Il barone di Gragnano

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IL BARONE DI GRAGNANO

Commedia in tre atti

Di VINCENZO TIERI

PERSONAGGI

BARONE GENNARO DI GRAGNANO, 52 anni

AVV. GUIDO ARVISIO, 45 anni

ING. ANSELMO ATTELLANA, 40 anni

CESARE BACIADONNE

PLACIDO

ANGELA DI GRAGNANO, 35 anni

SETTIMIA DI GRAGNANO, 17 anni

CHIARA ARVISIO, 42 anni

NELLA ATTELLANA, 30 anni

A Milano, oggi

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Una grande sala di soggiorno nel palazzo del barone Gennaro di Gragnano. Ire porte: una a sinistra, una nel fondo e una a destra, ch'è la comune. Mobili ricchi e solidi, di un Novecento mitigato dalla signorilità e dal buon gusto del padrone di casa. Radiogram­mofono nell'angolo di sinistra, telefono an­ch'esso a sinistra presso la ribalta, un piccolo tavolo da gioco a destra, di fronte al telefono. Sono circa le otto di una sera di ottobre. Quando si alza la tela, la radio sta trasmet­tendo « musica riprodotta ».L’avvocato Gui­do Arvisio e l'ingegnere Anselmo Attellana giocano a scopa, mentre Placido, came­riere dei Gragnano, serve loro un aperitivo.

Placido                          - (servendo l'aperitivo a Guido) Mol­to seltz, avvocato?

Guido                            - (di malumore, giocando) Pochissimo.

Placido                          - (dopo aver eseguito, ad Anselmo) E voi, ingegnere?

Anselmo                        - (giocando) Molto. Ho sete. Tutto questo caldo, qua dentro, fa venire una sete tremenda. Troppo presto, per accen­dere il termosifone!

Placido                          - (mescendo il seltz) Il caldo è vita, il freddo è morte. Il signor barone ha pau­ra della morte.

Anselmo                        - Capisco. Ma siamo appena alla metà d'ottobre.

Guido                            - (giocando) Questo asso di denari, me lo becco.

Anselmo                        - (a Guido) Buon prò! (poi a Pla­cido, che sta per andar via) Che aperiti­vo è?

Placido                          - Quello che arriva al signor barone dalla tenuta di Gragnano.

Anselmo                        - (smette di giocare e assaggia l'ape­ritivo) Troppo forte. Ma ottimo. (Lo be­ve tutto, d'un fiato).

Placido                          - Ancora un poco, ingegnere?

Anselmo                        - No, grazie.

(Placido esce per la sinistra).

Anselmo                        - (guardando le carte) Tocca a me?

Guido                            - Ho preso l'asso di denari.

Anselmo                        - Con che?

Guido                            - Spada.

Anselmo                        - (butta le carte sul tavolo) Te la dò per vinta. (Si alza).

Guido                            - Ha ragione don Gennaro; sei una schiappa.

Anselmo                        - Sono una schiappa ma... mange­remo, naturalmente, alle dieci o alle undi­ci. Che ore sono? (Guarda l'orologio).

Guido                            - (guardando anche lui l'orologio) Quasi le otto.

Anselmo                        - Ecco. Ancora due ore, a dir poco. Non so, veramente, come fai tu, che ceni spesso dai Gragnano, ad allungare tanto il collo.

Guido                            - Io frequento questa casa oramai da più di vent'anni e...

Anselmo                        - (lo guarda) Già. Da quando don Gennaro si è stabilito a Milano... da quan­do sposò la Bandella...

 

 (Lieve turbamento di Guido. Entra Ange­la, dal fondo).

Angela                          - Ancora soli? Non è tornato Gen­naro?

Anselmo                        - Secondo il solito... Parlavamo ap­punto di lui e di voi.

Angela                          - (scherzosa) Bene o male?

Anselmo                        - (scherzoso anche luì) Ah, malis­simo. Come si potrebbe parlar bene di voi... che ci fate servire l'aperitivo alle otto per farci cenare non prima delle dieci?

Angela                          - Io sono settentrionale come voi: ce­nerei alle otto. Ma per andare d'accordo con mio marito, bisogna prendere le sue abitudini. Egli esercita su tutti una dolce violenza. E' un gentile tiranno. (Guarda la radio) V'interessa proprio, questa « mu­sica riprodotta » ?

Anselmo                        - No. C'interessa il « giornale-ra­dio » che è imminente. (La « musica riprodotta » finisce, infatti. Si ode il segnale-orario delle venti. Anselmo dice:) Eccolo.

(Mentre suona il segnale-orario, entrano dal fondo Chiara Arvìsio e Nella Attellana).

Nella                             - E', naturalmente, l'ora del giornale-radio, l'ora di mio marito.

Anselmo                        - Un po' di silenzio, ti prego.

Chiara                           - (scherzosa) Siamo tutte orecchi... come gli asini. Ma si può sapere che noti­zia aspettate dal giornale-radio?

Anselmo                        - Sssss!

(Ciascuno siede dove gli capiti; meno An­selmo che si avvicina all'apparecchio della radio).

L'annunciatore della radio             - Abbiamo tra­smesso il segnale delle ore venti. (Breve pausa; poi:) Giornale-radio. Roma: Do­mani si riunirà il Consiglio dei Ministri. Milano: La Federazione dei Fasci di Com­battimento comunica che è stata ritirata la tessera del Partito al comm. Cesare Baciadonne. (Anselmo chiude la radio).

Anselmo                        - Ecco. Che ti dicevo, Guido?

Guido                            - (sempre di malumore) Magra soddi­sfazione.

Angela                          - E perché gli hanno ritirato la tes­sera, a Baciadonne?

Anselmo                        - (reticente sogguardando Guido) Così.

Chiara                           - Povero Baciadonne! Con quel co­gnome... Ma che ha fatto? (Una pausa; poi a Guido:) Guido, che ha fatto?

Nella                             - (dopo una pausa) Ma andiamo, su, non fate i misteriosi! Lo sanno tutù.

Chiara                           - Io no.

Angela                          - Io nemmeno.

Nella                             - Barava.

Anselmo                        - (a Nella, in tono di rimprovero) Nella!

Nella                             - Ma se ne è piena Milano!

Anselmo                        - (a Nella) Piena o non piena, ti prego di non immischiarti di queste cose.

Nella                             - E perché? Oltre tutto, io sono una giocatrice. Vero è che lui barava al Cir­colo, dove io non vado. Ma qualche volta ho giocato con lui dai Castrucci, dai Boamare; e, francamente, averlo saputo pri­ma...

Chiara                           - Curioso. Esistono veramente, i bari?

Guido                            - (con un sospiro) Esistono, esistono...

Chiara                           - (a Guido, dopo averlo guardato, in tono di rimprovero) Baciadonne ha ba­rato anche contro di te?

Guido                            - (reticente, a Chiara) Tu sai che io non gioco.

Chiara                           - Volesse il Cielo!

Guido                            - (irritato) Ma lascia stare il Cielo! Faccio qualche volta la scopa o lo scopone, qui, per far piacere a don Gennaro... Ti sembra giocare, questo?

Chiara                           - (annuvolata) Sarà...

Guido                            - (irritatissimo, si alza) Non « sarà ». E' Basta!

(All'inatteso scatto di Guido, segue un si­lenzio pieno d'imbarazzo).

Angela                          - (per cambiare discorso) Ingegnere Attellana, come va il progetto della nuova casa dei nostri amici Arvisio?

Anselmo                        - (rapido, mentendo) Bene, bene. (E poi, per cambiare discorso anche lui) Ho una fame da lupo, e don Gennaro non si vede.

Angela                          - (che, guardando Anselmo, capisce esserci qualche cosa di nuovo, si rivolge a Chiara) Perché non andiamo a vedere com'è venuto il dolce che tu hai insegnato al cuoco?

Chiara                           - (pensando ad altro) Se vuoi...

Nella                             - Sì, sì, andiamo. Voglio vederlo anch'io.

(Nella si alza; anche Angela; ma Chiara non si muove).

Angela                          - (a Chiara) Vieni?

Chiara                           - (c. s., alzandosi a stento) Andiamo. (Le tre donne si avviano verso la sinistra).

Angela                          - (prima di uscire, a Guido e Ansel­mo) Appena arriva Gennaro, trascinatelo immediatamente in sala da pranzo; se no, povera fame dell'ingegnere!

 Nella                            - (ad Anselmo) O mio marito, hai visto che fama ti sei fatta con la tua fame? (Lo guarda; poi, alzando le spalle) Crede­vo che fosse spiritosa... Pazienza!

Chiara                           - (guardando Guido, amara) Noi don­ne non abbiamo spirito... né nel parlare né nel giocare. (Le tre donne escono).

Anselmo                        - (a Guido) Scusa, sai. Non imma­ginavo che tua moglie... Già, pur sapendo che la notizia doveva essere data, ignora­vo che la dessero proprio stasera.

Guido                            - (nero) Quello che ti raccomando è di non far trapelare l'altra cosa.

Anselmo                        - Eh, diamine! Ho capito. Hai sen­tito, poco fa, quando la signora Angela... Ti dirò, anzi, che il progetto della tua ca­sa io non lo abbandono. Dopo tutto, chi ti dice che...?

Guido                            - Oh, non riprenderò un soldo. Potrò mandarlo in galera, il signor Baciadonne; ma, quanto a riprendere un soldo...

Anselmo                        - Io ho sempre sentito dire che qual­che cosa abbia. D'altra parte, questo milio­ne che ha vinto, dove lo avrebbe messo?

Guido                            - I bari non fanno economia. E poi, figurati, prima che si abbiano le prove le­gali per denunziarlo, prima che i giudici possano riconoscerlo colpevole...

Anselmo                        - Il ritiro della tessera, intanto...

Guido                            - Sì, ha grande valore; ma valore mo­rale, non strettamente giuridico. E intanto lui, anche se ha qualche cosa da parte, troverà tutto il tempo per farla sparire.

Anselmo                        - (ci pensa; poi): Be'; ma insomma, il progetto della tua casa, io lo continuo. Non foss'altro che per buon augurio. Non crederai, per aver perduto alcune centinaia di migliaia di lire al gioco, di esserti ridot­to al lumicino. Un avvocato della tua fa­ma... Su, vecchio, non farmi quella faccia da funerale. Sei il più grande civilista del nostro tempo...

Guido                            - (sorridendo, amaro) Già!

Anselmo                        - Ti farò nominare avvocato anche del Genio Civile!

Guido                            - (c. s.) Già, già! Con quello che dà lo Stato...

Anselmo                        - Poco; ma certo. Tu non giocherai più, se non a scopa o a scopone, in questa casa... dove si cena a mezzanotte... (riguar­da l'orologio).

Guido                            - E' stato un periodo di disdetta ter­ribile. Al tavolo da gioco, e altrove.

Anselmo                        - Che altro t'è successo?

Guido                            - (seguendo il suo pensiero) Al gioco, credo che avrei perduto anche senza l'in­tervento dell'illustre baro. Avrei perduto molto meno; ma insomma...

Anselmo                        - E poi?

Guido                            - E poi, c'è mio figlio...

Anselmo                        - Elio? E che ha fatto?

Guido                            - (reticente) Niente. E' una settimana che ho dovuto mandarlo fuori.

Anselmo                        - Perché?

Guido                            - (sospira; poi): Non è riuscito ancora a laurearsi... e già pensa a...

Anselmo                        - A che cosa?

Guido                            - (cambiando discorso) Hai ragione: fa troppo caldo qui dentro. M'è venuta sete. (Si avvicina all'aperitivo, per berlo).

Anselmo                        - (che lo ha seguito con lo sguardo) Non te lo consiglio. Fa venire più sete. E' tutto alcool.

Guido                            - (con un sorriso amaro) Sai, si beve ' per dimenticare... (Ride; poi beve).

Anselmo                        - (guarda ancora l'orologio) Speria­mo che si mangi anche. E' un modo di di­menticare anche quello: di dimenticare che si ha fame. Non so perché; ma l'au­tunno mi fa questo effetto...

Guido                            - (scherzoso) E l'inverno no?

Anselmo                        - Anche l'inverno; ma...

Guido                            - Va là, va là, che sei una delle maggiori forchette di Milano... in tutte le sta­gioni.

Anselmo                        - Dopo don Gennaro, naturalmen­te... (Una pausa) Ma don Gennaro non si vede. (Rientrano dalla sinistra Angela, Chiara e Nella. Anselmo si rivolge ad Angela):Baronessa, nell'attesa di don Gennaro, non si potrebbe fare uno spuntino?

Angela                          - (accingendosi a suonare un campa­nello) Senz'altro.

Anselmo                        - Ma no, scherzo.

Angela                          - (suonando) E che c'è di male? Vi faccio portare dei panini imbottiti. Imbot­titi, anche, di filosofia; perché sapete che il nostro Placido è filosofo.

Anselmo                        - Filosofassimo, anzi. Lui, quello che serve, lo serve tutto imbottito di filo­sofia. Non so come faccia don Gennaro a sopportarlo.

Angela                          - Ah, ma è lui che lo vuole così. Dice che lo diverte.

Nella                             - Del resto, non c'è vero signore na­poletano che non abbia un amico, Un se­gretario, un servo destinato a rallegrargli in qualche modo l'esistenza. Magari il mo­do di rallegrare che ha Placido è un po' noioso; ma... induce alla meditazione, fa pensare ai gravi problemi della vita. (Entra Placido dalla sinistra).

Angela                          - (a Placido) Fa preparare dei pa­nini imbottiti.

Placido                          - (con intenzione, guardando Ansel­mo) Per il signor ingegnere? (Ridono tutti, meno Anselmo e Placido).

Nella                             - (ad Anselmo) O marito, ti sei lascia­to scoprire da tutti, anche dal filosofo.

Placido                          - (attraversando la scena, per andare a ritirare) i bicchieri dell'aperitivo) Si mangia per vivere. Il signor ingegnere ha giustamente sete di vita.

Anselmo                        - (ridendo) E perché non addirittu­ra fame di vita? (Poi, facendo segno agli altri, come per indurre Placido a fare sfoggio della sua cultura) Placido, chi l'ha det­to che bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare?

Placido                          - (attendendo alle sue cure) Quinti­liano. Ma egli non ha detto che bisogna mangiare per vivere. Ha detto semplice­mente « mangio per vivere ». Erano fatti suoi.

Angela                          - (facendo anch'elio, segno agli altri, come Anselmo) Allora tu ammetti che si possa anche vivere per mangiare.

Placido                          - « Magna cura cibi, magna virtutis incuria ».

Angela                          - E che vuol dire?

Placido                          - « Dove si cura il cibo, ivi si cura poco la virtù ». (Angela ride falsa).

Anselmo                        - E questo chi l'ha detto?

Placido                          - Ammiano Marcellino.

Nella                             - E chi è?

Placido                          - Uno storico latino, signora. (Riat­traversa la scena per uscire dalla sinistra).

Anselmo                        - Vissuto quando?

Placido                          - Fra il tre e il quattrocento dopo Cristo, ai tempi di Giuliano l'Apostata, quello che lasciò scritto « Il banchetto dei Cesari ».

Anselmo                        - Chi sa che banchetto, quello, eh?

Placido                          - (fermandosi, con un sorriso ironico) Oh, si tratta di un banchetto metaforico.

Anselmo                        - Come il nostro di stasera? (Ride).

Placido                          - In casa del signor Barone di Gragnano i banchetti non sono mai metafo­rici. Gragnano è celebre, per la sua pasta e per i suoi vini, ed appartiene quasi tutta al signor Barone.

(Placido dice queste parole quasi sulla so­glia della sinistra. Tutti gli altri sono volti verso Placido, divertendosi. Ed ecco che, appena Placido ha pronunziato l'ultima parola, entra dalla destra Gennaro di Gra­gnano: allegro ma flemmatico; contento di se; elegantissimo coti qualche nota lie­vemente vivace; dalla pronunzia napoleta­na e dall'eloquio ricco di parole e cadenze dialettali).

Gennaro                        - (guardando Placido) A me? Giesù! E che sono Roscilde? (Tutti si voltano a guardarlo. Egli con­tinua): Volete vedere che questo mio signore (ac­cenna a Placido) con la sua capa fresca mi fa venire qua diritto diritto l'agente delle imposte? Neh, tu che canchero mi conti, Placidi? Qua' padrone di tutta Gragnano? Quella, Gragnano, è una metropoli. Sì e no, io ci tengo tre o quattro casette scas­sate e un palmo di terreno per la sepoltu­ra... (Poi a tutti, con altro tono) Con cento anni di buona salute a tutti voi... (Si av­vicina a Nella, le prende una mano) Signò, buona sera.

Nella                             - Buona sera, don Gennaro.

Gennaro                        - State una bellezza. (Sempre te­nendole la mano, si rivolge ad Anselmo, come per invidiargli la moglie) Eh, don Anse', zompa chi può... (Poi si avvicina a Chiara e le prende una mano) Donna Chiara bella...

Chiara                           - (sempre un po' annuvolata, sorriden­do a stento) Caro don Gennaro.

Gennaro                        - Donna Chià, vi vedo un poco stranita. (Guarda Guido) V'avesse fatto qualche torto questa capa all'erta del mio amico Guido? (Poi a Guido) Neh, Guì, lo vuoi capire che per noi è sonata l'ora della ritirata? (Poi, con un comico inchino, ad Angela) Signora baronessa... Padrona mia...

Angela                          - (rispondendo al saluto, scherzosa) Serva vostra, signor barone...

Gennaro                        - (come liberato da un peso, quasi fra se) Oh! Mi pare di aver fatto i con­venevoli a tutti. (Poi guarda Placido) Neh, Placidi' e tu, dopo avermi fatto proprie­tario universale di Gragnano, sei rimasto impalato sopra la porta? Qua vulimmo magna. (Guarda Anselmo) E' vero, don Ansè?

Anselmo                        - Direi...

Placido                          - Tutta la storia umana attesta che la felicità dell'uomo dipende molto dal pranzo...

Gennaro                        - (accennando a Placido) 'O 'i lloco, 'o filòseco e' 'a capa 'e mbrella... Vattenne, Placidi. ‘A filosofia, di mattina, quan­do mi aiuti a vestirmi, o quando mi fai compagnia nello studio... Ma ccà, mo', vu­limmo magnà.

Placido                          - Vado, signor barone. (Esce per la sinistra).

Gennaro                        - Giesù! Che fissazione che tiene quest'uomo! Io lo lascio dire, per divertir­mi, quando sto solo; e nun le dò manco aurienzia. Ma isso tiene aperto il rubinet­to dell'eloquenza notte e giorno. Pare quel tale che si credeva superiore a Platone perché aveva letto cinquecento volte « I Reali di Francia ». « Vi' c'avarraggio lietto cincuciento vote li Riali de Franza: aggio cultura assai dint'a sta panza ». (Ride; siede; poi ad Angela) Angeli', ci vuoi far portare un aperitivo?

(Gli altri rispondono quasi contemporanea­mente).

Nella                             - No, grazie.

Chiara                           - Io non bevo.

Anselmo                        - L'abbiamo già preso.

Guido                            - Grazie. Abbiamo bevuto.

(Gennaro, udendoli parlare contempora­neamente, li guarda.

Gennaro                        - (commentando) E ch'è? Il coro dei Lombardi? (Ride; poi:) Vi prego, as­settatevi, che vi debbo raccontare un fatto.

                                      - (Anselmo siede guardando verso sinistra nella speranza che qualcuno venga a chia­mare per il pranzo. Guido siede un po' in disparte. Le tre signore si avvicinano a Gennaro).

Nella                             - E' un fatto un po' piccante?

Gennaro                        - Non vi posso servire, signò'. (Poi, ad Anselmo, scherzoso) Anse', ti prego di notare che tua moglie va cercando fatte­relli col pepe.

Anselmo                        - Io, un po' di pepe, stasera, lo gra­direi nella pasta asciutta.

Gennaro                        - (ad Anselmo, con malizia) Ah, be'! A questo punto siamo? (Poi, a Nella, con malizia) Signò, a questo punto è?

Nella                             - (ride).

Anselmo                        - (a Nella, ridendo anche luì) Nel­la, e tu non mi difendi?

Nella                             - Ma sì, ma sì, ti difendo... Lasciami sentire questo fatto...

Gennaro                        - ... non piccante, signò! Qua l'ul­timo fatto piccante è quello eh'è successo in casa mia...

(Lieve, mal dissimulata sorpresa di Nella e di Anselmo, che guardano Angela e Guido).

Angela                          - (turbata) Ma che fatto, Gennaro?

Gennaro                        - Giesù! Quello della cameriera e del giardiniere...

Angela                          - Ah! Ecco.

Gennaro                        - (agli altri) Come? Non lo sapete? La cameriera ha reso padre il giardiniere. (Poi giustificando) D'altra parte questa po­vera servitù non è fatta pure lei di carne e d'ossa? Lavora, dorme, magna, beve... neh, pe' sape, e non deve fare nient'altro?

Anselmo                        - Sempre misericordioso, tu!

Gennaro                        - Onesto, Anse. Onesto. Equanime. (Una pausa). Dunque, veniamo a questo ratto che vi voglio raccontare. Dovete sa­ere che stavo tornando a casa con mia glia Settimia... (guarda verso destra) A proposito, dov'è andata? (Dalla destra entra Settimia).

Settimia                         - (a tutti) Buona sera.

(Settimia va verso le signore per salutarle. Anselmo e Guido si alzano).

Chiara                           - (dando la mano a Settimia) Buona sera.

Settimia                         - Buona sera, signora. (Poi, a Nel­la) Buona sera.

Nella                             - (a Settimia, dandole la mano) Cara Settimia.

Settimia                         - (si avvicina ad Angela) Buona sera, mamma. (Le offre la fronte).

Angela                          - (baciando in fronte Settimia) Fi­glia mia.

Settimia                         - (volgendosi poi ad Anselmo e a Guido) Buona sera, ingegnere; buona se­ra, avvocato.

Gennaro                        - (che ha seguito la figlia con lo sguardo evidentemente affettuoso e com­piaciuto, si accorge ora che Guido e An­selmo si sono alzati in piedi e dice loro:) E che? Vi siete alzati in piedi? Me la vo­lete proprio invecchiare, la mia Settimia? Chella è 'na piccerella... (E poi, a Settimia, mentre Guido e Anselmo siedono) E papà? Non si saluta papà?

Settimia                         - Ci siamo lasciati due minuti fa...

Gennaro                        - Embè, voglio essere salutato pu­re io.

Settimia                         - (avvicinandosi, con tono scherzoso) Buona sera, papà.

Gennaro                        - Più vicina!

Settimia                         - (si avvicina ancora) Così?

Gennaro                        - Damme 'nu vasillo, va'!

Settimia                         - (offrendogli la fronte) Ecco.

Gennaro                        - (dopo aver fatto schioccare un ba­cio) Ah! Mi sento ricreare. Scusate tutti.

Anselmo                        - Don Gennaro, voi la viziate, que­sta bella signorina...

Gennaro                        - (guardando con profonda tenerezza la figlia) Giesù! Signorina! Non mi pare vero... E chi sa, poi, come hai fatto a crescere tanto! Lo sai o non lo sai, che sei nata di sette mesi?

Angela                          - (rapida) Gennaro! Ma raccontaci, dunque, questo fatto.

Gennaro                        - (sempre affettuosissimo, prendendo una mano della figlia) Lo sai che sei na­ta di sette mesi? (Malumore di Angela).

Settimia                         - (infantile) Papà, me lo ricordi sem­pre... Mi dispiace.

Gennaro                        - Be', e che male c'è? T'ho chia­mata Settimia apposta; per poterti chiama­re diminutivamente Settimina. E, d'altra parte, se nascevi di nove mesi, a quest'ora quant'eri grande? Tu cresci a vista d'oc­chio, figlia mia. (Sorride, contento) Dam­me n'atu vasillo, va'.

Settimia                         - (si piega a baciarlo più volte, affet­tuosamente sulla gota) Va bene così?

Gennaro                        - (nuovamente, con un sospiro di sod­disfazione) Ah!

(Settimia si allontana, va a mettersi in pie­di dietro le signore. Gennaro la segue an­cora con lo sguardo).

Gennaro                        - Dunque, stavamo dicendo... (Rientra dalla sinistra Placido).

Placido                          - (ad Angela) Signora baronessa, i panini imbottiti sono pronti. Debbo ser­virli qui?

Gennaro                        - I panini imbottiti? Neh, pe' sape! Facciamo una merenda in campagna?

Angela                          - (sorrìdendo, a Gennaro) Ma no! Siccome temevamo che tu tardassi...

Gennaro                        - (si alza) Aggio capito, va'. Iammo a magna. Qua, grazie a Dio, l'appetito non fa difetto a nessuno. Con la buona salute! (Guarda Anselmo, che s'è alzato subito dopo di lui) E, per ordine d'appetito, pas­sa tu, Anse'... ,

Anselmo                        - (con intenzione) Dopo di te, caro don Gennaro.

Placido                          - Debbo rispettosamente avvertire che solo i panini sono pronti. Per il pranzo occorre per lo meno un quarto d'ora. Il cuoco non immaginava che il signor Ba­rone sarebbe rientrato così presto...

Gennaro                        - E già! Io sono una locomotiva in ritardo! Va', vattenne, Placidi', vattenne...

Placido                          - Vado, signor Barone. (Esce).

Angela                          - Io propongo una cosa: ehi vuole i panini, vada a mangiarli; chi non li vuole, stia a sentire il fatto che vuol raccontare Gennaro. Tanto, lo so, Gennaro mio, che tu ancóra non hai appetito. E' troppo pre­sto, per te, vero?

Gennaro                        - 'A verità, non tengo ancora fame per niente. Ma, come si dice?, gli ospiti sono sacri. Qua ci sta don Anselmo Atrellana che si mangerebbe per fame pure l'ostia consacrata... naturalmente con la buona salute...

Anselmo                        - (scherzoso) Non raccolgo insinua­zioni. Preferisco panini imbottiti. (Esce per la sinistra).

Gennaro                        - (con un inchino scherzoso e ami­chevole) Con la buona salute, Anse'.

Angela                          - (seguendo Anselmo) Io vado a te­nergli compagnia.

Gennaro                        - (e. s.) Buon prò', signora baro­nessa.

Settimia                         - (seguendo Angela) Io pure, papà.

Gennaro                        - E che? Mo' mi volete abbando­nare solo in mezzo a una via? (Anselmo, Angela, Settimia sono usciti).

Nella                             - Vi facciamo compagnia noi, don Gennaro.

Gennaro                        - Grazie, signora bella.

Chiara                           - Purché ci raccontiate questo fatto, naturalmente.

Gennaro                        - (guarda Guido) Neh, Guì, tu pu­re vuoi sentire il fatto?

 Guido                           - (avvicinandosi, svogliato) E perché no?

Gennaro                        - (scherzosamente ironico) Grazie dell'onore! (Poi, alle signore) Questo, poi, fa cadere tutto dall'alto, come se fosse il Padreterno in persona... (Poi, con altro tono) E' un fatto curioso, sapete? Tutte a me mi debbono capitare. Io glie lo dico sempre al Signore: « Signò, chiste che vónno 'a me? Chiste, a me, m'hanno 'a fa' campa! ». Niente. Il mondo è mala­mente assai. Non mi vogliono far campa­re. Però io campo. Io sono napoletano. So­no nato in un paese che le sa tutte, le ha viste tutte, signore mie. Il napoletano è filosofo per natura. Guerre, rivoluzioni, guai, niente lo turba. Napoli meriterebbe di essere promossa a capitale del mondo, signò. E scusate la disgressione. Dunque, stavo tornando a casa insieme con quella piccerella mia, che più anni passano e più me la porterei sul petto come un abitino...

Guido                            - Gennaro mio, cerca di venire al fatto...

Gennaro                        - Embè, ci sto venendo, Guì, abbi pazienza. Che?, ti debbo dire un fatto di questo genere in tre parole? Ma voialtri settentrionali siete curiosi overamente! Che gusto c'è a raccontare un fatto in tre paro­le? Cesare mandò a dire ad Aminzio « veni vidi vici »; ma poi ci scrisse sopra fiumi di parole; se no, chi ci credeva? (Si ferma) 'O 'i lloco! Mi fate perdere il filo, e" poi... (alle signore) Abbiate pazienza, signò. Dunque, stavo tornando a casa, e chi incontro? Cesare Baciadonne.

Nella                             - Il baro.

(Chiara e Guido si turbano. Gennaro li guarda, poi domanda a Nella):

Gennaro                        - Come, il baro?

Nella                             - E non lo sapete? Gli hanno tolto la tessera del Partito perché barava. Lo ha detto poco fa la radio.

Gennaro                        - Voi che mi dite, signò!

Chiara                           - (guardando di traverso il marito) E chi sa quante famiglie ha rovinato!

Gennaro                        - Giesù, Giesù! Pure questo? (Guarda Guido; poi, con aria di compati­mento) D'altra parte, quello che doveva fare per mangiare? Non ha né arte né par­te. Non possiede una lira da quando è na­to; campa tirando la recchia a Marco. Si capisce.

Guido                            - (a Gennaro) Tu, naturalmente, sei sempre pronto a giustificare i malfattori...

Gennaro                        - « Homo sum: humani nihil a me alienum puto ».

(Nel frattempo è entrato Placido dalla si­nistra).

Placido                          - (traducendo il latino) « Sono uomo e nulla di quanto è umano credo a me estraneo ».

(Una pausa. Poi Placido continua): Lo ha detto Terenzio. (Un'altra pausa).

Gennaro                        - (come fra se) Eh, adesso capisco tutto. Quello è venuto in faccia a me e m'ha detto: « So che ti sei accordato con i miei nemici ». « Io? Giesù! Qua' nemici, Cesari? » « Li ricevi tutti i giorni in ca­sa! ». (Poi, riflettendoci, guarda gli altri) Neh, pe' sape, avesse fatto imbrogli anche contro qualcuno di voi? (Un'altra pausa).

Placido                          - Mi permetto di avvertire che la si­gnora baronessa, la signorina Settimia e l'ingegnere Attellana reclamano la vostra presenza in sala da pranzo.

Nella                             - (a Chiara, alzandosi) Andiamo, Chiara.

Chiara                           - (seguendola, sdegnata) E' meglio.

Nella                             - (volutamente scherzosa) Andiamo a mangiare anche noi i panini imbottiti.

Placido                          - (lasciando passare le signore) Freuerbach diceva: «L'uomo è ciò che man­gia ». Il che non vuol dire, naturalmente, che, in questo caso, le signore siano pani­ni imbottiti... (Le signore sono uscite. Placido guarda Gennaro e Guido che sono rimasti fermi e silenziosi; poi dice): Signor barone, ancora sette minuti per il pranzo. Debbo servirvi l'aperitivo?

Gennaro                        - (distratto, acconsentendo) Eh!

Placido                          - (guardando Guido) Anche al si­gnor ingegnere?

Guido                            - (seccato) Ma no! L'ho preso.

Placido                          - « Repetita juvant ». (Non riceve alcun cenno d'attenzione, dice fra sé) Il principe de Ligne diceva: « Mi piacciono le persone distratte: è segno che hanno delle idee e che sono buone, perché i cat­tivi e gl'imbecilli non perdono mai la loro presenza di spirito ». (Guarda ancora Gen­naro e Guido; poi, come rassegnato) « Il silenzio è, dopo la parola, il secondo po­tere del mondo »: pensiero di Lacordaire. Vado. (Esce),

Guido                            - (a Gennaro, dopo un silenzio) Non potevi scegliere un argomento più imba­razzante per me, dinanzi a mia moglie...

Gennaro                        - Bello mio, e che ne sapevo? Tu al gioco non sei certo una schiappa. An­selmo, magari, sì, schiappa e mezza. Lui è un ingegnere, e un ingegnere, abituato alle scienze esatte, è naturalmente alieno dall'imbroglio: il gioco delle carte è sem­pre un imbroglio. Ma a te, abituato a im­brogliare come avvocato, che tempo ti ri­mane d'imbrogliare come giocatore?

Guido                            - Meno male che giustifichi anche me. Tu giustifichi tutti: il baro e il perditore...

Gennaro                        - Hai perduto assai?

Guido                            - Tutto.

Gennaro                        - Giesù! Sei rimasto muro a muro con l'ospedale?

Guido                            - Se ti pare che la frase napoletana sia più pittoresca...

Gennaro                        - (dopo un breve silenzio) Ma quel­lo che non mi posso spiegare è l'aria di guappo con la quale questo mio signore se n'è venuto' in faccia a me e mi ha detto quelle parole. Neh, di grazia, che c'entro io? Io me ne tornavo per i fatti miei, a casa mia, con mia figlia... Quella piccerella tremava come una canna... Tu vedi un po­co com'è la gente! Dice: «So che ti sei accordato con i miei nemici». Dice: «Li ricevi tutti i giorni in casa ». E che? Deb­bo rendere conto anche di questo? Dice: « Ricordati che io non bado a colpi, quan­do combatto ».

Guido                            - (turbato) Che voleva dire?

Gennaro                        - Lo sai tu? Io no. « Non bado a colpi quando combatto». E chi è? Rinal­do paladino? Con me, poi, che mi faccio i fatti miei... Me dispiace ca chella picce­rella tremmava comm' a na foglia... Se non era per lei, gli facevo una faccia di schiaf­fi, così.

Guido                            - Dopo di che, se hai ancora l'animo di giustificarlo...

Gennaro                        - (scrollando le spalle) Giustifico, giustifico... So' n'ommo: c'aggio 'a fa'? Non sono nato per fare il giudice. Tu cre­di che un uomo possa stare tutta la vita senza vedere la faccia della lira? Be', e Cesare Baciadonne, se non vincesse al gio­co, si morirebbe della santissima fame. Óra chi vince al gioco? Chi 'mbroglia. Tu che sei un vecchio giocatore, lo dovresti sape­re. Perché ti metti a giocare con lui? Chi t' 'o ffa fa? (Dopo una pausa) Capisco che con qualcuno bisogna pure giocare, e chi ha questo vizio... Tu sei un uomo perfet­to in tutto; ma qualche vizio, lo devi pure avere, sì o no? Un uomo senza qualche vizio non lo saprei concepire. E qua ci vor­rebbe il nostro filosofo Placido per... (Entra Placido, portando l'aperitivo. Gen­naro continua): 'O 'i lloco, « Lupus in fabula ». Neh, Pla­cidi, dicci qualche cosa sui vizii degli uo­mini. (E intanto prende dal vassoio l'ape­ritivo).

Placido                          - (tenendo il vassoio) Di La Roche-foucauld?

Gennaro                        - (bevendo) Eh! Ma bada, Placidi, che Laroscefucolde lo sanno pure le pietre della via. Quello è un filosofo da quattro un soldo.

Placido                          - Allora di Groc? Di Chesterfield? Di Seneca?

Gennaro                        - (scherzoso) Fa' tu. Che t'aggio 'a dì? Tu sai tutto. Tu parli sempre come un libro stracciato.

Placido                          - Ancora per poco, signor barone. Bisogna che io vi preghi di dispensarmi dall'onore di servirvi.

Gennaro                        - (senza dar peso alle parole di Pla­cido) E ch'è succiesso, Placidi?

Placido                          - E' successo quello che non doveva succedere, signor barone. Mi sono riconci­liato con mia moglie.

Gennaro                        - Ah, complimenti. Embè?

Placido                          - Voi sapete, signor barone, che mi ero deciso ad abbandonare gli studi filo­sofici per assumere l'ufficio di servo, dopo un infortunio coniugale.

Gennaro                        - Perché? Le corna sono contro la filosofia ?

Placido                          - Per chi le accetta, no. Per chi non le accetta... provocano il crollo di tutti i sistemi filosofici.

Gennaro                        - Di modo che tu adesso le accetti, e ti rimetti a fare il filosofo?

Placido                          - Appunto, signor barone.

Gennaro                        - Neh, pe' sape', e come magni, Placidi?

Placido                          - Mia moglie ha un negozio di mo­disteria.

Gennaro                        - E ti metti a mangiare alle spalle di tua moglie?

Placido                          - (con intenzione) Il destino dei filo­sofi è quello di mangiare alle spalle di qualcuno.

Gennaro                        - Pure alle spalle di una femmina?

Placido                          - Perfino il codice lo ammette, quan­do l'uomo sia. invalido.

Gennaro                        - E tu, che invalidità tieni?

Placido                          - La vecchia]a, signor barone: la più grave di tutte le invalidità.

Gennaro                        - (rimettendo il bicchiere sul vassojo) Va', vattenne, Placidi, vattenne.

Placido                          - Per obbedire. (Esce).

Gennaro                        - (a Guido) Nun 'o da' retta. Quel­lo, da giovane, è stato in una casa di sa­lute. Ma sai com'è? E' un pazzo tranquillo, 'mpapocchia massime e sentenze per di­vertirmi come un re delle favole; e io lo tengo, perché mi diverte.

Guido                            - (amaro, ironico) D'altra parte, un po­vero pazzo si può lasciare in mezzo a una via?

Gennaro                        - (lo guarda) Tu vuoi ironizzare le mie teorie? Quello, Placidino, è parente di un mio compare: di buonissima famiglia. Ha solamente la fissazione di essere nato servo: è una fissazione che gli è venuta studiando filosofia. Basta fargli fare il ser­vo, e non fa male a nessuno. Lo dovevo fare uscire pazzo completamente? Fa' bene e avarrai bene. Tutti abbiamo diritto di campare. Ma a te le mie teorie non vanno a genio. Tu sei un uomo di parte. Parteg­gi. E parteggia, Guì. Che ti debbo dire? Così, parteggiando parteggiando, Cesare Baciadonne si pappa al gioco tutto il tuo oro liquido, tuo figlio Elio ti scappa di casa...

 Guido                           - Non esagerare. Tu sai che non è scappato. L'ho mandato io in casa di mio fratello.

Gennaro                        - Quello se ne sarebbe andato an­che senza il tuo permesso. Come padre, certo, non ti posso dar torto. Un padre si deve pure fare rispettare. Ma, dopo tutto, quel povero guaglione che aveva fatto? Non era passato agli esami. Neh, Guì, par­liamoci col cuore in mano. Quelli, gli esa­mi, sono un residuo di barbarie. Un po­veretto dovrebbe ricordarsi di tutto quello che passa in un certo momento nella capa del professore. Se un professore dovesse so­stenere gli esami lui, sa' quante sciocchez­ze 'mpapocchierebbe?

Guido                            - (seccato, avviandosi verso la sinistra) Sta bene, sta bene. (Esce).

Gennaro                        - (lo segue con lo sguardo, ride, poi dice fra sé) Ha preso cappello... E' un benedetto uomo che prende sempre cap­pello. Fa fare denari al senatore Borsalino. (Dalla destra giunge improvvisamente la voce di Elio).

Elio                               - (sottovoce, dal di dentro) Permesso?

Gennaro                        - (guardando verso la destra) Chi è?

Elio                               - (entrando; sempre sottovoce) Sono io, don Gennaro.

Gennaro                        - (meravigliato) Elio? Tu? E io stavo parlando proprio adesso di te con tuo padre...

Elio                               - (interrompendolo, sempre piano) Sss... Vi prego: sottovoce.

Gennaro                        - Neh, guagliò, che misteri sono questi?

Elio                               - Perdonatemi, don Gennaro; ma ho bi­sogno di parlarvi. Permettete che chiuda la porta. (Va verso la sinistra, chiude).

Gennaro                        - (seguendolo con lo sguardo) Giesù! E che siamo? Dei congiurati?

Elio                               - Mio padre e mia madre non sanno che sono qui. Ho pregato il portiere di non dirlo a nessuno. Soltanto Settimia lo sa. Io ero chiuso nel vostro studio, l'aspettavo.

Gennaro                        - (sbalordito) Aspettavi Settimia? (Turbato) Neh, e perché?

Elio                               - (imbarazzato) Non so se adesso ho il tempo di dirvi tutto: voi dovete andare a pranzo... Ma, se credete opportuno che io vi aspetti nello studio...

Gennaro                        - (fissandolo, per capire) E che? Il mio studio, adesso, è diventato la catacom­ba dei carbonari?

Elio                               - Vi chiedo perdono un'altra volta, don Gennaro; ma debbo parlarvi a quattr'occhi.

Gennaro                        - (con qualche presentimento) E fatte asci 'a voce, guagliò...

Elio                               - Ma forse ora non c'è tempo...

Gennaro                        - E' una cosa lunga?

Elio                               - (imbarazzatissimo) Non lunga... Ma... non so da che parte incominciare...

Gennaro                        - Tutte a me mi debbono capitare. E va be': aspettami nello studio.

Elio                               - (avviandosi verso la destra) Grazie. Scusate. (Esce).

(Gennaro, pensieroso, va verso la sinistra, suona un campanello. Subito entra Pla­cido).

Gennaro                        - (a Placido, sempre pensieroso) Placidi, chiamami un poco mia figlia Set­timia.

Placido                          - Il pranzo è quasi pronto, signor barone.

Gennaro                        - (sempre pensieroso) E va buono! Chiamami Settimia.

Placido                          - Voi sapete che senza di voi gli ospi­ti non siedono a tavola.

Gennaro                        - (c. s.) E dille che magnassero, va'. Io mo' non tengo fame.

Placido                          - Sta bene. Dirò al cuoco che i mac­cheroni li faccia a timballo. Così passerà qualche minuto. Madame Amiel-Lafeyre diceva che i minuti sono lunghi e gli anni sono brevi.

Gennaro                        - (sempre pensieroso, senza muover­si) Fa' 'a 'mpressa, Placidi.

Placido                          - Per obbedire. (Esce).

(Una pausa- Gennaro è volto verso la ri­balta, immobile. Dietro di lui, Settimia si affaccia sulla soglia della sinistra).

Settimia                         - (senza muoversi ma come una che già sa di che si tratta) Che c'è, papà?

Gennaro                        - (anche lui senza muoversi) Trase. Entra.

Settimia                         - (avanzando, con un sorriso) Mi fai la traduzione della parola «trase», en­tra. Credi che non capisca il napoletano?

Gennaro                        - (si volta, la guarda, le sorride te­neramente; poi, come pentito di quello che voleva dirle) Ci credi che t'ho fatta chiamare, e mo' non mi ricordo più di quello che ti volevo dire? (La prende af­fettuosamente per le braccia) Damme 'nu vasillo, va'. (La bacia).

Settimia                         - (maliziosa e timida allo stesso tem­po) E che cosa mi volevi dire, papà?

Gennaro                        - (lievemente annuvolato, guardando­la) Niente. (Una pausa; poi) Tu si an­cora tanto piccerella...

Settimia                         - Ma no, papà! Dimmi pure...

Gennaro                        - (comprendendo che lei ha compre­so, la guarda con gioia e dolore insieme) ~. Ma allora... sei fatta grande overamente? Giesù! Non ci posso pensare.

Settimia                         - Ma pensaci, papà! Si capisce che sono fatta grande... (Abbassando gli occhi) Forse t'ha parlato... Elio?

Gennaro                        - Elio? E che mi doveva dire Elio? Quello sta fuori dallo zio...

Settimia                         - (diventando rossa, e improvvisa­mente guardando verso la destra) Ah! Ma allora... (Ritmane voltata dall'altra parte, abbassa il capo).

Gennaro                        - (volgendo gli occhi a Settimia, lentamente arriva con lo sguardo alla porta di destra, ha l'impressione di vedere dietro la porta qualcuno, fa alcuni passi fino alla porta, guarda meglio, poi dice, parlando verso l interno) Ah, tu nello studio mi stai aspettando, eh?

Settimia                         - (capisce che dietro la porta c'è Elio, si volta su se stessa, esce rapida per la si­nistra, non riuscendo a nascondere la sua gioia e il suo turbamento).

Gennaro                        - (accorgendosi della fuga di Settimia, prima si volta verso la sinistra per do­ve Settimia è uscita, poi torna a guardare nell'interno della destra e dice con tono se­vero) Si' 'nu bello galantomo, guagliò! Trase, trase! (Elio entra. Gennaro continua): Pure le pulci, adesso, hanno la tosse! Sen­tiamo che cosa mi volevi dire!

Elio                               - (con più coraggio) Quello... che vi ha detto Settimia.

Gennaro                        - Niente. Non m'ha detto niente. 'A voce te l'è a fa' asci tu, guagliò!

Elio                               - Io e Settimia ci vogliamo bene. Ci vo­gliamo sposare.

Gennaro                        - Ah! Be'! Niente altro?

Elio                               - Niente altro.

Gennaro                        - Ma tu vedi il Padreterno! Tutte a me mi debbono capitare. Due franfillicchi che ancora gli sa la bocca di latte...

Elio                               - Ho venticinque anni. E Settimia di­ciassette.

Gennaro                        - E già! Due Matusalemmi! (Una pausa. Egli si muove per la sala, parla fra sé) D'altra parte, c'aggio 'a fa? So' guagliune- Se vónno bene... (Si rivolge nuovamente a Elio) E questa pensata l'hai fatta così, improvvisamente?

Elio                               - L'abbiamo fatta insieme.

Gennaro                        - Tu e lei?

Elio                               - Sì.

Gennaro                        - (guardando verso la sinistra) E quella che mi faceva la santarella! (Poi a Elio) Ma tu ti vuoi accasare, senza aprire un libro... La laurea, te la prendi in mano a quello! Tuo padre, poverommo, è co­stretto a cacciarti di casa perché non vuoi studiare!

Elio                               - Mi sono laureato, don Gennaro.

Gennaro                        - Come, ti sei laureato? Quello, tuo padre ha un diavolo per capello. Una scartoffia ci vuole, sì o no, nella vita? (Poi fra sé) Va bene che io non ne ho nessuna; e campo lo stesso.

Elio                               - Vi assicuro, don Gennaro. Mi sono laureato.

Gennaro                        - E tuo padre era scimunito, che ti cacciava di casa con. una laurea in tasca?

Elio                               - Mi ha cacciato perché non vuole che io mi sposi.

Gennaro                        - (stupito) Ah, be', e dimmi tutto, allora. (Lo guarda come per capire).

Elio                               - Non vuole che io mi sposi con vostra figlia.

Gennaro                        - (ancora più stupito) Ah! Non vuo­le... ma non in linea generale... Non vuo­le... (Turbato e offeso) E pecche, neh! Ha paura di farci troppo onore?

Elio                               - No... Anzi... Forse... ha paura che Settimia... sia troppo giovane...

Gennaro                        - Giesù! Quella ha diciassette anni e a momenti ne dimostra il doppio. Sono io, in tutti i casi, che dovrei... (Si ferma) Be', sai che ti dico, guagliò. Mo' vattenne. Eàmmici pensare. Se è destino...

Elio                               - (con la gioia negli occhi) E' destino, è destino.

Gennaro                        - Tu vedi il Padreterno! Quello sa pure mo' che è destino! (Lo guarda con simpatia) E avresti il coraggio di entrare là dentro e di dirmi le stesse cose vicino a tuo padre?

Elio                               - Sì.

Gennaro                        - (lo guarda con sempre maggiore simpatia; poi tra se) Me piace, 'o guaglio­ne... All'età sua, pure io ero così. (Si ri­volge nuovamente a Elio) E trase, tra'! Entra nella sala da pranzo. Vediamo come te la cavi.

Elio                               - Me la caverò benissimo. (Muove, di­ritto verso la sinistra; si ferma, si rivolge a Gennaro) Ma è stabilito che voi siete d'accordo con me.

Gennaro                        - (volgendo gli occhi al cielo) Pa­rete, Padreterno mio, tu vedi che mestiere mi tocca di fare all'età mia! (E poi a Elio) Trase, tra'! (Ed esce, dopo di lui, per la sinistra).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Un salotto attiguo alla sala da pranzo, nel palazzo di Don Gennaro di Gragnano. Lo stile del salotto è uguale a quello della sala di soggiorno. Una porta, a destra, dà nella sala da pranzo. Un'altra porta, nel fondo, conduce verso l'anticamera. Sono le dieci di sera, della stessa sera in cui si è svolto l'atto precedente.

Quando si alza la tela, la scena è vuota; ma il ricevitore dell'apparecchio telefonico ch'i su un tavolino presso la ribalta è staccato dall' apparecchio; e, dopo qualche secondo, entra dalla destra Placido, che va diretta­mente al telefono.

Placido                          - (al telefono) Pronto? La signora baronessa ha appena finito di pranzare. Viene subito... No, diamine! L'ho avver­tita con la dovuta discrezione, secondo il vostro desiderio... Sì, sono tutti nella sala da pranzo, anche il signor barone. (Guar­da verso la destra) Ecco la signora baro­nessa.

Angela                          - (dalla destra) Chi è dunque?

Placido                          - (coprendo il microfono) Il comm. Cesare Baciadonne. Ve l'ho detto, mi pare.

Angela                          - Non avevo capito. Parlavi con una voce...

Placido                          - Mi era stato ordinato il massimo segreto, signora baronessa.

Angela                          - (avvicinandosi e sorridendo) Oh, perbacco! E che sarà? (Prende il microfo­no dalle mani di Placido) Pronto?... So­no io.

Placido                          - (correndo verso la destra e chiuden­do la porta) Ecco. Segreto assoluto. (Si ferma dinanzi alla porta).

Angela                          - (al telefono) Vi assicuro. Non sono informata affatto. Gennaro non mi ha mai parlato dell'incidente che dite voi... Ma è la prima volta che chiedete questo permes­so, caro commendatore. Che bisogno c'è? Venite quando volete... Ho capito... Ho capito... Ma no, ma no! Come potete credere che Gennaro ce l'abbia con voi? Non ce l'ha mai con nessuno.. Bene, se volete così, lo avverto... Nessun disturbo, caro commendatore. Vi richiamerò io. Arrive­derci. (Depone il microfono, guarda Pla­cido sopra pensiero) Ma che cos'è questo incidente che Gennaro avrebbe avuto con Baciadonne?

Placido                          - Ignoro, signora baronessa.

Angela                          - Prega il barone di venire qui.

Placido                          - Subito, signora baronessa. (Si vol­ta; si ferma) Debbo servire il caffè qui, oppure in sala da pranzo?

Angela                          - Meglio in sala da pranzo.

Placido                          - Anche i liquori?

Angela                          - Sì.

Placido                          - Debbo illuminare, per dopo, il giar­dino d'inverno?

Angela                          - Sentirò il barone.

Placido                          - Il signor barone, questa sera, mi sembra di un umore... come definirlo?... curioso. Tutto il pranzo, stasera, si è svol­to in un clima... curioso. Quando il signor barone è entrato in sala da pranzo con il signorino Arvisio... le cose hanno preso una piega... come definirla?

Angela                          - Be', la definirai più tardi. Chiama il barone.

Placido                          - Non è per disobbedire, signora ba­ronessa; ma temo che il signor barone si alzi mal volentieri da tavola, prima di aver preso il caffè e i liquori. Vero è che al si­gnor barone dà fastidio il fumo; e stasera la sala è piena di fumo. Tutti fumavano, mangiando, contro i più elementari precet­ti della scuola salernitana. Si direbbe che tutti fossero nervosi...

Angela                          - Hai. finito?

Placido                          - No, signora baronessa; e chiedo scusa. (Guarda la porta; poi Angela; poi di nuovo la porta) Sto pensando al prete­sto con cui riuscirò, decentemente, ad al­lontanare il signor barone dai suoi ospiti. Anche il signor barone mi ha detto di cercare un pretesto valido... perché deve par­larvi. Angela       - Lui a me?

Placido                          - Sì, signora baronessa. Lui a voi, e voi a lui. Caso di telepatia. Corrispon­denza d'amorosi sensi.

Angela                          - Basta, Placido, ti prego.

Placido                          - Ho trovato il pretesto, signora ba­ronessa. Una telefonata da Napoli. Le te­lefonate che il signor barone riceve da Na­poli sono sempre lunghe. Essa può giu­stificare l'assenza vostra e la sua dalla sala degli ospiti. Vado. (Esce per la destra).

Angela                          - (scuotendo il capo, fra se) Che mat­to! (Ma diventa improvvisamente pensiero­sa; fa qualche passo verso la destra come se ad un tratto volesse evitare d'incontrar­si do sola col marito; poi va al telefono; fa l'atto di alzare il ricevitore; si pente). (Dalla destra entra Gennaro, che chiude la porta dietro di sé).

Gennaro                        - Scusa un momento, Angeli; ma ti volevo parlare a quattr'occhi. Tu hai vi­sto ch'è successo stasera?

Angela                          - (preoccupata) Ch'è successo?

Gennaro                        - (la guarda) Be', non ti spaventa­re, Angeli. A tutto c'è rimedio. D'altra parte, grazie a Dio, si tratta di una cosa buona, non di una cosa malamente. (La guarda ancora) Tu non hai capito?

Angela                          - (ancora pia preoccupata) E che co­sa dovevo capire?

Gennaro                        - (sorride) Eh! (Poi, con tono fa­talistico) La vita! Così è la vita. Che ci vuoi fare? A un certo momento della no­stra vita, io e te, per esempio, non abbia­mo persa la capa? L'abbiamo persa; e ci siamo sposati. Con la buona salute.

Angela                          - (c. s.) Non capisco.

Gennaro                        - Come, non capisci che ci siamo sposati? (L'accarezza) Quant'eri bella, An­geli! Si' bella pure mo', ma tanno... An­geli... tu... spopolavi. Un paio d'occhi che parevano due stelle... Una capellatura che mane' 'a notte era così nera: dinanzi al nero dei capelli tuoi, 'a notte s'ha da sta. E io, non faccio per dire, me la fumavo pure io. Avevo qualche annetto più di te; ma... (Ride; poi, come se parlasse, per boc­ca sua, Settimia): Embè, « chello ca fac­cio io mo', l'è fatto pure tu, mamma, a vint'anne... » (Ride ancora) Veramente tu ne avevi diciotto: quasi la metà di me. Settimina, invece, ne ha diciassette appe­na... Ma com'è cresciuta! Giesù! Mi pare ch'è nata ieri... e di sette mesi per giunta... (Guarda Angela, che sembra essersi di­stratta) Tu mi senti, Angeli?

Angela                          - (come per cambiar discorso) Prima che mi scordi: ha telefonato il comm. Baciadonne. »

Gennaro                        - Cesare?

Angela                          - Sì. Mi ha pregato di dirti che ti vuol parlare.

Gennaro                        - A me?

Angela                          - A te.

Gennaro                        - E tiene pure il coraggio di venir­mi a parlare? Quello è un fetente, Angeli. Quello è uno screanzato. Quello è un mariuolo. A Guido Arvisio, lo ha lasciato a terra. Se lo è messo sotto, al tavolo del poker, e ne ha fatto tabacco per la pipa. A me, mi deve lasciare stare. Io non fac­cio male a una mosca; ma certi rapporti umani li debbo rispettare. Quello, Guido, è come se fosse nostro parente.

Angela                          - (con un sorriso faticoso e penoso) E perché, poi, nostro parente?

Gennaro                        - Figlia mia, tu non mi fai parlare... Io ti stavo parlando proprio di questo. Quello, 'o guaglione, Elio, non è vero niente, che non s'è laureato; quello, l'hanno cacciato di casa, perché se n'è andato di capa per nostra figlia.

Angela                          - (con un improvviso moto di ripro­vazione) Oh!

Gennaro                        - Oh, ah, eh, ih! E che ci vuoi fa­re? Se nostra figlia non lo volesse... Ma quella, a diciassette anni, se n'è andata di capa pure lei. Ha matrizzato. Talis mater, talis filia. Io, poi, come mi debbo regolare?

Angela                          - Ma Settimia è così giovane ancora...

Gennaro                        - E quand'è che si fanno le scioc­chezze? Quando si, è giovani. E' forse me­glio aspettare l'età mia, per poi far succe­dere quello ch'è successo fra me e te nel primo mese di matrimonio? I caratteri <T 'a sposa o d' 'o sposo si debbono for­mare insieme. Il matrimonio è una scuo­la: meglio andarci da bambini. D'altra parte, Angeli, quelli sono già d'accordo!

Angela                          - Ma no!

Gennaro                        - Gesù! Quelli me l'hanno detto in faccia a me; non più lontano di stasera. Tu hai visto quando sono entrato col ragazzo in sala da pranzo? Un minuto prima, mi avevano detto tutto: lui e lei. Mi sentivo fare le gambe giacomo-giacomo, al pensie­ro di staccarmi da quella piccerella mia; ma che vogliamo creare? un matrimonio contrastato come ai tempi di Pappacoda? Chista è 'a vita, Angeli... (Una pausa) Io volevo parlarne subito, stesso a tavola, perché le cose in corpo non me le posso tene­re. Ma prima di tutto, volevo sentire il tuo parere; poi... l'incontro fra Elio e i suoi genitori... hai visto, com'è stato fred­do... Come facevo a parlare? (Dopo una breve riflessione) Io capisco, d'altra parte, che quello, Guido, si è rovinato al gioco, e ha paura che noi gli diciamo di no... For­se avrà pure bisogno di far lavorare suo figlio per rimettersi a posto le costole... Ma, soldi, ne abbiamo tanti noi: non ti pare, Angeli? (La guarda, nota il suo si­lenzio preoccupato, cerca di spiegarselo) Te ne dispiace. Lo capisco. Quella, 'a picce­rella, è l'unica compagnia nostra. (Scrolla il capo) Sa' che bellezza, sta casa, senza di lei! (Sospira) Embè! Siamo nati per sof­frire. Dobbiamo soffrire noi, per non far soffrire quelli che vogliamo bene. (Le si avvicina, le accarezza i capelli) Ci aiute­remo a soffrire vicendevolmente, Angelina mia... (Ci pensa) Perché... dare un dolore a Settimina, no!... non ti pare?

Angela                          - (disperata, a mezza voce) Come vuoi. (Una pausa; poi con altro tono) Al­lora... Non vuoi parlare con Baciadonne?

Gennaro                        - (la guarda conciliante) Perché? tu vuoi che io ci parli?

Angela                          - Non so. Regolati.

Gennaro                        - Io, per me, gli farei fare anche la pace, con Guido. Un atto di conciliazione si può sempre tentare... Dopo tutto, se Ce­sare, mettiamo, gli restituisse una parte del mal tolto... (Guarda la moglie come per chiederle approvazione) Che? Io, poi, sai come sono fatto? Vorrei una pace genera­le. A che serve appiccicarsi, sbranarsi...? Qua Dio solo lo sa e la Madonna lo vede, quanta pazienza ci vuole per campare in mezzo alla gente... T'ha telefonato?

Angela                          - Chi?

Gennaro                        - Baciadonne.

Angela                          - Sì. E aspetta che gli telefoni io.

Gennaro                        - E telefona, Angeli, va'. Telefona. Facciamo il tentativo. Intanto, io metto a posto le cose nostre, come siamo d'accor­do. Quelli, i ragazzi, a quest'ora, chi sa come stanno! E' 'na cosa già vecchia, io me n'ero accorto. Chi li può trattenere? Parlerò io, per tutti. Voglio vedere se quel­la capa all'erta di Guido ha il coraggio di resistere, quando avrò parlato io. (Come parlando a Guido) « Avvoca, in casa tua sta per entrare la baronessina di Gragna-no. Ti devi levare il cappello. Una rosa di maggio; appartenente a una delle famiglie più nobili d'Europa; ccu 'nu zeffunno 'e denare... Avvoca, ne devi ringraziare Dio con la faccia per terra... ». (Ride, orgo­glioso).

Angela                          - (timidamente) E' proprio... neces­sario... parlarne stasera?

Gennaro                        - Giesù! Io ho dato la parola al ra­gazzo. Mi debbo cominciare a far rispet­tare come suocero, sì o no?

Angela                          - (c. s.) Forse... era meglio... appia­nare prima... la faccenda Baciadonne...

Gennaro                        - E che c'entra, Angeli? Non fac­ciamo confusioni... (Ci ripensa) Forse tu lo dici... per ragioni... amministrative...?

Angela                          - (mentendo) Anche.

Gennaro                        - Neh, e ti sei dimenticata quanti milioni di dote porta tua figlia? Quello, 'o guaglione, solo se vuole amministrare questa dote, si deve prendere cinque segretari. E suo padre, solo se vuol fare l'av­vocato del figlio, deve aprire uno studio apposta... Angeli... i denari sono l'ultima cosa... quando ci sono... Quello, il povero Baciadonne, è un disperato. 'A sacca fa palicco. E lasciamolo campare pure lui, po­veretto. Su, su fa' trasire tutti qua dentro. Penso io, penso io.

Angela                          - (avviandosi, più morta che viva) Io verrò dopo. Telefono a Baciadonne dal­lo studio.

Gennaro                        - Anzi, tu devi fare una cosa. Trat­tieni i ragazzi, di là. E anche i due Avel­lana. Mandami qua dentro Guido e Chiara.

Angela                          - (fermandosi, perplessa) Se ti dico­no di no...

Gennaro                        - (come escludendo l'ipotesi) A me?

Angela                          - Tutto può essere... È... se ti dicono di no... non insistere per ora...

Gennaro                        - Io? Insistere io? Quelli mi si deb­bono inginocchiare davanti...

Angela                          - Ma... sai... tante volte...

Gennaro                        - Angeli! Ma che hai stasera? Vedi lucciole per lanterne? Io tengo un cuore grande così, dalla contentezza. Io per dare un piacere a quella piccerella mi farei a pezzi. Va', va', fidati di tuo marito... (Le si avvicina) E fatte vasà sta faccia bella, prima di andartene. (La bacia sulla gota) Ti voglio vedere presto nonna... (Ride; la guarda; vede che ella ha gli occhi pieni di lagrime) 'A i Hocco! Chiagne. 'E frenime­ne so' tutt' 'e na manera... Hanno il rubi­netto delle lagrime sempre aperto... Ma se, come nonna, sarai la nonna più giovane di tutto il mondo!... Va', va', Angeli, va'; lassammo fa' a Dio. (Quasi la spinge, dol­cemente, oltre la porta di destra, la segue con lo sguardo, sospira, dice fra se) Quel­la, poi, ha ragione pure lei... Levarsi di ca­sa, tanto presto, una figlia di quella fatta! (Si volta, fa qualche passo per la sala, s'adombra, sorride; poi ancora commenta fra se) Embè, barò', tira a campa... 'O munno accussì è... (E così, dicendo, guarda verso la destra, di dove arrivano Chiara e Guido. Essi so­no turbati, accigliati, severi. Gennaro // os­serva con un sorriso malizioso; poi li invi­ta a sedere con scherzosa affabilità): Signo', prego (Le indica una poltrona). (Chiara siede). Avvoca, là ci sta una poltrona anche per voi... (Guido siede). Io mi metto qua; così vi guardo in faccia a tutt'e due. (Siede di fronte a loro. Una pausa). Dunque... (Si ferma. Poi, ripetendo il principio di una poesia di Dì Giacomo): «Dunque — elicette 'o si' Giuvanne Accietto, assettato co' Tore 'Nfamità 'ncoppe a 'nu scannetiello appede 'o lietto — dun­que aggio fatto 'o guajo, nun c'è che ffà... ». Neh; ma io non ho fatto nessun guajo: questo è il principio di una poesia di Di Giacomo, intendiamoci bene... Il guaio, in ogni caso, lo vuol fare vostro figlio.

Guido                            - (irritato) Ti prego di non parlarme­ne, Gennaro.

Gennaro                        - (lo guarda) Di chi?

Guido                            - Di mio figlio.

Gennaro                        - E che? L'avessi fatto io? Tu e lei (accenna a Chiara) l'avete fatto.

Guido                            - Non l'ho preso a calci, stasera, perché eravamo in casa tua.

Gennaro                        - A calci, mo'! Quello è un laurea­to, un avvocato.

Guido                            -Già, già! Un avvocato! Un avvocato che deve fare sei anni di pratica prima di...

Gennaro                        - Tu lo diffamavi pure. Dicevi che non era passato agli esami...

Guido                            - Per me, è come se fosse stato boc­ciato.

Gennaro                        - Giesù! E ti sostituisci ai profes­sori della commissione, al magnifico ret­tore?

Guido                            - Egli dipende da me, fino a quando non sia in grado di guadagnarsi la vita.

Gennaro                        - (allusivo) Di guadagnarsela e... di giocarsela?

Guido                            - (voltandosi, di scatto) Che dici? (Guarda la moglie),

Gennaro                        - (dopo aver guardato, a sua volta, Guido e Chiara) Ho commesso una gaf­fe? Embe'. L'ho fatto apposta! (Una pau­sa) Comunque, 'o guaglione è maggioren­ne: questo sia chiaro per ogni evenienza. Adesso i tempi sono mutati. I guaglioni maggiorenni fanno tutto a capa loro. Io, 'a verità, non potevo non ascoltarlo, quan­do mi si è presentato.

Guido                            - (lento, con uno sguardo indagatore) E che cosa si è permesso di dirti?

Gennaro                        - Eh! Che cosa! Una cosa grossa come una casa. Si vuole ammogliare.

Chiara                           - Ammogliare?

Guido                            - Ed è venuto a dirlo a te?.

Gennaro                        - E a chi doveva dirlo, se non a me? Quello mi viene a portare via il cuore...

Guido                            - (irritatissimo, a denti stretti, alzando­si e guardando verso destra) Ma per­bacco!

Gennaro                        - Eh! Proprio accussì. Perbacco. (Si rivolge a Chiara) Signo', quello è venuto, fresco fresco, a domandarmi la mano di mia figlia.

Chiara                           - (con un sorriso di compiacimento) Oh! (E poi ancora) Oh!

Guido                            - (con rabbia) E' un pazzo!

Gennaro                        - Embè, l'amore fa fare delle pazzie.

Guido                            - Ma io non sono l'amore! Io non glie ne faccio fare!

Gennaro                        - (lo guarda) In che senso, Guì? (Una pausa; poi a Chiara) Siete anche voi, signo', dello stesso parere di vostro marito?

Chiara                           - Ma di che parere si può essere, don Gennaro? A noi non spetta che di cono­scere il vostro...

Guido                            - (a Chiara) Ti prego di disinteres­sarti di questa cosa! (Poi, attenuando) No­stro figlio non è ancora in grado di chie­dere la mano di nessuna ragazza, rispetta­bile; e tanto meno di...

Gennaro                        - (guardando ora l'uno ora l'altra) Quello, 'o guaglione, m'ha detto che... c'era l'ostacolo dei genitori... Di tutt'e due i genitori...

Chiara                           - Il mio? Il mio no. Io non sapevo niente. Avevo notato, sì, che fra i due ra­gazzi c'era qualche simpatia; ma Elio, con me, è così chiuso... non parla mai... sopra­tutto di queste cose...

Guido                            - (mordendosi le labbra) Aveva parla­to con me; ma io... come ho già detto... per le ragioni che ho detto... D'altra parte non credo che il nostro amico Gennaro... data l'età della signorina...

Gennaro                        - (dopo un breve silenzio) Io sono di una razza che i matrimoni li ha fatti sempre presto. Potrei dire di essere l'unico degenerato della famiglia, perché mi sono sposato a trentacinque anni. Tanto che ho cercato, come dire?, di ristabilire l'equili­brio, sposando una ragazza di "diciotto. Tanti ne aveva Angela, quando io me la presi... Ma qua io mi trovo davanti a un ratto veramente singolare. Sono il padre della ragazza, non del ragazzo. (Con or­goglio) Ai tempi miei, quando non c'era diversità di condizione sociale... o quando addirittura la condizione sociale pendeva in favore della ragazza... (Guarda un po' eccitato Guido) Dico bene, Guì? Mia figlia è la figlia unica del barone di Gragnano, è pura come un giglio, è bella più del sole, ha una dote che fa tremare la terra... Dico bene, Guì?

Guido                            - (confuso) Io,., non vorrei essere male interpretato...

Chiara                           - Ma noi... ci sentiamo onoratissimi...

Gennaro                        - (rapido a Chiara) Grazie, signo'. Ma vi prego di lasciar parlare il mio ami­co Guido...

Chiara                           - Non mi pare che egli abbia il di­ritto di parlare... dopo quello che ha fatto...

Gennaro                        - Non ha fatto niente, signo'. La­sciatelo parlare...

Guido                            - (con violenza, cercando di far prende­re al discorso un'altra piega) Ma io non mi rassegno affatto a essere l'imputato. Sis­signore, no giocato, ho perduto! Basta!

Gennaro                        - Un momento, Guì. Non cambia­mo argomento. Stavamo parlando di un'al­tra cosa.

Guido                            - (a Chiara, col tono di prima) E ba­sta, te lo dico per l'ultima volta, anche se sono costretto a dirtelo in casa d'altri. Ho giocato, ho perduto, ho fatto i comodi miei: ti vada o non ti vada. Non ho per­duto né la tua dote, né i denari di nessuno. Ho perduto i denari miei. E' chiaro? (Esce per la destra). i(Chiara si mette a piangere).

Gennaro                        - (dopo una lunga pausa) Mi di­spiace, signo', di essere stato la causa invo­lontaria... (Sì alza; passeggia lungo la sala; poi, pensando ad altro) Comunque, lo do­vete scusare: quello è nervoso... (Un'altra pausa; poi, sempre pensando ad altro) Sa­pete com'è, quando si è nervosi... (Sulla porta di fondo appare Placido).

Placido                          - C'è il commendator Cesare Baciadonne. Dice di essere aspettato. L'ho fatto accomodare nello studio.

Gennaro                        - (quasi macchinalmente) Con per­messo, signo'. (Esce per il fondo).

Placido                          - (a Chiara) Vi sentite male; signora?

Chiara                           - No. Grazie.

(Entra dalla destra Elio).

Elio                               - (a Chiara, vedendola in quelle condi­zioni) Che c'è, mamma?

Chiara                           - (si alza) Niente, niente, figlio mio... (Si avvia verso la destra).

Elio                               - (fermandola) Avete parlato, forse, di...?

Chiara                           - (si ferma, lo guarda, lo accarezza) Tu non mi avevi detto niente, figlio...

Elio                               - (a capo basso) Ti chiedo scusa; ma... (Una pausa) E... che cosa è stato deciso?

Chiara                           - Ti dirò. Poi ti dirò. Adesso tuo pa­dre... ha i nervi... per altre ragioni...

Elio                               - Ha detto di no... anche a don Gen­naro?

 Chiara                          - (mentendo) Ma no, non ha detto niente. Ci vuole un po' di pazienza. Bi­sogna che passi questo momento... (Esce, non reggendo più al suo dolore).

Placido                          - (a Elio, ch'è rimasto pensieroso) Non è mia abitudine fare il mestiere di Mercurio. Direi, anzi, che lo detesto. Non­dimeno prima vi ho fatto entrare segreta­mente nello studio; e ora debbo avvertirvi che la signorina...

 Elio                              - (rapido) Dov'è?

Placido                          - « L'amore è come l'acqua: se qual­cosa non lo agita, imputridisce ». Siate lie­to, signor mio, che molte cose agitino il vostro amore.

Elio                               - Ma dov'è la signorina?

Placido                          - Ha parlato or ora con la signora baronessa e vi cerca. Debbo mandarla qui?

Elio                               - Te ne prego.

Placido                          - Nella Bibbia è scritto: « Se hai un servo fedele, abbilo caro come l'anima tua e trattalo come un fratello ». E nel « De clementia » di Seneca: « Lodevol cosa è comandare ai servi con dolcezza ». Voi avete detto: «te ne prego». Molto bene. (Si sporge nell'interno del fondo, chiama sottovoce) Signorina! (Appare dal fondo Settimia. Placido, mo­strandola a Elio, continua): Eccola. (E prima di uscire) «Studiate, stu­diate, studiate, sarete mediocri; amate, amate, amate, sarete grandi ». Così insegna Niccolò Tommaseo. Vado. (Esce per il fondo). Settimia   - (a Elio, con dolcezza un poco af­fannosa) Mi pareva di averti perduto...

Elio                               - (con trepidazione) Anche a me pareva di averti perduta. (Una pausa) Hai parlato con tua madre?

Settimia                         - (abbassando il capo) Sì.

Elio                               - E che t'ha detto?

Settimia                         - Ha pianto. Ma non di commozio­ne, come speravo. Io le ho detto: « gli vo­glio bene ». E lei, piangendo: « Sei tanto giovane, ancora. Bisogna sperimentare a lungo il bene che si vuole a un uomo, pri­ma d'impegnarsi ».

Elio                               - E tu?

Settimia                         - Non sapevo che cosa dire. Veniva da piangere anche a me. Spesso, quando ti penso, mi viene da piangere. E credo che questo, sia il bene che ti voglio.

Elio                               - (prendendole una mano) Questo solo? (Una pausa) Certo, il bene, come tu dici, è anche malinconia. Ma il bene che ti vo­glio io è qualche cosa di più... Di più for­te. Un'ansia continua di vederti, di parlar­ti, di confidarti i miei pensieri; e questo pensare, che faccio, a tutte le cose solo at­traverso la tua immagine, come se la tua immagine soltanto muovesse e governasse la mia facoltà di pensare... Io credo che mia madre mi capisca di più; così come tuo padre capisce te.

Settimia                         - Temo, tuttavia, che non ci spose­remo.

Elio                               - Tu temi? E chi può impedircelo?

Settimia                         - (vaga, come per un senso di fata­lità) Nessuno e tutti. L'attrazione che io provo verso di te... come dirtelo?... è sem­pre adombrata da un malessere strano...

Elio                               - Un malessere che proviene dalla oppo­sizione altrui...

Settimia                         - Non so. Ti voglio tanto bene; e una voce mi dice: « non lo sposerai ». Ti sogno tutte le notti, e fra me e te c'è sem­pre come una siepe di spine. Mi pare che dovrei sognarti come una cosa bella; e in­vece ti sogno come un incubo.

Elio                               - (triste) . E' la prima volta che mi dici questo.

Settimia                         - (accarezzandogli la mano) Forse perché è la prima volta che ci penso. Prima, quando pensavo a te, tutto mi pareva facile, leggero, piacevole. Adesso, non so perché, fra noi due c'è il pianto di mia madre.

Elio                               - Tutte le madri piangono quando deb­bono separarsi dai loro figli. Anche mia madre, poco fa, piangeva.

Settimia                         - Sarà. (Una pausa) Ma io ti cerca­vo non per dirti questo. Avremo tempo di dirci tutte le nostre gioie e tutti i nostri dolori. Ti cercavo per dirti che mia madre ha promesso di aiutarci a un solo patto.

Elio                               - Dunque lei non è contraria?

Settimia                         - (dopo una breve riflessione) Mi pare di no. Mi ama troppo, dopo tutto, per non comprendermi. Ma vuole che per ora non ci vediamo; vuole che tu, per ora, te ne torni da tuo zio.

Elio                               - (lasciandole la mano, deciso) Non po­trei vivere lontano da te.

Settimia                         - Eppure è necessario. E' una con­dizione posta da mia madre: bisogna ri­spettarla. Anche io non posso vivere lon­tano da te; ma il pianto ai mia madre, mi pare di sentirmelo scorrere nelle vene al posto del mio sangue. Come faccio a ren­derti conto di questa sensazione? Ho tutte le vene piene delle sue lagrime; non l'ave­vo mai vista piangere così.

Elio                               - No, no, io non parto. Non partirò più. Tuo padre è d'accordo con me. Tuo padre è la mia forza.

Settimia                         - Povero papà!

Elio                               - E' l'unico che capisca tutto, che si ren­da conto di tutto.

(Dal fondo riappare improvvisamente Pla­cido).

Placido                          - (rapido, sottovoce) Il signor baro­ne. (E si scosta, come per lasciar passare Gennaro).

Settimia                         - (a Elio) Va', va', non ti far tro­vare qui.

Elio                               - Vado in giardino. T'aspetto. (Esce ra­pido per la sinistra). (Appare Gennaro dal fondo).

Gennaro                        - (prima di entrare, a Placido) Pla­cidi, prega i signori Attellana di venire un momento qua dentro.

Placido                          - Vado. (Via per il fondo).

Gennaro                        - (entra, vede Settimia) Ah, qua ci sta la padroncina mia!

Settimia                         - (affettuosissima, con un sorriso tri­ste) Una padroncina che incomincia a darti qualche pensiero...

Gennaro                        - E che varrebbe la mia vita, se non avessi i pensieri che mi dai tu? Neh, si­gnorine, ma io e te dobbiamo fare ancora certi conti...

Settimia                         - (abbassando il capo) Vuoi rimpro­verarmi anche tu?

Gennaro                        - (si adombra) Come, anche io? C'è qualcun altro che t'ha rimproverata?

Settimia                         - (premurosa, reticente) No no; di­cevo per dire...

Gennaro                        - (dopo una breve pausa) Io non ti rimprovero di esserti innamorata, figlia mia bella. E' l'età tua. Ma a papariello tuo non si nasconde tanto tempo un progetto di questa fatta...

Settimia                         - Ma no, papà. E' stata una cosa improvvisa. L'altro giorno, tre giorni fa, per la prima volta... Elio mi ha detto...

Gennaro                        - (incredulo) Proprio tre giorni fa?

Settimia                         - Sì. Prima, come tu sai, stavamo molto insieme; ma così, senza malizia. Eravamo buoni amici. La sua famiglia era sempre qua con noi...

Gennaro                        - Piccerè, tu parli con uno che ha i capelli bianchi...

Settimia                         - (confusa) Magari... anch'io... ave­vo simpatia per lui...

 Gennaro                       - Piccerè, l'amore l'ho fatto pure io, ai tempi miei...

Settimia                         - Forse ci volevamo bene senza dir­celo... Poi, come t'ho detto, tre giorni fa, dopo che lui si fu laureato...

Gennaro                        - Embè, mo' ti voglio dire una cosa io. Me n'ero accorto, piccerè. Io sono na­poletano, e di queste cose me ne intendo. Me n'ero accorto.

Settimia                         - Allora... è vero... che tu non sei contrario ?

Gennaro                        - (adombrandosi) E chi può essere contrario? Sembrate fatti l'uno per l'altra. Quanto a me, nun ce sta nisciuno che io gli possa voler male se gli vuoi bene tu. Quanto a tua madre, essa fa quello che voglio io. (Una pausa) Quanto agli altri... (Si ferma, si morde un labbro; poi con or­goglio) Piccerè, tu vali diamanti quanto pesi...

Settimia                         - (buttandosi nelle braccia di lui) Papà! (Entrano dalla destra Nella e Anselmo).

Nella                             - (vedendo Gennaro e Settimia abbrac­ciati) L'eterno idillio!

Gennaro                        - (scherzoso, lieto) Che vi debbo dire? Ci vogliamo un poco di bene... (Ac­carezza Settimia) E' vero, Settimi? E mo' vattenne, figlia mia, che noi dobbiamo par­lare di cose seccanti.

Settimia                         - Vado, papà. Con permesso. (Via).

Anselmo                        - (sedendo) Che non siano troppo seccanti, caro Gennaro. Tu mi hai fatto mangiare come un lupo. Debbo fare il chilo.

Gennaro                        - (a Nella) Signo', accomodatevi.

Nella                             - (sedendo) Ci sono novità, don Gen­naro?

Gennaro                        - Novità grosse assai. Nel mio stu­dio c'è Cesare Baciadonne.

Nella                             - Il baro?

Gennaro                        - Signo', lasciate stare questa parola. « Baro ». Mi pare la radice di «baro­ne ». Nella mia casa baronale si gioca solo a scopone e a tressette.

Anselmo                        - (con lieve tono di deplorazione) Già; ma siccome la mia signora consorte non gioca a questi giochi...

Gennaro                        - Lo so, lo so che donna Nella gio­ca forte, con piatti di venti e trentamila lire... Però vince... Quello, il mio amico Guido, si farebbe levare la camicia d'ad­dosso... Gesù, quant'è schiappa!

Nella                             - Ma come? Voi, una volta, dicevate che sapeva giocare...

Gennaro                        - C'ha da sape, signo'? Cesarino Baciadonne m'ha spiegato tutto. Quello, Guido, al tappeto verde è un insensato, un demente. Si lancia come un toro infuria­to. Tutto il contrario di Cesarino, che è prudente, non perde la calma, gioca di te­sta... e vince. E stu poverommo, poi, come camperebbe, se non vincesse? Ha da vin­cere per forza...

Anselmo                        - Siamo alla difesa del baro.

Gennaro                        - Che difesa, Anse? Quello pian­geva come un vitellino, adesso, in faccia a me. Quello ha detto « Se avessi la som­ma, la restituirei tutta: ma che posso fare? Posso pittare il sole? Sono pronto a resti­tuire quello che m'è rimasto».

Anselmo                        - E non ti pare che un giocatore che avesse vinto onestamente si guardereb­be bene dal fare una proposta simile?

Gennaro                        - Giesù! Quello ha paura di uno scandalo per altre ragioni.

Anselmo                        - E quali?

Gennaro                        - Lo volete sapere? Tiene una cau­sa per fallimento, tiene un processo di se­parazione con la moglie, tiene un mare di guai. Lo vogliamo fare affogare in questo mare? Gli vogliamo legare una pietra al collo?

Nella                             - E perché no?

Gennaro                        - Signo', non mi fate quella faccia feroce, abbiate pazienza! Io vi ho chiama­ti in mio aiuto. Siccome non posso parlare io con don Guido, adesso, per... per altre ragioni, che sappiamo io e lui... dovreste voi due, vecchi amici, pregarlo di conten­tarsi di quel tanto che Cesarino gli può restituire, senza muovere causa... perché poi, sa' che ti dico, Anse?, le cause si sa"1 come cominciano e non si sa come vanno a finire. Non è facile provare che uno ab­bia barato...

Anselmo                        - Caro Gennaro, Baciadonne barava con la complicità di un cameriere del Cir­colo. Il cameriere ha confessato.

Gennaro                        - E tu credi a quello che dice un ca­meriere? Io ci ho un cameriere pazzo, in casa...

Anselmo                        - Be'! Ma il cameriere del circolo non è pazzo.

Gennaro                        - Sarà un imbroglione.

Anselmo                        - Appunto.

Gennaro                        - E credi a un imbroglione?

Anselmo                        - Come non credergli se è rassegna­to ad andare in galera?

Gennaro                        - Avrà bisogno di riposarsi.

Anselmo                        - (alzandosi) Eh, Gennaro mio, tu, per voler trovare una ragione per tutti, per i buoni e per i cattivi, per gli onesti e per i disonesti, arrivi a certe esagerazioni...

Gennaro                        - (dopo una breve pausa) Lo so, non so parteggiare, Anse. Ma la vita è così im­pasticciata per conto suo, che se ci mettia­mo anche noi a impasticciarla di più... Io mi sono trovato sempre bene nel fare il bene; nel comprendere gli errori e le pas­sioni altrui. Che possiamo fare noi, contro il destino? Ognuno nasce con la sua stella. A Napoli si dice: « campa e fa' cam­pare ». La guardia municipale, quando gli volevano sciogliere il corpo, diceva: « Ccà tutte so' buone, si s'ha da parla; ma 'nfaccia 'o servizio nisciuno ce vene. Venesse!, e po' vede si 'o sforzo 'o po' fa... ». Non aveva ragione la guardia? Io mo', per esem­pio, tengo una figlia sola. Una. Me la vo­gliono portare via. Se la vogliono sposare. Debbo dire di no? Debbo prendere il cuo­re di due ragazzi e mettermelo sotto i piedi?

Nella                             - Hanno chiesto la mano di Settimina?

Gennaro                        - (per dire di sì) Eh!

Nella                             - E chi?

Gennaro                        - Il figlio del mio amico Guido Arvisio. Elio.

Anselmo                        - (rapido, sorpreso) E Guido dice di si?

Gennaro                        - (colpito, guardando Anselmo) E ti pare che potrebbe dire pure di no? (Una lunga pausa. Gennaro guarda ora Nella, ora Anselmo, che tacciono entrambi. Si alza. Si muove come barcollando).

Anselmo                        - (per cambiare discorso) Del resto, se tu vuoi che noi parliamo con Guido, per indurlo ad accettare l'offerta di Cesare Ba­ciadonne... (A Nella) Vogliamo andare, Nella?

Nella                             - (imbarazzata, alzandosi) Andiamo. Facciamo questa prova.

Anselmo                        - (uscendo) Ci vediamo dopo, Gen­naro.

(Nella e Anselmo escono, imbarazzatissimi. Gennaro è rimasto fermo, come se non li avesse più visti né uditi. Una lunga pau­sa. Dal fondo entra Placido).

Placido                          - Avete chiamato, signor barone?

Gennaro                        - No.

Placido                          - Allora dev'essere il campanello del­lo studio. Il campanello di questo salotto e quello dello studio si assomigliano. Di­rei: hanno la stessa voce. Vado a vedere chi mi ha chiamato dallo studio. (Fa l'atto di uscire').

Gennaro                        - (rapido improvvisamente, come uno che abbia bisogno di aiuto) Placido!

Placido                          - Agli ordini, signor barone.

Gennaro                        - (pentito) Va', va'.

Placido                          - Volevate forse dirmi qualche cosa e vi siete pentito?

Gennaro                        - No.

Placido                          - E' vero che Geremia disse: « Ma­ledetto l'uomo che ha fiducia nell'uomo »; ma Chapmann, che forse era inglese solo di nome, corregge: « chi non ha fiducia nell'uomo non ne ha nessuna in Dio ». Vedo che avete qualche cosa da confidar­mi, signor barone.

Gennaro                        - Prega il comm. Baciadonne di venire qui.

Placido                          - Magra confidenza. Vado. (Esce). (Ancora fermo dov'era, Gennaro ora sem­bra seguire con l'acume dello sguardo un suo progetto; e il suo progetto è questo: aizzare Baciadonne perche egli parli, per' che lo illumini su quello che vagamente ormai è nell'aria, oscuro e inquietante. In' fatti, quando Baciadonne entra dal fondo, Gennaro incomincia subito, volutamente, ad aizzarlo contro Guido).

Cesare                           - (entrando) Dimmi, Gennaro.

Gennaro                        - (mentendo) Una belva! Guido è diventato una belva, quando io gli ho rife­rito la proposta tua.

Cesare                           - Una belva?

Gennaro                        - Nu leone, 'na tigre. Gettava fiam­me dai buchi del naso. Non solo non vuo­le accettare la restituzione di una parte del denaro; ma ha detto che stesso domani va dal Procuratore del Re e ti vuole vedere nel fondo di un ergastolo.

Cesare                           - Così ha detto?

Gennaro                        - Quello ti è nemico, quello ti odia, Cesari.

Cesare                           - (dopo una pausa, mentre Gennaro lo sorveglia con lo sguardo ansioso e indaga­tore) Mi odia...

Gennaro                        - (incalzando) Ti vuole vedere di­strutto. Io l'ho pregato per te a mani giun­te, mi sono inginocchiato ai suoi piedi, l'ho scongiurato in nome dell'amicizia fraterna che ci lega da tanti anni... Niente. E se ha detto di no a me, capisci...

Cesare                           - (fremendo di rancore contro Guido) Già! Se ha detto di no a te.

Gennaro                        - Tu sai che io e lui...

Cesare                           - (ambiguo) So, so.

Gennaro                        - A me mi vuole un bene dell'ani­ma, si farebbe fare a pezzi, per me...

Cesare                           - (a mezza voce) Naturalmente.

Gennaro                        - Come?

Cesare                           - Naturalmente. Ho detto « natural­mente ».

Gennaro                        - Naturalmente che si farebbe fare a pezzi per me? (Una pausa) Ora tu ca­pisci: se ha detto di no a me...

Cesare                           - Direbbe di no anche al Padreterno.

Gennaro                        - E io lo conosco come quattro di denari. Con me lui è sincero, è leale...

Cesare                           - (ironico) Sì, sì...

Gennaro                        - Non sei anche tu di questo pa­rere?

Cesare                           - (come uno che non voglia parlare) Addio, Gennaro. Ti ringrazio. Ti chiedo scusa del fastidio.

Gennaro                        - (volendo trattenerlo) E... che fa­rai, Cesari?

Cesare                           - Vedrò. Qualche cosa farò. Il signor Arvisio non deve credere che io sia rasse­gnato a lasciarmi stritolare da lui. Lui cre­de di conoscere me; ma io conosco molto bene lui. Conosco la classe dei puritani a cui appartiene. E giacché ci siamo, ti vo­glio dire una cosa, Gennaro; perché tu sei troppo buono e credi troppo nella bontà del mondo. Non te ne fidare.

Gennaro                        - (dominandosi a stento) Del mon­do?

Cesare                           - Del mondo... e anche di lui, del tuo amico Guido Arvisio. (Fa l'atto di uscire).

Gennaro                        - (lo afferra per un braccio, sempre dominandosi) E siente, vieni a ccà. Tu credi che... non sia sincero nemmeno con me?

Cesare                           - Non lo so. Guardati.

Gennaro                        - Sarebbe capace di fare qualche porcheria anche ai miei danni?

Cesare                           - Guardatene.

Gennaro                        - (scattando, nervosissimo) E parla, Cesari. Fatte asci 'a voce. (Poi calmando­si, con altro tono) Io mi sono accorto di qualche cosa, sai... Vorrei esserne sicuro... Vorrei esserne sicuro, perché... siccome lui vorrebbe diventare mio parente... vorrebbe far sposare suo figlio a mia figlia...

Cesare                           - (sarcastico) Ah! E un farabutto di questa risma vorrebbe mandare in galera me?

Gennaro                        - (fremendo) Allora tu credi... che io debba dire di no?

Cesare                           - Ma è lui, questo bruto, che dovreb­be opporsi per il primo! (Ha detto queste parole con cieca violenza; se ne pente; si ferma, guarda Gennaro).

Gennaro                        - (è ora come impietrito; ha il terro­re di aver compreso; e il suo terrore si esprime nel suo sguardo sotto forma di un dolore e di uno stupore profondissimi).

Cesare                           - (dopo una lunga pausa) Ti chiedo scusa...

Gennaro                        - (senza muoversi) Va, vattenne, Cesari...

Cesare                           - Io... non volevo...

Gennaro                        - Cesari, vattenne.

(Cesare lentamente si avvia. Gennaro con­tinua a guardare nel vuoto).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Lo studio di Don Gennaro di Gragnano. E' uno studio con molti libri antichi, con molti libri dalla rilegatura preziosa. Mobili severi ma non opprimenti. Una grande scri­vania fra due porte nel fondo. Una veranda a destra. Una porta a sinistra. Poltrone nel centro. Quando si alza la tela, è quasi mezzogiorno. Gennaro è seduto alla scrivania e parla con Placido ma quasi macchinalmente, pensando ad altro. Un bel sole ottobrino entra dalla veranda nello studio.

Placido                          - Non vi pare, signor barone, che, con tutto questo sole si ha l'impressione di essere a Napoli?

Gennaro                        - (quasi macchinalmente) A Nàpule.

Placido                          - Io non sono mai stato a Napoli; ma il sole di Napoli me lo immagino co­sì. Neàpolis: città nuova. Da duemila anni il sole la rinnova tutte le mattine. Dicias­sette anni fa - vi ricordate? - volevate portarmi con voi a Napoli. Ma poi mi di­ceste: «rimani con la baronessa». C'era stata quella piccola nube in famiglia...

Gennaro                        - (amaro, come fra se) Una piccola nube. Una nubècola!

Placido                          - Un lieve equivoco. La baronessa vi pareva altera, intransigente: il contrario di voi, che avete sempre una clemenza rega­le. Ma non sarebbe cambiata, se fosse sta­ta così. Il carattere degli esseri creati non si cambia. Un equivoco, una piccola nube. E infatti post nubila Phoebus, dopo le nubi il sole. Mai più nuvole, in diciassette anni, nella vostra casa. E anche il dicias­sette vi porta fortuna, perché, se ho ben capito, è prossimo un avvenimento fausto nella casa dei Gragnano. Modestamente, ieri sera, io ho contribuito a far incontrare la signorina con il signorino...

Gennaro                        - (amarissimo) E' fatto 'o ruffiano... E pure io, del resto...

Placido                          - Immagino che fra poco l'avvocato Arvisio sarà qui per la circostanza...

Gennaro                        - (c. s.) Già, già.

Placido                          - Nella « Genesi » è scritto: « l'uo­mo lascerà suo padre e sua madre e s'unirà alla sua moglie e saranno una stessa car­ne ». Solo mia moglie non conosceva le parole bibliche; e mi fece quello che sapete. Ma un francese diceva: « un marito tra­dito non ha bisogno di vendicarsi: basterà l'amante ». In verità, non c'è amante che non abbia vendicato molto bene il marito tradito. Una volta, i napoletani accoltella­vano le mogli infedeli, oppure le sfregia­vano. Era l'unico tratto non saggio nella loro saggezza. Napoli greca, Napoli ro­mana, Napoli bizantina, Napoli normanno-sveva, Napoli degli, Angioini e degli Aragonesi, Napoli dei Borboni...

Gennaro                        - (seccato, come fra se) E che ro­sario...

Placido                          - Forse vi annoio, signor barone?

Gennaro                        - Eh! Non c'è male...

Placido                          - E' per vostro piacere, signor baro­ne, che tutte le mattine, quando vi aiuto a lavarvi e a vestirvi, quando vi faccio il rapporto della giornata precedente, quan­do vi tengo compagnia in attesa della si­gnora baronessa e della signorina, io vi ac­compagno nel mondo della mia cultura e delle mie meditazioni. Mi avete eletto vo­stro servo per questo, no? I napoletani amano molto il loro servo, il loro accompa­gnatore, il loro giullare. Hanno, in questo, temperamento regale. Ogni napoletano si sente un poco re. Ma stamane è la prima volta che mostrate di non divertirvi. Ave­te dormito male? (Una pausa) Perdonate il ricordo; ma un'altra sola volta vi vidi così: proprio quando, diciassette anni or sono, appena sposato, vi accingevate a partire per Napoli con il proposito di separar­vi dalla signora baronessa. Tuttavia il vo­stro proposito non era quello di abbando­narla, oh no! E infatti lasciaste me, non dico a guardia, ma certamente in pegno, presso la nobile consorte.

Gennaro                        - (volgendosi lentamente a guardarlo con attenzione) Quanti mesi durò quella separazione, Placidi?

 Placido                         - Quattro.

Gennaro                        - E... (Stava per fare una domanda, si ferma).

Placido                          - E' la prima volta che avete la ten­tazione di farmi questa domanda. Capi­sco. (Una pausa) Brantóme diceva: « E' ben pazzo il marito che vuole la moglie casta, mentre lui è sprofondato nel braco delle libidini: il marito deve mantenersi in quello stesso stato nel quale vuole che sia la moglie ».

(Improvvisamente Gennaro afferra un li­bro che è sul tavolo e lo scaglia contro Pla­cido; il quale lo riceve sul petto, impassi­bile, e continua):

Volevo dire, signor barone, che la massi­ma di Brantóme non si addice al caso del­la signora baronessa...

Gennaro                        - (dominandosi a stento) Placidi, vattenne.

Placido                          - Per obbedire. (Esce per la sinistra. Rientra subito dopo, per annunziare): L'avvocato Arvisio. (Si scosta per lasciar passare Guido; e, quando Guido è entrato, riesce, chiudendo la porta dietro di sé. Gennaro non sì alza: sì limita a fissare Guido senza parlare).

Guido                            - (ancora fermo quasi vicino alla porta con voce bassa) Tu immagini perche son venuto...

Gennaro                        - (immobile) No.

Guido                            - Ieri sera tu m'hai fatto proporre da Anselmo un accomodamento con Cesare Baciadonne... Non è così?

Gennaro                        - No.

Guido                            - Allora, si tratta di una iniziativa... di Anselmo?

Gennaro                        - No.

Guido                            - Non capisco. Anselmo mi ha detto: « Gennaro gradirebbe che tu accettassi la restituzione di una parte della somma che Baciadonne ti ha frodata al gioco ». Come posso credere che non si trattasse di una iniziativa né tua né sua? Io so che ieri sera Cesare Baciadonne è stato qui, da te. Io, anzi, sono andato via, senza vederti, la­sciandoti i miei saluti, appunto per que­sto...

Gennaro                        - Ah, solamente per questo!

Guido                            - (turbato) E per che altro avrei do­vuto far così? Comunque, se ho mancato, ti chiedo scusa. Tu avrai visto come ero irritato... per l'atteggiamento di mia mo­glie... in questa faccenda...

Gennaro                        - Quale?

Guido                            - (imbarazzato) Gennaro, tu ce l'hai con me? (Una pausa) E' la prima volta, in vent'anni. (Un'altra pausa) Forse... (Un'altra pausa) La cosa è ancora più strana oggi che tu hai dei progetti... come dire?... di parentela fra di noi... parentela che... come puoi bene immaginare e come mia moglie ti ha detto... non può che... onorarci... e rallegrarci... (Si ferma).

Gennaro                        - Avanti, avanti. Continua.

Guido                            - (con un sorriso stentato) Mi pare di aver detto tutto. Baciadonne è un ladro; ma, se il tuo intervento lo richiede, io sono pronto a qualunque accordo, a qualunque sacrifizio. (Un'altra pausa) Solo, come t'ho detto, le mie condizioni finanziarie sono per ora, disastrose. Per questo, appunto, ieri sera, quando si parlò di mio figlio... Tu capirai: fare di mio figlio un... man­tenuto... Ti chiedo il tempo di rimettermi a posto: ecco tutto. Tanto, i ragazzi sono giovani ancora... Io... ho deciso di cambia­re città... ho avuto proprio stamattina una proposta per andare all'ufficio legale di una grande azienda romana. Vuol dire che i ragazzi, nel frattempo, aspetteranno... e avranno anche modo di sperimentare da lontano i loro sentimenti, perché... anche questo, tu capisci, è necessario... I giovani sono volubili...

Gennaro                        - (dopo una pausa, fingendosi con­vinto) Una volta che le cose stanno così... tutto è chiarito. Siedi.

Guido                            - (imbarazzato) No, grazie. Ho fretta. E' quasi mezzogiorno. T'ho detto della proposta di quell'azienda romana... Debbo andare appunto...

Gennaro                        - Che azienda è?

Guido                            - (confuso) Un'azienda... importante... di costruzioni... la «Immobiliare».

Gennaro                        - Ti mettono al posto dell'avvocato Pèrsico?

Guido                            - (c. s.) Non so... credo...

Gennaro                        - E' napoletano. Ieri stava a Mila­no. L'ho incontrato.

Guido                            - (colpito dalla circostanza) Non lo co­nosco. Non so nemmeno se lui sia infor­mato. (Una pausa) Arrivederci.

Gennaro                        - (per fermarlo) E... perché non mi avevi detto niente delle intenzioni di tuo figlio?

Guido                            - (con disagio) Per le ragioni che t'ho dette. E poi perché...

Gennaro                        - Perché?

Guido                            - ... mi pareva roba da ragazzi.

Gennaro                        - (dopo un breve silenzio) Tu non hai stima di mia figlia?

Guido                            - Ma per carità! Ma che dici!

Gennaro                        - Allora non ne hai di me?... oppuramente... di mia moglie?

Guido                            - Gennaro! Sono vent'anni che fre­quento la tua casa; sono il tuo migliore amico...

Gennaro                        - (acconsentendo, amaro) Eh!

Guido                            - Ti ripeto che mi sento onorarissi­mo... addirittura non degno di tanta for­tuna...

Gennaro                        - E intanto la mala gente spettegola dinanzi all'atteggiamento tuo...

Guido                            - (turbatissimo) In che senso? (Una pausa) E qual'è, poi, questa mala gente?

Gennaro                        - Tutti. So' tutte mala gente. (Enu­merando) Baciadonne...

Guido                            - (con tono dispregiativo) Ah; ma lui...

Gennaro                        - (continuando) Anselmo...

Guido                            - (sorpreso) Anselmo?

Gennaro                        - Appena io dico: « il figlio di Gui­do vuole mia figlia », fanno salti così, co­me se li mozzicasse la tarantola. Mi dico­no: «e Guido permette?». É capito quant'è bella questa cosa, Guì? Non di­cono a me: a tu permetti?». Dicono: « Guido permette? ». E' una interrogazio­ne che non se la possono tenere in corpo. Gli esce dalla bocca come uno spurgo, co­me una boccata di veleno. Da ieri sera io sto con tutto questo veleno addosso, sono tutto verde di questo veleno. (Si ferma; lo guarda) Guardiamoci nel bianco degli occhi, Guì. Qualche cosa sotto, ci deve sta­re. Tu, al posto mio, che cosa penseresti?

Guido                            - (più morto che vivo) Ma... franca­mente...

Gennaro                        - Guì, francamente vuol significare « con franchezza ». Perché non mi parli con franchezza, Guì? (Una pausa) In que­ste circostanze, la prima cosa che si pensa è quella. Quella. Tu credi che il tuo mi­gliore amico sia il tuo fratello: che moglièreta sia la femmina più onesta che il Padreterno ha mandato sulla faccia della terra; e invece... tutto a una volta, all'intrasatta... vieni a sapere che l'amico è un fetentone e che moglièreta è peggio di lui. Non è così? (Una pausa) E, perduto 'a parola, Guì? Ti avverto che ti puoi difendere, come vuoi, perché io ancora non so niente. Io sono all'oscuro. So' com' a nu cecato. Ho'perduto la vista degli occhi.. tu ti fai uscire la voce e ti difendi, capisci?, io mi posso regolare almeno dal tono della tua difesa...

Guido                            - Ma... capirai: ci si difende da una accusa. Tu mi accusi? Non ho ancora capito quale sia la tua accusa.

Gennaro                        - Neh, pe' sape, sto parlando arabo? Allo stato delle cose, le ipotesi sono le seguenti: o tu non stimi mia figlia, mi dovresti dire la ragione; o tu non stimi mia moglie, e mi dovresti dire la ragion o tu... sei il solito amico di famiglia, e ragione, 'a verità, me la dovrebbe dire mia moglie, perché, se io ho l'età che ho, mi stai molto appresso, e francamente, vecchio per vecchio, non veggo le « virtù per cui mia moglie ti dovrebbe preferire me... (Ha detto l'ultima ipotesi rapidamente, eccitandosi; si ferma; si frena) Perché da qua non si esce. Tu alla proposta d matrimonio, ti sei ribellato come se ti avessero ammazzato il padre o rapito la madre: e la gente, quando ha sentito parla del matrimonio, si è meravigliata come avesse veduto il sole farsi nero. (Freme do, fra se) 'O sole! 'O sole 'e Nàpule. ' sole mio. Sta in fronte a te... (Si alza) Gi­te ne puoi andare. Il barone di Gragnar. non può prendere una pistola e mettersi sparare colpi all'impazzata. « Noblesse oblige ». Io, poi, una pistola non la so neanche tenere in mano. (Sarcastico) Io sor buono. Io non sono capace di fare male una mosca. Le mosche addosso a me possono fare i comodi loro. Io attiro le mosche come il miele. Io sono quello che e ragione a tutti. (Ha detto queste para con forte sarcasmo, come disprezzandosi. Guì, te ne puoi andare.

Guido                            - Mi dispiace, sai, che tu...

Gennaro                        - (energico) Eh, no! Mo' non h più niente da dirmi, Guì. Mo' te ne devi andare; m'é a fa' stu piacere. Me lo de­vi fare quest'altro piacere... dopo quello che m'hai fatto.

Guido                            - (a mezza voce) Come vuoi... (Guido esce lentamente. Gennaro lo segue con lo sguardo pieno di odio. Ha, per un attimo la tentazione di buttarglisi addossa di percuoterlo; ma si frena. Alle sue spa le, da una delle porte del fondo, si affaccia Angela).

Angela Gennaro.

Gennaro                        - (voltandosi rapidamente sarcastico) Barone', buon giorno.

Angela                          - Sei solo?

Gennaro                        - Meglio solo che male accompagnato. Ho avuto fino a mo' 'na mala compagnia. Malamente per me, si capisce. A te, invece, avrebbe fatto tanto piacere.

Angela                          - (fingendo di non capire, umile) Non ti sei fatto vedere da ieri sera...

Gennaro                        - Te l'ho detto: incomincio a scansare le cattive compagnie.

Angela                          - (improvvisamente fissandolo, con energia) Che vuol dire?

Gennaro                        - (fissandola anche lui) Ah, rialzi la cresta? Erano diciassette anni che no­n la rialzavi, e mo' capisco pure la ragione Dopo che ci appiccicammo nei primi mesi di matrimonio proprio per la tua cresta che tu la volevi tenere sempre alzata, ei diventata umile, doce comme a nu cunfietto, tutta latte e miele; e mo', improvvise mente, mi pari 'nu galletto... Tu lo capisci che così non possiamo vivere insieme proprio come diciassette anni fa. A me le creste non mi piacciono. Tengo infoderata sempre la mia, ch'è quella dei baroni di Gragnano, apposta per evitare che qualcun altro, vicino a me, cacci fuori la sua. Ba­rone', ti saluto; saluto anche l'eccellenza vostra, così come poco fa ho salutato quel­l'altro padrone mio... Solo ti avverto che questa volta non me ne vado a Napoli. Sto qua. Mi ci sono acclimatato. Riman­go nel mio palazzo. Ne caccio solamente gl'intrusi.

Angela                          - Parli come un... barcaiolo di Basso Porto...

Gennaro                        - (reprimendo uno scatto, mordendo­si le labbra) Barone', non ti far rispondere che io adatto il linguaggio all'interlocu­tore. Barone', non pazziare con la mia ner­vatura. Barone', ti avverto che in una doz­zina di ore mi sono accorto di avere sba­gliato tutta la vita. Fa 'o galantuomo, trat­ta bene 'a gente: quanto cchiù meglio 'a tratte, cchiù n'hai cate 'e veleno. Non mi sento il coraggio di giustificare anche l'ec­cellenza vostra. Sono diventato partigiano come quel padrone mio di Guido Arvisio. Parteggio. Parteggio per me. (Una pausa) Una sola cosa tu mi potevi risparmiare. Quella di coprire di fango i miei capelli bianchi. Perché la gente adesso non è che dice: «quella, 'a signora, è na... bona pezza»; 'a gente, naturalmente, dice: « quello, il marito, poveretto, all'età sua... ». « Si tortura le mani, gli verrebbe da piangere, sentendo il suo orgoglio stra­ziato) Va, vattenne, Angeli, vattenne.

Angela                          - (lievemente commossa dallo strazio dì lui) Gennaro! Ma... che cosa pensi?

Gennaro                        - C'aggio 'a penzà, Angeli? Penzo quello che so. Quello che m'ha detto poco fa il nostro caro amico e compare, il no­stro parente carnale...

Angela                          - (stupita) E che cosa t'ha detto?

Gennaro                        - (deciso a strapparle una concessione completa) Tutto. M'ha detto tutto. Dall'a alla zeta. Per poco non è sceso ai minuti dettagli, alle fetenzierie... Io stavo qua, me ne stavo in questo palazzo di. casa tutto stemmato ad accogliere a braccia aperte tutti quanti, a dare ragione a tutti, come dice il nostro parente carnale; e non facevo nemmeno in tempo a voltare gli occhi dall'altra parte che mi si soffiavano alle spalle 'e cuoppetielle 'e carta per farmi fare la figura del buffone, d' 'o Pullecenella... Diciassette anni di buffonata, di pulcinel­lata! Io mi davo l'aria di essere il più fur­bo di tutti ed ero 'o cchiù scemo. Mi si ornava il blasone, ogni giorno un poco...

Angela                          - Ma questo è orribile, Gennaro!

Gennaro                        - Eh! Orribile; e se vogliamo dire una parola più esatta: schifoso.

Angela                          - Di modo che tu credi che in questi diciassette anni... No, sai. Nemmeno se lui avesse avuto la spudoratezza di mentire fi­no a tal punto, ti lascerei continuare su questo tono. Da quando io sono rientrata nella tua casa, diciassette anni fa, la mia vita è stata pura, limpida, tutta rispetto a te, al tuo nome... e anche al mio nome, che è quello di una grande famiglia, tu lo sai.

(Negli occhi di Gennaro passa il lampo della prima illuminazione, dopo queste parole).

Gennaro                        - (per provocare altre confessioni) Un nome, oramai, coperto di fango...

Angela                          - Ma che fango! Vorrei vedere quan­te donne, nelle mie condizioni, saprebbero comportarsi meglio di quanto io non mi sia comportata. Ti sei scordato di quanti anni avevo quando ci siamo sposati? Ero così pura, inconsapevole, che tu mi chiamavi « il giglio ». Da te solo apprendevo l'amore e la vita — anche le bassezze dell'amore e della vita — quando ti venne il capriccio di lasciarmi. « Incompatibilità di carattere »! La solita formula meschina e iniqua, che fa da paravento a tutti gli egoismi e a tutte le viltà. Che carattere avevo, se non quello che ho avuto dopo, sempre? E tu mi lasciasti. Mi lasciasti sola in una casa grande, gremita d'amici... di amici giovani e golosi... che tutti, capisci?, nessuno escluso, si divertivano a insidiare la castità della « vedovella »... (Commos­sa) Mi chiamavano la « vedovella », senza sapere la pena del mio cuore, lo strazio del mio orgoglio, le sofferenze segrete della mia giovinezza... Lui fu più scaltro, fu più forte degli altri: ecco tutto. Ma Dio. solo sa quanto ne fui pentita, dopo la prima volta, dopo l'unica volta del mio smarri­mento e del mio abbandono... (Piange).

Gennaro                        - (chi ha seguito lo sfogo di lei con una apparente freddezza immobile e atto­nita, guarda ora nel vuoto come chi veda più chiaramente e della maggiore chiarez­za abbia terrore; e dice più a se che a lei) Una sola volta... quella sola volta...

Angela                          - (piangendo) E mai più, mai più!

Gennaro                        - (c. s.) Fu tra la nostra separazio­ne... e la nostra riconciliazione.

Angela                          - (sempre piangendo) Iddio me n'è testimone.

Gennaro                        - (c. s.) Dopo di che — dopo quel­la sola volta — tu mi scrivesti a Napoli quella lettera disperata...

Angela                          - (riprendendosi improvvisamente, pen­sando al fatto più grave che non e stato ancora detto, lo guarda) Non... non ne sei convinto? (Ha paura che egli abbia pen­sato al fatto più grave).

Gennaro                        - (quasi macchinalmente, pensando ad altro) Convintissimo. (Una pausa) Do­po di che, io... letta la tua lettera... ho pre­so il treno... Ho preso il treno, e sono tor­nato... Sono tornato e abbiamo fatto la pa­ce. Ci siamo... rappacificati. Ci siamo rap­pacificati... e dopo sette mesi... è nata Settimia... Settimina... Dopo sette mesi!

Angela                          - (tremando) Che cosa pensi... ora...

Gennaro                        - (sempre guardando nel vuoto, come fra sé) Quando ti vennero ì dolori, 'a vammana dicette... — 'a vammana, donna Concettina Scala — disse così: « vuoi ve­dere che nasce di sette mesi! ». E quella di sette mesi è nata. 'A gente 'a guardava e diceva: « Gesù, quant'è bella, quant'è grande, quant'è forte, pare nata al tempo giusto, di nove mesi... » ... (Una pausa; poi con voce implorante) Angeli, dimme ca nun è overo... Angeli, io ti perdono qua­lunque cosa; ma m' è a dì ca chesto nun è óvero...

Angela                          - (che ha seguito con profonda trepi­dazione le parole di lui; sempre più tre­mando) Ma che cosa, Gennaro?

Gennaro                        - (quasi con disperazione) Io tengo solo a lei... io le voglio bene più della vista degli occhi miei... Come le potevo volere tutto il bene che le ho voluto, se... (Poi, disperandosi sempre più) Angeli, questo tradimento non me lo dovevi fare!

Angela                          - (c. s.) Ti assicuro, Gennaro, che... Non so come ti sia potuto venire un pen­siero simile... Tu hai visto che... quando m'hai detto che Elio voleva sposare Settimia... io... ti ho risposto subito...

Gennaro                        - (con un freddo scatto disperato) Che m'hai risposto, Angeli? M'hai risposto quello che m'hanno risposto tutti, chi più e chi meno... Tu m'hai risposto: « E se Guido dice di no? ». Anselmo m'ha rispo­sto: ce E Guido dice di sì ? » Cesare ha detto nientemeno: « quello è un bruto... ». (Sarcastico) Per la verità, un bruto non è. Lui s'è ribellato. E' un mascalzone ma non è un bruto. Bruto s'è finto stammattina... (Fissa la donna, energico) ... dopo aver par­lato con te!

Angela                          - (difendendosi a stento) Con me?

Gennaro                        - E che? Ci fosse bisogno della zin­gara, per indovinare? Vi siete messi d'ac­cordo: « perché questo imbecille scimuni­to non abbia sospetto, diciamo di accon­sentire al matrimonio, pigliamo tempo... 'O guaglione, intanto, lo allontaniamo... e magari quando sta lontano gli diciamo: «quella, Settimia, è tua sorella»... (Con terribile disperazione) Grazie, barone'! Tante grazie! Non abbiamo più niente da dirci. Diciassette anni perduti! Diciassette anni di bene perduti! M'hanno arru'bbato 'o core! M'hanno rubato 'o bene d' 'o core mio...' (Poi a, sé stesso, terribile) Genna', ti sta bene! Tu non hai voluto mai parteg­giare nella vita; tu hai dato sempre ragio­ne a tutti. Avanti, neh, da' ragione pure a donn' Angela Bandella, da' ragione a don Guido Arvisio, da' ragione a quella ladra della figlia di sette mesi...

Angela                          - Se vuoi, ammazzami; ma lei, no, non c'entra... tu capisci che non ne ha col­pa. Quando mi sono accorta ch'era stata concepita... - perdonami, perdonami il ri­cordo... - non ho saputo pensare che alla sua salvezza: non alla mia, no, sebbene io ti amassi; non a quella di nessun altro, perché nessun altro io amavo. Alla sua. La sentivo quasi muoversi dentro di me, mi pareva ch'ella implorasse salvezza per il suo avvenire... Che cosa potevo fare, se non umiliarmi, chiamarti, farla nascere senza sospetto e senza vergogna? Come avrei po­tuto dirti la verità? Che cosa avresti cre­duto, tu, del sentimento ch'era in me, mal­grado tutto, malgrado il mio sciaguratissi-mo errore? Ero pentita, ti amavo, non ave­vo mai cessato di amarti, accomunavo nel mio amore te e lei, come se ella fosse stata concepita senza colpa... Credimi, credimi. Fa' di me quello che vuoi; ma credimi.

Gennaro                        - (reggendo a stento il suo sdegno e il suo dolore) Lasciami solo. Non posso sentire più parlare.

Angela                          - (arrendevole, umile) Sì, sì, ti la­scio. Ma... non far niente, ti prego, prima di esserti accordato con me. .Sopratutto fa in modo che Settimia non sappia nulla, non s'accorga di nulla.

Gennaro                        - Vattene.

Angela                          - Tu sai che lei ti vuole molto bene. Io ho contribuito sempre, con tutte le mie forze, a far nascere, a far crescere fra di voi questo grande bene...

Gennaro                        - Vattene!

Angela                          - Ecco, vado. Quando avrai deciso quello che vorrai fare, dimmelo. Dalla tua decisione dipende la mia vita. (Esce per la sinistra. Dal fondo, pochi se­condi dopo, entra Settimia).

Settimia                         - Buon giorno, papà. (Gli si avvi­cina, come per aspettare il suo bacio; poi, dopo una breve pausa) Papà, buon giorno! (Gennaro è fermo, immobile, freddo. Ella Lo guarda con sorpresa. Dice): Non mi dai «nu vasillo » ? (Una pausa. Poi): Che hai, papà? (Un'altra pausa. Poi): Hai avuto qualche dispiacere? Forse per causa mia? Io ti ho detto che gli voglia bene; ma... prima di tutto voglio bene a. te. Adesso m'ha telefonato che vogliono farlo partire un'altra volta... perché anche tu avresti detto ch'è troppo presto per pen­sare a un matrimonio... e io gli ho rispo­sto: « se papà vuole così... ». Dell'opposi­zione dei suoi genitori non m'importava niente; ma della tua... Anche se la tua è una vera e propria opposizione - figura­ti, dimmelo - io... sono pronta a tutto. Un bene come questo può nascere e può anche morire; con un po' di dolore può anche morire. Ma un bene come quello che io voglio a te e come quello che tu mi vuoi... (Una pausa) Perché tu mi vuoi sem­pre bene, papà; non è vero? Ieri sera mi eri parso favorevole, e io... Ma, se è vero che tu ci hai ripensato... Anche la mamma, del resto, capisce che tu, senza di me, non sapresti come vivere. Figurati che piangeva. Non ci mancherebbe altro che questo matrimonio dovesse nascere come un lut­to... (Un'altra pausa). Del resto, io l'ho detto anche a lui: c'è qualche cosa che non va; come una siepe di spine, come un'ombra... E' curioso che adesso, parlan­done a te, i miei sentimenti mi sembrano quasi mutati... Tu non vuoi, e vero?, papà.

Gennaro                        - (eh'è rimasto come agghiacciato, pur combattendo fra un senso di attrazio­ne e un senso di repulsione) Ne parlere­mo un'altra volta.

Settimia                         - Come vuoi. (Poi, con grazia quasi infantile, lagnandosi) Ma ricordati che per la prima volta non mi hai dato e non mi hai chiesto nemmeno un bacio... Non fare la faccia brutta, papà! Ti sta male. (Gli si avvicina ancora, lo bacia sulla gota).

Gennaro                        - (stringendo i denti, mal sopportan­do il bacio) Che fai? Lasciami.

Settimia                         - Hai detto « lasciami »? (Una pau­sa) Non mi vuoi più bene? (Un'altra pau­sa) Allora è così grave quello che ho fatto, . che non ti senti più neanche la forza dì guardarmi?. (Ha uno scoppio di pianto, cade su una poltrona).

 Gennaro                       - (istintivamente le sì avvicina, fa l'atto di accarezzarle i capelli, ritrae la ma­no, s'allontana; poi con una voce che si sforza dì non apparire commossa dice:) Ci siamo messi d'accordo con la sua fami­glia di allontanarlo... perché... (Non sa tro­vare le parole; ripete:) perché... (Settimia alza il capo, lo guarda, si pre­para ad ascoltarlo. Egli, che non la vede, ha uno scatto, dice fra sé:) Che cosa feroce! (E fa l'atto di uscire).

Settimia                         - (implorante) Papà!

(Egli si ferma e si volta a guardarla).

Gennaro                        - Sai: è difficile... è difficile assai... Quello, il ragazzo, ha... una specie di ma­lattia di petto... Almeno così pare... (Sguardo doloroso di Settimia. Scatto di Gennaro, il quale, improvvisamente, dà un pugno sul tavolo, oppure prende una sedia per la spalliera e la sbatte violente­mente al suolo, dicendo:) E poi, adesso, voglio essere lasciato solo, ecco, voglio essere lasciato solo!

Settimia                         - (alzandosi, spaurita) Vado, papà, vado. Scusami. Non te ne avrei neanche parlato, se non t'avessi trovato così. E' sta­to uno sbaglio; perdonami. Ma se anche tu, adesso, ti metti contro di me... Che vuoi che sappia io, di certe cose? Tu mi tieni come nell'ovatta, mi tratti sempre come una bambina. Io... posso capire tutto... pur­ché mi spieghi di che si tratta... Tu sei tanto bravo a trovare le ragioni di tutto.

Gennaro                        - (disperato quasi urlando) Non le so trovare più!

Settimia                         - (consolatrice) Andiamo, papà! Se le so trovare perfino io! Io ti somiglio, sai. Tu forse non te ne sei accorto; ma io ti somiglio molto. Mi sorprendo quasi sem­pre a ragionare come te, quasi con le tue parole... magari in italiano, perché il na­poletano non lo so parlare... E dico: «cu­rioso, m'ha fatta proprio come se stesso »; e questo mi fa piacere, un piacere profon­do... Mi piace di somigliarti così, papà. Mi piace tanto che... in fondo... credo che non ti lascerò mai, non mi sposerò... (Una pausa. Lo guarda. Egli è combattu­to e commosso, sembra non reggere più al combattimento e alla commozione; ha gli occhi lucidi di lagrime. Settimia le si av­vicina, gli chiede, con tono nuovamente infantile:) T'è passata, papà?

Gennaro                        - (con commozione mal repressa) Che mi doveva passare? Non tenevo nien­te. Un poco di nervi. Ogni tanto i nervi si debbono scaricare. (La guarda, fa l'atto di prenderle una mano, si pente).

Settimia                         - (porgendogli la mano) Ecco, papà, prendi. (E' lei stessa a prendergli una ma­no; glie la bacia; poi) Non ti darò dispia­ceri mai più. E' stato uno solo, e basta. Un dispiacere solo me lo puoi perdonare?

Gennaro                        - Sapessi com'è grande!

Settimia                         - Proprio grande, grande, grande?

Gennaro                        - (scrolla il capo disperatamente; poi guarda Settimia) Del resto, che c'entri tu? (Una pausa. Dalla sinistra appare Angela, che si ferma sulla soglia, come in attesa. Gennaro la vede, la guarda; poi, con uno sforzo enorme, dopo un profondo sospiro, le dice:) Trase.

(Angela fa un passo avanti, piange. Set­timia guarda ora lei, ora lui, senza capire).

FINE