Il pane duro

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IL PANE DURO

dramma in tre atti di Paul Claudel

TITOLO ORIGINALE: "LE PAIN DUR "  VERSIONE ITALIANA DI SUZANNE ROCHAT

PERSONAGGI

TURELURE

SICHEL

LUMIR

LUIGI

ALI HABENICHTS

Nel marzo del 1949, venne messo in scena a Parigi da André Barsacq, uno dei mag­giori registi francesi.

Traduzione di SuzanneRochat  diritti riservati per avere la concessione per la rappresentazione rivolgersi agli eredi.

ATTO PRIMO

SCENA I

L'antica biblioteca del monastero cistercense di Coùfontaine come è descritta nel Primo Atto de « L'ostaggio ». Tutti i libri sono stati por­tati via dagli scaffali e se ne vedono pile sparse sul pavimento. Disordine e polvere; alle finestre, in qualche riquadro, la carta sostituisce i vetri. Il grande crocifisso di bronzo è stato staccato e lo si vede appoggiato contro il muro. Al suo posto, più in alto, il ritratto di re Luigi-Filippo in uni­forme di guardia nazionale con grosse spalline e pantaloni di « cachemire » bianco. E' Novembre. All'alzarsi del sipario, Sichel e Lumir sono se­dute. Lumir è vestita da uomo con una grande redingote bordala di alamari. Si ode Turelure che perora nella stanza vicina.

Voce di Turelure — ... la Monarchia costituzio­nale, tradizionale per il suo principio e                  moderna per le sue istituzioni! (Applausi).

Sichel — Questa frase è mia e ha sempre suc­cesso. Lui la infila dappertutto.

Voce di Turelure — ...lo... lo... lo sviluppo del­le risorse nazionali che cammina di pari     passo con il progresso delle luci e di una saggia liber­tà! E questo mi riporta, Signori,    all'avvenimento che è l'oggetto della nostra riunione! Oggi, la fer­rovia tocca        Coùfontaine! Domani, attraverso la Valle della Marna e oltre i Vosgi, varca il Reno e            raggiunge l'Oriente. La nostra mano oltre le fron­tiere stringerà la mano alla Germania      sorella. Per­donate l'emozione ad un vecchio soldato. Oggi, la scienza realizza quello che la nostra giovinezza ha sognato e che né le armi né il genio di un grand'uomo        avevano potuto raggiungere. In una atmosfera di pace e di fratellanza è possibile da un            paese all'altro lo scambio di prodotti, di idee e di nobili sentimenti. E per le nostre             campagne, quale avvenire! La nostra agricoltura trova dei facili sbocchi, tutto si mette    in fecondo movimen­to, la folla delle città sciama verso i campi con innumerevoli           battaglioni di giocondi lavoratori! Non più disoccupazione, non più braccia inattive!      L'industria accende ovunque i suoi forni, ovun­que s'innalzano le ciminiere di     zuccherifici. Ed io stesso, Signori, si, io stesso, ve ne voglio dare l'esempio. Questa         terra, questa casa, questo bene ereditario della nostra antica famiglia, voglio con­           sacrarlo allo sviluppo delle nostre forze economi­che. Questo monastero diventerà una          cartiera. Là dove un tempo quei dabben sacerdoti, che i più vecchi di voi ricordano          senza dubbio con com­mozione, innalzavano in onore del Dio una voce rispettabile ma             inutile, sta per echeggiare il ru­more festoso delle macchine e delle tramogge. Il    lavoro non è forse la preghiera migliore, la più gradita al Creatore? Certo, ma a chi        

            dobbiamo questi doni? a chi, Signori? Non dimentichiamo­lo: al Sovrano restauratore      che, salvando la Fran­cia dalle sterili agitazioni della demagogia, è ve­nuto a piantare           definitivamente sul nostro suolo la monarchia costituzionale, tradizionale per il suo       principio, moderna per le sue istituzioni! (Silen­zio. Poi, scarsi applausi).

Sichel — Dimentica d'averlo già detto.

Voce di Turelure — Signori! Alzo il mio bic­chiere in onore di Sua Maestà Luigi Filippo, re dei Francesi! Viva il Re e la Sua augusta Fami­glia. (Applausi, brusio).

Sichel — Lei mi dirà che tutto questo non le rende i suoi diecimila franchi.

Lumir — Pazienza, li avrò.

Sichel — Crede lei che diecimila franchi pos­sano venir fuori così, da soli?

Lumir — Il Signor Conte è ricco.

Sichel — Meno di quanto lei crede. Il suo di­sordine è pari alla sua avarizia, che cede solo      alla sua disonestà! Ah! che gran Signore!

            E lei crede che perché si è ricchi, si ha del denaro da distribuire cosi... La sua       ingenuità è sbalorditiva!

            Più il denaro lavora più è difficile disturbarlo. Tutto è scontato in anticipo.

            E non è certo nel momento in cui ha in mente di costruire questa cartiera che può fare     a meno di spiccioli.

Lumir — So che ha incassato denaro da suo padre.

Sichel — Lei sa questo? E' vero, ha incassato ventimila franchi.

Lumir — Per la proprietà dell'Arbre Dormant.

Sichel — L'antico maniero dei Coùfontaine! Un bell'affare per mio padre! Qualche ala di      muro in rovina, un mulino e dei campi di sabbia.

Lumir — Ma là si raccorda la diramazione per Rheims.

Sichel — Lei è molto ben informata.

Lumir — Avrò dunque questi ventimila franchi.

Sichel — Ma come! Son diventati ventimila?

Lumir — Diecimila che ho imprestato e dieci­mila necessari a Luigi per la scadenza.

Sichel — Questo può salvarlo?

Lumir — E permettergli di aspettare il raccol­to, che sarà ricco per le piogge abbondanti, e       di incassare per le forniture al Corpo di occupa­zione.

Sichel — Sul serio? Luigi ha fatto qualche cosa laggiù?

Lumir — Trecento ettari alle porte di Algeri conquistate sulle paludi di Mitidja, che     incomin­ceranno a rendere. Nostro padre non vorrà che tutto questo vada a finire nelle            mani degli Ebrei per diecimila franchi.

Sichel — Lei dice nostro padre?

Lumir — Luigi mi sposa, lo sa bene.

Sichel — Sì, lo so, me l'ha scritto.

Lumir — Vi scrivete?

Sichel — Povero figliuolo! Io ho della simpa­tia per lui, e lui lo sa. Gli sono utile come            posso.

Lumir — Lei gli deve almeno questo.

Sichel — Come... gli devo almeno questo?

Lumir — Tutto quello che aveva è passato nel­le mani di suo padre.

Sichel — Dunque è colpa mia o di mio padre se il signor Capitano Luigi-Napoleone-  Turelure- Coùfontaine si è messo in testa di conquistare le paludi di Mitidja (trecento             ettari alle porte d'Al­geri)?

            Io dico che egli deve della gratitudine al vec­chio Habenichts.

            E d'altronde, il denaro non è uscito dalla fa miglia.

Lumir — Lo so.

Sichel — Vostro padre, come lei dice, non è per nulla estraneo alle piccole operazioni del      mio.

Lumir — Per questo devo avere i miei dieci­mila franchi.

Sichel — E lei fa assegnamento su di me?

Lumir — Signora, mi permetto di sperarlo.

Sichel — Io non sono Signora.

Lumir — Sichel...

Sichel — Io non sono Sichel! E' il vecchio che mi chiama così. Non ricorda nessun nome!

            Metà insolenza, metà imbecillità in un certo senso, ci ribattezza tutti, se si può dire          così.

            Di mio padre, ha fatto un Ali Habenichts — dice lui che questo gli da il giusto pizzico    di Oriente e di Galizia.

            E di me, che sono Rachele, ha fatto Sichel, che in tedesco significa falce di luna nel        cielo chiaro del nuovo mese.

            Bene. Cosi va proprio bene.

Lumir — Io so che lei può tutto, qui!

Sichel — Sono la sua mantenuta, non è vero?

Lumir — Se non lo credessi perchè sarei qui?

Sichel — Virtuosamente accompagnata dalla nostra vecchia zia di Grodno, l'ineffabile          Signora Kokloschkine.

            Lei è carina in questi vestiti maschili.

Lumir — E' più comodo per il viaggio.

Sichel — Fa bene a trattarmi così amichevol­mente. Lei è giovane, ma giudiziosa. Lei non      farà che un matrimonio giudizioso.

            Non l'avrei mai creduta così attaccata al de­naro.

Lumir — Questo denaro non è mio.

Sichel — Capisco. E' una modesta e povera cassa rivoluzionaria. Si rifarà la Polonia e si         ricomprerà al Museo di Dresda la sciabola di Sobieski.

Lumir — Non più questa Polonia, Signorina Habenichts, ma un'altra.

Sichel — Quale?

Lumir (abbassando gli occhi) — Una nuova Polonia.

Sichel — E dove?

Lumir — Al di fuori. Fatta da quelli che sono morti per lei.

Sichel — Senza speranza.

Lumir — Morti senza alcuna speranza. (Si­lenzio).

Sichel — Quanto a lei, vivrà felice in quella bella concessione al sole d'Algeria.

Lumir— Devo prima riportare questo denaro laggiù.

Sichel — Ed è proprio sicuro che lei ritornerà?

Lumir(guardandola) — Può darsi. (Silenzio).

Sichel(pensosa, con gli occhi abbassati).

            Lei ha ancora una patria sulla terra. Lei ha un posto che è suo per diritto e di nessun        altro. Non vi hanno sradicati e dispersi.

            Ma per noi Ebrei, non c'è un piccolo lembo di terra largo quanto una moneta d'oro, sul    quale noi possiamo porre piede e dire: è nostro, siamo noi, siamo in casa nostra.           Questo è fatto per noi. Dio solo è nostro.

            Che strana storia! La presa di Gerusalemme (Mio Dio, chi si occupa di      Gerusalemme?)

            A causa di questo, non esiste un solo uomo og­gi, ad eccezione di' quelli della mia            razza, che mi tenda la mano e mi dica spontaneamente. « Vieni. Sii mia. Tu sei la mia donna ».

            Siamo rifiutati da tutta l'umanità, e di questo stesso rifiuto siamo fatti.

            E lo so, si, che c'è anche quest'altra storia, quello là... (indica il crocefisso senza    guardarlo)

            Ebbene, non è il solo errore giudiziario che si è commesso.

            Ed era poi veramente un errore? E si poteva sopportare che Egli si chiamasse Dio?          Mio padre dice che è una bestemmia, e inoltre, una menzo­gna, perché Dio non esiste.

            Lumir — Il Suo sangue è ricaduto sul vostro. Il sangue! E' una gran cosa il sangue.         Lei dovreb­be parlarne con mia zia.

            Ella afferma che allora per voi fu come una nuova nascita, una concezione aggiunta        all'altra, un secondo peccato originale, l'opposto della be­nedizione di Abramo.

Sichel — Questo è misticismo alla maniera di Grodno! Come può parlare lei di sangue?

            Noi c'eravamo prima di voi e siamo i primoge­niti. Cosa siete voi a paragone? Se   appena riu­scite ad arrivare alla decima generazione con un sangue più imbastardito di             quello dei cani!

            Vi chiamate gentiluomini! Ma noi soli siamo puri, in linea diritta dalla creazione del        mondo!

            Ci avete esclusi e ci dovete tutto.

Lumir — Non chiedo di uscire dalla mia razza.

Sichel — E io chiedo di uscire dalla mia, e di strapparmi da questo ghetto dove ci tengono    sof­focati!

            I miei padri hanno creduto in Dio e hanno sperato nel Messia.

            E' il loro compito dalla creazione del mondo e non hanno cambiato: soli, in piedi,            sotto l'albero dalle sette braccia in una fede e in una speranza accanita! Ma io non      credo in Dio, non spero che in me stessa, e so che non c'è una vita.

            Io sono una donna, e voglio avere il mio posto con il resto dell'umanità e per questo        sono pron­ta a fare tutto e a donare tutto e a tradire tutto! Sono appena in tempo!

            Lei crede che mi interessi la sua Polonia? Si rallegri che ci sia una frontiera di meno.

            Non c'è Polonia! Non esiste giudaismo! Non c'è Dio, ma solo uomini e donne e lo           stesso di­ritto per tutti.

            Non c'è Dio, né Messia da attendere; ci hanno ingannati e la nostra speranza è stata         vana.

            Le cose che esistono sono importanti e per que­sto io non ne sarò esclusa!

Lumir — Nessuno le nega il suo Pari d: Francia.

Sichel — Allora perché lei è qui?

Lumir — Dipende solo da lei che io me ne vada.

Sichel — No. Il Signor Conte è nell'età in cui si vuole essere amati per se stessi. E da lui,       che da vero Francese ama tanto le donne, otterrà tut­to. Eccetto il denaro. Per carità,       non parli di denaro: è volgare!

Lumir — Sichel, se io ottengo questo denaro che mi è dovuto, io non ritorno ad Algeri.

            Come vede io l'ho capita.

Sichel — Non so quello che vuol dire.

Lumir — E' lei che mi spinge all'esaspera­zione!

            Io dico che ad ogni costo avrò questo denaro e che è pericoloso per lei che io rimanga.

            Io avrò questo denaro.

Sichel — Che cosa pensa di fare?

Lumir — Crede che io non conosca il cuore di un padre del genere del Signor Conte? Io         sono la fidanzata di suo figlio.

Sichel — Non dubito che lei Io ami.

Lumir — L'onore e il dovere anzitutto.

Sichel — L'onore e il dovere, la spingono ad adescare un vecchio imbecille?

Lumir — Sì.

Sichel — E a tradire chi l'ama?

Lumir — Mi faccia vedere le lettere che il Capitano le ha scritto.

Sichel — Credo che l'ami sinceramente.

Lumir — L'amo anch'io.

Sichel — Non tanto quanto questi diecimila franchi da ricuperare.

Lumir — Io glie li ho dati.

Sichel— Prestati.

Lumir — Io gli ho dato la mia vita.

SICHEL — Prestata a forte interesse.

Lumir — Abbiamo fatto abbastanza. Non ho il diritto di essere più generosa verso questo       Francese.

            Mio fratello gli ha salvato la vita, riportandolo tutto sanguinante dalla breccia di Costantina.

            E sono io, poi, che l'ho curato. Mio fratello ed io l'aiutavamo mentre egli incominciava le sue prime fatiche di pioniere e io custodivo la sua casa.

            Ora mio fratello è morto e altri doveri michiamano.

SICHEL— Non mi pare che lei sia così bella.

Lumir — Abbastanza per farmi sposare.

Sichel — Che occhi! Quando li tiene abbas­sati, tutto è così chiuso che si direbbe che lei         non esista più.

            Spesso sono fissi e tranquilli come quelli di un bambino, e così seri che lo stesso   Signor Conte ne è sconcertato. Ma quando si incupisco­no e si adirano e vi si vede      dentro l'anima che brucia... Senza dubbio sono questi occhi che io conquistano!

Lumir — Lei sbaglia. Non sono i miei occhi che egli ama. (Silenzio).

SICHEL — Lumir, il Conte è vecchio e penso che abbia vissuto abbastanza.

Lumir — Volesse il cielo che la sua sorte e questo sporco denaro fossero nelle mie mani.

Sichel — 0 nelle mie, e così sia! Ma io penso che non sono i morti quelli che devono   sotter­rare continuamente coloro che vivono.

Lumir — E' qui, esiste, e noi non possiamo farci nulla.

Sichel — Più di quanto lei non pensi.

Lumir — Mi consiglia un delitto?

Sichel — Io non chiamo questo un delitto. Quando ci rifiuta quello che ci deve, e denuncia   tutti i nostri trattati con lui, noi siamo in stato di guerra.

            A ognuno non rimane che servirsi delle pro­prie armi, a suo rischio e pericolo.

            E se al Conte, una bella notte, arrivasse una palla nella testa, chi se ne stupirebbe? Lui     è terribile con i bracconieri, e tutti i domestici lo odiano.

Lumir (con un dolce sorriso) — Lo giustizi lei stessa dunque!

Sichel — Tutti lo possono, non io.

            E d'altronde io sono una donna.

Lumir — Neppure io lo posso.

Sichel — E' vero.

            Ci sono altri mezzi. Io, Io conosco bene. Da due anni non ho altro da fare che      guardarlo.

            E' vecchio. Ha paura, paura della morte. Fa ancora il bravo, ma il medico dice che la       molla che anima questa grande carcassa è intaccata.

            Ha visto come la pelle del suo cranio è sottile?

            Si vede già il teschio là sotto! Lo stesso colore giallastro, come quel mucchio vicino        alla casa del giardiniere.

            Una violenza, un'emozione, ed è bello e an­dato.

            Lo sa e ha paura. Si ha sempre delle risorse, con un uomo che ha paura.

            Quasi tutti gli uomini hanno paura di qualche cosa.

            Per questo egli non osa scacciarmi.

Lumir — Che connubio commovente!

Sichel — Crede che mi abbia presa per amore? No, lei non indovinerebbe mai! E' per             impedir­mi di fare della musica!

            E' incapace di resistere a una certa mania di burla e di dispetto.

            Ero un'artista conosciuta in tutto il mondo, lei sa il mio nome.

            Da due anni, mi creda, m'impedisce di mettere le mani sul piano.

            Io sono la sua ragioniera e mi ha ridotta in schiavitù come gli antichi Israeliti.

            In principio pensavo che mi avrebbe sposata, ma ho dovuto presto rinunciare a questa     spe­ranza lusingatrice.

            Le dico che non accetterà di morire, se non avrà la certezza di giocare con questo un       tiro a qualcuno.

            Mentre io non posso spillargli un soldo: nè per me, nè per lei.

Lumir — Allora muoia, e a lei resti il figlio.

Sichel — E a lei la santa Polonia.

Lumir — Io ho commesso un delitto e devo scontarlo.

            Mio fratello ed io, abbiamo prestato questo de­naro tre volte sacro.

            Bisogna che lo ritrovi. Fino a quel momento, nessun'altra idea mi è permessa.

Sichel —Credo che ci siamo intese perfet­tamente.Giochi le sue carte, io gioco le mie              tutte e due contro il morto.

(Entra Turelure).

SCENA II

Turelure — Ebbene, chi parla di morte?

Sichel — Stavamo discutendo le regole del whist e la partita di ieri sera: le mani deboli e       forti del morto.

Turelure — Povero me. Eccomi ben piazzato tra queste astute giocatrici.

                        Avete vinto tutto, ieri, vuotandomi le tasche; non mi sono rimasi che gli onori.

Sichel — Il Signor Conte non è ancora sul punto d'esserne privato.

Turelure — Magnifico! Magnifico! «Sempre l'onore !» è il mio motto. « Sempre      l'amore» come diceva il re di Vestfalia alzando il bic­chiere. E di ciò i Tedeschi hanno     fatto « Tschor- lemorl », che è una mistura freschissima di vino bianco e acqua di           Selz.

Sichel — Io vi lascio. Credo che la Contessa Lumir abbia bisogno di parlarle.

Turelure — Cara Contessa! Come è gentile di esser venuta a trovarmi in questa povera       ca­sa! Una triste ospitalità!

            I muri sono solidi e ho avuto la bestialità di fare riparare il tetto due anni fa. Ma tutto è   in abbandono.

            Guardi queste pile di libri di cui non riescoa sbarazzarmi. Solo per portarli a Rheims,       mi renderebbero più di quanto valgono. Li voglio buttare nel fuoco.

            Bene. Tutto cambierà, con le macchine e la ferrovia. Questo stagno e la chiusa che i        frati hanno fatto lassù per la loro pesca, mi daranno la forza motrice. Certo mi costa            buon denaro sonante, lo può direi

            E' stato penoso, ma ho dovuto vendere beni di famiglia.

            Suo padre ha fatto un ottimo affare, Sichel, approfittando della mia situazione.

Sichel — E' concluso?

Turelure — Non completamente. Vuole ve­dere certi piani, ottenere alcune garanzie. Ah,     è un uomo prudente!

            Lo conosce, lei, Contessa? Ha avuto l'occa­sione di essere utile al nostro caro        Capitano.

Lumir — E lui glie ne è riconoscente.

Turelure — Lo so.

Sichel — Lumir! — Mi permettete di chia­marvi così? Non sto per diventare vostro             padre? Lo si amerà un poco questo vecchio papà?

            Come sono felice di vedervi parlare così da buone amiche! Lumir, questa piccola             donna sarà una sorella per lei!

            E per me è stata un angelo, un vero angelo! Per il senso che ha degli affari — un angelo, le dico, con più forza nel mignolo che il cane di una carabina!

            E che artista per la musica! Vorrei che la sentisse! Pensare che non posso ottenere da       lei nemmeno che apra il suo piano!

            L'arte è stata il nostro primo, vero legame.

            Se avesse potuto ascoltare quello che riesce a far scaturire dal pianoforte sotto le sue       falangi d'acciaio; e che uragano di note che pure si pos­sono percepire ognuna distintamente! Soprattut­to questo mignolo all'estremità delle mani, que­sto piccolo      mignolo d'acciaio che trova perfet­tamente i tasti e li batte con una implacabile             precisione!

            Ne ero entusiasta! E mi dissi: bisogna che di questo mignolo faccia il primo ministro,      e il Go­vernatore Generale del vecchio Turelure! E' co­sì! E' lei che spreme da questa            vecchia anima tutto quello che le resta di musica!

(Le bacia la mano).

Sichel — Caro Conte!

Caro Toussaint! — Addio Lumir! Coraggio! E lei, Toussaint, la prego di fare quello che può! Mi è cosi caro questo nostro Luigi!

(Esce).

SCENA III

Turelure (mandandole un bacio) — Addio, cara amica! Addio, sporca carogna, tu possa     cre­pare!

            Eccomi a lei, Signorina, tutto orecchi per ascoltarla.

Lumir — Temo di essere capitata a spropo­sito, in questo giorno di festa e fra tante      occupazioni.

Turelure — Sono sempre occupato. Ma d'al­tronde l'inaugurazione è finita.

            Laggiù un treno ornato di fronde e di bandie­re porta verso Parigi i miei invitati ben         sazii e in piena digestione!

            Ah, che grande epoca!

            Che levata di vanghe e di zappe su tutta la Francia!

            Che formicolio di carriole!

            Quattro altre linee come questa dalla capitale verso tutti gli angoli del paese,        permettono in poche ore a tutti i cittadini di riunirsi sulla stes­sa piazza!

Lumir — La linea del Mezzogiorno raggiunge già Lione e permetterà a suo figlio di essere      qui tra poche ore.

Turelure — Ma come? Viene davvero?

Lumir — Non lo so, non ne ho nessuna no­tizia.

Turelure — Gli avevo raccomandato di re­stare laggiù.L'avevo pregata di scrivergli. Non     abbiamo bi­sogno di lui!

Lumir — Ho scritto.

Turelure — Non ho niente da dirgli. Non lo voglio vedere.

Lumir — Ne traggo buon augurio per il suc­cesso della mia richiesta.

Turelure (duro) — Sempre questi diecimila franchi?

Lumir — Ventimila, prego.

Turelure — Ventimila, mia piccola Damina? Come è carina nella sua grande redingote!

Lumir — Luigi ha una grossa scadenza. Se non potrà pagare, gli porteranno via tutto.

Turelure — E' così mal ridotto? Questi usu­rai sono dei veri Arabi.

Lumir — Si dice che lei sia d'accordo con loro. E che in questa maniera gli abbia ripreso i       beni della madre.

Turelure — Non è vero. Anzi, è vero! Ma cosa c'è di male? Coùfontaine non è nè suo, nò   mio. E' il patrimonio della famiglia. Non credo di aver agito male se l'ho voluto mettere al si­curo dalle fantasie di un prodigo.

Lumir — Non lo trascini alla disperazione.

Turelure — Gli rimane l'esercito. Vi ritro­verà il suo grado.

            Sono suo padre, che diavolo! E lo amo. Glie lo dica pure che lo amo. Gli dica che io       mi ado­pero per il suo avanzamento.

Lumir — Lui vuole solo il denaro.

Turelure (con disgusto) — Denaro! Puah!

Lumir — E' disposto a darle l'otto per cento.

Turelure — No! Gli farei un cattivo servizio se lo incoraggiassi in questa pazza impresa.      Non c'è niente da fare in Algeria.

            Niente denaro!

Lumir (abbassando gli occhi) — Anch'io vor­rei il mio.

Turelure — Non sono stato io a prenderlo.

Lumir (alzando gli occhi su di lui) — Lo faccia per me, Signor Conte!

Turelure — Bene. Preferisco questo tono.

Lumir — Non la credevo così cattivo.

Turelure — Cento volte no! Sono un gran brav'uomo. Dolce, dolce, tenero, molle come      una pappa di zucca.

Lumir — Lei può anche scherzare, ma è più vero di quanto immagini.

Turelure — Come? Non le faccio paura? Mi hanno sempre detto che avevo l'aria d'un         lupo.

Lumir (con dolcezza) — Per me ha l'aria di un caprone, un vero caprone della Champagne.      Con un mento e una bocca così buffi!

            Le sue labbra sono come due marionette che si inseguono e che dicono, quando lei          non se ne accorge, tutto quello/ che lei pensa.

Turelure (offeso) — Grazie. Lei dimentica a chi parla.

Lumir — Signor Conte, so che cosa le debbo.

Turelure — Cioè che non le devo niente.

Lumir — Io non le chiedo di dovermi qual cosa.

Turelure — Signorina! Figlia mia! Ometto mio! E' meglio che le levi subito qualche idea     dalla testa.

            Io non le renderò questi diecimila franchi!

Lumir — Lei mi ha fatto sperare ben altro!

Turelure — La politica di sua Maestà è cam­biata.

Lumir — Ma come! E' una questione di po­litica!

Turelure — Fino all'altro giorno non erava­mo nella migliore armonia col vostro legittimo

            sovrano: intendo dire Io Zar. Una buona piccola cospirazione a Varsavia... Eh, mio         Dio! Non sa­rebbe stato male fargliene assaggiare il sapore!

Lumir — E nel caso, si guadagnava la grati­tudine del mio sovrano legittimo dandogli qualche benevola indicazione.

Turelure — Esattamente! Vede: la nostra po­litica è cambiata. La Polonia non ci interessa    più. Questi Polacchi non pensano che alle som­mosse.

Lumir — Come gli eroi delle Tre-Gloriose!

Turelure — Rendo onore a questi difensori della Costituzione!

Lumir — Lei rispetta le leggi?

Turelure — A ognuno la sua parte. La mia è di farle.

Lumir — E va bene. Non mi rimane che an­darmene.

Turelure — Dove?

Lumir — Laggiù: bisogna che io renda i con­ti per me e per mio fratello.

Turelure — Lascia così il suo fidanzato?

Lumir — Non siamo fidanzati fino a questo punto, e altri mi aspettano.

Turelure — Sarà dunque lei che andrà a li­berare la Polonia, non è vero?

Lumir — Sì.

Turelure — Lo zar non ha più che da pre­notarsi una piccola villa sulle coste del lago di       Ginevra, qualche pensione « mit friihstùck ». Ec­co la Signorina che si mette in marcia          come una armata.

Lumir — Il gran giorno è venuto.

Turelure — Ecco dunque la donna che ver­rà a capo di tre Imperi, con i suoi occhi az­zurri    e le piccole mani infilate nel manicotto imitazione coniglio.

(Lo guarda).

            Perchè mi guarda così? Con occhi che non esprimono nulla e che sono perfettamente      inca­paci di capire qualcosa? Non si sa mai quello che pensa.

Lumir — Mi renda questo denaro.

Turelure — No!

Lumir — Crede che io non abbia abbastanza nemici?

Turelure — Io non sono suo nemico.

Lumir — Lo credo.

            Signor Conte, c'è molta gente nella sua vita che le ha detto: Turelure, io ho fiducia in      lei?

Turelure — Ah! piccola canaglia! Come sai bene trovare la giusta strada per arrivare al        cuo­re di un povero vecchio.

Lumir — Devo veramente partire?

Turelure — No!

Lumir — Conte, lei è ricco e io non ho nulla, e il poco che avevo non era nemmeno mio.

Turelure — Questo Luigi è un gran cialtrone!

Lumir — Era denaro di donne — donne che l'avevano messo assieme. Avarizia di madri e      di vedove, dote di ragazza, il pane degli orfani, lacrime e sangue di proscritti e dei     martiri! Non un soldo che non fosse bagnato di sangue.

Turelure — E tutto questo serve a dissodare gli alberi di giuggiole della Mitidja.

Lumir — E' vile derubarmi così abusando della mia debolezza!

Turelure — Io non l'ho derubata.

Lumir — ... Come un uomo che deruba una bambina prendendole la merenda nel suo cestino !

Turelure — Io non le ho rubato nulla dan­nata ragazzina! Io ho aiutato il capitano quan­to    ho potuto. E anche a me, egli deve del de­naro.

Lumir — Mi renda il mio denaro, caro signor caprone. Per il resto saremo pari.

Turelure — Ma lui è rovinato allora, e lei non lo può sposare.

Lumir (abbassando gli occhi) — Naturalmen­te, io non lo posso sposare senza denaro.

Turelure — Dunque, lei non l'ama?

Lumir — La mia vita è troppo breve perché io possa darmi fino a tal punto a qualunque          uomo!

Turelure — Ha ragione. Egli non l'ama. Ha troppe idee nel suo animo.

Lumir — Io sono così giovane. Ero fiera che egli avesse bisogno di me.

Turelure — Altri possono avere bisogno di lei.

Lumir — Mi lasci dunque la possibilità di aiutarli.

Turelure — Ce n'è uno che non è lontano.

Lumir — Chi?

Turelure — Perché parlare del visconte e di tutte queste immagini eroiche e funebri che      fan­no così piacere agli adolescenti? Che diavolo! La vita è bella!

Lumir — Posso rimanere solo se, invece di me, parte il denaro.

Turelure (severo) — Lumir, mi risponda sin­ceramente. Ama veramente il suo paese?

Lumir — Non lo so. E' una domanda che non mi sono mai posta.

Turelure — Ebbene, malgrado tutto, per il suo paese lei vale più di diecimila franchi.

            C'è ben altro da fare nella vita che essere onesti!

            C'è ben altro da fare quando si è giovani che morire stupidamente come nelle versioni     latine, o farsi mettere i ferri ai piedi.

            Quando sarà sepolta viva a Boufarik in mez­zo a un bel campo di porri, crederà    veramente che non c'era nulla di meglio da fare?

Lumir — Non mi si chiede di più.

Turelure — Luigi non è della nostra razza. Non è un Coùfontaine! Non ha mai saputo         cosa significasse essere un Coùfontaine! Non pensa che alle sue scadenze.

            Io, io la capisco, signorina! Quando l'ascolto, il mio vecchio sangue s'infiamma.

            Che diavolo! Non per nulla siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione!

Lumir — E' la rivoluzione che ha fatto voi.

Turelure — Non lo nego. E anche se la cosa non mi diverte più, parola d'onore, bisogna      dire che ci sono dei bei momenti!

            Quando Sua Maestà esce dalle Tuilleries, al rullo dei tamburi, circondato dalla Corte e    dai rappresentanti della proprietà francese! Che spettacolo!

            Si vedono, fianco a fianco, regicidi e nobili rinnegati, industriali e magistrati        giansenisti, una dozzina almeno di vecchi soldati scampati da tutte le battaglie, e     Victor Cousin! E nel bel mezzo, proprio lui, il Signor Re di Francia, che ci presiede      con la dignità di un capo d'istitu­zione e il sorriso di un banchiere non comple­tamente             sicuro delle sue cifre.

            E' veramente mezzo secolo di storia che avan­za, e Sua Maestà ne è in parte l'autore!

            Tutto questo vale le riviste Consolari dell'an­no X sulla Place du Carrousel!

Lumir — Dunque è lei la Francia?

Turelure — Perché no? Per il momento sono io la Francia!

Lumir — E io, io sono la Polonia senza al­cun amico.

Turelure — Non dica questo, signorina! Lei mi addolora.

Lumir — L'unico mio amico mi viene porta­to via.

Turelure — Sta a lei sola ritrovarne un al­tro, soldatino mio!

Lumir — Non capisco!

Turelure (piagnucoloso) — Mi ascolti, signo­rina, e perdoni la mia emozione. Io sono           vec­chio e ho bisogno di un sentimento.

Lumir — Come è buffo!

(Sorride).

Turelure — Sono come la Francia. Nessuno mi capisce.

Lumir — Ma perché vuole che io la capisca?

Turelure — E' forse colpa mia se sono Pari di Francia, e Conte e Maresciallo, e Grande       Ufficiale di non so che cosa, e Presidente di qua, e Ministro di questo, e non so che    diavolo altro!

            Pensa che non preferirei forse qualche altra cosa?

            Non sono forte e cattivo, ma gli altri cosi sciocchi e meschini da darvi tutto prima che     si chieda!

            Tutto è una commedia dove non resta che re­citare la parte con sicurezza e,           conoscendo beneil mestiere, permettersi qualunque cosa.

            Ma c'è ben altro da fare che recitare! Crede lei che io non preferirei qualcos'altro? -

            E' come la Francia quando si gettava sul Louvres e su Versailles!

            Non chiedeva pane, perché un popolo non vi­ve di solo pane! Chiedeva piombo e             mitraglia delle grandi pedate nel sedere!

            Un cavallo come la Francia, è gioviane e innamorato, ama ridere e sentire il padrone!       Bisognaavere ginocchia di ferro quando s’ira . m fe­re di cavalcare una simile bestia:       non e ci­tello, creda a me!

            E pensi a questo grassone di Luigiche avevain sella! Appena lei cominciava a       caracollare lui finiva a terra senza un movimento, senza rumore, come una balla di        cotone.

            Cosa restava da fare se non tagliargli la testa?

            Mi dica lei!

Lumir — Cosa vuole che le dica?

Turelure — Bisogna dire: sta bene:

Lumir — Sta bene, Signor Conte, sta benissimo.

Turelure — Ecco! Dunque ero rimasi: sì, mia moglie. La mia prima moglie, l’unica   perché Sichel non conta nulla.

            Era veramente una santa, che Dio abbia la sua anima!

Lumir — Sygne de Coùfontaine.

Turelue — Come l'ha detto? Ripeta un po’!

Lumir — Sygne de Coùfontaine.

Turelure (abbassando la voce) — Sygae Coùfontaine. Questo nome ha una strana sonorità in questa camera. Ah! L'armonia tra noi fu perfetta per il tempo in cui fummo           assieme. Bre­ve tempo ahimè! Undici mesi in tutto, di cui nove separati. Mai una             parola tra noi. Che dolcezza era sempre nelle sue maniere, e che sprezzo nei suoi             occhi quando acconsentivavedermi!

Lumir — Mi hanno raccontato certe cosi.

Turelure — Era migliore di me, e non e ir­to una ragione per disprezzarmi.

            Questa gente che non sa che disprezzare A che serve?

            Il disprezzo è la maschera dei deboli.

            Un uomo forte non disprezza nulla. Si serve di tutto.

Lumir — Che lei era il più forte, glieli an fatto capire bene!

Turelure — Non bisogna essere il più debole con me. E' pericoloso.

Lumir — Lo vado a dire a Sichel.

Turelure — Non so cosa darebbe per essere la più forte! Ma non può e questo la      esaspera.

            Appena la guardo in una certa manieri: turba e mi sfugge.

Lumir — Io non ho paura di lei.

Turelure — Lo so ed è delizioso. Nel suo piccolo, fervido, indomito cuore, nella sua           piccola anima leale, c'è posto per un solo sentimento.

            Per lei esiste solo quello che le genti della sua razza hanno detto, padri e fratelli.

            E quelli che non appartengono alla Razza Sacra, contano uno meno dell'altro. Non è       così?

Lumir — E' l'alleanza dei poveri.

Turelure — Ebbene, le genti della Sam Razza si capivano un tempo così bene tra lor: che    per imporre loro la pace occorreva cercar? altrove qualcuno che fosse assolutamente   in ra­pace di capirli. Mai un Polacco è riuscito a venire a capo della Polonia.

Lumir — Cosa vuole dire questo apologo?

Turelure — Mi dia la sua mano: io le offroil mio braccio.

Lumir — Ancora uno scherzo.

Turelure— E' uno scherzo, ma uno scherzo serio.

            Lei vede ai suoi piedi l'uomo d'affari della Francia, il maresciallo Conte di           Coùfontaizt Presidente del Consiglio dei Ministri.

            Ne disponga pure.

Lumir — Che felicità per me, Signor Cerri?

Turelure — Sa quello che amo in lei? Amo la tranquillità che leggo nei suoi occhi azzurri    e la castità di una fede così pura che nessuna contraddizione riesce a raggiungere, e la          deliziosa stupidità giovanile!

            Grazie a Dio, non sono ancora morto!

            C'è ancora il tempo, prima di morire, di fare una grossa sciocchezza e d'impegnare i         miei capelli bianchi al servizio del mio capitano.

Lumir — E' serio quello che dice?

Turelure — Lei cosa crede?

Lumir — Credo che sia serio.

Turelure — Quale più bel congedo potrei prendere dalla mia vita e da questa Santa

            Alleanza delle Sante Monarchie, se non lanciare, prima di morire, questa piccola bomba gentile?

            Qualunque donna, con un'idea in testa, nelle mani di uno che sa servirsene, può dar         fuoco ai quattro capi del mondo.

Lumir — lo sono dunque una donna qua­lunque.

Turelure — No, Lumir.Mi guardi, mi guardi così!

            Dio mio, come è giovane! Giovane e pericolosa al tempo stesso. Ed è questo pericolo      che mi at­tira. Mi faccia dimenticare la morte... e il tem­po che passa. Mi dia la           possibilità di trovare interessante qualcosa al di fuori di me.

            Utilizzi di me quello che era fatto per ser­vire e a cui nessuno ha mai creduto.

            Facciamo tra noi una stretta alleanza!

Lumir — E lei mi renderà i miei diecimila franchi?

Turelure — Il giorno dopo le nozze! Con tutti gli interessi, angelo mio (cantarellando):           interessi composti, mio zuccherino d'oro!

Lumir — E che dirà Sichel?

Turelure — Non ho paura di lei. (Le prende la mano. Entra Sichel).

Lumir (guardando Sichel e stringendo la mano di Turelure che vorrebbe svincolarsi, con un      ama­bile sorriso e a mezza voce) — Come è vecchio! ...e brutto!

            Preferirei morire mille volte piuttosto che es­sere sua! E non creda di farmi paura!

SCENA IV

Sichel — Signor Conte...

Turelure — Era li...?

Sichel — Signor Conte, l'albergatore del « Poi d'Etain » a Fismes...

Turelure — Vada al diavolo!

Sichel — ... dice che ha ricevuto un telegram­ma da Parigi.

            Qualcuno che vuole vederla d'urgenza. Gli si tien pronta una carrozza.

Turelure — Chi ha firmato il telegramma?

Sichel — Interrotto dalla nebbia...

Turelure — Non sarà Luigi, per caso?

Sichel — No, chi l'avrebbe avvertito?

Turelure — Avvertito... Di che cosa si doveva avvertirlo?

Lumir — Luigi arriva! Che gioia!

Turelure — No, signorina, le chiedo scusa, non è affatto una gioia.

Sichel — L'albergatore non aveva cavalli li­beri. Ho pensato di fare bene a inviare la no­stra       vettura.

Turelure — Lei ha fatto molto male. Il ca­vallo è vecchio e farebbe volentieri a meno di           questi quindici chilometri sotto la pioggia.

Sichel — Effettivamente, dovrebbe comprar­ne un altro.

Turelure (cupo) — Anch'io sono vecchio.

Lumir — A rivederci, vado a fare preparare la camera di Luigi. A rivederci, Signor Conte. (Esce).

SCENA V

Sichel — Che deliziosa fanciulla! Che paggio grazioso! Vedo con piacere che siete in   rappor­ti eccellenti.

            Lumir ha ottenuto quello che voleva.

Turelure — Si ottiene sempre da me ciò che si vuole.

Sichel — Purché lo si sappia prendere.

Turelure — Chi ha detto a Luigi di venire?

Sichel — Ma non so se viene.

Turelure — Spero di no. Ho orrore delle sce­nate e delle violenze! Non c'è niente di più           dannoso per me!

Sichel — Ha paura di lui?

Turelure — Sono vecchio e non amo le vio­lenze.

Sichel — Che cosa può temere, se Lumir gli andrà incontro con buone notizie?

Turelure — Figliuola cara, credi veramente che io mi sia lasciato abbindolare così?

Sichel — Più di quanto tu non pensi, mio vecchio Toussaint!

Turelure — Quando mi avrà ucciso, non avrà più un soldo da me.

Sichel — Ma dagli dunque questi diecimila franchi !

Turelure — Se mi uccidesse, non avrebbe un soldo da me.

Sichel — Luigi non pensa di uccidere suo padre.

Turelure — Staremo a vedere chi creperà prima.

Sichel — Però lei è il più vecchio.

Turelure — Non tanto quanto lui crede.

(Ride seccamente).

Sichel — Su, parla, vecchio lupo, e non fare l'idiota.

Turelure — Hai sentito le ultime parole che diceva?

Sichel — Sì, e benché vere, erano poco lu­singhiere.

Turelure — Io credo che le abbia dette per te. A me sembrava che, allo stesso tempo, mi         stringesse un po' le dita.

Sichel — Dunque, è il vostro matrimonio che mi annunci?

Turelure — Chi lo sa. (Ride).

Sichel — E' con questo regalo che darai il benvenuto a tuo figlio?

Turelure — Forse gli scriverò dopo che sa­rà partito.

Sichel — L'età rende la gente imbecille.

Turelure — Una certa dose di imbecillità non è inutile per godere la vita.

Sichel — La tua porzione è considerevole!

Turelure — Questa unione immorale con una Ebrea pesava sulla mia coscienza.

Sichel — Sulla tua coscienza?

Turelure — Sulla mia coscienza. Apro gli oc­chi finalmente.

            Ho avuto dei torti verso di lei, Sichel. L'ho sedotta.

Sichel — E' vero. Non ho saputo resisterle.

Turelure — Anch'io. Ho rovinato la sua car­riera d'artista. Veramente ho avuto dei grandi torti verso di lei... e il miglior modo di ricono­scerli è di non cercare di ripararli.

Sichel — Sono molto commossa di questa at­tenzione.

Turelure — Io ne sono sconsolato.

Sichel — Ti ho già detto che l'età ti ha reso idiota.

Turelure — Forse a te insegnerà l'educazione.

Sichel — Vivrai per sempre dunque!

Turelure — Lo spero con tutte le mie forze. L'esperienza mi insegna che io sopravvivo

            a tutti.

Sichel — Non è l'opinione del tuo medico.

Turelure — Lo cambierò.

Sichel — Neanche tuo figlio ci crede.

Turelure — Bisognerà bene che ci si abitui.

Sichel — Se. tu muori, dopo aver sposato que­sta piccola — se tu muori, dico...

Turelure — Ho capito, ho capito! Non c'è bisogno di ripeterlo!

Sichel — Dunque, se tu muori...

Turelure — No, io non morirò...

Sichel — Lascerai una ricca ereditiera.

Turelure — Non la può sposare. Il Codice glielo proibisce.

Sichel — Ma via!

Turelure — Non mi piacciono le ipotesi chehanno la mia fine come punto di partenza.

Sichel — Io sono certa che lei non ha pre­so nessuna disposizione.

Turelure — Ho il tempo di pensarci.

Sichel — In questo caso tutto va a suo figlio.

Turelure — No, sarebbe troppo cretino!

Sichel — Oppure, lei lascerà tutto alla sua sposa, ultima sopravvissuta.

Turelure — Avrò un figlio da lei.

Sichel — Può darsi.

Turelure — Ne avrò tre. L'ho letto nei suoi occhi.

Sichel — Davvero!

Turelure — Non sarà una cosa ibrida come la nostra.

Sichel — Non dare troppa importanza alla tua scomparsa.

Turelure — Per questo voglio mettermi al sicuro.

Sichel — Non metterti nelle sue mani.

Turelure — Penso che mi farò amare da questa piccola.

Sichel — Da lei e dal suo amante.

Turelure — Va' al diavolo!

Sichel — Come sei semplice! Questo viaggio, non è vero, è molto naturale?

            Ed è altrettanto naturale questa irruzione del militare che, arma al pugno, si presenta al    mo­mento giusto, come nelle commedie?

Turelure — Mi chiedo cosa viene a fare.

Sichel — Viene a reclamare i suoi diecimila franchi, ed altri diecimila di cui ha urgente            bisogno.

Turelure — Proprio quello che ho ricevuto da tuo padre.

Sichel — Ma chi può averlo avvisato?

Turelure — Tu, peste!

Sichel — Forse. Ma penso che la questione sia anche più semplice.

Turelure — Credi che siano d'accordo?

Sichel — Sì, signor Conte, ho tutte le ragioni per pensarlo. Vuole la sua parte subito e il           resto dopo.

Turelure — Va bene, gli darò i suoi venti­mila franchi.

Sichel — Già, così Lumir è libera e può infischiarsene di lei.

Turelure — Allora, non darò nulla.

Sichel — E così la porta all'esasperazione. E questo è pericoloso.

Turelure — Ebbene, non lo aspetto e parto per Parigi.

Sichel — Impossibile. Ho mandato la vettu­ra a Fisme.

Turelure — Sono in trappola. Non mi resta ormai che affrontarlo.

Sichel — ... E mandare avanti le cose che sto per dirle.

Turelure (sogghignando) — Stai tranquilla! Sarai nel mio testamento.

Sichel — Non si tratta proprio di testamen­to, ma di una specie di assicurazione (silenzio).

Turelure — A tuo favore. Comincio a capire.

Sichel — Supponiamo di aver il mezzo di far passare tutta la sua fortuna a mio nome.

            Che ne dice?

Turelure — E' un'idea!

Sichel — Tolga loro ogni ragione di deside­rare la sua fine (silenzio).

Turelure — Sichel! Credi che voglia ucci dermi?

Sichel — Lei, che farebbe al suo posto?

Turelure — Detesto la sua faccia! Vorrei che morisse!

Sichel — Gli renda dunque moglie e denaro.

Turelure — Non renderò nulla.

Sichel — Allora si difenda.

Turelure — E' terribile morire.

Sichel — Ma no! È talmente semplice.

Turelure — Tu non sai quello che so io. (ru­more di carrozza all'esterno).

Sichel — Mi sembra di sentire la carrozza. Turelure — Ho paura della morte!

SIPARIO

ATTO SECONDO

SCENA I

La stessa stanza, il giorno dopo. Intorno a una tavola apparecchiata, Turelure, il Capita­no, Ali, Sichel e Lumir, terminano di pranzare. Benché faccia giorno, le imposte sono chiuse, e due fiaccole bruciano in mezzo alla tavola.

Turelure (versando del vino al figlio) — Ca­pitano, mio bel Capitano, cosa ne pensa di      que­sto vino di Bouzy?

Luigi — Lo riconosco. Ne tracannai con lei il giorno della mia partenza per Algeri.

Turelure — E' il mio vino della montagna di Rheims. Jean de La Fontaine ne beveva con        Pintrel, signore di Villeneuve. E' vino generoso, e lascia la macchia sul vetro come il Borgogna.

            Somiglia a un grasso borghese che, malgrado tutto, ha una certa distinzione.

Luigi — Alla sua salute, padre!

Turelure — Alla salute di queste dame! (be­vono insieme).

Luigi — Che gioia ritrovarsi nella propria ter­ra! Ha fatto bene a chiudere le persiane, padre       — si è più tra noi.

Turelure — Alla mia età un bicchiere di vi­no vale la pena di essere gustato tranquillamente.

            Non si sa mai se dopo ne potrà seguire un altro.

            Non che io disprezzi il Beaune, ma questo è un vino che alla mia età va bevuto da           solo.

            Una di quelle vecchie, solenni bottiglie che vi portano dopo pranzo, e che si impiega       due ore per finire coscienziosamente.

            Vino pieno di idee e di potenti ricordi.

Ali — Quanto a me, non mi concedono che acqua: il medico vuole così.

Luigi — Non fa nulla! Alla sua salute, signor Habenichts!

Ali — Alla sua, signor Capitano, (beve la sua acqua).

Luigi (la mano sul cuore) — Wohl bekom- men! Alla salute del mio benefattore!

Ali — Sempre felice di servirla.

Luigi — - E non tema nulla — sarà pagato alla scadenza.

Ali — Sono certo, sono certo!

Turelure — Benissimo! Nulla come un buon pranzo può mettere la gente d'accordo.

            Quanto a me sono il più felice degli uomini tra il mio quasi suocero e la mia

            quasi    nuora.

Ali — Ha cominciato i lavori?

Turelure — Stiamo scavando, in pieno cimi­tero dei monaci, la buca per la macina.

            Non si crederebbe quante ossa abbiamo tira­to fuori! Due carri pieni e ce n'è ancora un     mucchio.

            In mezzo, poi, c'era una specie di pozzo ro­mano, come un pozzo sacro, che noi    abbiamo ripulito. Ci allevavano i serpenti.

            E in fondo abbiamo trovato un Mercurio in bronzo.

Ali — Deve mostrarmelo — io sono amatore di queste brave divinità.

Luigi (mostrando il Cristo) — Dovrebbe co­minciare a sbarazzarci di questo.

            Non è un affare da tenere in casa.

Lumir — Se io fossi padrona qui, non ne fa­rei un'officina.

Luigi — Perchè no? Bisogna essere all'altezza dei tempi.

Sichel — Lumir ha ragione. Si può costruireovunque un'officina — Ma un complesso

            come questo...

Ali — Non si dice: un complesso.

Sichel — E' strano, ogni volta che la vedo, devo parlare tedesco.

            Dunque, una cosa come questa, con i suoi chio­stri, le cantine, i granai...

            Non se ne farà una uguale — è peccato but­tarla giù. Fa paura come nei romanzi.

            Qui tutto è dell'epoca, e oggi non si lavora più così.

Ali — Also! Senza parlare del piombo che hanno già portato via, e che ha reso dieci mila franchi.

Turelure — E' falso (beve).

Luigi — La ferrovia sta per arrivare a Coùfontaine. Non rimane che radere al suolo la   baracca e mandare tutto all'aria.

            E' veramente stupido tenere tanto a questa vecchia terra, quando ve ne sono altre,           vergini e calde, che possono rendervi quanto volete!

Ali — Datteri.

Turelure — Debiti.

Luigi — E' terra grassa e morbida. Una volta estirpate palme nane ed erbacce, l'aratro vi           scivola dentro come una sciabola attraverso un mercante di noccioline! Non si vede il   fondo!

            E vi da grano come pallettoni di schioppo, e grappoli d'uva come festoni di budella.

Turelure — Non c'è altra terra che quella di Francia.

Ali — Un anno grano, un anno barbabietole — grano, barbabietole — e ancora grano e            ancora barbabietole — E sempre grano e eterna­mente barbabietole.

            Tre per cento nelle buone annate — con tutte le imposte da pagare, e tutta la dannata      buro­crazia del Governo sul groppone.

            Non siete voi che la possedete: è la terra che tra una barbabietola e l'altra vi agguanta      per gli stivali.

Turelure — Ma perchè mai questo podere di Dormant le fa tanta gola?

Sichel — Non c'è spettacolo più desolante di un campo di barbabietole.

Lumir — Fa inciampare i cavalli.

Luigi — Lei ha ragione, padre Ali! E, per Dio, diciamolo francamente! La vera proprietà è       quella che si è rubata perchè se ne aveva tanta voglia!

            Un bene conquistato le armi alla mano, e che si difende a colpi di fucile!

            Una puttana terra che ti sfianca dalla febbre^ e di cui sei deciso a fare quello che lei        non vuole.

Turelure — Ah! ah! E' proprio così che si è preso la Polonia.

Ali — Legga la storia. Non c'era altro da fare che spartirla.

Turelure — Questa perfida Polonia! E' pro­prio lei che ha indotto in tentazione i vicini           virtuosi. Questo è il delitto che non si può perdo­narle.

            Non dice nulla la mia cara nuora?

Lumir — Cerco la mia borsa.

Turelure — Eccola. Era sotto il tovagliolo. Come è pesante! Cosa c'è dentro?

Lumir (prendendo la borsa) — Due pistole cariche.

Turelure — Ne levi una e metta il mio cuore al suo posto. Ebbene, padre Ali, credo che sia   l'ora di regolare e di sistemare assieme i nostri affari.

Luigi — Padre! Lei sa che ho bisogno di par­larle.

Turelure — Appena finito sono da te (escono Turelure, Ali e Sichel).

SCENA II

luigi (a Lumir) — Buongiorno, signorina.

Lumir — Ai suoi ordini, Capitano.

Luigi — Vuole avere la bontà di dirmi cosa succede qui dentro?

Lumir — E' stata Sichel a dirle di venire?

Luigi — Lei stessa.

Lumir — So che siete in corrispondenza.

Luigi — Sì. E come vede, mi trovo bene.

Lumir — Luigi, ho chiesto a suo padre quel denaro che lei mi deve e l'altro che le occorre.

            Ho assediato il vecchio in tutti i modi e riten­go che Sichel mi abbia aiutato come             meglio poteva.

            Nulla da fare.

Luigi — Non bisogna domandare il denaro. Dev'essere lui ad offrirlo.

Lumir — Non lo si può ingannare. Lui sa per­fettamente a che punto siamo.

Luigi — E' per questo che lei ha tentato un'al­tra strada?

Lumir — E' vero. Ha voluto offrirmi la sua mano ieri sera.

Luigi — E lei ha intenzione di accettarla?

Lumir — E' un uomo irresistibile.

Luigi — Che le ha proposto?

Lumir — Ha messo il suo braccio al mio ser­vizio e mi offre di nominarmi generale e uomo di affari della Polonia.

Luigi (ridendo fragorosamente) — Ah! Ah! Ah!

Lumir — Non è buffo?

Luigi — Questa sporca canaglia ha nel cuore uno stock di nobili sentimenti.

            E rimpiange di non aver mai potuto servirse­ne — come fosse vergine.

Lumir — Crede lei che io sia incapace di ser­virmene? Chi sa?

            Tra un vecchio e una ragazza, la partita non è uguale.

            Mi basta sorridergli in una certa maniera che ho già provato e che lui conosce.

            Un vecchio e una ragazza! Mani forti e deli­cate come quelle della morte!

Luigi — Così mio padre, non contento di aver­mi preso tutto, ora si porta via mia moglie.

Lumir — Non le resterà che difenderla.

Luigi — Andiamo Lumir, è ridicolo! Non vor­rà farmi dire che l'amo!

            No! Per quanto faccia le parole mi si fermano in gola. E non è facile dirle quello che        si ha in mente, perché appena lei vuole prendere un'a­ria così lontana e distaccata...

            Eppure pensi alle nostre tre esistenze in tanti anni interminabili: la sua, quella di suo        fratello e la mia, furono veramente unite nel dolore, nel­la lotta, nella speranza, nella            miseria!

            Sì, ragazza mia, unite in quello che da questa parte del mare, non è considerato come      pura onestà — Da onestuomini come mio padre!

            Tengo immensamente a lei, mio bell'angelo lontano. E' mai possibile esser separati?

Lumir — Non è colpa mia.

Luigi — Lei mi ha salvato la vita!

Lumir — E' sufficiente a darle dei diritti?

Luigi — Lei mi è sempre accanto quando so­no triste, quando la febbre mi brucia, quando mi   sento vinto.

            Sempre calma, sempre giovane, forte, accor­ta, e sempre pronta a partire in un quarto       d'ora.

            In sei anni non un'ora del suo tempo che lei non abbia dedicato a me e alla mia terra.

Lei ha sempre creduto alla possibilità della Mitidja, e questo ha creato un vero legame fra noi.

Lumir — Le ho anche dato tutto quello che avevo.

Luigi — Lo so.

Lumir — E anche quello che non avevo: que­sti diecimila franchi sacri.

Luigi — Glieli renderò.

Lumir — Tra un mese, la terra sarà venduta e lei sarà finito.

Luigi (violentemente) — Non si venderà la mia terra.

Lumir — Il 30 è la scadenza.

Luigi — Le dico che non si venderà.

Lumir — Il paese pacificato, le strade buttate giù, la terra pronta a rendere: è arrivato il            momento buono per suo padre e per Ali di metter­ci le mani sopra.

Luigi — Non mi faccia perdere la testa.

            Per ora non sono venuto a salvare la mia ter­ra: è per lei, piccola cara sorellina, vergine      Lu­mir, contessina mia, mio piccolo ussaro!

            Non dica dunque che non c'è più nessuno al mondo che mi possa amare solo per il suo    inte­resse!

            Mia madre ha preferito morire piuttosto che vedermi, e mio padre, dopo la mia    nascita, si è messo col massimo impegno a detestarmi.

            Ricordo gli occhi intenti con cui mi osserva­va, seguendo ogni mie gesto.

            E sempre gentile: parlava sempre con me co­me a un grande.

            Ho sempre sperato di trovare in qualche an­golo una creatura, un amico che fosse             unicamen­te mio, perché io solo sono da amare; qualcuno che abbia fiducia in me e che        mi ascolti; qualcu­no che abbia il suo viso che, senza essere bello, è l'unico a     incantarmi e a dirmi cose che non capisco. Un compagno che parli sommesso; che      possa prenderti tra le braccia e confessarti che è donna, — un amico. Uno solo, basta      uno solo.

Lumir (gli occhi bassi) — Sì, io sono questo per lei. Non creda che io sia insensibile.

Luigi — Eppure vai a venderti al mio nemico, a questo padre che mi ha creato. Proprio lui        hai scelto tra tutti i nemici.

Lumir — Luigi! Ma io esistevo prima di cono­scerla! E anch'io, prima che lei arrivasse, ho         avuto un padre che mi ha fatto.

Luigi — E come lo amava!

Lumir — Mio padre, mio fratello e io.

Luigi — Ecco! Il mondo è finito.

Lumir — Mio padre, mio fratello! Tutti e due sono morti, ed io sono una cosa con loro.

Luigi — Ma è lei che io voglio sposare, non suo padre e suo fratello.

Lumir — Non posso dividermi. Mio padre è con noi. Le sue braccia attorno a me, e la mia       testa sulla sua spalla! Non ho avuto altra patria che lui: il suo viso, i suoi occhi, la sua     dispe­rata solitudine.

            Le lacrime che ho visto colare, e la collera sublime come in un campo di battaglia, e il      suo cuore con quello della sua creatura.

            Moriva di fame, eppure non toccava questo de­naro sacro, tesoro della Patria! E dovrei    lasciare morire questa manciata di terra nostra?

            Sono una sola cosa con lui! Chi mi prende ci prende assieme!

            Quale altra Patria se non gli occhi di mio pa­dre quando mi teneva così stretta contro di   lui?

            Io resto sola.

Luigi — Anch'io sono altrettanto solo.

            Lasciamo il passato dov'è. Non vi è miglior Patria di quella che ci facciamo da noi.          Che cos'è la Polonia? Siamo abbastanza forti noi due, per il sole d'Africa.

Lumir — Vi è una scia dietro di me, che il mare non basta a disperdere.

            La Polonia, per me, è questa traccia rosea sulla neve, mentre fuggivamo, scacciati dal      no­stro paese da uno più forte di noi

            Questa traccia sulla neve, in eterno!

            Ero così piccola allora, accoccolata nella pel­liccia di mio padre.

            Ricordo anche quella riunione di notte, quan­do cominciò la rivolta. Mio padre mi levò    dal letto, mi portò in mezzo a tutti quei gentiluomi­ni armati, mi levò diritta in alto,         come usava fare, i miei piccoli piedi nelle sue forti mani, tutta dritta nella lunga camicia bianca e i ca­pelli neri sparsi sulle spalle, come una piccola statua della             Speranza e della Vittoria.

            E tutti quegli uomini osannanti intorno a me con le sciabole sguainate!

Luigi — Ebbene? Ma cosa sarebbe successo se avessero vinto?

            Un paese come quello che lei si vede intorno: giornali, ministri, un parlamento e tante      altre cose incredibilmente ripugnanti: gioco d'inte­ressi, opinione pubblica, sviluppo di          forze eco­nomiche. Grandi bicchierate, raffinerie, società per azioni — e sopra lei,        uomini come Toussaint Turelure e Ali Habenichls.

            Crede lei che io mi senta figlio e compatriota di questa gente? Non esiste altra Polonia    che se stesso!

            La Polonia non è riuscita? Tanto meglio! Vi sono altrettante Patrie come quella!

Lumir — Lei parla come Sichel.

Luigi — Suo padre vale il mio.

Lumir (soave) — Quando l'avrò sposato...

Luigi — Come?

Lumir — Quando avrò sposato il Conte di Coufontaine, suo padre...

Luigi — Lei sarà una suocera veramente de­liziosa.

Lumir — Dico che quando avrò sposato suo padre, sarò buona e generosa con lei, Luigi.

            Ci interesseremo di lei. Investiremo un po' di denaro nelle sue colture, la   raccomanderemo al Governatore.

Luigi — Sarà magnifico. Tuttavia, potrebbe accadere qualcosa prima!

Lumir — Qualche cosa? Tu sei incapace di fare qualcosa, vigliacco!

Luigi — Non sono vigliacco.

Lumir — Vuoi una donna, e sei incapace di difenderla. Ma che uomo sei? Permetterai             dunque che ti pestino il ventre fino in fondo? Ti lascerai eternamente cavalcare da           questo vec­chio cadavere?

            Non bastano i tuoi beni? Quei beni che tu solo ti sei creato senza che lui spenda un          soldo?

            E ora vuole la tua donna! Viene a portarmi via sotto il tuo naso!

Luigi — Non l'avrà!

Lumir — Ha già i tuoi beni. Farà lui la ven­demmia quest'anno, e a te, ti pagherà con tre           franchi al giorno per i lavori pesanti e la sol­fatura.

Luigi — Non farmi impazzire.

Lumir — Ora viene anche a prendere la tua donna, e io sono sua.

Luigi — Non l'ha ancora avuta.

Lumir — Non l'ha ancora avuta? Alzati, hombre! Alzati ti dico!

Luigi — Guai a te se mi alzo!

Lumir — Credi di farmi paura?

            Capitano! Capitano Luigi — Napoleone Ture­lure — Coufontaine! Alzati! Alzati che      ti possa ammirare!

            Coufontaine! Coufontaine... (ride fragorosa­mente).

Luigi — Eccomi (si alza).

Lumir — Sei un vigliacco, e io ti sputo in fac­cia (silenzio).

Luigi (a bassa voce) — Basta, Lumir!

Lumir (a mezza voce, tra i denti) — Vigliacco, vigliacco!

Luigi — Basta, piccola furia!

Lumir (c. s.) — Rendimi i miei diecimila franchi, ladro!

Luigi — Taci e lasciami riflettere.

Lumir — Luigi! Caballero! Ascoltami, soldato della Legione Straniera!

            Abbiamo servito insieme in terra d'Africa, sot­to una bandiera che non è la nostra, per      una causa che non ci interessa. Per l'onore del Corpo — senza amici, senza denaro,        senza famiglia, senza padrone, senza Dio; stimando che la schia­vitù non fosse troppo   per pagare questa mezza libertà.

            Resta l'Onore!

            Se Dio esistesse... sì, se Dio esistesse... (guar­da il Crocefisso e poi con voce         straziante) se Dio esistesse, vi sarebbe Dio anzitutto, mentre non vi sono più che           soldati nello stesso rango e

            uomini eguali, solidarietà tra camerati e la bat­teria degli uomini senza paura.

            E vi è l'onore!

            Sei dunque così vile? Quando un compagno ti chiede soccorso, non è dunque primo       dovere ri­spondere'? Non ci siamo che noi al mondo.

            Chi è tuo padre? Che bene ti ha mai fatto?

            Quando eri a terra sulla breccia di Costantina con tre palle in corpo, quanto ha pensato    mio fratello a caricarti sulla schiena? Ed io ho lascia­to forse che un'altra ti curasse,         quando sotto la tenda battevi i denti con quella febbre dannata?

            sola ti ho pulito quando ti sporcavi sotto come un bambino.

            Chi ha avuto fiducia in te? Chi ti ha prestato del denaro? Non ti abbiamo negato un        soldo: di quello che era nostro e di quello che non era.

            Senza ricevuta, senza interessi, da veri e bravi camerati, da uomini uniti dalla stessa         setta.

            Mio fratello è morto al tuo servizio, ora io sono sola.

Luigi — Permettimi tuttavia di riflettere e di cercare una strada.

Lumir — Non è permesso riflettere e non vi è che una strada.

Luigi — Mi manca il cuore di alzare la mano sul vecchio Signore.

Lumir (dolcemente) — Luigi, salvami: sono sola sulla terra.

Luigi — Hai fiducia in me?

Lumir — Ho fiducia in te.

Luigi — Dammi la borsa.

Lumir (apre la borsa e ne estrae due pistole)Fai attenzione.

            Vi sono dentro due pistole: una grande e una piccola.

            Le ho caricate io stessa stamani.

Luigi — Bene.

Lumir — Vedi? Le cariche sono a posto.

            Ora ascolta bene. La piccola è carica a salve, non c'è proiettile. Intendi bene

            cosa dico?

Luigi — La piccola è carica a salve, non c'è proiettile.

Lumir — La piccola, capisci bene? Impossibile sbagliare.

            Il vecchio è vile. Sono certa che la paura ba­sterà, senza bisogno di arrivare ad atti            estremi.

            Mi ha detto Sichel che ha avuto ora ventimila franchi da Ali. E li porta certamente          addosso. E' vecchio e frusto. Chi sa che l'emozione non basti: è un'idea che mi ha         messo in testa Sichel.

            Lei è con suo padre nell'altra ala della casa: nulla da temere. Di qua non c'è nessuno.

Luigi — L'altra pistola.

Lumir — E' carica a palla.

Luigi — Sta bene.

Lumir — Tutte e due hanno la sicura a posto, ma si possono armare con una sola mano.

Luigi — Ho capito.

Lumir — Le rimetto tutte e due qui nella borsa.

Luigi — Lascia la borsa alla mia destra.

Lumir — Abbi cuore. (Lo guarda e gli sorride, poi esce).

SCENA III

(Entra Turelure).

Turelure — Signor figlio, eccomi a lei. Tutte le questioni con il Barkoceba sono sistemate.

            Signore Iddio! Cosa sarebbe di noi se io non fossi qui per curare la sua eredità!

            (Cerca vivamente di prendere la borsa che Lu­mir ha lasciato sul tavolo. Luigi gliela        riprende. Si guardano in silenzio).

Luigi — Padre, perchè accanirsi contro di me? Perchè farmi la guerra? Sono pronto a     scendere a patteggiare visto che lei è il più forte.

Turelure — Tu sei il mio figliò, e i miei sen­timenti per te sono pieni del più affettuoso interesse.

Luigi — La smetta con questo tono.

Turelure {digrignando i denti) — E tu, saresti pronto a togliermi di mezzo se lo potessi!

Luigi — Perché dunque agisce in modo che da qualunque parte io vada, lei è pronto a   sbarrar­mi la strada?

Turelure— Non bisognava, appena maggio­renne, reclamare quel denaro di tua madre. Non     potevo permetterti di sciuparlo.

            Tanto valeva che io fossi lì a raccattarlo, quel­lo che tu sprecavi.

Luigi — Io non ho sprecato denaro; e la mia vita è dura. Non sono un uomo che ama il piacere.

Turelure — Sei pieno di chimere, pronto a dare quello che hai per quello che non hai.

Luigi — Sono un uomo di conquista. E chi mi ha forzato a diventarlo?

            Non ho avuto padre nè madre. Tutto quello che posseggo bisognava che lo avessi da       me stesso.

Turelure — Dimentichi quello che ti ho dato.

Luigi — Non è cosa che la riguardi. E' quanto mia madre aveva messo insieme con tanta           fatica.

Turelure — Non mi riguarda? Ma dici che Coùfontaine non mi riguarda?

            E' incredibile!

            Ma non capisci che l'ho nelle ossa, che sono fatto di lei stessa!

                E cosa sono, paragonati a me, questi bastardi conti sempre assenti, incrociati con tutto              il san­gue di Francia e di Europa; veri prodotti di monte e di canili?

            Mi avrebbe fatto veramente pietà vedere que­sta generosa terra di Francia fondere e         friggere come burro sulla sabbia Africana!

            Sono più Coùfontaine di te, credi!

Luigi — Non sono né Turelure, né Coùfontaine.

Turelure — Sei Turelure: la fronte e il naso sono i miei.

            La bocca fine e ben disegnata è quella di tua madre. Qualcosa di molto semplice.

Luigi — E' a causa della mia bocca che mi odia?

Turelure — No, per la fronte e il naso.

Luigi — Un buon padre sarebbe felice di ve­dersi così ben riprodotto!

Turelure — Cosa c'è da riprodurre? Non c'è bisogno di due Turelure. A cosa servirei io,          allora?

Luigi — Io non sono Turelure.

Turelure — Lo sei. Usi la mia stessa faccia, e la tua anima ha le stesse rughe.

            Io ti comprendo a fondo, e non dire di non capirmi altrettanto bene: si procede di pari    passo.

            Se non fosse così non vedrei questo sguardo nei tuoi occhi. (Ma per questo non mi          dispiaci).

            Il fatto di essere il Turelure successore e con­corrente: questo fa del male a tutti e due.

            Non c'è di che sciogliersi d'amore e di bene­volenza! Vivaddio, io mi difendo!

Luigi — Ho messo apposta il mare tra noi.

Turelure — Portandoti via la mia fortuna.

Luigi — Lei afferma di averla ripresa.

Turelure — La mia morte te la renderà. Io non amo le persone interessate al mio decesso.

Luigi — Non sono interessato alla sua morte. Vengo a lei mentre lei è ben vivo con un   sentimento misto di tristezza e di curiosità.

            Perché si dibatte con tanto furore, come se l'avessi afferrato alla gola?

            L'osservo, e questo sì, m'interessa; perchè vor­rei sapere di che materia sono impastato.

            Padre che mi ha creato, mi spieghi dunque!

            C'era qualcosa in lei che non era finito, e che aveva vita solo per mezzo di quell'altra:      di mia madre.

            E' giustissimo che le somigli.

            E' come se la vedessi per la prima volta. Così ben illuminato da poterlo disegnare            tutto.

Turelure — Per conto mio, non provavo nes­sun bisogno di vederti.

Luigi — E' vero. Un figlio è come un altro sestesso che si ha la possibilità di guardare con i       due occhi; se stesso e in più qualcosa d'altro, come un intruso, la propria coscienza          fuori di lei che agita braccia e gambe; una conseguenza vivente sulla quale non hai più             nulla da fare, padre!

Turelure — Dovevo dunque fare di te lo scopo della mia vita?

Luigi — Quale è stato lo scopo della sua vita?

Turelure — Qual'è lo scopo di un nuotatore, se non di non essere sommerso? E senza  tempo di pensare ad altro.

            Senza poter fare il morto e scaldarsi la pancia al sole!

            Non toccavamo il fondo, noi!

            E ne ho visti un bel numero fare una bella bevuta vicino a papà Turelure!

            Del resto non sono io che mi sono gettato in acqua; è il mare che mi ha ghermito senza più lasciarmi.

            Io volevo solo vivere.

            Con onde alte come montagne che devi risa­lire a una a una facendo attenzione che         non ti rovescino sulla testa intere barocciate di ciot­toli!

            Ognuno per se, e tanto peggio per gli altri.

Luigi — Ora, eccola all'asciutto.

Turelure — Sì. Aspetto di sapere che cos'hai da dirmi.

Luigi — So che sono nelle sue mani — mi ha seguito da lontano con la pazienza di un   bracconiere. Tutte le strade intorno a me sono sbar­rate. Lei ha calcolato bene, non ne    ha dimen­ticata una.

Sa anche che io non posso fare fronte alla sca­denza del 30. E che quindi cado nelle mani del compare Habenichts.

Turelure — Ti resta l'esercito che hai diser­tato, e che è sempre aperto agli uomini del   nostro sangue.

            Puoi sempre contare su di me per un avanza­mento — per un avanzamento            ragionevole.

Luigi — Sono preso, venduto.

Turelure — Ti restano le speranze.

Luigi — E' vero, le speranze.

Turelure(canticchiando)

            Quand papa lapin mourra,

            J'aurai sa belle culotte!

            Quand papa lapin mourra

            J'aurai sa culotte de drap!

Luigi — Le lascio una terra morbida e pu­lita, una bella terra senza veleni, pura come una           vergine; lei non vi troverà una radice, nè una pietra più grossa di un pugno.

            Io ho fatto questo da solo e per poco non cre­pavo.

Turelure — Ragazzo mio, devo dirti una cosa in gran segreto.

            Me ne frego della tua terra e del tuo lavoro.

            Tu sei un contadino, e non concepisci altro che la terra che fa frutto.

            Ma per me c'è ben altro di dolce e zuccherato!

Luigi — I miei sette ettari in riva al mare, vicino al Campo degli Zuavi, non è vero?

Turelure — Hai detto bene, figlio mio! E' tutto zucchero! E che bei Magazzini Generali vi      costruiremo!

Luigi — E lei non farà nulla per la mia terra della Mitidja?

Turelure — Proprio nulla, mio Capitano. Per­ché darsi tanta pena, quando non c'è che da         aspettare con le braccia incrociate?

            Se il paese si sviluppa, noi approfitteremo del lavoro degli altri.

Luigi — Padre, mi ascolti bene. Non le chie­do nulla; mi lasci solo governare la mia terra; la       sua terra voglio dire.

Turelure — No. La cosa migliore è di smet­terla con le spese e i rischi, e di lasciar fare alle       persone di cuore.

Luigi — E' la sua idea?

Turelure — Sì, figlio mio, è la mia idea.

Luigi — E non le è mai passato per la testa, signor Conte, che può essere pericoloso ridurre       un uomo alla disperazione?

Turelure — Io ho paura soltanto degli otti­misti.

            Non vi è nulla di meno pericoloso di un uomo disperato... quando si è fuori portata.

Luigi (mettendo la mano nella borsa) — Lei non è fuori portata.

Turelure — Luigi caro, mi somigli troppo perché tu possa buttarti in acqua per non farti          bagnare dalla pioggia.

Luigi — Le consiglio di non fidarsi troppo.

            Sì, mi guardi bene, signore, ma mi guardi be­ne, dunque!

            Le proibisco di lasciare questa tavola!

            Le dico di non muovere braccia né gambe! Fermo!

            Ah! Ah! E' il denaro che le ha dato Habenichts quel gonfio sotto la redingote?

Turelure — Non fare sciocchezze.

Luigi — E io le consiglio di non fare l'orco con me, signor padre!

            Vuole sapere cosa c'è in questa borsettina?

(Apre la borsa e tira fuori le due pistole che arma e depone con cura davanti a sé).

Turelure — Ragazzo! Quello che stai facendo è di cattivo gusto.

                        Se spari, accorreranno.

Luigi — Sono tutti dall'altra parte della casa. Se ne è curato Sichel.

Turelure — Sichel! Ora capisco. Ma dunque è cosa seria.

Luigi — Non ho scelta. Io sono in marcia e non sono libero!

            Padre, la supplico, cerchi di capire che non c'è più possibilità di tornare indietro.

            Non sono libero!

            Mi occorre quel denaro! Io devo averlo!

            Questo denaro devo restituirlo a ogni costo; o perdo l'onore, e sono completamente         perduto.

            Le ripeto per l'ultima volta che devo avere questo denaro.

            Non si muova!

            Padre, lei mi ha preso tutto quello che avevo.

Turelure — Tu non avevi proprio nulla.

Luigi — Lo tenga.

Turelure — Grazie tanto!

Luigi — Ma mi dia questi diecimila franchi.

Turelure — No e no. Neanche io posso, non posso darteli.

Luigi — Questi diecimila franchi non sono nè miei nè suoi; e nemmeno di quella che me

            li ha prestati.

Turelure — Non fa nulla: vuol dire che ha corso un rischio.

Luigi — Le assicuro che ho bisogno di questi soldi e che li avrò.

Non si dimeni così, la prego, mi fa veramente pena.

Turelure — E cosa succederà caro il mio bo­naccione, se tu le rendi il suo denaro?

Luigi — Non me ne importa.

Turelure — Credi che ti sposerà, rovinato co­me sei?

Luigi — Non ne so nulla.

Turelure — Mai, ti dico! Mai. Lei me l'ha detto.

Luigi — Ragione di più perché lei me li renda.

Turelure — Lei li prende, si squaglia, e ti sa­luto!

Luigi — Che cosa gliene importa?

Turelure — Ma non capisci che se le rendi questo denaro, noi perdiamo ogni potere su

            di lei?

            Non è né nel tuo interesse né nel mio.

            Che cosa me ne può importare, pezzo d'egoi­sta? Se fossi suo marito, non le darei del       de­naro che per pagare delle fatture ben control­liate.

Luigi — Suo marito?

Turelure — Eh! Ma credi dunque di essere sempre solo in mezzo alle tue giuggiole, specie      di selvaggio!

Luigi — Dunque è vero, e io so dalla sua stessa bocca.Mi hai rubato la mia fortuna, e ora           vuoi sof­fiarti la mia donna.

Turelure — Sei tu che te la lasci sfuggire.

Luigi — Ed è stato lei, padre, a chiederglielo.

Turelure — Sì, ma sono stato respinto con forti perdite.

Luigi — Ma la lasci in pace dunque!

Turelure — Lasciare una cosa che mi è ne­cessaria!

            Non potrei anche se volessi.

(Gesto di Luigi).

            Luigi, figlio mio, non mi uccidere. Non ti ser­virebbe a nulla. Tu non avresti la mia           fortuna. Sì, ecco, ti spiegherò — ho fatto una combina­zione, ho fatto una         assicurazione con Sichel e lei ora possiede tutto.

Luigi — Non mi provochi, padre!

Turelure — Ho avuto torto, lo so, ho fatto il bravo.

            Mi sono fatto trascinare a dire quello che non volevo.

            So che ho avuto dei torti verso di te. Ora la­sciami un poco di tempo; farò quello che       vorrai.

            Non sono coraggioso.

            Vedrai un giorno come si tiene alla vita quan­do si è vecchi: anche i giorni contano!

            Non farmi male, Luigi!

Luigi — Mi dia questi diecimila franchi.

Turelure — Non posso, Luigi, non posso! Ab­bi un po' di pazienza! Abbi pietà di me, figlio     mio!

            Ora non mi è possibile!

Luigi — Padre! Vuole sapere una cosa? Vuol sapere quello che Lumir mi ha detto?

            Lei non è libero, almeno lo afferma; io nem­meno, e Lumir meno di noi.

            Ha bisogno di questo denaro che le deve, e che non è suo.

Turelure — Se lei vuole, tutto quello che pos­siedo è suo.

Luigi — Ebbene, può essere contento: lo vuole.

            Sì, se non le rendo questa somma da cui è ossessionata, è pronta a lasciarsi sposare.

Turelure — Luigi, finalmente una buona pa­rola. Per questo posso perdonarti tutto il resto.

            Ella è così giovane e gentile! E' come un rag­gio di sole nella mia vita.

            E come le sue braccia sono bianche! Ho visto le sue braccia l'altro giorno a pranzo.          Ho bisogno di quelle braccia.

Luigi — E non le importa di farsi sposare per necessità?

Turelure — La necessità genera il timore, che, per la donna, è già la metà dell'amore.

Luigi — E la metà della saggezza per un vec­chio imbroglione.

Turelure — Luigi, hai avuto torto di dirmi che vuole sposarmi.

Luigi — Lo vuole — è arrivato al suo cuore.

Turelure — E ora? Come posso fare?

            Ti avrei dato questo denaro, brigante, benché sia duro disfarsene.

Luigi — E' ancora più duro morire.

Turelure (con un gran sospiro) — E' vero, è ancora più duro morire.

            Ma non c'è altro da fare.

Luigi — Sia saggio!

Turelure — No!

            Puoi chiedere tutto a un francese ma non di fare il castrato e di rinunziare a una donna    con la forza.

            No, questo è impossibile! Sono francese e non puoi domandarmi questo.

            Puoi uccidere tuo padre, se vuoi.

Luigi — E' la sua ultima parola?

Turelure — Uccidimi, se vuoi...

            No, non uccidermi. Ho paura!

Luigi — Il denaro.

Turelure — E' impossibile.

            Non credi in Dio, Luigi?

Luigi — Non credo in Dio.

Turelure — Sono perduto. Non vedo attorno a me che facce spietate.

            Tra mio figlio e queste due donne che mi portano alla morte con un sorriso funebre.

Luigi — E lei crede in Dio?

Turelure — Credo in Dio!

            Sono il solo credente, e la vostra brutalità mi fa orrore!

            Tu non capisci un uomo del vecchio stampo.

            Credo in Dio con tutto il cuore — sono un buon cattolico alla maniera di Voltaire.

            No, no, non rido! Figlio, figlio mio, non mi uccidere.

Luigi (prendendolo di mira con le due pi­stole) — Il denaro!

Turelure (battendo i denti e cercando di te­nergli testa)— No, è impossibile — non mi   uccidere.

Luigi — Il denaro, ladro!

Turelure — No!

Luigi — Il mio denaro, ladro! Il mio denaro — i diecimila franchi, ladro!

Turelure (fa cenno di no).

Luigi (spara, con le due pistole assieme. I due colpi falliscono. Turelure rimane un momento     immobile con gli occhi rovesciati, poi la mascel­la cede e si affloscia sul bracciolo     della poltrona.

            Luigi si avvicina a lui, sbottona i vestiti, pal­pa il cuore, fruga nelle tasche, prende il          denaro, rilascia il corpo nella sua prima posizione. Poi, in piedi, con le braccia         incrociate, lo guarda fìsso). ,

(Entra Lumir).

SCENA IV

Lumir — Non sentivo più nulla — sono en­trata.

Luigi — Ascoltava alla porta?

Lumir — Sì. (à mezza voce) Hai sparato?

Luigi — Sì. I due colpi assieme.

Lumir — Ebbene?

Luigi — Hanno fallito tutti e due.

Lumir — Ma tuo padre...

Luigi — ... è morto — è morto lo stesso — il suo miserabile cuore si è fermato per sempre.

Lumir — Eppure le cariche erano a posto. La polvere ben secca, e le avevo preparate bene.

Luigi — Sono vecchie armi. Avrai dimenticato di pulire la canna.

Lumir — Gli hai preso il denaro?

Luigi — L'ho preso (le dà il denaro). Ecco i tuoi soldi — tra noi non c'è bisogno di rice­vuta.

Lumir — Luigi, non so che cosa devo dire.

Luigi — Che ho ucciso mio padre.

Lumir — L'hai ucciso. E' bene — non c'era altro da fare.

Luigi — Era necessario. Non ero libero.

Lumir — Giuro che questo denaro mi appar­teneva e che lui non aveva il diritto di tenerlo.

            Io non ero libera di lasciarglielo.

Luigi — Non dobbiamo più pensarci.

Lumir — Come è giallo! Come ci fìssa con i suoi vecchi occhi arrossati!

Luigi — Non temere, non ti farà nulla.

Il vecchio gentleman è completamente tranquillo, e non ha mai avuto un'aria così rispetta­bile.

Lumir — Luigi!

Luigi —  Credi che rimpianga quello che ho fatto?

            E' finito, è passato! Non rimane altro che non pensarci più.

            Io non ero libero.

Lumir — Hai tirato i due colpi assieme?

Luigi — Sì, non amo le vie di mezzo.

            Conta il tuo denaro, io devo verificare qual­cosa.

(Lei conta i biglietti, e lui intanto, sfilando la bacchetta da una delle armi, la infila nella canna della pistola più corta. Cade un proiettile che lui tiene tra le dita).

Lumir, anche la prima pistola era carica! (Lei si volta verso Luigi e ride).

                          SIPARIO

ATTO TERZO

SCENA I

La stessa stanza degli atti precedenti. Al le­varsi del sipario, Sichel e Lumir (vestita , da don­na), sono sedute ognuna a un tavolo e scrivono sotto dettatura di Luigi che cammina in lungo e in largo. In mezzo, a un terzo tavolo, il notaro Mortdefroid, mezzo sepolto dietro fasci di carte e incartamenti. Luigi, dettando, parla a tutti e tre insieme.

Sono passati due giorni dal 2° atto.

Luigi — Attenzione, Sichel! Sfoderi la sua più bella calligrafia, e faccia attenzione, la prego      di non sciupare questo foglio a bordo dorato: è l'ultimo che mi resta.

            E' pronta? Continuo:

            «... dopo le prove crudeli che mi hanno col­pito, mi è di grande conforto... ».

(A Lumir)Ci siamo, Lumir?

            « Keller, boufarik ».

(A Sichel)E' un vecchio compagno di laggiù, una specie di socio.

(A Lumir) « Vecchio mio, qui allegato un as­segno di 2000 franchi su Dumont, Zographos &      C. , con il quale pagherai: »

            A capo.

            « Fattura del 30 giugno, ossia... ».

(A Sichel)«... di grande conforto l'assicura­zione della stima e della fiducia che Sua Mae­stà          non ha mai cessato di mostrare... ».

(A Lumir) «...ossia: ....   1000 fr.

            « 100 giornate operaie a 2,50 ossia: 250 fr.

            « Fattura Laparra                                380 fr.

            « Spese varie                          a memoria ».

(A Sichel)        « ... a mio padre... ».

(A Lumir)        ... Faccia il totale.

Lumir — Ha torto di lasciare tanto denaro a Keller. Se lo berrà tutto.

Luigi — Lo berrà alla mia salute! Non si perde il padre tutti i giorni! Va bene, signor      Mortdefroid?

Mortdefroid — Non mi raccapezzo troppo.

Luigi — Chiedo scusa di averlo fatto venire così presto, ma mi secca trascinare le cose per le     lunghe.

            Alle dieci e mezzo in punto la bara sarà por­tata via.

            Tra poco chiameranno in chiesa.

            Attenzione, Sichel!

            « Voglia personalmente gradire, Signor Segre­tario, i sensi della mia alta    considerazione e ren­dersi interprete presso Sua Maestà... ».

(A Lumir)        « Per quanto riguarda quel piccolo Maltese che ci scoccia... ».

(A Sichel)        « ... dei sentimenti di riconoscen­za, di devozione e di profondo rispetto con i       quali mi firmo... ».

            A capo, saltare una linea.

(A Lumir)        « ... Se non riesci a sbarazzarmene prima del mio ritorno... ».

(A Sichel)        « ... di Sua Maestà ».

Sichel — Così fa due volte Maestà.

Luigi — Meglio! Gli farà piacere. (Manda un bacio al ritratto del Re Luigi Filippo).

(A Sichel)        « ... di Sua Maestà... » salti due righe.

            In lettere più piccole...

(A Lumir)        « ... sei un porco ».

(A Sichel)        « ... l'umilissimo e obbedientissimo servitore... ».

(A Lumir)“... Mio padre è morto; ho il de­naro per la scadenza. Sarò costà per il 20 “.

            Rileggete!

            Che ne dice, signor Mortdefroid?

Mortdefroid — Quello che vedo non è straor­dinario, ma è anche vero che è difficile   capirne qualcosa.

            Il defunto Conte aveva la mania, pur non ca­pendone nulla, degli affari e delle     speculazioni

            Diffidente come un vecchio, semplice e pieno di fede come un ragazzo, finiva col           tendere, da ogni parte, fili nei quali, poi, rimaneva preso. Un vero militare!

            E questa crisi che scoppia in Borsa!

Luigi (beffando, con voce nasale) — Di modo che, se noi mettiamo da una parte questa             quietanza a saldo generale di tutte le obbligazioni, debiti, avalli, compartecipazioni, garanzie e im­pegni, che mio padre, il giorno della sua morte ha ricevuto dal padre         della signorina...

Sichel — Più quella somma di 20.000 franchi in denaro liquido, che mio padre gli aveva          ver­sato...

Luigi — ... che io gli ho trovato addosso e di cui, avendone estremo bisogno, mi sono    impadronito...

Mortdefroid — ... se, come dicevamo, noi met­tiamo da una parte questa quietanza... Era        stata una buona idea, povero Conte! Una specie di pre­sentimento della sua fine.

            Il giorno stesso della sua morte! Voleva la­sciare una situazione chiara.

Luigi — ... se d'altra parte prendiamo atto di questo riconoscimento forfettario di          trecentomila franchi da pagare in due scadenze di 6 mesi, che il suddetto mio padre ha      firmato in favore del padre della signorina...

Mortdefroid — Credo che le due cose si equi­valgano.

            Trecentomila franchi sono il bilancio del suo attivo.

            E' una situazione chiara.

Luigi — Per essere chiara è chiara. Molto be­ne, me l'aspettavo.

(A Sichel) I miei complimenti, signorina.

            Dia qua, voglio firmare.

(Firma le lettere di Sichel e di Lumir).

Mortdefroid — Naturalmente si può fare op­posizione. Diverse cose sono sospette: conti         fit­tizi, date non corrispondenti, copialettere — non è difficile mettere assieme una             pratica. Ma di qui a tirare fuori delle prove!

Luigi — Niente prove, signor Mortdefroid! Venda e liquidi ogni cosa.

(A Sichel)        Farò onore alla nostra firma.

            Mi sembra un buon affare per lei.

Mortdefroid — Posso ancora esserle utile?

Luigi — Ne riparleremo dopo la sepoltura, se crede.

Mortdefroid — Servitore suo, signor Conte! (esce).

Luigi(a Sichel) — Mio padre le lascia una gran bella dote, signorina.

Sichel — Lei ha avuto la sua parte.

Luigi — Giustissimo, la mia parte. Questi ven­timila provvidenziali franchi e tutta l'Africa!

Sichel — E una fidanzata.

Luigi — Già! E in più la fidanzata. E' vero, per Dio! Non ci pensavo — Ci aspettano dei           gior­ni magnifici!

            E ora parliamo di cose serie!

            Suo padre è sveglio?

Sichel — Non so — credo che abbia passato una nottataccia.

Luigi — Dorme ancora! Bisogna che si alzi! Tutti all'opera!

            Ho bisogno dì lui tra un'ora. Gli porti intanto queste partecipazioni e gli dica che si          diverta a farci gli indirizzi. Ecco la nota — va bene?

(Le dà delle carte. Lei esce).

SCENA II

Lumir (posando la penna) — Ci sono alcune cose che non riesco a capire.

Luigi — C'è qualcosa che non capisci?

            Angelo mio, cos'è che non capisci?

Lumir — Tuo padre ti temeva. Perché dunque ha accettato questo incontro con te?

Luigi — Non c'era altro da fare. Non ha po­tuto resistere. Era molto interessante spiegarsi fino   in fondo con me, e vedermi vinto e suppli­cante.

            Oltre tutto mi disprezzava.

            Era veramente interessante affrontarmi deciso, con questo denaro in tasca che gli            scaldava il cuore.

Lumir — E come ha potuto firmare questa ob­bligazione di trecentomila franchi?

Luigi — Bene! Che poteva temere da Ali? Era­no legati a doppio filo.

            Era come un'assicurazione a rovescio, capisci?

            In fondo ci teneva a essere amato per se stesso.

            Ha tenuto solo questi capi piccoli, ventimila franchi, dai quali non ha avuto il coraggio    di se­pararsi.

Lumir —  E' una trovata di Sichel.

Luigi — Le fa veramente onore.

Lumir — Lui pensava che lasciandole tutta la sua fortuna...

Luigi — Da una parte mi levava ogni interesse a levarlo di mezzo...

Lumir — E d'altra parte, quando sarebbe morto...

Luigi — Questa situazione mi avrebbe spinto a sposarla.

            Si, è davvero il suo genere.

Lumir — Ma tu non l'ami, è vero Luigi?

Luigi — Sicuro, contessina, lei sola! (l'ab­braccia).

Come è fresca la sua guancia, e come gelate le sue mani!

(Finge di volerla abbracciare di nuovo — leg­gero movimento di ripulsa).

            Dunque la disgusto!

Lumir — Mi è parso di vedere la faccia cru­dele e vorace di suo padre, il caro mugnaio   ingenuo e cattivo.

            Ma ora è ritornato lei, lo stesso di prima.

Luigi — Lumir, le chiedo di non parlarmi più del vecchio signore.

            L'ho ucciso, è vero. Ho ucciso mio padre: e la cosa dipendeva proprio da me. Il mio        cuore era d'accordo!

            E per cancellare questi penosi ricordi, questo atto che si preparava lentamente ogni          notte e ritorna nei sogni, so che è solo questione di vo­lontà, di pazienza e di tempo.

Lumir — Che intenzioni hai?

Luigi — Tornare in Algeria, il più presto pos­sibile; appena la liquidazione sarà avviata in            modo che ogni cosa sia rimessa nelle mani della coppia.

Lumir — Senza rimpianti?

Luigi — Rimpianti? Tengano pure questi beni!

            E' un sollievo per me.

Lumir — Così nulla è successo?

Luigi — Nulla è successo.

Lumir — Torni con me in Algeria?

Luigi — Con te, se lo vuoi. (Lei ride, con la testa bassa e fa segno di no).

No? Non puoi venire con me?

Lumir — No.

Luigi — Vuoi andare in Polonia?

Lumir (a voce bassa, come parlando a se stes­sa) — Sì... in Polonia... partire...

Luigi — In ogni modo tu non hai mai avuto intenzione di tornare con me. Non è vero? (lei scuote la testa).

            Chi ti chiama in questa Polonia?

Lumir (come se fosse lontana con lo spirito) — Mi chiama un parente malato.

Luigi — Perchè cerchi di mentire?

Lumir — Perchè mi fai tante domande? (si­lenzio).

Luigi — Lumir, dimmi che hai.

Lumir — Come è orribile qui, con questa piog­gia che non cessa da otto giorni!

            Questa grande casa in rovina, spodestata dai padroni, morta...

            Questo muro nudo, questo Cristo fuori posto in attesa che qualcuno lo porti via, mentre per tanto tempo fu tutta la gioia e tutta la speranza dell'umanità!

            Ora l'hanno staccato e messo contro il muro, dimenticandolo così.

            E al posto di Gesù Cristo, questo idolo ripu­gnante, questo vegliardo a colori tutto           carne e ciuffi!

            Come mi sento sola, qui dentro! Dio grande e misericordioso, come mi sento sola ed       estranea!

            Tutto, tutto intorno a me è ostile, mentre sen­to che non c'è un posto per me. Le stesse     cose intorno a me, sembra che non mi vedano. Sem­bra che io non esista.

Luigi — Vieni via con me — rientra assieme a me nella vita e nella realtà.

Lumir — La realtà è assente — la vera vita è assente — io, io almeno sono sveglia per   questo attimo che passa.

Luigi — La vera vita è presente con tutte le cose che si affacciano e che aspettano l'esisten­za    da noi.

            Il passato è morto: la vita si schiude e il cam­mino davanti a noi è libero.

Lumir — Nulla mi attrae in questa terra stra­niera

Luigi — Quello che abbiamo creato non ci è nemico.,

Lumir — Io ho agito solo per lealtà a mio pa­dre e a mio fratello. Tutti e due sono morti, e

            ho potuto ricuperare questo denaro.

            Ora sono libera, senza legami e sola in questo immenso universo.

            Unica e sola, assolutamente sola.

Luigi (amaro) — Laggiù, c'è la patria.

Lumir — Senza padre, senza patria, senza Dio, senza legami, senza beni, senza avvenire,           senza amore!

            Nient'altro intorno a me che la pioggia senza fine, o questo sole bianco più terribile          della mor­te — che mi mostra intorno solo figure inaffer­rabili come la sabbia; un          popolo di ombre.

            Il torrente che passa e nessuno che mi cono­sca; nient'altro che il rumore eterno di            queste inutili labbra che parlano una lingua sconosciuta.

Luigi — Io, io ti amai un giorno, e so che tu lo sapevi.

Lumir(con un piccolo sorriso) — Un giorno?

Luigi — Ti amo ancora.

Lumir — No, tu non mi ami più, e io sono già partita.

Hai troppo poca anima per pensare a quello che facesti ieri l'altro.

Luigi — Per questa Lumir.

Lumir(stende la mano per toccarlo) — E’ vero. Ah, povero amico! Fratello mio, quanta            pena mi fai!

Luigi — Ed è perché mi amavi che mi hai teso questa imboscata?

Lumir — Vuoi dire della piccola menzogna che ho messo insieme, e della prima pistola che,     effettivamente era carica a palla?

Luigi — Tu volevi la morte sicura di mio padre, e per me il delitto e la forca.

Lumir — Sono più giovane di te, e tutto que­sto, tra poco, sarà la mia parte.

Luigi — Tu volevi farmi morire?

Lumir — Dovevo dunque lasciarti a quella donna?

Luigi — Non voglio sposare Sichel.

Lumir — E' quello che lei vuole, che ha im­portanza.

E poi, come vedi, ha tutto il denaro.

Luigi — Che m'importa il denaro?

Lumir — Molto. Abbiamo vissuto troppo du­ramente, noi due, per ignorare quello che vale

            denaro.

Luigi — Ti ho reso il tuo.

Lumir — Sì, sei pari con me. Tutti e duesia­mo pari.

Luigi — Mi hai fatto commettere questo de­litto, e ora mi lasci.

Lumir — Non è vero. Non hai che da venire con me, laggiù dove io vado.

Luigi — Sai bene che non posso. Non posso lasciare tutte queste cose che ho cominciate.

Lumir (dolcemente) — E' triste che io parta?

Luigi — No, non è triste.

Lumir — Davvero? Non cercare dunque di fìn­gere! Vedo nei tuoi occhi questo sguardo           infan­tile che mi dà tanta gioia; e il tuo turbamento che mi confonde, e quel sorriso      infelice!

Luigi — Verrò a capo anche di questo.

Lumir — Luigi, ci tieni tanto a vivere senza di me?

Luigi — Non farmi arrabbiare! Non mi guar­dare con quella tua aria di compassione e di            disprezzo! Preferisco la tua indifferenza.

Lumir — No, non tornerò con te.

Luigi — Ma non è insensato lasciarsi dire que­ste cose da una piccola donna, che si potrebbe      torcere tra le mani!

            Sai bene che sono il più forte! Perché non vuoi fare dunque quello che voglio?

            Non è giusto.

Lumir — Non tornerò con te.

Luigi — Lumir, tante cose sono davanti a noi!

Lumir — No — non vi sono tante cose da­vanti a noi.

Luigi(con dolcezza) — Resta, dunque — io non posso fare a meno di te.

Lumir (con passione) — E' vero che non puoi fare a meno di me?

            Dillo ancora! E' vero che non puoi farne a meno?

            Davvero? Ah, si fa presto a dirlo!

            E' una cosa breve, ma ha in sè tutta la feli­cità che potevo avere. Una breve felicità.

Luigi —  Sarà lunga se tu lo vuoi.

Lumir — Non sono abbastanza bella.

            Se lo fossi stata, forse questo valeva la pena di vivere.

            Non so vestirmi — non conosco le arti della donna.

            Ho sempre vissuto come un ragazzo — con accanto solo uomini.

            Osserva come tutto è aggiustato addosso a me.

            Tutto per traverso e non si sa come!

Luigi — Sta bene così.

Lumir — Tuttavia non sono troppo brutta.

            Avrei voluto che, una volta almeno, tu mi aves­si vista con un bel vestito, un vestito         completa­mente rosso.

Luigi — Ti amo come sei, «moj Kotku ».

Lumir — Bene, ci sono mille donne come me: non vale la pena di vivere.

Luigi — Per me ne esiste una sola.

Lumir — E' vero? Ce n'è una sola per te? Ah, io so che è vero. Puoi dire quello che vuoi!

            Malgrado tutto c'è qualcosa in te che mi ca­pisce, qualcosa di fraterno!

            Una incrinatura, una stanchezza, un vuoto che non può essere colmato.

            Nessun altro è come te — sei unico.

            E mai potrai cessare di aver fatto quello che hai fatto: (dolcemente) parricida!

            Noi siamo soli in questo orribile deserto.

            Due anime umane nel nulla e pur capaci di darsi una all'altra; due anime che in un            solo istante, un istante simile al fulgore del tempo che si annienta, sono capaci di   sostituire ogni cosa una per l'altra!

            Non è vero che fa bene essere senza nessun orizzonte?

            Ah, se si potesse prolungare la vita!

            Allora varrebbe la pena d'essere felice.

            Ma la vita è corta e c'è anche un mezzo di renderla più breve, così breve che tutta            l'eter­nità vi sia compresa!

Luigi — Non "so che farmene dell'eternità.

Lumir — Così breve che tutta l'eternità vi sia compresa!

            Così breve da contenere l'intero mondo chenon ci interessa, e questa felicità che la          gente usa per i suoi affari.

            Così piccola, minuta, striminzita, che solo noi due e nessun'altra cosa possa contenere!

            Ma dimmi! Cos'è questa Mitidja e questo rac­colto che ti si sbriciola come polvere tra       le dita lasciandoti un poco di oro? Cosa rappresentano queste cose talmente        sproporzionate per noi?

            Vieni con me e sarai la mia forza e la mia sicurezza.

            Ed io sarò la Patria tra le tue braccia, la Dol­cezza che un giorno abbandonasti, la terra     di Ur, l'antica Consolazione!

            Siamo noi due soli nel mondo, e questo unico momento nel quale finalmente ci    incontriamo fac­cia a faccia.

            Saremo accessibili infine, fino a svelare questo mistero racchiuso in noi.

            C'è il mezzo di estrarne l'anima come una spa­da, leale e senza macchia; c'è il mezzo di     fran­tumare l'ostacolo.

            Possiamo fare un giuramento, e darci infine, senza limiti, a quest'altro che solo esiste.

            Malgrado la notte orribile e l'uragano, mal­grado il vuoto che è intorno a noi, a testa         alta!

            Dare se stesso e credere interamente all'altro.

            Darsi a credere in una sola luce! ognuno al­l'altro e solo a quello!

Luigi — Che vuoi da me?

Lumir — Voglio che tu mi accompagni dove io vado.

Luigi — In Polonia?

Lumir — In Polonia e più lontano ancora.

            Nella patria della tristezza, in Ur di Coldea, dov'è la sorgente delle lacrime nel cuore       della donna che ami.

            Con me in questo paese che ci è più vicino della Polonia.

Luigi — No, Lumir.(Silenzio).

Lumir — Sta bene — sposa dunque l'amante di tuo padre.

Luigi — Ci tieni?

Lumir — Forse le hai fatto torto — non l'hai privata di questo Turelure al quale aveva

            di­ritto?

            Anche tu sei un Turelure.

            Va là, ti conosco bene. Sei un Turelure, sei un vero Francese.

            Può forse un Francese fare a meno della donna?

Luigi — Io posso fare a meno di te.

Lumir — Lei ti ama — perchè stringi i denti?

Luigi — Non è piacevole quello che dici.

Lumir — Ti ama — Ho visto come ti guarda, tenera e vibrante sotto il tuo occhio come una      corda di violino.

            Con quei suoi occhi neri, ti appiccicherà al suo corpo e lei entrerà nel tuo come uno         spago che stringe, come l'edera nel legno della quercia.

Luigi — Può essere — sarò io, però, il più forte.

Lumir — Vivi felice.

Luigi — Felice o non felice.

Lumir — Addio dunque, fratello.

Luigi — Ma non sorridere così — con quel sorriso che dà il disgusto della vita!

Lumir — Vivi felice — io non ti voglio.

Luigi — Pensi dunque di salvare la Polonia?

Lumir — E' la presa in giro di tutti voi: Ali, Sichel, tuo padre, tutti gli Ebrei che abbiamo          attorno.

Luigi — Ma tu non puoi, da sola, liberare il tuo paese.

Lumir — No. (Guarda il Crocefisso).

Luigi — Se Dio esistesse, salverebbe la Po­lonia.

Lumir — Non si tratta di salvarla.

Luigi — Di che si tratta dunque?

Lumir — Di lasciare Turelure e i suoi.

Luigi — Non è così? Bisogna dunque dare torto a Dio una volta di più? Bisogna aggiun­gere     un'ingiustizia di più sul conto della Polonia!

(Silenzio).

            E' necessario interrompere la proscrizione?

            Bisogna dare di nuovo un'occupazione ai pro­pri carnefici? (Silenzio).

            I carnefici della Polonia — non dici nulla?

Lumir — Sono i Francesi a usare parole si­mili.

Luigi — Perchè dunque te ne vai laggiù?

Lumip. — Vado verso la mia patria terrestre, poiché altre non ce ne sono — là dove non mi       sentirò straniera.

            Nelle tenebre di una notte profonda, con quel­li che sento fratelli, della mia stessa            razza, con quelli che sono riusciti a spogliarsi di tutto quan­to era inutile, eccetto             l'amore di darsi uno al­l'altro.

            Questo amore che tu non hai voluto, e tu, ani­ma mia, che io non ho potuto dare.

            Ecco che io la offro a loro, come un prigio­niero con le membra legate, che cerca   l'anima sorella nella notte con l'avida bocca; cerca nella notte una figura umana a cui             dare questo pane che tiene stretto fra i denti!

            Se io vivo, non posso essere di tutti.

            Ma se muoio, sono intera di tutti e tutti sono una cosa con me.

Luigi — Quelli che ti chiamano sono dei pazzi.

Lumir — E' vero. Anch'io li trovo pazzi. Ma non fa nulla.

Luigi — Cosi, se ti avessi sposata, tu ora par­tiresti preferendo questa gente che non conosci?

Lumir — Sì.

Luigi — Faccio bene dunque, a lasciarti an­dare.

Lumir — No fratello.

            Anche se la tua vita sarà lunga, non troverai più un'occasione come questa per offrirla     alla donna che ti si offre.

Luigi — La consegna è di vivere.

Lumir — La mia è di morire.

            Bassamente, ignobilmente; tra due piccoli im­piegati scontenti d'essersi alzati troppo        presto.

            Una lanterna, una notte di pioggia come ce n'è laggiù prima dell'inverno; la pioggia a      tor­renti, senza speranza.

            E' una giovane donna che stanno per impic­care a una sbarra di ferro tra le due mura di    una prigione.

            Addio!

Luigi — Senza alcuna speranza.

Lumir — Addio, senza alcuna speranza; nè in cielo, nè in terra.

(Esce).

SCENA III

(Entra Sichel).

Sichel — Ecco le lettere.

            Mio padre sarà qui tra poco.

Luigi — La ringrazio.

Sichel — Luigi, sento il suo rancore.

            Lei pensa che io mi sia presa la sua eredità.

Luigi — Se la tenga. Per me è un sollievo — ho orrore di questo paese.

Sichel — Le giuro, Luigi, che, malgrado quan­to lei crede, io non le ho fatto questo torto.

            Questi trecentomila franchi sono esattamente quanto suo padre ci doveva, compresi i      ventimila che lei ha avuto. Tenuto conto di trenta o qua­rantamila in più o in meno:       quanto vale questo fondo di Coùfontaine.

            E' stato suo padre a voler fare cifra tonda.

            Ed è troppo per questi anni di schiavitù?

            Questa è la verità.

Luigi — Davvero, non ho nessun rancore eon lei.

Sichel — No, lei non mi serba rancore; e que­sto è proprio nel suo carattere.

            Ma il mio avvenire è distrutto, il mio protet­tore morto e io svergognata.

            Anche di questo lei non mi serba rancore.

Luigi — Non sono stato io a uccidere mio padre. (Silenzio).

Sichel — No, non è stato lei a ucciderlo.

            Non c'era bisogno di mettergli le mani ad dosso: suppongo che la paura sia bastata.

            Ma che guarda nel cortile?

            Potrebbe anche guardarmi mentre le parlo!

Luigi — Sto osservando qualcuno che parte.

Sichel — Chi parte?

Luigi — La Contessa Lumir.

Sichel — Lumir parte?

Luigi — Sì, parte. E penso che non ritorni più.

(Silenzio).

Sichel — Luigi, questo mi dispiace.

Luigi — Grazie tante.

Sichel — Io sarei restata.

Luigi — Questo è certo.

Sichel — Luigi, quello che succede nel cor­tile è estremamente interessante.

            Ma questo foglio che ho in mano, merita che lo si guardi.

Luigi — Che cos'è? (Lei gli dà il foglio).

            Ah! il riconoscimento firmato da mio padre.

            L'ho già visto.

(Fa il gesto di ridarglielo).

Sichel (evitando di riprenderlo) — Le giuro che è in una sola copia.

Luigi — La riprenda.

Sichel — Ho faticato molto per averla da mio padre.

Luigi — La riprenda dunque.

(La butta in aria con un colpetto).

Sichel (riprendendola a volo) — Tutti mi ac­cuseranno di averlo spogliato.

Luigi — Dormant e Coùfontaine — c'è di che consolarsi.

Sichel — Ma dunque anche lei mi accusa!

Luigi — Le manderò dei datteri per Capo d'anno.

Sichel — Sono un'ebrea, è vero? Non tengo che al denaro, è vero? Ebbene, guardi cosa            faccio di questo.

(Strappa il foglio — silenzio — si guardano).

            Eccole resa ogni cosa.

            Il suo e il nostro — questa è la nostra avidità.

Luigi — Sichel, quello che lei ha fatto non è completamente idiota.

Sichel — Non è vero? Rubo a mio padre, lo spoglio e mi metto nelle sue mani.

            Che astuzia la mia!

Luigi — Che peccato che il mio sia morto!

(Rumore di ruote nel cortile — Luigi va alla finestra e resta a lungo appoggiato ai vetri).

Sichel — Questo rimpianto mi stupisce.

Luigi — Effettivamente, ora, non ho più nes­suno per fare presso la sua famiglia i           convenevoli d'uso.

Sichel — Che convenevoli?

Luigi — E' una situazione imbarazzante per dei giovani bene educati.

Sichel — Ma che situazione?

Luigi — Crede lei dunque che io accetti la sua generosità? Crede che accetti così il suo denaro? E' suo, e ben guadagnato. Così fu la vo­lontà di mio padre.

            E temo di avere qualche responsabilità, nel fatto che l'ho privata del suo protettore.

            Sì, ho avuto dei torti verso il defunto e ora devo aver riguardo alla sua volontà.

            Eccomi pronto a riparare da uomo d'onore.

Sichel — Ma dove vuole arrivare?

Luigi — Signorina Habenichts, ho l'onore di chiederle la sua mano.

Sichel — Luigi, se lei mi prende in giro... Ca­pitano, voglio dire... Signor Conte, signor             Capitano... (balbetta).

Luigi — Mi farà pagare caro questo scherzo, non è vero?

            E' questo che vuol dire?

Sichel — No, non la minaccio.

Luigi — E io non scherzo.

Sichel — Luigi, ma pensi che scandalo se mi sposa!

Luigi — Non ho paura — è proprio questo è strano.

Sichel — Suo padre...

Luigi — Compio i suoi più cari voti.

            Che legame tra noi aggiunto a quello del sangue!

            Eredità completa!

            Ora non gli manca nulla. E' lo stesso uomo che continua.

Sichel — Davvero lei mi chiede di sposarla?

Luigi — Sì, è un'idea che mi è venuta, così...

Sichel — E se io rifiutassi?

Luigi — Non rifiuterà — è una cosa neces­saria — Mekhtoub.

            E' scontata in anticipo e noi siamo fatti uno per l'altro.

            E' come se fosse scritto su carta da bollo.

Sichel — Crede lei che io abbia strappato quel foglio per arrivare a tutto questo?

Luigi — Lo credo pienamente.        

Sichel — E se fosse così?

Luigi — Vuole dire che lei mi conosce.

Sichel — Vuol dire che l'amo.

Luigi — Vuol dire che lei mi desidera, me, il mio nome, il mio avvenire e la mia fortuna.

Sichel — Tutto insieme!

            Perché dovrei odiare qualcosa che è suo? Sì, lo voglio tutto insieme. E' roba mia e non    spre­cherò nulla.

            Che ne avrebbe fatto quella assurda Polacca? Quel pezzetto di ghiaccio ardente?             Guarda co­me ti pianta.

            Lo so, io sono Ebrea e questo è tutta una mia macchinazione. Non è vero? Povero           figlio, da tanto tempo ho preparato tutto contro di te!

            E se fosse così?

            Dove sono i miei amici? Le mie risorse? Le armi su cui contare? Non ho che me   stessa, e sono Ebrea.

            E c'è questo masso pesante sopra noi da ol­trepassare, questa maledizione stesa su noi      co­me una mascella da scardinare!

            Sono secoli che siamo separati dall'umanità. Secoli in cui siamo stati messi da parte         come oro nella borsa dell'avaro. Ora la porta si apre, e tanto peggio per quelli che ci       hanno liberati!

            Tanto peggio per te, mio bel capitano!

            Ti amo, e ti mostrerò che sono la figlia della Fame e della Sete! Sei bello! Non siamo       stan­chi, noi! E la porta si è aperta, e io rinnego la mia razza e il mio sangue!

            E odio il passato. Ci cammino sopra, ci ballo, ci sputo sopra!

            Il tuo popolo sarà il mio, e il tuo Dio, il mio. Sarò tua, mio bel Capitano, e vedrai se         non ser­virò a nulla.

Luigi — Guardati Ebrea, e non mi leccare le mani con la stessa passione dei piccoli cani

            febbricitanti e affettuosi.

            Ti sposo perchè non ho altro da fare e tu non mi fai paura.

            Tu spari su di me con una lettera di cambio di mio padre. Sta bene, è necessario fare       onore alla firma. Accetto quest'eredità interamente, e sarò io a ridere per ultimo.

Sichel — Tu m'insulti. Sta bene.

Luigi — Bisogna che tutto sia chiaro tra noi.

Sichel — Insultami, mettimi sotto i piedi. Non aspetto altro da te.

            Da tanto tempo, Israele è umiliato come una cosa che si detesta e di cui non si può          fare a meno.

            Tu m'insulti! Ma da tanto tempo Israele beve l'umiliazione come l'acqua! Ho detto          come acqua?

            No, non come acqua, ma come un vino forte e che costa caro, che scalda e ti va alla        testa.

            Tu m'insulti, ma malgrado questo sono tua moglie, e avrò un figlio da te che sarà del       mio sangue — della mia razza.

Luigi — Guardami negli occhi.

Sichel — Ecco, ti guardo.

Luigi — Tu non mi guardi, sorridi.

Sichel— Ora ti guardo.

Luigi — Tu non mi guardi, arrossisci e i tuoiocchi sono già altrove!

               Ah, sono ancora io il padrone!

Sichel — Credi che io non abbia visto quello che c'è nei tuoi?

            Qualche cosa è successo dall'altro giorno e tuoi occhi non sono più gli stessi.

Luigi — Nulla è successo.

Sichel (piano e passandosi la lingua sulle labbra).Hai ucciso tuo padre, non è vero?

Luigi — Non ho ucciso mio padre.

Sichel — Non ti domando nulla. Non ho Li- sogno di sapere nulla. Ma questi occhi non son:   di un uomo che ha lo spirito in pace.

Luigi — Non c'è bisogno né di spirito né di pace.

Sichel — Se non puoi soffrire la pace, nessu­no meglio di me potrà guarirtene!

            No, non c'è bisogno di pace!

            Sarebbe troppo comodo per questi cadaveri che ci circondano, e che non ci          impediranno eternamente di vivere!

            Se non hai potuto sopportare tuo padre, a maggior ragione non sopporteremo questi        simu­lacri.

            Se tu conosci l'Africa, io conosco la società come la carta di un paese che sarà nostro,     con le sue strade, i fiumi, e le quote cifrate!

            Noi siamo fatti per imporci, e per imporre la legge agli altri.

            Qualcosa è frantumato tra noi e gli uomini. Tanto peggio per loro; noi ne approfittiamo.

Luigi — A me resta Sichel Habenichts.

Sichel — A te resta Sichel Habenichts, e a me questo parricida.

            Va là, il tuo segreto non è così profondo per­chè anch'io non ci sia dentro e tu non mi       trovi al tuo fianco.

            C'è il sangue di un padre su te e me, c'è il sangue, il sangue di un altro.

            E c'è abbastanza disgrazia e peccato in noi da bastare a creare l'amore.

            T'insegnerò a conoscermi e non mi odierai!

            Mio bel Capitano! Come sei ancora sano vici­no a me!

            Come sci grande e forte, e come ti amo!

            Aspetta e t'insegnerò Parigi!

Luigi — Non vado a Parigi.

Sichel — Non vorrai restare in questo buco?

Luigi — Certamente.

Sichel — Che farai di me, qui?

Luigi — Quello che potrò; e bisognerà filare diritti.

Sichel — Ebbene, ci presenteremo alle ele­zioni.

Luigi — Ho bisogno di vedere tuo padre.

Sichel — Ti ho detto che stava per venire.

Luigi — Che dirà di questo tuo modo di ser­vire i suoi interessi?

Sichel — Noi sappiamo far intendere la ra­gione ai genitori.

Luigi — Ho trovato questo affare della com­pera di Dormant tra le carte di mio padre. E' solo   un progetto?

Sichel — Sì, malgrado abbia avuto un anti­cipo dei ventimila franchi che gli hai trovato            addosso.

Luigi — II prezzo mi sembra molto basso.

Sichel — Si tratta di una bicocca e di un po' di terra senza valore.

Luigi — Straordinariamente ben situata.

Sichel — Ascoltami — Vendigli Dormant: ci tiene tanto!

Luigi — Bisogna che gli dia un prezzo.

Sichel — Ora ti spiego. E' un bel tiro di tuo padre. Che idea aveva!

Luigi — Non avrà Dormant per meno di cen­tomila franchi.

            E' la fortuna dei miei nonni.

Sichel — Li pagherà. Ma lasciami spiegare.

            Non è a Dormant che sarà fatto il bivio diRheims con le officine e i depositi delle           loco­motive. E' a Ghalons.

          Tuo padre era riuscito a ottenerlo al Ministe­ro dei Lavori Pubblici ed è ancora cosa          segreta.

Luigi — Vedo.

Sichel — E lui stesso aveva comprato laggiù un pezzo di terra con l'aiuto di mio zio   d'Epernay, il mercante di vini di Champagne, zio di mio padre. Le carte le ho io.

Luigi — Habenichts? Non ci sono Habenichts a Epernay.

Sichel — Non si chiama Habenichts. Si chia­ma Dumesloir — Roger Dumesloir.

          E' un bel nome.

SCENA IV

(Entra Ali Habenichts)

Ali Habenichts — Signor Conte, ho l'onore di ossequiarla.

Sichel — Ah, padre! Come sono felice (Lo abbraccia).

Ali Habenichts — Che è successo?

Luigi — Il lutto che porta è per mio padre?

Ali Habenichts — Mi è parso onesto metter­mi il vestito più scuro che avevo.

Luigi — Non rimpianga nulla.

Sichel — Padre mio. (Lo abbraccia).

Ali Habenichts — Figlia mia.

Luigi — La signorina ed io, esaminata ogni cosa, abbiamo aggiustato tra noi i termini di          una liquidazione, o meglio di una consolidazione.

          In altre parole, sua figlia mi cancella il suo credito e io la sposo.

Ali Habenichts — Che cosa sento!

Sichel — Padre mio. (Lo abbraccia).

Luigi — Signor Habenichts, ho l'onore di chiederle la mano di sua figlia.

Ali Habenichts — Signor Conte, senza dub­bio lei pensa di farmi un grande onore?

Luigi — Il piacere è mio.

Ali Habenichts — Mio padre era un rabbino celebre. Also!

          Crede lei che se avesse saputo che sua nipote sposava un gentiluomo e che il suo             sangue si mescolava al nostro, avrebbe preso questo per un onore?

          Che ne dici, Sichel?

Sichel — Padre mio, i nostri legami sono in­franti.

Ali Habenichts — E' vero, tutti i limiti sono sorpassati.

Sichel — Il mondo comincia oggi.

Luigi — Gettiamoci uno nelle braccia del­l'altro.

Ali Habenichts — Lei è mio figlio. Suo padre era mio amico.

          L'amicizia che avevo con la sua famiglia è ora saldata da un legame più tenero.

          Siamo tutt’uno.

Luigi — Ben detto Signor Padre! Ah! Ah! Che fretta ho di mettere al mondo un bel pic­colo   Habenichts!

          Al sangue dei Coufontaine si è già appioppato un Turelure; ed ecco tutto Israele che       s'infila dentro.

          Il nome copre ogni cosa.

Sichel — Ne sarò degna. Vedrai, sono una donna intelligente.

          Si può fare di me quello che si vuole.

          E prenderò la religione che vorrai.

Luigi — Cattolica.

          Tutti dicono che io sono cattolico.

Sichel — E' la religione che preferisco.

          E' così pittoresca!

Ali Habenichts — Sentitela! Dice « religio­ne » e « cattolica » come si dice « sala da             pranzo Rinascimento ». Per lei è lo stesso! Ganz wurst! Tutta salsiccia per lei!

Luigi — Siamo d'accordo?

Ali Habenichts — Ratifico tutto quello che mia figlia ha promesso stamattina.

        E' un po' caro. Tanto peggio, sarà la sua dote.

Sichel — Padre!

Ali Habenichts — Sì, figlia, so quello che vuoi dire.

Sichel — Ho parlato a Luigi.

Ali Habenichts — Andiamo! dopo tutto quello che ho fatto per voi, sono certo che non      vorrete contrariarmi.

         Non che io tenga talmente a Dormant, ma ho delle opzioni su altri terreni vicini, e in       caso contrario perderei la faccia.

         Tanto più che suo padre mi aveva dato la pa­rola. Non manca che la firma e lei non          vorrà fargli questo insulto.

Luigi — Non ho ancora acconsentito.

Ali Habenichts — In caso di rivendita con una maggiorazione sopra il 40 per cento, lei       ha diritto a un ristorno.

Luigi — Dormant è la culla della mia casata.

Ali Habenichts — Se si forma una società, lei ha venti parti quale fondatore.

Sichel — Lo sai bene, ti ho fatto leggere tutte le carte.

         Fallo per mio padre. Firma, amor mio, dam­mi questo piacere!

Luigi — Sta bene, sono d'accordo. Dov'è il foglio?

Ali Habenichts — Eccolo (fruga febbrilmen­te nella sua cartella).

Luigi — Faccia con comodo. Che età ha, padre Ali?

Ali Habenichts — Settant'anni, signor Conte. Luigi — E sempre tanta allegria e     sveltezza negli affari?

Ali Habenichts — Sempre, signor Conte, sempre!

         Ah! vorrei non morire mai. Che diavolo ho fatto di questo foglio? (tira fuori differenti     oggetti dalla cartella) Questo è dei minerali che mi mandano dalla Sarre; questo è il        piano delle nuove fortifica­zioni di Parigi — questo è il mio contratto con Blum —          questo... (tira fuori dalla cartella cer­cando di nasconderla una bottiglia involta in un    giornale).

Luigi — Che cos'è?

Ali Habenichts — Scusi, signor Conte, è per il Dottore.

Luigi — Soffre di reni?

Ali Habenichts — Un po' di albumina. I me­dici mi prendono sempre in giro per questa       storia — qualcuno non mi da che un anno di vita.

        Burloni! Ecco il foglio!

Luigi (legge il foglio e firma — Poi batten­dogli sulla spalla)

         Può dire di aver fatto un buon affare. Ha una bella fortuna lei di avermi per ge­nero !

        (tutti e tre si danno la mano). E adesso ho ancora qualcosa da chiederle.

Ali Habenichts — Tutto quello che vorrà.

Luigi (mostrando il Crocifisso) Lei che è amatore di curiosità, mi sbarazzi di quell'orrore.

Ali Habenichts — Ma non ha nessun valore. La pioggia e gli anni l'hanno completamente   rovinato.

Sichel — Padre mio, è del cinquecento!

Ali Habenichts — E' rotto in pezzi. Si dice che la sua Signora madre l'abbia ritrovato e       messo a posto.

Luigi — Sì, collezionava questo genere di og­getti.

Ali Habenichts — Io, non lo voglio.

Luigi — E' bronzo massiccio come una cam­pana

         (Ci batte col dito)

         (Anche Ali batte più adagio).

         Avanti dunque, batta senza timore!

         Ha qualcosa di duro?

            (Ali tira fuori una chiave) E' una chiave che ho trovato nelle macerie di Dormant.

            (Luigi prende la chiave e da un gran colpo sulla testa di Cristo)    

            Senta un po' come suona!

Ali Habenichts — Sì, i fonditori non erano rari in quell'epoca.

Luigi — Quanto mi dà?

Ali Habenichts — Tre franchi al chilo. E' il prezzo corrente — Non troverà di più altrove. Luigi — Ma è bronzo antico — guardi:

            (raschia il braccio del Crocefisso con la chiave)

            Non sapevano raffinare i metalli. In questi vecchi bronzi si trova di tutto: an­che oro e      argento.

Ali Habenichts — Le do tre franchi.

Luigi — Me ne dia cinque.

Ali Habenichts — Bene, glie ne do quattro, ma ci rimetto. Questo non è commercio, è           fantasia.

            Quattro franchi! E' una cattiva azione che mi fa fare!

Luigi — Ebbene, accetto quattro franchi.

            E se lei mi sbarazza di quest'orrore, penso di essere quello che guadagna e non quello      che perde.

SIPARIO