra noi. Lasciami.

Corrado                         - No.

Daria                             - Caro! Non sai il bene che ti voglio... Ho paura di volertene più che a lei. Per questo voglio che tu vada... Forse ti amo più di lei... perché , vedi, dianzi quando ti ha fatto male alla mano... è stato come se avessero morso me qua in fondo, dentro l'anima mia, e, hai visto, l'ho battuta. Era la prima volta. (Piangendo) Ho battuto la mia povera bambina. Ho paura veramente di amarti più di lei... (Poi aggiunge, piano, quasi calma) Vai, te ne prego, vai via...

Corrado                         - Ma è una cosa inumana quella che vuoi fare.

Daria                             - Lo so. Inumana. E sento che dovrei ribellarmi contro me stessa. Ma non posso. È più forte di me. Non posso. Sono come legata. Non posso.

Corrado                         - Daria! Daria! (Egli la bacia furiosa­mente su gli occhi, su la fronte, su le labbra, su tutto il viso).

Daria                             - Vai via, te ne prego, vai via. Ora, no. Sarebbe terribile che io fossi così debole proprio in questo momento. Vai via. Ti adoro. Vai via. Non potrò vivere senza di te. Vai via. Morirò. Credo che morirò. Vai via. Te ne prego. Vai via.

Corrado                         - (le tiene la testa fra le mani. La guarda qualche momento, poi mormora) Povera Daria.

Daria                             - Hai una grande compassione di me, vero?

Corrado                         - Si.

Daria                             - Sai che se tu volessi approfittarti di me, potresti farlo? Lo sai?

Corrado                         - Lo so.

Daria                             - Ma sai anche che dopo sarebbe terri­bile per me. Che non saprei più con che occhi guardare la mia bambina. Per paura che indovinasse. E forse indovinerebbe. Al­lora tu hai compassione di me. E non lo fai. Va, va. (Ella lo spinge dolcemente verso la porta) Ah, il tuo impermeabile. Tieni. E la tua musica. No. Quella no. La serbo. Me la lasci, vero?... Ora vai... Non voglio salu­tarti. Non dobbiamo salutarci. Mi parrà che da un momento all'altro io potrò risentire il tuo pianoforte, laggiù... E così sarà per tutta la vita. Ssst! Nulla. Non dire più nulla. Vai.

(Egli esce. Ella su la porta lo guarda al­lontanarsi).

CALA LA TELA

 

ATTO TERZO

 La stessa stanza; ma qualcosa è mutato. Non molto: al posto di un certo mobile ora c'è un bar, e al posto di certi quadri ce n'è degli altri. È mutata anche la stoffa di qualche poltrona. Pomeriggio, verso sera.

La signora Agus            - (in abito da passeggio, va allo specchio, si dà un ultimo sguardo, poi chiama) Daria! Daria!

Daria                             - (appare) Che vuoi, mamma?

La signora Agus            - Ma come! Non sei pronta?

Daria                             - ...no.

La signora Agus            - È tardi, sai? I Tolni ci aspettano.

Daria                             - Scusami tanto con loro; ma non posso venire.

La signora Agus            - Perché ? Avevi promesso.

Daria                             - Non ne ho voglia.

La signora Agus            - Al solito. Mi fai fare sem­pre di queste figure. Prima, si; poi, a un tratto, no, senza ragione. Questa volta non so proprio che scusa trovare.

Daria                             - Dì che sto poco bene...

La signora Agus            - Lo dissi anche l'altro giorno.

Daria                             - ...inventa un contrattempo improvvi­so: l'arrivo di qualcuno.

La signora Agus            - Ma dì, credi proprio che la gente sia stupida? Che non capisca? Fi­nirai col disgustare tutti i nostri conoscenti.

Daria                             - Pazienza.

La signora Agus            - Pazienza. Pazienza. Come se ci fosse un bel gusto a restar soli come cani. Eppoi, cara mia, se credi che questa vita ti faccia bene!

Daria                             - Ti assicuro che il pinnacolo è un giuo­co che non mi diverte punto.

La signora Agus            - Pagherei a sapere che giuoco ti diverte. Ma quanto al pinnacolo hai torto marcio. È un giuoco piacevolissimo. Uno può pensare a tante altre cose, senza rompersi il capo, e intanto il tempo passa.

Daria                             - Il tempo passa lo stesso.

La signora Agus            - Purtroppo. Ma vedi, an­che questo è un modo di dimenticare che passa. Ci si trova della gente simpatica... I Tolni ora hanno fatto la conoscenza di un giovine, uno sportivo, un ragazzo ma­gnifico, così divertente, così allegro... Come ti pare che mi stia questo cappello nuovo? (È andata allo specchio).

Daria                             - Benissimo. A te sta bene qualunque modello.

La signora Agus            - (felice) Già. Lo dice an­che la modista. E anche la sarta. Avrei do­vuto fare l'indossatrice. Forse sarebbe stata la mia fortuna... S'incontra tanta di quella gente nelle case di moda. Tanta gente ricca.

Daria                             - Mah, tutti si sbaglia nella vita.

La signora Agus            - Quando rinasco però... Insomma, non vuoi proprio venire?

Daria                             - No, mamma.

La signora Agus            - Mi metti in uno di quegli impicci... (Con altro tono) Però lasciami di­re che hai torto. Quando una donna è bella come te, non si perde col pensiero dietro a dei fantasmi.

Daria                             - Che fantasmi?

La signora Agus            - Alla tua età ci si distrae, non si sta lì a pensare, a che Dio poi lo sa... Del resto io te lo dissi subito, due anni fa. Facesti malissimo. Per me furono scru­poli assolutamente fuori luogo.

Daria                             - Te ne prego, mamma, non torniamo più su questo argomento.

La signora Agus            - Anzi. Ci dobbiamo tornare. Credi che il mio cuore di madre non sanguini a vederti consumare così?...

Daria                             - Ma no. Non mi consumo.

La signora Agus            - Come se io non me n'in­tendessi! (Piano, quasi all'orecchio) Sei più innamorata di prima.

Daria                             - (alza le spalle).

La signora Agus            - Sicuro. Dopo due anni sei più innamorata di prima... E allora perché non gli hai scritto, non gli hai detto di tor­nare? Io l'avrei fatto. E come! Anzi, sarei andata a trovarlo. Tuinvece, non solo non hai fatto questo, ma non hai neppure ri­sposto alle sue lettere. Poi lui si è stancato. Naturalmente... Mi meraviglio anzi che non ti abbia mandato a dire quattro insolenze.

Daria                             - (nervosa) Ti scongiuro, mamma....

La signora Agus            - No, no, no. Già che sia­mo su questo discorso, io ti voglio dire tutto il mio pensiero, una volta per sempre. Que­sta storia deve finire. Non sei stata tu, do­po tutto, che l'hai voluto? E allora perché non ti metti il cuore in pace?

Daria                             - Ma ti assicuro...

La signora Agus            - Invece sempre peggio. Lo vedrebbe anche un cieco.

Daria                             - Basta, mamma. Vuoi che vada a chiu­dermi in camera mia?

La signora Agus            - Ma bisogna pure che cer­chi di scapricciarti, una buona volta! Così non può durare.

Daria                             - E perché ? Se è durato per due anni, perché non può durare?

La signora Agus            - Ma perché a un certo mo­mento una bisogna che si decida.

Darta                             - A far che?

La signora Agus            - A infilare un'altra via. To­talmente opposta.

Daria                             - E secondo te quale sarebbe questa via?

La signora Agus            - Ah, non so... Intanto do­vresti toglierti di casa, andare di qua e di là, stare fra la gente...

Daria                             - Naturalmente. È la tua idea fissa... E quando l'avessi fatto ben bene? Tutto sa­rebbe risolto, vero?

La signora Agus            - Tutto sarebbe per lo meno attenuato.

Daria                             - No, mamma. (Lo dice con voce fer­ma; lo dice fissando bene in faccia sua ma­dre) Questo non è possibile. Non succede­rà mai.

La signora Agus            - Sciocchezze. Ho visto ben altri casi! (Sospirando) Oh, se ne ho visti.

Daria                             - Non è stata un'avventura passeggera, vuoi capirlo, mamma? Sarà così, per tutta la vita. Tutta la vita. Non ne posso più. (Ella, come se d'improvviso non avesse più la forza di reggersi in piedi, s'abbandona su una sedia. Un lungo silenzio. La signora Agus perplessa resta a guardare la figlia, poi con moto improvviso si avvicina a lei).

La signora Agus            - Allora è semplicemente stupido quello che hai fatto.

Daria                             - Può anche darsi. Ma ora non c'è più rimedio.

La signora Agus            - Scrivigli.

Daria                             - (sorride ambiguamente) E perché ?... Le stesse ragioni di allora sussistono anche

oggi-

La signora Agus            - Ragioni!

Daria                             - Non stiamo a discutere sulle parole, mamma. Allora mi parvero ostacoli insor­montabili.

La signora Agus            - E va bene. Ammettiamolo; ma allora non sapevi a che cosa andavi incontro.

Daria                             - No. Non lo sapevo.

La signora Agus            - E quando una donna pen­sa a un uomo continuamente, giorno e notte, con tutta se stessa, con tutta la sua anima e la sua carne, non deve fare quello che fai tu.

Daria                             - Ormai...

La signora Agus            - Perché è lontano? Le di­stanze oggi..,

Daria                             - Non questo.

La signora Agus            - E allora?

Daria                             - Non è lontano.

La signora Agus            - Non è lontano?

Daria                             - È qui.

La signora Agus            - Da quando?

Daria                             - ...da una quindicina di giorni, credo. È all'Excelsior.

La signora Agus            - Come lo sai?

Daria                             - L'ho letto su un giornale.

La signora Agus            - L'hai visto?

Daria                             - No. Non esco mai appunto per questo. Per la paura d'incontrarlo.

La signora Agus            - Per la paura?... Io, pa­rola d'onore, non ti capisco. La paura?... Ma io a quest'ora...

Daria                             - Io, no.

La signora Agus            - E lui? Lui perché non si è fatto ancora vivo?

Daria                             - Anche a lui mancherà il coraggio... Forse a qualcuna delle sue lettere avrei dovuto rispondere.

La signora Agus            - Siete due fenomeni. Due fenomeni. Tu poi... Ma cosa aspetti a seri-vegli, a telefonargli?... Cosa aspetti? Vuoi che lo faccia io?

Daria                             - No.

La pignora Agus           - Posso cercare l'occasione... Fingerò d'incontrarlo per caso, nell'atrio dell'albergo, dovessi aspettarlo per tutta una giornata.

Daria                             - Non lo fare, sai.

La signora Agus            - E continua pure a man­giarti l'anima. (Fuori di sé) È il colmo! Il colmo! A girare tutto il mondo non se ne trova un'altra uguale. (Fermandosi a un tratto dinanzi a Daria) Allora?

Daria                             - Allora che? Nulla.

La signora Agus            - Va bene. Nulla. Ma io non ti capirò mai. Ti tormenti che sembri una una bambina di sedici anni al suo primo amore, e hai cento scrupoli, cento sciocchi timori... La vita dovrebbe pure averti inse­gnato qualche cosa! Non vuoi più vedere quello? E va bene. Cerca di dimenticarlo. Ma dai aria, aria... Sai, mi fai l'effetto di uno che va a fare un viaggio in una città e ci si ferma per tutta la vita... Ah, se avessi potuto viaggiare io! Non mi sarei mai stan­cata di veder sempre cose nuove!... Ma tu sei nata così, e pazienza. Io però devo cer­care il modo...

Daria                             - Te lo proibisco assolutamente... (Si­lenzio) Guarda che farai tardi. Son già le cinque e un quarto.

La signora Agus            - Vieni anche tu, fammi questo piacere. Cerca di contentare tua ma­dre, su.

Daria                             - (per finirla) Va bene. Come vuoi... Vado a mettermi il cappello.

La signora Agus            - Oh, Dio ti ringrazio! Ma presto, eh? (Daria esce).

(La signora Agus torna allo specchio. Dopo un poco entra dal giardino il signor Agus).

Il signor Agus               - Vittoria...

La signora Agus            - (si volge) Ah, sei qui?

Il signor Agus               - Ancora in casa? Non spe­ravo proprio.

La signora Agus            - Mi ha fatto perdere tempo Daria.

Il signor Agus               - Come sei bella! (Le bacia la mano) Non c'è che dire: sei la più bella donna del mondo...

La signora Agus            - Esageri.

Il signor Agus               - ...per me.

La signora Agus            - Ah!

Il signor Agus               - Questo vestito poi ti sta divinamente.

La signora Agus            - Si, non c'è male.

Il signor Agus               - E che bel cappellino!

La signora Agus            - Cinquecento lire.

Il signor Agus               - È molto. Ma ti sta tanto bene!

La signora Agus            - Non ti spaventare. Sem­pre il premio dell'Accademia di Lettere.

Il signor Agus               - Quei soldi vennero a pro­posito. E tra poco credo che ne verranno degli altri.

La signora Agus            - Come? Davvero?

Il signor Agus               - C'è in aria un altro premio.

La signora Agus            - Come sono contenta! Po­trò finalmente pagare tutti i miei debiti.

Il signor Agus               - (ridendo) Per farne degli altri?

La signora Agus            - Oh no. Ora basta,

Il signor Agus               - Lo dici da trent'anni.

La signora Agus            - Ma ora basta davvero.

Il signor Agus               - Non importa. Io sono con­tento di pagare j tuoi debiti. Lavoro tanto per questo! Perché mi fa piacere... In que­sto modo, soltanto in questo modo, posso farti sentire che io sono sempre quello di un tempo. E così sarà per tutta la vita.

La signora Agus            - (colpita) Proprio come te!

Il signor Agus               - Chi?

La signora Agus            - Daria (Ella riflette un at­timo) Dio mio!

Il signor Agus               - Perché ?

La signora Agus            - Niente. Non ci badare. Un pensiero.

Il signor Agus               - Che ci hai in quella testo­lina? Che ci hai? Io dentro non ho mai potuto vederci bene...

La signora Agus            - Neanche io.

Il signor Agus               - ...Mai. Mi hai nascosto sem­pre tante cose! Mi hai detto sempre tante cose che non erano vere... Ma io fingevo di crederci. E ho preso quello che mi hai dato.

La signora Agus            - Lasciamo andare, Fran­cesco... C'è ben altro, ora... Ho uno struggimento, tu sapessi...

Il signor Agus               - Perché ?

La signora Agus            - Nulla. Ti dirò poi.

Daria                             - (entra) Son pronta.

La signora Agus            - Andiamo. Addio, Fran­cesco.

Il signor Agus               - Addio, care. (Le accompa­gna fin su la porta) Come siete belle tutte e due! Sembrate proprio due angioli. (Resta a guardare, incantato).

(Improvvisamente da una delle porte laterali entrano in gruppo: Dina, Filippo, Carlo e Gino. Dina ora è una ragazza. In due anni si è sviluppata: tutto in lei rivela ora una sensualità sveglia. Anche Gino e Carlo sono un po' mutati, ma più nei modi che nella persona. Filippo è un magnifico giovanotto di ventiquattro anni: alto, con un largo to­race d'atleta, una carnagione bronzea, un bel sorriso aperto).

Dina                              - Mamma! Mamma! C'è qui Filippo. Vo­glio presentartelo.

Il signor Agus               - (si volge) La mamma è uscita.

Dina                              - Quando?

Il signor Agus               - In questo momento.

Dina                              - Non l'abbiamo incontrata.

Il signor Agus               - È passata dal giardino, con la nonna.

Dina                              - (spiacente) Ah! (A Filippo) Che disdet­ta! La mamma non esce mai.

Gino                              - Professore...

Carlo                             - Buona sera, professore.

Il signor Agus               - Buona sera, giovinotti.

Dina                              - Nonno, scusa. Il mio amico Filippo Dori, cugino di Gino.

Il signor Agus               - Ah, piacere. Piacere, se non somigliate a lui.

Gino                              - Non mi somiglia.

Il signor Agus               - Meno male.

Gino                              - Lui è molto peggio. (Ridono).

Il signor Agus               - Ah! Allora si salvi chi può. Vado a rivedere certe prove di stampa, ur­gentissime. Buona sera, ragazzi. (Esce).

Gino                              - (A Filippo) È il famoso professor Agus...

Filippo                           - (senza capire) Ah!

Gino                              - Sai, quello che ha avuto il premio per quel libro : Fonetica della lingua italiana. Tu, scommetto, non l'hai mai letto.

Filippo                           - No.

Gino                              - Nemmeno io.

Dina                              - Nemmeno io, per questo. Ma pare che si tratti di un'opera molto importante.

Carlo                             - Hai una sigaretta, Dina?

Dina                              - In giro non ce ne saranno di certo. Le spazzate via sempre, voi. (Prende nella sua borsetta il portasigarette) Forse qui. Sei for­tunato. Tieni. E tu, Filippo?

Filippo                           - (prende anche lui una sigaretta).

Dina                              - Presto, presto! Muoio dalla voglia di fumare. Accendete.

Filippo                           - (le accende la sigarétta).

Gino                              - Che cosa sconcia! Non fate che fumare.

Dina                              - Perché lui non fuma più. Gli faceva male, poverino.

Gino                              - E a te, non facevano forse male un tempo le Sahara?

Dina                              - Pensare che ora mi piacciono tanto!

Carlo                             - (a Filippo) Allora Dina era un bel tipo, sai?

Dina                              - Forse per questo ti piacevo? Non te l'abbiamo ancora detto, Filippo. Ma Carlo è stato molto innamorato di me.

Carlo                             - Uh, cose dell'uno quando non c'era nessuno.

Dina                              - Figurati che un giorno mi ha persino proposto di fuggire con lui.

Carlo                             - Ah, no. Mi ribello. Questo no. Fu lei. Non so che diavolo avesse.

Dina                              - Beh, potrà anche essere stato, non discuto. Però quella volta che mi baciasti, io ti detti uno schiaffo. Spero che non lo ne­gherai.

Filippo                           - Un bacio? Pezzo di...

Carlo                             - Inutile, Filippo. Prima di tutto con te non mi posso misurare. Le piglierei di certo. E poi, sta tranquillo, non c'è pericolo che lo faccia più.

Dina                              - Lo credo. Ora non mi limiterei a uno schiaffo : glie ne darei due

Carlo                             - Non per questo. Ma perché ho cam­biato gusti.

Dina                              - Ah! Lo sappiamo che ora ti piacciono le tardone e piuttosto... (Fa un gesto che vuol dire grasse).

Carlo                             - Sicuro.

Dina                              - In ogni modo, tu a me non mi sei mai piaciuto. Eri troppo bestia.

Gino                              - Beh, quello è rimasto.

Carlo                             - Idiota (A Filippo) Sai, lei allora era una di quelle sgobbone!...

Dina                              - Lo ammetto.

Gino                              - Ti sei guastata nel crescere?

Dina                              - No, mi sono guastata quando ho cono­sciuto Filippo.

Filippo                           - Ah, grazie.

Gino                              - Uhum! Gesù mio!

Dina                              - Davvero, Filippo, non so come sia, ma sono un'altra da che conosco te. (Filippo la prende per la vita, la stringe a sé. Ella si abbandona) I libri mi sono venuti in uggia... Quello che prima mi piaceva ora mi dà ai nervi.

Carlo                             - Vedi? Io pure le piacevo, e ora non mi può soffrire. Ma io la contraccambio di cuore.

Filippo                           - Buon per te; se no, avresti da fare i conti col sottoscritto.

Gino                              - Dina, non ci dai da bere?

Dina                              - Vediamo. (Corre al bar e mostra delle bottiglie vuote) Avete già scolato tutto.

Gino                              - Potevi rifornirti.

Dina                              - Se hai tanta sete, vai a bere fuori.

Gino                              - (facendo un segno a Carlo) Hai capito l'antifona? Vogliono restar soli questi due. Svignamocela.

Carlo                             - Con piacere. Ci ho la mia dattilografa che mi aspetta alle sei e mezza.

Gino                              - Se vedeste che scorfano.

Carlo                             - Pagheresti.

Gino                              - Avrà almeno quarantacinque anni.

Carlo                             - È un po' passata, non dico di no; ma possiede certe arti...

Dina                              - Beh, beh, beh! Non vogliamo parti­colari. Levatevi di torno.

Gino                              - Figuratevi che l'altro giorno sono an­dati insieme in un negozio per comprare una cravatta... Fra parentesi pagava lei...

Carlo                             - Poveraccia, ci teneva a farmi un re­galo...

Gino                              - ...e il commesso ha detto: «Ma no, signora, questa sta benissimo al signorino! ». L'aveva presa per sua madre.

Dina                              - È vero?

Carlo                             - (ridendo) È vero. (Tutti ridono).

Gino                              - Ciao, Dina. Bada, domani vogliamo trovare da bere.

Dina                              - Inteso.

(Carlo e Gino escono. E appena costoro so­no usciti, Dina si getta tra le braccia di Fi­lippo. Filippo la bacia. Dina esce da quell'abbraccio pallida con gli occhi lucidi, feb­brili).

Dina                              - Filippo, sposiamoci. Sposiamoci alla svelta. Filippo mio, non mi basta stare con te questi pochi minuti rubati ogni tanto. Vo­glio restare con te, sempre sempre. Voglio averti tutto per me.

Filippo                           - Anch'io.

Dina                              - Bisogna che tu parli subito con mia madre. Subito.

Filippo                           - Non l'hai già messa al corrente?

Dina                              - Ma si, certo. Solamente non sapevo an­cora come la pensavano i tuoi; così non mi son voluta sbilanciare troppo: non si sa mai... Ma ora che i tuoi sono d'accordo... Sono felice.

Filippo                           - Tesoro.

(Le ha preso la testa fra le mani, la guarda lungamente. Ella resta così con le dita di lui fra i capelli con gli occhi spalancati, aspettando. Poi egli la bacia. Son piccoli baci minuti e fitti. Ella lo lascia fare, aspet­tando sempre. Poi entrambi, nello stesso tempo. senza razione apparente. Quasi di scatto, si staccano, si allontanano l'uno dall'altra. Ella si ravvia i capelli. Egli accende una sigaretta).

Dina                              - Si, una anche a me. Grazie.

(Fumano per qualche attimo in silenzio. In questo momento dal giardino entra Daria).

Dina                              - (si volge) Oh, mamma, finalmente!

Daria                             - Ho accompagnato la nonna fino al portone dei Tolni, ma salire è stato più for­te di me. Per fortuna, stranamente, la non­na non ha insistito.

Dina                              - Hai avuto ragione, sono così noiosi i Tolni... E poi io avevo da parlarti. E pri­ma di tutto volevo presentarti Filippo.

Daria                             - Ah! (Tende la mano a Filippo) Dina mi aveva parlato di voi. Del resto, ho in­contrato qualche anno fa la vostra mamma, dai Venier.

Dina                              - Sai, mamma? Filippo ed io ci siamo fidanzati.

Daria                             - Di già? Ma...

Dina                              - Non ti piace forse Filippo, mamma?

Daria                             - Non volevo dir questo...

Dina                              - È un bel ragazzo, no?

Daria                             - Sei fantastica.

Dina                              - Avanti, dì anche tu che è un bel ra­gazzo.

Daria                             - Ma sì, ma sì...

Dina                              - E poi è tanto buono, sai? Una pasta. E parla anche. Non credere che sia muto. Parla. Ora naturalmente è un po' confuso. Ma tu sapessi come parla bene. Almeno a me pare così. (Si stringe al braccio di Fi­lippo).

Daria                             - (a Filippo) E i vostri genitori?

Dina                              - Fatto. Fatto tutto.

Daria                             - Lascia rispondere lui. Se no, davvero lo farai passare per muto.

Dina                              - È vero. Rispondi, Filippo.

Filippo                           - Hai già risposto tu. Si, signora. I miei genitori sono felicissimi...

Dina                              - Ha una bella voce, no? Una voce bel­lissima. Non ti pare, mamma? Hai sentito come ha detto: felicissimi?... Come ci si è abbandonato sopra...

Filippo                           - Finirai col farmi diventar rosso, Dina.

Dina                              - Non mi dispiacerebbe affatto. Perché quando sei colorito, ci guadagni. Te lo assi­curo, mamma. Ma anche così... Mamma ca­ra, tu sapessi come siamo felici, come ci vogliamo bene! Non ne hai neanche un'idea.

Daria                             - Bravi ragazzi.

Dina                              - La sola cosa che ci manca è il posto. Il posto di lui. Ma ce l'hanno promesso per stasera... A proposito, dev'essere quasi l'ora di andare dal senatore. Sicuro, mamma. C'è un senatore che lo protegge, un antico com­pagno di scuola di suo padre. Andiamo, ti accompagno, Filippo. Saluta la mamma.

Daria                             - Un momento. Dovrò parlare coi suoi genitori, no?

Filippo                           - Senza dubbio.

Dina                              - Suo padre, non vede l'ora di conoscerti, vero, Filippo?

Filippo                           - Certo.

Dina                              - È un bellissimo uomo suo padre, un po' meno di lui naturalmente; ma anche lui, per la sua età... Alto, con dei baffi, bianchi bianchi. Proprio un generale. E sua madre. Una donna magnifica. E la sua casa. Ti pia­cerà molto, mamma, la sua casa. Insomma, tutto bello. Andiamo, andiamo Filippo, non facciamo aspettare il senatore. Gli ha pro­messo un posto meraviglioso. Che posto, Filippo, prefetto?

Filippo                           - Ma no!

Daria                             - Sarebbe un po' presto.

Dina                              - Già. È vero. Allora, che cosa?... In­somma, un posto di prim'ordine, saremo tan­to felici, mamma. Andiamo, Filippo.

Filippo                           - A che ora può venire domani, mio padre?

Daria                             - Alle quattro?

Filippo                           - Benissimo.

Dina                              - Bada, mamma, l'avrai su la coscienza tu se perderemo quel posto.

Daria                             - Allora, andate. Su, presto, ragazzi. Addio Filippo.

Filippo                           - Buona sera, signora.

Dina                              - Ancora non ti chiama mamma. £ trop­po presto. Si vergogna. Ma poi ti chiamerà mamma anche lui.

Filippo                           - Non sarà mai possibile.

Dina                              - Perché ?

 Filippo                          - Perché tua madre è troppo giovane.

Dina                              - E' vero. E' ancora tanto giovane, la mamma. Andiamo, andiamo. (Trascina via Filippo) .

Daria                             - (grida) Torna presto.

(Dina non risponde. È scomparsa col fidan­zato. Daria, animatissima, con una specie di sorriso felice va allo specchio. Si ravvia i capelli. Ma Dina tornando improvvisamente indietro l'abbraccia, le domanda:)

Dina                              - Ti è piaciuto? Ti è piaciuto molto, mamma?

Daria                             - Sì, cara, si. Spiritoso!...

Dina                              - Sono contenta. (E scappa via).

Daria                             - (va al pianoforte, l'apre. Accenna il primo movimento, l'Adagio, de « Gli addii ». Ma riabbassa subito il coperchio della tastie­ra, e va su e giù per un poco nella stanza).

Corrado                         - (su la soglia) Daria, scusate...

Daria                             - (si volge di scatto. Impallidisce, si met­te a tremare tutta).

Corrado                         - ...ma al solito il cancello era aperto.

Daria                             - Corrado!

Corrado                         - Come state?

Daria                             - Sapevo che eravate già da un pezzo nella nostra città.

Corrado                         - Perdonatemi di non essere venuto prima; ma non credevo...

Daria                             - Che strano!... Quel pezzo non lo sona­vo da quando partiste voi. Telepatia.

Corrado                         - Tutti i giorni pensavo di venirvi a trovare... Era doveroso.

Maria                             - Doveroso?

Corrado                         - ...e sempre rimandavo.

Daria                             - Finalmente vi siete deciso? Avete fat­to bene. Perché vi devo parlare. Ho da dirvi una infinità di cose. Sapeste...

Corrado                         - Ah, forse per questo vostra madre mi ha telefonato?

Daria                             - (stupita) Vi ha telefonato mia madre? Non siete venuto spontaneamente?...

Corrado                         - Ve l'ho detto. Non osavo.

Daria                             - Già.

Corrado                         - Non appena vostra madre mi ha chiamato all'Albergo e mi ha detto che voi mi avreste visto volentieri, sono accorso.

Daria                             - Ah!

Corrado                         - Avevo un gran desiderio di riveder­vi. Ho pacato con voi dei giorni così belli! (Silenzio).

Daria                             - La vostra mamma?

Corrado                         - Non sapete?...

Daria                             - ...no.

Corrado                         - Purtroppo. Fu poco dopo il mio ar­rivo là.

Daria                             - Mi dispiace. Se avessi saputo... Avete lavorato molto, vero?

Corrado                         - Moltissimo. Specialmente negli ulti­mi mesi.

Daria                             - Lo so.

Corrado                         - Come?

Daria                             - Vi ho seguito... attraverso tutti i gior­nali, durante questo vostro giro in Germania.

Corrado                         - Ma allora...

Daria                             - (senza lasciarlo finire) Si, Corrado.

Corrado                         - E perché non rispondeste alle mie lettere?

Daria                             - Mi pareva che quello fosse il mio dovere.

Corrado                         - E Dina?

Daria                             - Oh, Dina è una donna ormai. Ha un fidanzato. Presto si sposerà. Sodo tanto fe­lice anche di questo. Dina si sposa, e io ritorno libera. Completamente, Corrado. Com­pletamente.

Corrado                         - (dopo qualche istante di imbarazzo, guardandosi intorno) Non è mutato quasi nulla qui.

Daria                             - Nulla. Non è mutato nulla, Corrado. Né dentro né fuori. Ancora come quel gior­no, Corrado. Esattamente così. Tutto. (La sera è calala dolcemente. La stanza ora giace in una mezza oscurità soffice e blanda).

Corrado                         - Faceste male.

Daria                             - Lo so, Corrado. Feci male. Lo capii quasi subito. Ma era troppo tardi. Si sarebbe potuto aspettare. Riflettere. Non è vero? Oggi non so ridirvi quello che provai. Quali istinti si rivoltarono dentro di me. Oggi non lo so più. Del resto, nemmeno io, vedi, Cor­rado, avevo una nozione precisa del mio sen­timento. Davvero! Non lo sapevo nemmeno io d'amarti così: con tutto il mio sangue e con tutta la mia anima. Chi credeva che appena partito tu sarebbe stato come se qualcosa si schiantasse qui dentro, per sempre?... Ma è inutile, non riuscirò mai a farti capire... Eppure ho perseverato nel mio er­rore: non ti ho risposto. Ora però voglio che tu sappia che qualcuno quando tu eri tanto lontano, si sentiva sfinire a poco a poco, e ti chiamava con una disperazione, Corrado, che tu non potrai mai nemmeno immagina­re. (Piange).

Corrado                         - Daria...

Daria                             - (si asciuga gli occhi) Non ci badare. Forse è la reazione. Sai che quando dianzi ti ho visto là, sono rimasta in piedi per mi­racolo?... Corrado, anima mia... (Trattenen­dosi) Hai ragione: forse dovrei lasciar par­lare te; ma in fin dei conti, la colpa fu tutta mia. In qualche modo ho il dovere di rime­diare... Eppoi non è più il momento d'aver dei ritegni... (Con slancio) Ancora non mi hai dato un bacio... Prendimi fra le braccia. Baciami come mi hai baciato in tutte que­ste notti che eri lontano. Ora puoi farlo. Ti amo, ti amo, ti amo. (Ella si getta fra le braccia di lui e cerca la sua bocca).

Corrado                         - Daria!... E io... Io non ho'sofferto forse?

Daria                             - Lo so. Ne sono certa. Ma ora non ci dobbiamo pensare più... Io credo che due al mondo non si siano mai amati così. Dun­que, tutto il resto non conta. Portami via, anche domani; anche ora... Sono pronta a venire con te. Vuoi che io sia la tua aman­te? Sarò la tua amante. Vuoi che io sia tua moglie?... Meglio questo, vero? Meglio que­sto. Il tempo che occorre e ci sposeremo... Andremo a sposarci in un'altra città... Ti ricordi che ti avevo promesso di star sempre nascosta da una parte, e tu avresti guarda­to soltanto me, e il pubblico ti avrebbe tro­vato grande come non eri mai stato? Ora potrò farlo. Io mi ricordo tutto, sai, di quel giorno. Le minime parole, i gesti, tut­to... Fu un giorno spaventoso. Ed è stata l'unica giornata piena, splendida della mia vita... Caro, caro  (Ella di nuovo cerca la bocca di lui, ma d'improvviso allontana la faccia, lo fissa) Cos'hai?

Corrado                         - Nulla.

Daria                             - No. Cos'hai? Qualcosa non va, lo sento.

Corrado                         - (con sforzo) Ascolta, Daria. Ti de­vo parlare.

Daria                             - Perché ? Cos'hai da dirmi?... (Con un piccolo grido) Indovino. Non mi ami più. E allora perché sei tornato? Non lo avresti dovuto fare. E' più terribile così. E' mille volte più terribile.

Corrado                         - No, Da-\a. Non è questo.

Daria                             - No? E sfiora? Cosa c'è? Parla. Ma parla !

Corrado                         - Ascolta. Io ti voglio lo stesso bene di prima, ma...

Daria                             - Ma?... Avanti. Che cos'hai da dirmi? Avanti.

Corrado                         - Non sono più libero.

Daria                             - (dopo un momento immobile, chiusa) Ah!

Corrado                         - Mia madre sapeva tutto. Le avevo raccontato tutto. Mi vedeva soffrire. Prima di morire mi aveva messo intorno una ra­gazza, una brava creatura che mi è stata di molto conforto durante il mio lutto. L'ho sposata.

Daria                             - E a me non ci hai pensato?

Corrado                         - Mi sentivo spaventosamente solo.

Daria                             - Dovevi correre qua.

Corrado                         - Mi avevi proibito perfino di scriverti.

Daria                             - È vero. Ho distrutto la mia vita così, per il solo gusto di farmi del male.

Corrado                         - Ma io voglio bene a te sola.

Daria                             - Non lo dire. Se fosse vero, non ti sa­resti ammogliato.

Corrado                         - ...Ho cercato di dimenticarti.

Daria                             - Io non ho mai cercato di dimenticarti. Io vivevo anzi del tuo ricordo. Non facevo altro che pensare a te, ed ero disperata quan­do credevo di aver dimenticato, non so, certi gesti tuoi, un tuo modo di fare, di sorri­dere, di guardarmi... Ho consumato un tuo ritratto, a forza di baciarlo. A forza di ba­ciarlo e di piangerci sopra. Ma allora io po­tevo sperare in qualcosa, in un miracolo; ora non posso più sperare in nulla. Non potrò più nemmeno piangere. Perché soltanto i pazzi piangono senza ragione. (piange)

 Corrado                        - Ma non capisci, non vuoi capire che amo soltanto te? Non vuoi capire che sono pronto a fare qualunque cosa per te?

Daria                             - (alzando il capo) Qualunque cosa? Che cosa?

Corrado                         - Quello che vuoi. Decidi tu. A an­darmene via con te anche, dove vuoi.

Daria                             - Davvero, Corrado? Davvero sei dispo­sto a fare questo?

Corrado                         - In qualunque momento.

Daria                             - (prendendogli le mani) Davvero? Pro­prio? Sul serio? Dunque mi ami tanto? Caro! Caro! Sei la mia vita, la mia vita. Non ca­pisci che sei la mia vita? (Ella si abbranca a lui. Egli la bacia lungamente. Daria scuo­tendosi): Adesso bisogna riflettere, decidere... Come facciamo? Vediamo un po'... Domani?

Corrado                         - Domani?

Daria                             - No no. Domani no. Che stupida, non ci pensavo. Domani hai un concerto.

Corrado                         - Che importa?

Daria                             - No. Non voglio che tu rinunci al tuo concerto. Io sarò là, e nessuno saprà che tu suoni soltanto per me... Dopodomani? Non ti dispiace?

Corrado                         - Dopodomani?

Daria                             - Sì sì. Dopodomani. Io uscirò come per fare delle spese, va bene?... Tu mi aspetterai alla stazione. Così?

Corrado                         - Così.

Daria                             - Come sei buono! Per te va bene qua­lunque cosa io dica. (Ride felice).

Corrado                         - Qualunque, cara.

Daria                             - Sicuro, faremo così. Poi... (Improvvi­samente) Ah no. E' impossibile. E' impos­sibile.

Corrado                         - Perché ?

Daria                             - Ma perché Dina deve sposarsi. Uno scandalo di questo genere potrebbe... Il suo­cero, figurati, è un generale. Bisogna asso­lutamente rimandare a dopo il matrimonio. Non fa nulla. È questione di avere ancora un po' di pazienza. Ne abbiamo avuta tan­ta, no? Io ti avrò qui, con me. Saremo fe­lici lo stesso.

Corrado                         - Manderò a monte la mia tournée.

Daria                             - Oh che peccato!

Corrado                         - Non preoccuparti. Mi farò fare un certificato medico.

Daria                             - (esitando) Ma in questo tempo lei?...

Corrado                         - Chi?

Daria                             - Lei... Che ne farai di lei?

Corrado                         - Oh non sarà difficile... È tanto una buona creatura. Dove si mette sta.

Daria                             - Veramente? E con tutto ciò la lasci?... (D'improvviso) Fammela vedere.

Corrado                         - Ma...

Daria                             - Possibile che tu non porti nemmeno una fotografia sua nel tuo portafogli?

Corrado                         - Lascia stare, ti prego.

Daria                             - No. Voglio vederla. Avanti.

Corrado                         - (estrae dal portafogli una fotografia) Ecco.

Daria                             - Oh, ma è giovane!

Corrado                         - Sì. Molto.

Daria                             - Ha una faccia di bambina malinco­nica... Come ti guarda!... Allora ti vuol bene!

Corrado                         - Credo di sì. Molto. Ma parla così poco.

Daria                             - No non ti vuol bene. Si vede da come ti guarda.

Corrado                         - Ma non è una donna: una vera don­na. Come potrei dire?... È la mia ombra. Ecco. Quando era malata la mamma, si muo­veva per la casa che non si sentiva nem­meno. E quando finalmente io le ho detto che l'avrei sposata, mi ha guardato quasi senza capire, tanto le sembrava una cosa im­possibile... Se io ora andassi all'albergo e le dicessi: « Sai, io amo un'altra donna; ti devo lasciare », sono sicuro che non direbbe nulla, non mi creerebbe il menomo ostacolo... La sua più grande soddisfazione, tu non ci crederai, è di farmi il dolce tradizionale del nostro paese. Sa che mi piace tanto.

Daria                             - Ma io non so farlo il dolce tradizionale del tuo paese.

Corrado                         - Che importa? Tu hai ben altre virtù. Tu sarai la mia amante. Sai cosa vuol dire?

Daria                             - Sì sì; ma devi dirmi una cosa: non le vuoi punto bene a lei? Sei pronto a tra­dirla, ad abbandonarla, senza provare asso-

 Corrado                        - Non sono mica privo di cuore fino a questo punto.

Daria                             - E forse un giorno la rimpiangeresti. (A un gesto di lui) Sì. Perché in fondo tu le vuoi bene... (Corrado ha un gesto) Non sarà forse amore; ma una certa tenerezza, sì. Non negare. Si capisce. Si sente così bene, non dalle tue parole naturalmente; ma dalla tua voce, dal tono. Le vuoi bene.

Corrado                         - Non sono farse pronto a rinunciare a tutto per te?

Daria                             - Ma se non l'ami, allora non è un sa­crificio.

Corrado                         - Chi ti ha detto che a mio modo non l'ami? Non è lo stesso amore, ecco.

Daria                             - Capisco. Non è lo stesso amore. Non è lo stesso desiderio, vuoi dire.

Corrado                         - Non sottilizzo. Ti amo con tutto me stesso e mi basta.

Daria                             - A me, no. (Gli restituisce la fotografia che era rimasta fra le sue, mani. Si alza).

Corrado                         - Cosa dici, Daria?

Daria                             - Che così non mi basta. Che preferisco non farne nulla.

Corrado                         - Non vuoi più?

Daria                             - Non voglio più, no. Perché ho paura.

Corrado                         - Di che?

Daria                             - Una paura tremenda che passato il primo momento... Oh, un momento che po­trebbe durare anche dei mesi intendiamoci; tu non provi il desiderio improvviso di man­giare il dolce del tuo paese... E tu rimpianga chi te lo cucinava così bene. Oppure che per un'altra tu non faccia con me quello che ora vuoi fare con lei... Così, rinuncio. È stato un bel sogno che non si avvererà mai. Ma dopo tutto, qualche volta anche i sogni hanno il loro lato buono.

Corrado                         - No. Domani noi. ci vedremo ancora, parleremo ancora, e...

Daria                             - No. Domani noi non ci vedremo. Né domani, né mai. Forse è stato bene. Ci vo­leva, per svegliarci, questa doccia fredda.

Corrado                         - Dunque credi che io non ti ami; credi che t'abbia voluto ingannare?

Daria                             - No; ma, te l'ho già detto, non mi ba­sta. Mea culpa. Non voglio discutere. Mea culpa. Guai nelle cose a lasciar passare quel tale momento. Non si ritrova più. Mea culpa. Pazienza.

Corrado                         - Daria, io non posso andarmene così.

Daria                             - Ma sì che puoi. Quell'altra all'albergo aspetta. Povera bambina. Ah, tu credi pro­prio che non soffrirebbe? Ma tu non sai come soffriamo noi donne. E, in fondo, vedi, ho un po' di pietà anche di lei... Va', va'... Che stupidaggine! Io che vorrei tenerti qui con me tutta la vita, mi trovo continuamente obbligata a mandarti via... Non si può ne­gare, anche le cose meno allegre hanno il loro lato comico. Però questa volta io non riesco a ridere, proprio non ci riesco. Vai, caro. Vai.

Corrado                         - Domani dobbiamo assolutamente ve­derci ancora...

Daria                             - No.

Corrado                         - Ti chiamerò al telefono.

Daria                             - No.

Corrado                         - Verrò qui.

Daria                             - No. No.

Corrado                         - Vuoi proprio commettere lo stesso errore di allora?

Daria                             - Questa volta sono sicura che non è un errore. Te ne prego. Mi dispiacerebbe troppo che mia figlia ti trovasse qui.

Corrado                         - A domani.

Daria                             - Non c'è più nessun domani, per me.

Corrado                         - A domani.

Daria                             - Basta, per carità.

Corrado                         - (le si avvicina le mormora all'orec­chio). Io ti chiamerò al telefono, e tu ri­sponderai...

Daria                             - (tiene il capo basso, non dice nulla).

Corrado                         - E tu risponderai, ne sono sicuro... Di qui a domani avrai riflettuto e ti sarai resa conto che sarebbe una cosa contro na­tura agire in modo diverso: che noi dobbia­mo viverlo, per forza, questo nostro amore. (Dariacontìnua a tacere) Noi dobbiamo vi­verlo. È il nostro diritto: è il tuo diritto... Qualcuno si è messo ingiustamente tra noi, ci ha tolto la nostra parte di felicità... Ma ora basta. Non mi credere un cinico, perché parlo così. So che posso parlare così. Questo deve dirti anzi come ti voglio bene: che io voglio bene a te sola: che non posso voler bene cosi altro che a te... E tu mi credi. Lo so che mi credi. Anche se tu negassi, non mi sentirei meno sicuro.

Daria                             - (non risponde).

Corrado                         - Adesso ti lascio. Pensa alle parole che ti ho detto. Domani ti telefonerò. E tu mi risponderai di sì, che sei pronta. Mi dirai di sì, non è vero?

Daria                             - (non risponde).

Corrado                         - Addio a domani. A domani, Daria. (Le prende una mano. Daria gliela abban­dona senza alzare il capo, senza rivolgergli uno sguardo. Corrado le bacia la mano poi si allontana e si perde fra le ombre che han­no invaso il giardino).

Daria                             - (di schianto si abbatte sul divano, pian­ge perdutamente).

Dina                              - (entra. Accende la luce. Vede sua madre) Mamma!

Daria                             - (cerca di ricomporsi).

Dina                              - (correndo a lei) Che hai?

Daria                             - Nulla nulla. Soltanto un terribile mal di testa. Vieni qua. (Stringendola al seno) Ho bisogno di tenerti un po' con me.

Dina                              - Mamma cara. (Ma ella non può accor­gersi che la madre è così turbata: si sente troppo felice. Infatti prorompe) : Il posto c'è, sai?

Daria                             - Che posto?

Dina                              - Come, che posto? Il posto per Filippo.

Daria                             - Ah, è vero, scusa : in questo momento non ci pensavo.

Dina                              - Brutta mamma! Come puoi dimenti­carti d'una cosa tanto importante per noi?

Daria                             - Il posto c'è? Veramente?... Ah! Sono contenta.

Dina                              - Un magnifico posto in Africa.

Daria                             - In Africa?

Dina                              - Sì. C'imbarcheremo subito dopo il ma­trimonio.

Daria                             - Chi s'imbarcherà?

Dina                              - Come chi? Filippo ed io.

Daria                             - No!

Dina                              - Ma sì, mamma.

Daria                             - (si alza, agitata) È una burla, via! È una burla, non è vero?

Dina                              - Ma no. Cos'hai mamma? Non è una burla.

Daria                             - Ed io ti dico di sì. Ma per oggi mi pareva che bastasse.

Dina                              - Che cosa?... Cosa è successo oggi?

Daria                             - Nulla. Nulla. Non farci caso. Te l'ho detto, no?, che mi fa molto male la testa.

Dina                              - (è dinanzi a sua madre, immobile. Non sa capire).

Daria                             - (dopo un momento) Davvero sei di­sposta a partire?

Dina                              - E me lo domandi, mamma? Ma ogni tanto avremo delle lunghe licenze.

Daria                             - (risolutamente) Va bene. Parto an­che io.

Dina                              - Tu? Vuoi scherzare? Si tratta di an­dare a lavorare in una grande miniera, in mezzo ai selvaggi.

Daria                             - Non mi ci vuoi?

Dina                              - Che sciocchezza! Noi due, sai, insieme, siamo pronti a qualunque sacrificio, ma tu non ci resisteresti... Sul serio non sei con­tenta?... E io che credevo di portarti una così bella notizia!... Ma è la nostra felicità, il nostro avvenire... Non capisci? Avremo un magnifico stipendio... Una cosa meravi­gliosa, ti dico...

Daria                             - Ma scusa. Non si potrebbe trovare qui un posto ugualmente remunerativo?

Dina                              - Ah no. Questo mai. Filippo ed io siamo entusiasti. Pensa, una vita piena d'avven­ture. Sarà come un romanzo. A nessun patto Filippo si lascerebbe portar via questo posto; che tanti non so cosa farebbero per poterlo avere.

Daria                             - Già... E, dopo tutto, è giusto.

Dina                              - Ma cos'hai, mamma?

Daria                             - Nulla, cara, nulla.

Dina                              - Ci vorrà un corredo speciale, sai? Degli stivaloni, dei calzoni di pelle, un'infinità di altre cose... Bisogna mettersi in moto fino da domani.

Daria                             - Va bene.

Dina                              - E siccome le raccomandazioni non sono mai troppe, sai chi potrebbe esserci enorme­mente utile?

Daria                             - No. Chi?

Dina                              - Orbicciani.

Daria                             - Giulio?

Dina                              - Sì. Anzi, Filippo ti sarebbe molto grato se tu volessi telefonargli. Mi ha dato il nu­mero. (Tira fuori dalla piccola tasca della camicetta un fogliettino) Otto sette due. Cin­que nove otto.

Daria                             - È proprio necessario farlo subito?

Dina                              - Sì sì, mamma. Per favore.

Daria                             - Va bene. Come vuoi. (Ella va al tele­fono. Stacca il ricevitore. Ma mentre sta per formare il numero ha come un pensiero im­provviso) Di' un po'... E se te lo portas­sero via...

Dina                              - Chi?

Daria                             - Filippo...

Dina                              - Non dirlo nemmeno per ischerzo, mamma.

Daria                             - Se qualcuno ti dicesse che non dev'es­sere più tuo e tu dovessi cederlo, per for­za... Che cosa faresti?

Dina                              - Ma... Non capisco.

Daria                             - Rispondi. Che cosa faresti?

Dina                              - Ah, non lo so neanche io. Mi ribellerei con tutte le mie forze. Mi sentirei capace di qualunque cosa.

Daria                             - Non è vero? Sarebbe come se qualcuno volesse straparti il cuore e sarebbe natura­lissimo che tu reagissi... (Depone il ricevi­tore del telefono, si avvicina nuovamente alla figlia; dice piano) : Io allora lo feci. Non ti ricordi? Anch'io allora avrei potuto ribel­larmi. Non ci pensai neppure. (Un lungo si­lenzio. Dina riflette).

Dina                              - Mamma, davvero?... Fu così? Oh mam­ma, io non l'ho mai saputo.

Daria                             - Come?

Dina                              - Mai mai, te lo giuro... Io allora non sa­pevo che cosa significasse voler bene a un uomo... Ero persuasa che lui volesse met­tersi fra noi, farci del male... Ero gelosa... ora non so perché ... E poi mi pareva... Ma sì! Mi pareva che tu non potessi soffrire per una cosa di questo genere... Che vuoi, per me non eri una donna come le altre, tu.

Daria                             - E che cos'ero?

Dina                              - ...Mia madre.

Daria                             - Già. (Dopo un istante) Dunque non l'hai mai saputo?

Dina                              - Mai.

Daria                             - E se ora non te lo avessi detto, 'non l'avresti mai saputo?

Dina                              - No.

Daria                             - E avrei fatto tutto quello che ho fatto, inutilmente?... E forse nemmeno ora che pure sei in grado di capire arrivi a immagi­narti fino a che punto io possa aver sof­ferto... per una cosa di questo genere. È incredibile.

Dina                              - Ma che cosa c'è stato di nuovo, perché tu debba sentirti così sconsolata?

Daria                             - (la guarda, le fa una carezza, tenta di sorridere) Nulla. Non c'è stato nulla.

Dina                              - Non è vero. Voglio sapere.

Daria                             -A che scopo? Ormai!... È passato tanto tempo. (Toma all'apparecchio) Che numero hai detto?

Dina                              - Voglio sapere. (Allora Daria mormora con mesta rassegnazione).

Daria                             - Vedi, noi non lo sapremo mai quello che loro hanno fatto, quello che veramente sono stati. Non lo sapremo mai. L'ingrati­tudine, l'egoismo dei figli, tutti luoghi co­muni. La verità è che siamo degli altri es­seri noi. Degli esseri spesso quasi scono­sciuti. Credono d'averci fatto simili a loro; e la vita che ci hanno data è invece una cosa completamente diversa dalla loro, completa­mente staccata. Un'altra vita. Soltanto que­sto. Un'altra vita, creatura mia... (Le due donne restano a guardarsi qualche istante : come se per la prima volta si considerassero, volessero finalmente conoscersi. Ma d'improv­viso Daria si scuote. Dice): Come?... Ah sì, ora mi ricordo: 872-598. Va bene. (Comin­cia a formare il numero).

FINE