IL PRODOTTO E IL CAPITALE
Monologo
di ALDO NICOLAJ
PERSONAGGI
CORNELIA
Commedia formattata da
(Cornelia, una donna di mezza età, è seduta su di una panchina in una deserta sala d'aspetto di una stanzioncina sperduta. Attorno a lei altre panche e tabelloni con orari ferroviari. Ha in testa un cappellino con una veletta rosicchiata. Indossa un abito, ormai liso e consumato, annodato alla vita con una fascia di tulle bianco sporco, di cui una estremità le scende a terra, come un codino. Cornelia che era raggomitolata sulla panchina, si scuote, si stiracchia e comincia a parlare. Ogni tanto un fischio lontano di treno o il rombare di un diretto che passa senza fermarsi) C'è tanta gente a cui i topi fanno schifo. Io, invece, li considero animaletti graziosi… innocui… Non i topacci di fogna. I topolini. Quelli bianchi. Li trovavo carini, con quei codini, quegli occhietti tondi… E come mi arrabbiavo, quando qualcuno mi diceva di trovarli ripugnanti… Com'è possibile? Delle bestiole così inoffensive… Allora pensavo così. Quando ero chi ero, con proprietà al sole e un patrimonio già sgangherato, ma ancora consistente. Perché quando si ha un castello e un titolo nobiliare, si è qualcuno, volere o volare. Essere marchesa, anche in piena repubblica, significa sempre qualcosa. È un titolo che mette soggezione. Così importante che nemmeno l'ironia riesce a scalfirlo. M'avevano sempre rispettata tutti, a cominciare dai miei contadini. Miei per modo di dire: intendo i contadini che furono della mia famiglia. Perché poi, coi dissesti economici, i guai politici, le riforme agrarie, delle nostre terre i padroni sono diventati loro. Una volta un campo, un'altra un prato, poi una vigna, un bosco e, quello che era un feudo, è diventato un insieme di piccole proprietà. Mi sono salvata soltanto il castello. Bello, fastoso, ma troppo passivo per far gola a qualcuno. Ma sono sempre vissuta decorosamente e ho sempre fatto vivere bene chi aveva la fortuna di starmi vicino. Perché se non ho mai avuto marito, non ho mai sopportato la solitudine. Ho cominciato giovane con un uomo maturo, per finire matura con un uomo giovane, com'è nell'ordine naturale delle cose: Alfredo. È stato per me un buon compagno. Bel ragazzo, molto dotato, una creatura di assoluto riposo. L'ideale per me che, l'uomo, ho sempre voluto dominarlo. Alfredo era docile, sentiva la mia forza, e non si ribellava. L'avevo conosciuto in autobus. Non ho mai disdegnato di mescolarmi col popolo e gli autobus affollati mi sono sempre piaciuti proprio per quella possibilità che offrono di contatti umani. Alfredo stava aggrappato a una maniglia, come una scimmia ad un ramo, e non s'accorgeva che il mio corpo premeva contro il suo. M'abbandonavo e lui non reagiva. Approfittai di una sterzata per lasciarmi cadere tra le sue braccia. Finalmente si accorse di me. Facemmo subito amicizia. Lavorava come inserviente in un laboratorio di ricerche scientifiche. Si occupava di quei topolini bianchi sui quali la gente di scienza commette le più mostruose atrocità, colla scusa di fare esperimenti. Occuparsi di topi gli piaceva. Si trovava, come si suoi dire, nel proprio elemento. Ci doveva però essere qualcosa a legarlo a quelle bestiole, perché, osservandolo a un topo rassomigliava: biondo, quasi albino, dei topi aveva gli stessi baffi ispidi e lunghi, gli identici occhietti rotondi e le medesime orecchie puntute e rosate. A ragione mentre lo abbracciavo gli dicevo «Topolino mio! ». E con lui amavo confidarmi, fare lunghi discorsi. Alfredo, per essere sinceri, aveva ben poco da raccontare. Coi topi stava bene, non aveva altre aspirazioni. Io, invece, gli dicevo di me, della mia vita decorosa e difficile. «Ma hai un castello» esclamava. E, nella sua ingenuità, faceva fatica a capire che un castello, al giorno d'oggi, è un lusso che costa e che non rende. Si crucciava, allora, e diceva che una donna come me avrebbe dovuto avere il mondo ai suoi piedi. Un giorno arrivò emozionato, proponendomi di allevare topi. Scoppiai a ridergli in faccia. Io, una marchesa, allevare sorci? Ma il suo ragionamento non faceva una grinza. Una epidemia spaventosa aveva sterminato tutti i topi bianchi: in Italia, in Francia, in Russia, in Giappone, in Canada. Dappertutto. I laboratori erano in crisi, perché senza topi bianchi non potevano fare esperimenti. Ma ci sono altre razze di topi, protestavo io… Macché , nei laboratori li volevano bianchi. Alfredo mi spiegò che sarebbe stata una speculazione meravigliosa tentarne un allevamento. Fornendone ai grandi laboratori di tutto il mondo, avrei potuto in poco tempo farmi una fortuna. (lungo fischio di un treno) L'idea, per la sua stravaganza, finì per affascinarmi. L'importante era venire in possesso di una coppia di topi e farle far razza. Misi subito di mezzo le mie relazioni e le mie amicizie. Non era facile. Partii per la capitale e mi rivolsi ad amici più importanti. Sbarravano tanto d'occhi. Perché se li avessi scomodati per una concessione… una raccomandazione… ministri e sottosegretari mi avrebbero subito accontentata. Ma per aiutarmi a cercar topi… Finalmente un pezzo grosso della Pubblica Istruzione, riuscì a soddisfare la mia richiesta. Ripartii per il castello, portando con fierezza in una scatolina, una magnifica coppia di topolini bianchi, ignari di essere stati salvati, come per miracolo, dallo sterminio della loro razza. Con Alfredo cominciai ad occuparmi di quei topi: li nutrivo… li curavo… E quelle bestiole… (fischi di treni)… mi regalarono ben presto sei topolini, che fecero fare a me e ad Alfredo le più rosee prospettive sul felice esito della nostra impresa. Da quella mezza dozzina di topi nacque ben presto un'altra dozzina. (fischi di treni) mentre i prolifici genitori ci regalavano, a loro volta, altre cinque creature. (fischi di treni) In poco tempo arrivammo ad avere un centinaio di topi. (rumore di un diretto che passa per la stazione) Alfredo aveva il suo da fare a fabbricare gabbiette e a sistemarle nelle scansie delle cantine del castello, diventato, ormai, tutto uno squittire. Ogni giorno si verificava un lieto evento. (fischi rapidi di treni) I topi si moltiplicavano con tanta imprevedibile velocità, che facevo fatica a tenere i conti. Alfredo s'era licenziato per aiutarmi, ma la sua collaborazione non mi era più sufficiente. Dovetti assumere donne e ragazzotti, un piccolo plotone di gente, messa a servizio dei topi, mentre io, nel mio studio, seduta in poltrona, facevo i conti, soddisfatta di verificare che il mio capitale aumentava di giorno in giorno. Ricavai dai primi topi molto più di quanto l'ottimismo di Alfredo mi avesse fatto sperare. Mi sentii rinfrancata, ma non mi lasciai sedurre dalla facilità del subito guadagno. Dovevo, per il momento, soltanto produrre. Produrre, produrre, produrre sempre più. Ero, ormai, avida di topi. Dovevo impiantare la mia azienda in modo che, in futuro, mi fosse possibile soddisfare le richieste che cominciavano a pervenire da tutte le parti del mondo. V'investii tutto quanto possedevo. M'ero ormai messa su di un piano di grande industria ed ero più che mai decisa a far fruttare i miei prodotti, battendo ogni concorrenza. Non essendoci più nelle mie cantine spazio sufficiente, decisi di affidare ai contadini delle vicinanze dieci coppie di topi, facendo dei piccoli contratti in base ai quali avrei pagato un tanto per ogni topolino. (tanti piccoli fischi di treno) A loro volta, i contadini, allettati dal facile guadagno, affidarono ad amici e conoscenti altre coppie di topi. Il materiale mi arrivava perciò in un ritmo tale, che dovevo ricorrere alle calcolatrici per tenere l'amministrazione della mia azienda. 20 mila, 30 mila, 40 mila topi… (passaggio di treni) Tutto andava a gonfie vele. Migliaia e migliaia di gabbiette erano già pronte per portare in tutte le parti del mondo il prezioso materiale, che risultava ottimo sotto ogni punto di vista. Infatti, si trattava di esemplari robusti la cui costituzione era stata rafforzata dalla salubrità dell'aria di campagna e dal razionale allevamento. All'improvviso… (un fischio strozzato di treno)… le richieste si arrestarono. Non solo, mi arrivarono disdette alle ordinazioni che avevo ricevuto. Mentre fino a quel momento pareva che il mondo intero non potesse fare a meno dei miei topi, ora più nessuno era disposto ad accettarne. Sollecitai le richieste ribassando i prezzi. Inutilmente. Le risposte erano tassative. Nessuno voleva più saperne, dei miei topi. Mi sentii disperata e capii che la mia azienda era destinata al fallimento. Cercai allora di respingere i contadini che arrivavano ogni giorno allegri, al castello, con sacchi pieni di topi. Inutilmente. Calmi, tranquilli, continuavano ad estrarre dai loro sacchi topi su topi, contandoli uno ad uno, tenendoli per il codino. Volevano essere pagati ed alzavano la voce. Visto che insistevo nel rifiutare la merce, cercando di spiegare che il mercato era giunto a saturazione, se ne andavano furibondi, non prima di aver rovesciato il loro carico nelle cantine del castello, che ormai pullulava di quegli infernali roditori. Non avevo calcolato che in tutti gli allevamenti del mondo i topi si moltiplicavano con la stessa rapidità vertiginosa. In sei mesi, non soltanto si erano colmati i vuoti fatti dalla epidemia, ma s'era già arrivati all'inflazione. Ero disperata. Singhiozzavo distesa sul letto e nemmeno le parole affettuose di Alfredo riuscivano a calmarmi. Anzi, vedendolo vicino, la notte, tutto bianco, con quegli occhi, quei baffi, quell'odore di topo che aveva, a furia di maneggiarne tutto il giorno, mi atterrivo… Di notte mi svegliavo di soprassalto e mi mettevo ad urlare, perché avevo la precisa sensazione di essere coricata con un enorme schifosissimo topo, che mi respirava accanto… Alfredo, ormai, mi faceva ribrezzo, non sopportavo che mi toccasse. Gli proibii di entrare nella mia stanza. Ma cacciarlo… non potevo. Ormai tutto il personale che si occupava di topi se n'era andato e questi, usciti dalle gabbiette, s'erano ormai sparsi per tutto il castello. Alfredo era il solo che tentasse di respingerne l'invasione. Inutilmente. Migliaia e migliaia di topi squittivano, affamati, dovunque. Rodevano i mobili, le tende, i quadri, le tappezzerie… facevano il nido nelle poltrone, negli armadi, nelle coppe dei lampadari, nei materassi, nei cuscini. Il castello ne palpitava. Era uno spettacolo terrorizzante con tutti quei topi bianchi in movimento, a frotte, a schiere, a battaglioni. Si muovevano per i saloni e per le stanze, i ripostigli, le cucine, sui soffitti, sui muri, sui pavimenti. Me li trovavo, all'improvviso, tra i capelli, nelle tasche, nelle scarpe, nel reggiseno… Raccolsi da ogni parte gatti affamati e li scaraventai nel castello. Ma la preda, troppo facile, veniva subito rifiutata. I gatti, anzi, giocavano con loro, pancia al sole, subito sazi di quella carne troppo tenera. E i topi continuavano a prolificare e per calmare la loro fame distruggevano tutto: rodevano i damaschi delle pareti, le lenzuola di lino, le tovaglie di Fiandra, il legno degli antichi mobili. Riuscivano persino a sgretolare, con un paziente lavoro di denti, i vecchi saldi muri del castello. Perfino gli alberi del giardino ne pullulavano. I topi si rincorrevano tra i rami delle foglie, giocando tra loro, sì che da lontano gli alberi apparivano bianchi, come durante la fioritura di primavera. E i contadini continuavano a portarne, senza reclamare ormai neanche quel tanto per coda, accontentandosi di vuotare, come per spregio, i loro sacchi all'ingresso del castello. Vivevo nel terrore tra quelle antiche mura puzzolenti e in rovina. Vedevo i topi, nelle sere di luna, arrampicarsi sui vetri delle finestre della mia camera, cercando uno spiraglio per entrare, Alfredo, che costringevo, ormai, fuori della porta, com'era giusto, tra i suoi topi, ne riempiva sacchi e ceste per andarli ad annegare al fiume. Ma cosa significava con i milioni e i milioni che nascevano a ogni minuto? Ormai del castello erano padroni loro. Il prodotto s'era appropriato del capitale. Ossessionata dai debiti, dalle preoccupazioni, schernita e perseguitata da tutti, lasciai una sera il castello, senza nemmeno una valigia. Cosa ci avrei messo dentro? Topi? Non salutai nemmeno Alfredo, lasciandolo lì, tra gli altri topi. Giunta nella valle, mi voltai per dare un ultimo sguardo al castello e lo vidi alto nel cielo, bianco di topi, che, arrampicandosi sulle sue mura, l'occupavano in ogni senso, in modo definitivo, negando per sempre a me, che di creature vive avevo voluto fare industria, la possibilità di ritorno
(si raggomitola sulla panchina e riprende a dormire)
FINE