La prigioniera

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LA PRIGIONIERA

Commedia in tre atti

di EDOUARD BOURDET

PERSONAGGI

IRENE GIACOMO

AIGUINES

 FRANCESCA

MONTREL

GISELLA

LA SIGNORINA MARCHAND

GIORGIO

GIUSEPPINA

ATTO PRIMO

LA CAMERA DI IRENE

A destra, una porta che dà nel gabinetto di toeletta. In fondo, la comune. A sinistra, un'altra porta che dà nella camera di Gisella. Pochi mobili antichi e molto belli: il letto in un'alcova, tavolo, poltrone, ninnoli: sul tavolo il telefono. Al muro, fotografie di quadri di scuola ita­liana. In un angolo un cavalletto da pittore voltato verso il muro. All'alzarsi del sipario la scena è vuota, poi si apre la porta di sinistra e Gisella fa capolino.

Gisella                                - Irene? (Entra e va alla porta di destra) Irene?... Non c'è.

La signorina Mabchand     - (entrando) Vi ho già detto che non è ancora rientrata. Sono appena le sei, è ancora troppo presto per lei.

Gisella                                - Ma mi aveva detto che sarebbe tornata pre­sto a motivo di questo pranzo. Deve aiutarmi a disporre i fiori sulla tavola.

ILa signorina Marchand    - E' meglio che non contiate su lei. Volete che vi aiuti io?

Gisella                                - Preferirei che ci fosse lei. Io sola disporrò assai «naie.

La signorina Marchand      - Allora...

Gisella                                - Come mi secca che ritardi così. E per il mio vestito come farò?

La sicnorina Marchand      - Cos'è che vi preoccupa?

Gisella                                - Bisogna pure che io sappia che vestito devo indossare.

La signorina Marchand      - E avete bisogno di vostra sorella per decidervi?

Gisella                                - No. Ma poiché siamo le due sole donne a questo pranzo, sarebbe bene che i nostri vestiti fossero intonati, mi capite?

La signorina Marchand      - Ah, bene. (Entra dal fondo Giuseppina, cameriera, portando una camicetta che va a mettere nel gabinetto di toeletta).

Gisella                                - Ah, Giuseppina, Irene vi ha forse detto quale abito indosserà stasera?

Giuseppina                         - No, signorina, non mi ha detto nulla.

Gisella                                - Benissimo! Così non so come vestirmi! (Giu­seppina esce).

La signorina Marchand      - Indossate quella « toilette » gialla; è graziosissima e vi sta 'Lenissimo.

Gisella                                - La mia « toilette » gialla? Siete pazza.

La signorina Marchand      - Vi prego, Gisella, rispettate un po' di più la vostra istitutrice.

Gisella                                - Scusatemi, signorina; vi rispetto moltissimo, ma in fatto di vestiti permettete vi dica che non ve ne intendete affatto.

La signorina Marchand      - Perché, poi, non vi piace la « toilette » gialla ?

Gisella                                - Ma non è adatta. Papà ha detto che si tratta di un pranzo politico, in giacca. Saremo in otto, alcuni colleghi di papà e due senatori. Una bella barba.

La signorina Marchand      - Gisella!

Gisella                                - Cosa?

La signorina Marchand      - Se non misurerete le vostre parole, vi troverete assai male a Roma, vi avverto. Pen­sate che sarete un personaggio quasi ufficiale. La figlia di un ambasciatore. Ogni vostra parola sarà notata e com­mentata, siatene certa.

Gisella                                - (ridendo) Davvero?

La signorina Marchand      - Sicuro! Anzi, farete bene, quando non sarete sola con vostra sorella, a riflettere prima di parlare. (Appare dal fondo il signor Montrel).

Montrel                              - (senza entrare) C'è Irene?

Gisella                                - No, papà, non è ancora rientrata.

Montrel                              - (come a se stesso) Naturalmente! (Forte) Buongiorno, signorina Marchand. Non disturbatevi. (A Gisella) Avvertitemi appena rientrerà.

Gisella                                - Sì, papà. (Al padre che sta per ritirarsi) Papà?

Montrel                              - Cosa?

Gisella                                - Se desideri vedere Irene per darle qualche disposizione per il pranzo, puoi dire a me ciò che...

Montrel                              - s No, non si tratta del pranzo.

Gisella                                - Ah.

Montrel                              - Desidero essere avvertito al suo ritorno, anche se avrò qualche visita nel mio studio.

Gisella                                - Va bene, papà. (Montrel esce) Tempesta in vista.

La signorina Marchand      - Irene e vostro padre non vanno d'accordo?

Gisella                                - Da otto giorni non si parlano. « Buongiorno, buonasera » e basta. Sarà divertente a Roma, se continua così! Qui, almeno, papà è fuori casa tre giorni su quattro, ma laggiù...

La signorina Marchand      - Qual è la causa di questo broncio?

Gisella                                - Mistero. (Pausa) Vi ricordate quel giorno,  quando, dopo colazione, Irene chiese a papà se poteva dirgli due parole nel suo studio?

La signorina Marchand      - Sì, perfettamente, me ne ricordo.

Gisella                                - Ebbene, il broncio è incominciato allora! Che cosa si saranno detti? Non so. Ho cercato di chieder­lo ad Irene, ma non sono riuscita a saperne nulla; mi ha risposto di non preoccuparmi, che tutto si sarebbe acco­modato e poi ha parlato d'altro. Ho capito che non devo insistere.

La signorina Marchand      - Credete che vostro padre siia in collera perché Irene ha rifiutato quel signore?

Gisella                                - Quale signore?

La signorina Marchand      - Quel giovanotto, amico di vostra zia...

Gisella                                - Oh, cosa vecchia. E' stato un mese fa ed or­mai è dimenticato da un pezzo. E poi, è già il terzo pre­tendente che Irene rifiuta in un anno e papà deve esserci abituato. No, si tratta di ben altro!

La sicnorina Marchand      - Forse, vostro padre comincia ad accorgersi che Irene conduce una vita un po' anormale per una signorina.

Gisella                                - Ci siamo. Era un pezzo che non vi lamen­tavate della povera Irene.

La signorina Marchand      - Non me ne lamento affatto. Intanto, non mi riguarda, non mi riguarda più, grazie a Dio. Se fossi ancora incaricata della sua educazione, me ne lamenterei e con ragione, ma fortunatamente non è più il caso.

Gisella                                - Infime, non pretenderete che a ventisette anni Irene conduca la mia stessa vita di diciottenne.

La signorina Marchand      - E perché no? La maggiore dei Robbieu ha pure ventisei anni e la minore diciotto come voi; ebbene, esse vivono nello stesso modo e non escono che con la mamma o con l’istitutrice…

Gisella                                - Non paragonerete quella sciocca di Valen­tina Robbieu ad Irene, immagino.

La signorina Marchand      - Sono due signorine della stessa età e dello stesso inondo.

Gisella                                - Sapete bene che Irene non è una signorina come le altre.

La signorina Marchand      - E perché?

Gisella                                - Ne conoscete molte così intelligenti, così colte e così seducenti come lei?

La signorina Marchand      - E poi?

Gisella                                - Non si può pretendere da una donna come lei di vivere come un'oca bianca fra la sorella e l'istitu-trice. Morirebbe di noia.

La signorina Marchand      - Non so se morirebbe di noia, come voi così amabilmente dite, ma tale condotta -gioverebbe certo alla sua reputazione, invece di passare le sue giornate fuori, sempre sola, e senza mai dire dove va.

Gisella                                - Come, dove va? Allo studio, dal suo profes­sore, perbacco. Studia pittura.

La signorina Marchand      - Già... infine poi...

Gisella                                - Come, ne dubitereste?

|La signorina Marchand     - Ci credo, anzi, ne sono si­cura. Ma che volete, non è una vita da signorina. Non riuscirete a convincermi. Non è così che si trova un buon marito.

 Gisella                               - Per questo non temo per Irene. Il giorno in cui vorrà...

-La signorina Marchand    - II -giorno in cui vorrà, sarà forse troppo tardi. Infine, tutto ciò non mi riguarda, ri­guarda vostro padre.

Gisella                                - Papà se ne occupa così poco. Certo prefe­rirebbe che fossimo già sposate entrambe per n-on aver più da pensare a noi. Potrebbe, così, prendere tutti i suoi pasti in casa della signora Gallon e ne sarebbe felice.

La sicnorina Marchand      - Gisella! Non parlerete così di vostro padre.

Gisella                                - Non ho detto nulla di male. E' suo diritto preferire la cucina della signora Gallon alla nostra. Pare che essa abbia un ottimo cuoco... Anzi, mi domando come farà il babbo a Roma, a memo che non la conduca con sé, come a Bruxelles... Credete che la condurrà?

La signorina Marchand      - Gisella, vi prego di cambiar discorso: è scorretto ciò che dite.

Gisella                                - Bene, non offendetevi, taccio. (Va ad ab­bracciarla, ridendo) Povera signorina. (Dal fondo appare Irene) Ah, eccola.

Irene                                  - Che fate qui?

Gisella                                - Ti aspettiamo. Sai che ora è?

Irene                                  - - Sì, sono in ritardo. Non riuscivo a trovare un taxi.

Gisella                                - Dimmi subito quale vestito indosserai sta­sera.

Irene                                  - Quale vestito?

La signorina Marchand      - Gisella, non dimenticate di co-m-unicare ad Irene il desiderio di vostro padre.

Gisella                                - Ah, sì. Papà è venuto a dire che desidera essere avvertito del tuo arrivo.

Irene                                  - Ah.

Gisella                                - Ha detto che lo si avverta, anche se c'è qualcuno nel suo studio.

Irene                                  - (come a se stessa) Ah! Ah!

Gisella                                - Vuoi che vada?

Irene                                  - Sì, grazie, cara.

La signorina Marchand      - (a Gisella) Vi saluto, mia cara. Sono le sei passate. Vado a casa.

Gisella                                - Un momento, ritorno subito. (Irene, che si è tolta il cappello e mantello, resta pensosa. Gisella esce).

La signorina Marchand      - Dunque, Irene, va bene la pittura? Siete contenta?

Irene                                  - (distratta) Cosa?... Ah, sì, grazie, signorina.

La signorina Marchand      - Fate dei progressi?

Irene                                  - (c. s.) Un poco, sì...

La signorina Marchand      - E vi appassiona sempre molto ?

Irene                                  - (c.s.) Sì, sì, sempre. (Pausa).

Gisella                                - (rientrando) Papà verrà subito.

Irene                                  - Benissimo!

La signorina Marchand      - Arrivederci, Irene.

Irene                                  - Arrivederci, signorina. (Stretta dì mano).

La signorina Marchand      - (abbracciando Gisella) A domani, cara.

Gisella                                - (accompagnandola) A domani. La lezione di italiano è alle due. Voi potrete venire verso le tre.

La signorina Marchand      - Benissimo.

Gisella                                - Se farà bel tempo, faremo una passeggiata al bosco... (Escono. Gisella rientra subito. A Irene) Non mi hai detto che vestito metterai.

Irene                                  - Ma non so, cara, quello che vorrai tu; mi è indifferente.

Gisella                                - Allora quello «mauve», vuoi? Io metterò il rosa, sai, quello nuovo, così lo proverò.

Irene                                  - Va bene. Dimmi, non sai perché papà vuol vedermi?

Gisella                                - No. Gli ho chiesto se era a proposito del pranzo e mi ha risposto di no. Ecco quanto posso dirti.

Irene                                  - Di che umore era?

Gisella                                - Piuttosto nero. Ma questo non dice nulla... è sempre così... (Montrel appare in fondo).

Montrel                              - Gisella, vuoi lasciarci, cara? Debbo parlare con Irene.

Gisella                                - Sì, papà. (Esce).

Montrel                              - (dopo una pausa) Comincio col dirti, mia cara, che devo parlarti di cose molto gravi. Da questo colloquio dipenderà il mio atteggiamento verso di te. (Pausa) Prima di prendere una qualsiasi decisione, ho voluto lasciarti il tempo di riflettere... Hai riflettuto?

Irene                                  - Sì, papà...

Montrel                              - Allora, vuoi comunicarmi il risultato della tua riflessione?

Irene                                  - Non ho mutato parere.

Montrel                              - Cioè?

Irene                                  - Ti chiedo di lasciarmi qui, quando partirai per Roma.

Montrel                              - Ah! Dunque, questi otto giorni non hanno servito a nulla. Persisti a chiedermi una cosa che, sai bene, è impossibile.

Irene                                  - Insisto nel chiedertela e non vedo che cosa c'è d'impossibile.

Montrel                              - Bene. (Pausa) E persisti pure nel non vo­lermi dire la ragione di questa strana pretesa?

Irene                                  - Te l’hogià detta, papà.

Montrel                              - Mi hai detto che vuoi restare a Parigi per il tuo lavoro, la tua pittura. E' così, non è vero?

Irene                                  - Ma sì.

Montrel                              - Irene, rifletti bene; vuoi, o non vuoi, dirmi la vera ragione?

Irene                                  - Non ve ne sono altre.

Montrel                              - Andiamo, via, è una puerilità. Se si trat­tasse d'andare in un'isola deserta o nel centro del Sahara, il tuo pretesto sarebbe verosimile; ma si tratta di stabi­lirsi a Roma, nel centro d'Italia, la terra classica delle arti. In Italia, dove l'anno scorso hai insistito tanto per recarti e da dove, con il pretesto del tuo lavoro e della tua pittura, non si riusciva a farti ritornare. E' vero che avevi fatto amicizia con quei Aiguines, che d'allora sembra siano divenuti il centro di tutte le tue preoccupazioni.

Irene                                  - Che importanza hanno il signore e la signora Aiguines?

Montrel                              - Sono io che potrei forse chiedertelo, e, poiché ne parliamo, non esito a ripeterti che deploro tale amicizia.

Irene                                  - Perché?

Montrel                              - Non è una relazione adatta per te.

Irene                                  - Ma che cosa rimproveri loro?

Montrel                              - Molte cose. E' già una cattiva nota l'aver dovuto lasciare la diplomazia all'atto del matrimonio.

Irene                                  - Sposava una straniera.

Montrel                              - Un'austriaca, lo fio.

Irene                                  - E poi?

 Montrel                             - Se lo desideri, lasceremo da parte i signori Aiguines. Ti dicevo che a Roma ti troverai meravigliosa­mente bene per continuare lo studio della tua pittura, se ti farà ancora piacere.

Irene                                  - Quando s'è cominciato a studiare sotto un mae­stro, è male cambiarlo... ed il mio è qui, e non a Roma.

Montrel                              - Lavori molto col tuo maestro?

Irene                                  - Naturalmente.

Montrel                              - Tutti i giorni, penso.

Irene                                  - Quasi.

Montrel                              - Non è vero!

Irene                                  - Come?

Montrel                              - Sono stato a trovarlo il tuo maestro!

Irene                                  - Sei stato a trovarlo?

Montrel                              - Proprio oggi! Ho voluto sincerarmi. Sono stato a chiedergli se era contento della sua allieva e sono uscito dal suo studio, edificato per il posto che la pittura occupa nella tua vita.

Irene                                  - Che cosa ti ha detto?

Montrel                              - Semplicemente... che non ti vede nel suo studio da un mese!

Irene                                  - Ho lavorato al Louvre... una copia.

Montrel                              - Davvero? Ebbene, in questo caso ralle­grati. Troverai a Roma molti musei, gallerie, dove potrai copiare qualcuno dei più bei quadri del mondo.

Irene                                  - Ma infine, perché insisti tanto perché io venga a Roma?

Montrel                              - Perché il posto di una signorina è in fami­glia e la tua famiglia, sino al giorno che ti sposerai, sono, io, tuo padre. Sebbene pare che tu lo abbia dimenticato.

Irene                                  - Se mi è accaduto di dimenticarlo, papà, è forse perché tu non te ne sei sempre ricordato.

Montrel                              - Che intendi dire?

Irene                                  - Oh, nulla...

Montrel                              - Ti spiegherai. Lo voglio!

Irene                                  - Se il posto di una figlia è presso il padre, perché non hai mai pensato a chiamarci vicino, quando eri a Bruxelles?

Montrel                              - Ah, questo poi! Ma chi di noi due ha dei conti da rendere all'altro? Tu od io? Basta, non è vero? Pensa di me ciò che vorrai, mi è indifferente, ma sono tuo padre ed esigo che tu m'obbedisca. Ho creduto sino ad oggi che tu fossi una figliuola saggia e capace di saperti condurre nella vita; ti ho trattata come tale, ma ho avuto torto. Ti tratterò d'ora innanzi come tu meriti. Io partirò per Roma non appena giungerà qui il mio successore, cioè ai primi del mese venturo, e tu partirai con me e con tua sorella.

Irene                                  - (con dolcezza) No, papà!

Montrel                              - Cosa?

Irene                                  - (c. s.) Non partirò, te l'ho detto.

Montrel                              - Partirai con le buone o con le cattive.

Irene                                  - Oh, questo poi...

Montrel                              - Bada, Irene! Dovresti conoscermi e sapere che, quando ho deciso, è pericoloso contrariarmi. Ho in­franto, nella mia vita, resistenze più forti della tua, credilo.

Irene                                  - Anche tu, papà, dovresti conoscermi. Sono tua figlia e ti assomiglio.

Montrel                              - Basta con le minacce.

Irene                                  - Non son minacce. Infine, ho ventisette anni, non sono una bambina e capirai che non ti avrei parlato poco fa, quando ho pronunziato il nome dei signori Aiguines?

Irene                                  - (turbata) Non sono impallidita.

Montrel                              - Sì. (Pausa) Del resto, è semplicissimo! (Guarda l'ora) Sapremo subito!

Irene                                  - Che vuoi fare?

Montrel                              - Pregare il signor Aiguines di passare da me immediatamente.

Irene                                  - Non farai ciò, papà!

Montrel                              - Vedrai! (Risale).

Irene                                  - (seguendolo) Ma se ti dico che è inutile, che non saprai nulla.

Montrel                              - Ecco già un principio di confessione. Ascoltami bene; se fra due minuti non avrai pronun­ziato il nome che attendo, tu lo voglia o no, lo chiederò al signor Aiguines.

Irene                                  - (sconvolta) Papà... ti supplico di non farlo!

Montrel                              - Allora, parla!... Per chi cerchi di restare a Parigi?... Vuoi dirlo o no?

Irene                                  - (c. s.) Ma io...

Montrel                              - (dopo una pausa) Allora, basta! (Va ver­so il fondo).

Irene                                  - (supplichevole) Papà! No! Papà!

Montrel                              - Dunque?

Irene                                  - E'... è per Giacomo...

Montrel                              - (sorpreso) Giacomo?... Quale Giacomo? Giacomo Virieu?

Irene                                  - Sì.

Montrel                              - (c. s.) E' per Giacomo che vuoi restare a Parigi?

Irene                                  - (nervosa) Ebbene, sì!

Montrel                              - Oh, questa... poi! (Pausa) Che c'è stato tra voi?

Irene                                  - Oh!... Nulla!...

Montrel                              - Come, nulla?

Irene                                  - Nulla di grave, sii tranquillo.

Montrel                              - Senti, non giuochiamo sulle parole. Ti prevengo che controllerò tutto.

Irene                                  - Ma sì.

Montrel                              - Ti consiglio, dunque, a non nascondermi nulla. Rispondi. Che c'è stato tra voi?

Irene                                  - (a fatica) Da un pezzo ci vogliamo bene e abbiamo pensato... Infine, io ho pensato che potrei spo­sarlo. Ecco la verità.

Montrel                              - Proprio la verità?

Irene                                  - Ma sì, papà!

Montrel                              - Volete sposarvi?

Irene                                  - Ti ho detto che io lo Vorrei...

Montrel                              - E lui?

Irene                                  - Lui, non so.

Montrel                              - Come? Non ti ha mai parlato delle sue intenzioni?

Irene                                  - No.

Montrel                              - Ma... allora?...

Irene                                  - Non me ne ha ancora parlato.

Montrel                              - E pensi che stia per farlo? Insomma, par­la, spiegati! Bisogna strapparti le parole!

Irene                                  - Non so nulla.

Montrel                              - Infine, che cosa? Tu l'ami e se egli mi chiedesse la tua mano, saresti disposta a sposarlo, è così?

Irene                                  - (dopo una pausa) Sì.

 Montrel                             - Ed è per questo progetto che volevi re­stare a Parigi?

Irene                                  - Sì.

Montrel                              - E allora, perché non l'hai detto subito, invece di fare tanti misteri?

Irene                                  - Era un mio segreto.

Montrel                              - Un, segreto simile non si tradisce, confi­dandolo al proprio padre; tanto più che dovevi sapere benissimo che il tuo progetto non mi sarebbe dispiaciuto. Giacomo Virieu, da parte di sua madre, è nostro pa­rente. Vi conoscete dall'infanzia. E' un giovane serio che io stimo. Quella sua impresa elettrica al Marocco gli assicura, al presente, una buona rendita! Non avrei do­vuto avere, dunque, nessun motivo per oppormi al tuo desiderio.

Irene                                  - Non volevo parlarti di una cosa che, forse, esiste solo nella mia immaginazione.

Montrel                              - Perché? Che inconveniente potrebbe es­serci?

Irene                                  - Non è mai bello esporsi ad un rifiuto... Devi capirlo.

Montrel                              - In certi casi, l'orgoglio deve essere messo un po' da parte. Invece di allontanarti da me, avresti dovuto pensare che io sono l'unica persona che deve aiu­tarti... Capisco benissimo che tu non possa chiedere al giovanotto di spiegarsi. Non tocca a te; io però, posso perfettamente farlo, senza che la tua fierezza abbia a soffrirne.

Irene                                  - (allarmata) Papà... Ma è impossibile.

Montrel                              - Tanto impossibile, mia. cara, che gli par­lerò domani.

Irene                                  - (c. s.) Nora lo farai.

Montrel                              - Rassicurati, non ti nominerò...

Irene                                  - Ma papà...

Montrel                              - (continuando) Gli dirò che da un certo tempo... molti indizi mi fanno credere che tu nutri Un pensiero segreto per qualcuno, che ti ho studiata e che ho capito, senza che tu mi abbia detto una parola, che si tratta di lui, e che... al momento di lasciare Parigi, forse per molto tempo, desidero sapere se egli non ha nulla da dirmi...

Irene                                  - Papà, ti chiedo di non parlargli.

Montrel                              - Sono desolato di doverti contrariare, ma in questo caso sono miglior giudice di te. Un giorno mi ringrazierai per il passo che domani farò.

Irene                                  - Non voglio che tu lo faccia.

Montrel                              - Preferisci partire per Roma senza saper nulla ?

Irene                                  - Preferisco aspettare e non precipitare le cose.

Montrel                              - Aspettare che si decida? Io devo partire fra tre settimane, non dimenticarlo.

Irene                                  - Certo in tre settimane non possono avvenire grandi cambiamenti.

Montrel                              - Dunque?

Irene                                  - E' per questo che voglio restare.

Montrel                              - Non resterai con alcun pretesto! A meno che egli non si sia dichiarato formalmente... ed anche in tal caso... vedremo.

Irene                                  - Ma... poiché tu hai fiducia in lui... L'hai detto poco fa.

Montrel                              - No. Non insistere. E' inutile. Gli parlerò come ti ho detto e...

Irene                                  - Per l'ultima volta, papà, ti domando di non farlo.

Montrel                              - Basta, la mia decisione è presa. Non la cambierò. Per questa sera, se credi, tronchiamo la di­scussione; sono già le sei e mezzo e prima di pranzo devo ancora passare al Ministero. (Risale) Ah!... Met­terei Dardennes alla tua destra e Couvreur alla sinistra. Il pranzo alle otto e un quarto. (Esce. Irene, sola, è in preda all’ansia. Si siede e riflette a lungo. Poi, si alza bruscamente e va al telefono).

Irene                                  - Pronto?... 24.511... Sì... pronto... vorrei par­lare al signor Giacomo Virieu. Sei tu, Giacomo?... Non riconoscevo la tua voce... Tu hai riconosciuto la mia?... Bene, senti, potrei vederti?... Sì... Se vuoi, ma subito... forse non puoi? Allora, qui a casa?... Grazie, ti aspetto. Cosa?... Ti dirò; non posso farlo per telefono... a fra poco... (Riaggancia, resta pensierosa un momento).

Gisella                                - (entrando da sinistra) Posso? Ti disturbo?

Irene                                  - Ma no, cara... Sei già pronta?

«Gisella                              - Ma è tardi, sai? E abbiamo ancora da disporre i fiori.

Irene                                  - Oh, pensaci tu... Non ne avrei il tempo!

Gisella                                - Bene! Li disporrò male, tanto peggio!

Irene                                  - Ma no, andranno benissimo, sciocchina! Suona per Giuseppina... deve vestirmi...

Gisella                                - (dopo aver suonato) Senti Irene...

Irene                                  - Cosa?

Giuseppina                         - (dal fondo) La signorina ha suonato?

Irene                                  - Sì, Giuseppina, preparatemi la « toilette » di crespo di Cina; verrò subito a vestirmi.

Gisella                                - Ma mi hai detto che avresti messa la « toilette mauve »!

Irene                                  - Ah, è vero! La « toilette mauve », Giuseppina!

Giuseppina                         - Bene, signorina! (Esce a destra).

Irene                                  - Mi chiedevi qualche cosa poco fa?

Gisella                                - Ah, sì! Che significava una frase di papà che ho udita dalla mia camera poco fa?

Irene                                  - (inquieta) Hai sentito una frase di papà?

Gisella                                - Oh, senza volerlo! Non ascoltavo «erto alla porta, non è mia abitudine. Papà ha parlato così forte in un certo momento, che ho sentito mio malgrado ciò che ha detto.

Irene                                  - Che cosa?

Gisella                                - Ha detto: «Tu partirai! Partirai con le buone o con le cattive ». Parlava di Roma?

Irene                                  - Sì.

Gisella                                - Come... Tu non verrai a Roma?... E' vero?

Irene                                  - Non so ancora, cara. Non tormentarti.

Gisella                                - Non mi lascerai andare sola... così lontano... con il babbo!

Irene                                  - Forse sì.

Gisella                                - (addolorata) Oh!

Irene                                  - Ma ti divertirai molto, a Roma. Non sai come sia bella! E poi, vedrai gente nuova, sarai festeg­giata! Sarai la sola signora dell'ambasciata, pensa! Ti prometto che ti ci troverai a meraviglia!

Gisella                                - Senza di te?

Irene                                  - (tenera) Sì, cara, anche senza di me.

Gisella                                - Come vuoi che mi piacciano i luoghi dove tu non ci sei?

 Irene                                 - (prendendola fra le braccia) Piccola mia...

Gisella                                - Se tu mi abbandoni, allora...

Irene                                  - Abbandonarti? Sai bene che è impossibile.

Gisella                                - Allora, vieni! Che diventerei senza di te?

Irene                                  - (dopo una pausa) Preferiresti restare con me?

Gisella                                - Sì, naturalmente!

Irene                                  - E non rimpiangerai di non essere andata a Roma?

Gisella                                - Sarei stata felice d'andarci con te. Senza di te preferisco restare qui.

Irene                                  - Certo?

Gisella                                - Certo.

Irene                                  - Dunque, vuoi che cerchi d'ottenere da papà che ti lasci qui? Sarà difficile, ma sapendo fare... forse acconsentirà.

Gisella                                - Oh, sì, te ne prego!

Irene                                  - Bene, lascia fare a me e non parlarne con nessuno, neanche con la signorina Marchand.

Gisella                                - Bene.

Giuseppina                         - (da destra) Se la signorina vuole ve­stirsi...

Irene                                  - Sì, vengo... (Esce a destra).

Gisella                                - (sola) Non mi hai detto nulla del mio ve­stito nuovo.

Irene                                  - (di dentro) E' vero! Perdonami! (Gisella s'è avvicinata alla porta socchiusa) Graziosissimo, cara!

Gisella                                - La gonna non ti sembra un po' troppo lunga?

Irene                                  - (c. s.) No, va benissimo.

Gisella                                - (tirando su la gonna) Guarda, non an­drebbe meglio cosi?

Irene                                  - Come vuoi. Ma va bene anche cosi.

Gisella                                - Oh, che noiosa! Non puoi darmi un con­siglio?

Irene                                  - (c. s.) Ebbene, così sarebbe troppo corta per te e non sarebbe corretto.

Gisella                                - Credi? La raccorcerò di soli quattro cen­timetri.

Irene                                  - Hai tanto tempo per lasciar vedere le gambe...

Gisella                                - Ho tempo, ho tempo! E se l'anno venturo si userà la gonna lunga?

Irene                                  - (c. s.) Ah!...

Gisella                                - Vorrei raccorciarla almeno di due cento metri, che ne pensi?

Irene                                  - (c. s.) Vada per due centimetri!

Gisella                                - (a Giuseppina, che esce a destra e va verso il fondo) Avete sentito, Giuseppina, due centimetri!

Giuseppina                         - Sì, signorina.

Gisella                                - Vi farò il segno io stessa con gli spilli domani mattina; per questa sera la lascio così, natu­ralmente... Del resto, questa sera... (con un gesto) ...non ha importanza.

Irene                                  - (c. s.) Giuseppina.

Giuseppina                         - Signorina?

Irene                                  - (entrando) Verrà il signor Giacomo Virieu; introducetelo direttamente qui. Avete capito?

Giuseppina                         - Sì, signorina. (Esce dal fondo. Gisella Ita preso dal tavolo un mazzo di violette che Irene, quando giunse, teneva in mano, e distrattamente ne aspira il profumo) .

Gisella                                - (gioiosa) Verrà Giacomo? (Irene vede le viole in mano a Gisella, glie le toglie, esce un istante a destra e rientra con un vaso dove mette i fiori e che de­pone sul tavolo. Gisella l'ha guardata fare, un po' meravi­gliata, tacendo) Senti, Irene...

Irene                                  - Cosa?

Gisella                                - Verrà Giacomo?

Irene                                  - Si, l'aspetto.

Gisella                                - Che fortuna. Sarò lieta di vederlo. Quel buon Giacomo... si fermerà a pranzo?

Irene                                  - No. Gli ho chiesto io di venire un momento perché... ho qualche cosa da dirgli... Anzi, tu sarai tanto gentile di lasciarmi sola con lui, non appena l'avrai salutato.

Gisella                                - Certo. Certo.

Irene                                  - Grazie, cara. Sei un'adorabile sorellina. Non chiedi mai nulla, non vuoi che ti si spieghi.

Gisella                                - Cerco di non immischiarmi in ciò che non mi riguarda, ecco tutto.

Irene                                  - Sì, ma sono ben rare le persone come te. (Giuseppina introduce Giacomo) Oh, buona sera, Gia­como.

Giacomo                            - Buona sera, Irene! (A Gisella) Guarda, la sorellina.

Gisella                                - Buona sera, Giacomo.

Giacomo                            - Com'è bella! Impressionante. E dire che l'ho fatta saltare sulle mie ginocchia. Adesso; non oserei più.

Gisella                                - Non ci mancherebbe che questo.

Giacomo                            - (guardandole, ad Irene) Ma non mi hai detto che si tratta di un ricevimento.

Irene                                  - Un ricevimento!?

Giacomo                            - Diamine! Le vostre « toilettes »...

Irene                                  - Tranquillizzati; papà ha gente a pranzo, questa sera.

Giacomo                            - Ah! Bene! (Si siede) Dunque, che ac­cade?

Gisella                                - Intanto, ditemi arrivederci.

Giacomo                            - Te ne vai?

Gisella                                - Sì.

Giacomo                            - Arrivederci, bella fanciulla.

Gisella                                - Quando ci inviterai a fare merenda?

Giacomo                            - Quando vorrete.

Gisella                                - Mi avevi promesso tè e pasticcini di ca­viale, l'ultima volta che ci siamo incontrati. Ed invece, non ho visto nulla.

Giacomo                            - Accomoderemo questa faccenda, te lo prometto.

Gisella                                - Ci conto, sai! (Esce).

Giacomo                            - Dunque?

Irene                                  - Grazie d'esser venuto, Giacomo.

Giacomo                            - Sono curioso, lo sai... Che ti succede?...

Irene                                  - Prima di tutto, devi giurarmi che non rive­lerai a nessuno la nostra conversazione.

Giacomo                            - E' così grave?

Irene                                  - Sì. Me lo giuri, Giacomo?

Giacomo                            - Ma sì, certo!

Irene                                  - Lo sai, vero, che papà è stato nominato a Roma?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Egli ha deciso che Gisella ed io si vada con lui.

Giacomo                            - Naturalmente.

Irene                                  - Non tanto. Ogni volta che egli ha occupato un posto all'estero, ci ha sempre lasciate qui, sino ad oggi. Perché vuole ora condurci a Roma? Credo che glielo abbiano consigliato.

Giacomo                            - Chi?

Irene                                  - Non lo so... al Ministero, probabilmente. Avranno pensato che, portando le figlie con sé, produrrà miglior effetto e, d'altra parte, ciò gli impedirà di con­durre seco la signora Gallon come ha fatto sino ad oggi... Credo che appunto per questo non era ben visto a Bruxelles.

Giacomo                            - Davvero?

Irene                                  - Non affermo che questa sia la vera ragione, ma è verosimile. Del resto, poco importa. L'essenziale è che egli ha deciso che si parta con lui. (Pausa) Sol­tanto che io ho deciso invece di restare a Parigi.

Giacomo                            - Perché?

Irene                                  - (dopo una pausa) Gli ho detto a motivo della mia pittura, perché io possa continuare a la­vorare qui, col mio maestro.

Giacomo                            - Non è vero?

Irene                                  - No! Del resto, il mio maestro, che egli è stato a trovare oggi, gli ha detto che da un mese non m'ero fatta vedere nello studio.

Giacomo                            - Ah!

Irene                                  - Egli ha capito che io ho un'altra ragione per voler restare, e poco fa, in una scena violenta che abbiamo avuto, ha finito per dirmi che era sicuro che qualcuno mi tratteneva a Parigi e mi ha imposto di svelargli il nome.

Giacomo                            - Allora?

Irene                                  - Mi assaliva di domande alle quali non po­tevo rispondere. Mi minacciava di indagini... che non potevo lasciargli fare... ero disperata, terrorizzata... Al­lora, nell'angoscia, un nome m'è venuto alle labbra, quasi mio malgrado, il nome dell'unico amico fidato, del solo uomo al quale io possa confidarmi. (Abbassan­do la testa) Il tuo.

Giacomo                            - Il mio?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Hai detto il mio nome?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Allora... tuo padre crede che vuoi restare a Parigi per me?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Che supporrà tuo padre?

Irene                                  - (senza guardarlo) Nulla. Gli ho fatto cre­dere che lasciandomi a Parigi, cioè non allontanandomi da te, era forse possibile che un progetto, che ero sola ad immaginare, potesse realizzarsi.

Giacomo                            - Quale progetto?

Irene                                  - (c. s.) Il matrimonio...

Giacomo                            - Gli hai fatto credere questo?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Ah!

Irene                                  - Sì, so, so tutto quello che pensi! Non dir­melo, non ne vale la pena.

Giacomo                            - Non credi che sarebbe stato meglio con­fessargli la verità?

Irene                                  - (bruscamente, guardandolo) Quale verità?

Giacomo                            - Non so, ma, qualunque essa sia, sarebbe stata meglio di una simile menzogna.

 Irene                                 - Se l'avessi detta, nessuno l'avrebbe creduta.

Giacomo                            - Perché?

Irene                                  - Poco importa...

Giacomo                            - Puoi dirla a me, la verità?

Irene                                  - No.

Giacomo                            - Ah! (Pausa) In ogni caso non capisco, ti confesso, come tu abbia potuto disporre di me per una cosa cosi grave senza neanche consultarmi.

Irene                                  - Ne avevo forse il tempo? Ero sconvolta, disorientata, tutto ciò che cercavo per difendermi mi si rivoltava contro. Non ho visto che una cosa, la ne­cessità di rassicurare mio padre perché non cercasse di investigare. Non ho visto altro.

Giacomo                            - Eri dunque così sicura che il mio nome l'avrebbe tranquillizzato?

Irene                                  - Sì...

Giacomo                            - Ebbene, vedi, tu avresti dovuto invece cercarne un altro, non importa quale.

Irene                                  - Potevo forse scegliere? Credi che all'infuori di te io abbia un altro amico, cui chiedere una cosa simile?

Giacomo                            - E non hai pensato che a me, meno che a qualunque altro, potevi chiedere una cosa simile?

Irene                                  - Ho creduto che tu avessi dell'affetto per me.

Giacomo                            - Non ti sei ricordata che io ho avuto anche... dell'amore per te.

Irene                                  - Oh! Giacomo... nel passato.

Giacomo                            - Ne sei sicura?... (Pausa) In ogni caso, non è un passato troppo remoto, perché tu abbia po­tuto dimenticarlo.

Irene                                  - Non ho riflettuto tanto.

Giacomo                            - Hai avuto torto. Avresti dovuto pensare che non si domanda ad un uomo di diventare un fidan­zato per burla, quando quest'uomo ha desiderato esserlo per davvero, e che solo un anno fa ha potuto credere che la sua aspirazione stesse per realizzarsi.

Irene                                  - Giacomo, non ritorniamo su quel malinteso, te ne prego. Non so che cosa ha mai potuto lasciarti supporre che io avessi l'idea di...

Giacomo                            - Di diventare mia moglie? Perché non mi hai allora fermato subito, la prima volta che ti dissi d'amarti e che desideravo sposarti?

Irene                                  - Ma... non credevo fosse una cosa seria.»

Giacomo                            - Andiamo, via! Si scherza, forse, su certe cose? Del resto, se tu avessi pensato ad uno scherzo, mi avresti risposto sullo stesso tono; invece mi dicesti, con un'emozione che io ho creduto sincera, che volevi riflettere, e poiché il mese dopo dovevi partire per Firenze, ci siamo visti tutti i giorni fino alla tua par­tenza. Ti accompagnai alla stazione, quella sera, e mentre il treno partiva, mi dicesti, con un sorriso che ancora rivedo, che mi avresti scritto la tua risposta da laggiù... Ebbene, nessuno potrà mai persuadermi che quella risposta, che ti proponevi di darmi, non era quella che ebbi effettivamente tre settimane dopo...

Irene                                  - T'inganni...

Giacomo                            - Non credo...

Irene                                  - Che cosa avrebbe potuto, secondo te, farmi cambiare idea?

Giacomo                            - Non so. Laggiù, nella tua vita, deve es­sere passato qualcosa che ignoro, che non ho cercato di sapere, ma che ha modificato tante cose in te... Infine, non sono cose che mi riguardano... Soltanto, ho il diritto di trovare... inatteso che tu venga a chiedermi, dopo ciò, di passare per tuo fidanzato. Confessa che è abbastanza comico.

Irene                                  - Non avrai, dunque, un po' di pietà per me?

Giacomo                            - Non ti rimprovero. Trovo che la cosa è molto comica, ecco tutto... (Pausa) Dunque, tu hai detto a tuo padre che io vorrei sposarti e che...

Irene                                  - No. Gli ho detto che io ne ho il desiderio, ma che ignoravo le tue intenzioni...

Giacomo                            - E tuo padre ha trovato verosimile che un tale desiderio ti sia venuto così, senza che nulla, da parte mia, l'abbia incoraggiato?... Andiamo, Irene, tuo padre conosce il tuo orgoglio e non può non cre­dermi sulla soglia di domandare la tua mano.

Irene                                  - Ti giuro che non gli ho detto nulla perché possa supporlo. Potrai, del resto, rendertene conto tu stesso, poiché egli vuole parlarti.

Giacomo                            - Ah! Vuole parlarmi?

Irene                                  - Ho cercato in ogni modo d'impedirlo. Ma egli non ha voluto ascoltarmi. Mi ha detto che ti Vedrà domani.

Giacomo                            - Ah.

Irene                                  - Potrai constatare, nel modo come ti parlerà, che io non ho disposto di te, come tu dici... Ho solo teso la mano verso di te, come verso il solo essere capace di aiutarmi. Se non vuoi, nessuno ti obbliga. Quando papà ti interrogherà, tu cascherai dalle nuvole, dirai che si tratta certo di un errore, che sei desolato per questo malinteso, che non hai fatto nulla per pro­vocarlo, ecc. ecc.. E tutto sarà risolto. Sii tranquillo, non ne sentirai parlare mai più.

Giacomo                            - E tu che farai?

Irene                                  - Questo, Giacomo, non...

Giacomo                            - Non mi riguarda, non è vero?...

Irene                                  - Che può importartene?

Giacomo                            - (dopo una pausa) Ma dimmi; prima di chiamarmi in tuo aiuto, non ti è balenata l'idea che io potevo non essere libero, che poteva esserci qualcuno nella mia vita?

Irene                                  - So che c'è qualcuno nella tua vita.

Giacomo                            - Tu sai?

Irene                                  - Ma sì!

Giacomo                            - E allora, se sai, come puoi chiedermi di recitare quella parte con te?

Irene                                  - Ti chiedo forse di mutare qualche cosa nella tua vita?

Giacomo                            - Infine, che cosa mi chiedi? Di passare per il tuo fidanzato?

Irene                                  - Ma no!... E' soltanto.»

Giacomo                            - Sì, di fronte a tuo padre, ho capito be­nissimo.

Irene                                  - Ma no, neppure di fronte a mio padre devi passare per mio fidanzato. Ciò che ti chiedo, è che tu lasci l'impressione che, allontanandomi da Parigi, egli comprometta un possibile matrimonio tra noi... un giorno.

Giacomo                            - Insomma, vorresti approfittare della fidu­cia che tuo padre ha in me per nascondere non so esattamente cosa, ma certo qualche cosa che non puoi confessare a nessuno. E' così, non è vero?

Irene                                  - Ho bisogno di guadagnare qualche giorno sino alla partenza di mio padre. Poi... (gesto).

Giacomo                            - Poi, cosa?

Irene                                  - Poi, mi arrangerò, penserò io a restare qui. Ti renderò la tua libertà, te lo giuro.

Giacomo                            - Ma infine, perché devi restare ad ogni costo? Posso saperlo?

Irene                                  - Non voglio lasciare Parigi, ecco quello che posso dirti.

Giacomo                            - E dilla la verità! Non vuoi lasciare qual­cuno che è a Parigi! E' così? (Pausa) Ecco dove sei giunta... Tu!... Tu che ammiravo tanto... Tu, che cre­devo incapace di un'azione bassa e volgare... eccoti invischiata nella più volgare di tutte: la menzogna!

Irene                                  - Mento, perché mi costringono.

Giacomo                            - Chi?

Irene                                  - Tutti!... Non ho altra risorsa.

Giacomo                            - La tua risorsa non vale nulla. Non andrai lontano. E poi, Irene, è indegno di te. Tu vali molto di più.

Irene                                  - Ma no, io non valgo di più. Ti sei sempre illuso sul mio conto, povero Giacomo. Quante volte ti ho detto dì togliermi dal mio piedistallo, te ne ricordi? Di mettermi al livello comune. Perché ti sei sempre ostinato a credermi diversa dagli altri?

Giacomo                            - Perché ti amavo, probabilmente.

Irene                                  - Non è colpa mia.

Giacomo                            - E poi, no, non è vero. Tu eri differente dalle altre. Soltanto, sei mutata o piuttosto... ti hanno mutata!

Irene                                  - (aggressiva) Chi?

Giacomo                            - Le persone che tu frequenti da un anno, senza dubbio. Abbandonando per esse tutti i vecchi amici, non sembra tu abbia guadagnato nel cambio, è il meno che io possa dirti.

Irene                                  - Queste persone, come tu dici, le conosci?

Giacomo                            - Affatto.

Irene                                  - Allora?... (Pausa) In tutti i casi, fammi un piacere: pensa ciò che credi di loro, ma non parlarmene.

Giacomo                            - Intesi.... Ma poiché ti sembrano così care, perché non ti rivolgi ad una di esse per il servizio di cui hai bisogno? Tanto più che io, vedi, non sono l'uomo adatto per tal genere di commedia.

Irene                                  - (supplichevole) Giacomo!

Giacomo                            - Hai degli amici sicuri, fra di essi uno certamente. Ebbene, rivolgiti a lui.

Irene                                  - Non ho che un amico, sei tu... O almeno ti credevo un amico...

Giacomo                            - Appunto perché sono tuo amico, non ho il diritto di fare ciò che tu mi chiedi.

Irene                                  - Perché?

Giacomo                            - Perché sarebbe pericoloso e, soprattutto, inutile; non ci può essere una via d'uscita per una men­zogna simile, è condannata sul nascere.

Irene                                  - Se tu mi fossi veramente amico, ascolteresti un po' più il tuo cuore ed un po' meno i precetti della morale borghese.

Giacomo                            - Oh, la morale borghese ha qualche volta del buono.

Irene                                  - Sì, secondo a chi è utile.

Giacomo                            - Che vuoi dire?

Irene                                  - Un anno fa parlavi anche a nome della morale borghese, quando tentasti di fare di me la tua amante? Non te ne ricordi più?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Era quella un'azione morale?

Giacomo                            - Sì!

Irene                                  - Ah!

Giacomo                            - Sì. Perché se tu mi avessi appartenuto, avresti finito con l'amarmi e con l'acconsentire a spo­sarmi. Speravo di vincere la tua riluttanza ad apparte­nermi, a sacrificare la tua libertà, la tua sacro-santa libertà, a poco a poco, dal giorno in cui tu fossi stata mia! Nel mio pensiero, il possesso non era che una tappa verso la soluzione normale per Una signorina; cioè, il matrimonio. Ecco tutto.

Irene                                  - Era dunque per convertirmi al matrimonio, che nella tua alta saggezza volevi che mi dessi a te?

Giacomo                            - Sì!

Irene                                  - Ah. (Pausa) Pensavo invece che tu mi desi­derassi, semplicemente.

Giacomo                            - Certo, ti desideravo. Ti desideravo con tutte le mie forze. Il pensiero del tuo corpo vicino al mio mi dava le vertigini... come ancora mi sconvolge in questo momento che ti parlo, se vuoi sapere tutto.

Irene                                  - Giacomo!

Giacomo                            - Comincio a credere che non guarirò mai di te! Ma questa è un'altra storia che non ti interessa. Quello che voglio dirti, è che ho sempre pensato a te prima che a me stesso, sempre, mi capisci? Ieri, come oggi. E perché tu non ne possa dubitare, aggiungo: giurami che l'avventura nella quale sei presa, e che io non voglio conoscere, ti condurrà in un tempo più o meno lungo alla soluzione normale di cui ti ho parlato, il matrimonio, un matrimonio degno di te, giurami questo semplicemente, ed io accetto di fare ciò che mi chiedi... Puoi giurarmelo?

Irene                                  - (volgendo il capo) Non ho nulla da giu­rarti...

Giacomo                            - Allora, io rifiuto. Pensa ciò che vuoi. Che non ho cuore, che non ti amo; mi è indifferente, rifiuto. E se il mio rifiuto ti obbligherà ad uscire prima dalla situazione nella quale ti sei messa, ebbene, sarà meglio per tutti, siine certa.

Irene                                  - Dovresti conoscermi abbastanza, Giacomo, per sapere che io farò ciò che ho deciso di fare, e che se sarà assolutamente necessario, infrangerò tutto. Eb­bene, lo farò.

Giacomo                            - Sei dunque completamente pazza?

Irene                                  - No, ma lo diventerò, se mi costringeranno a partire...

Giacomo                            - A questo punto?... (Irene china il capo senza rispondere. Con emozione contenuta) Povera Irene!

Gisella                                - (dal fondo) Giacomo, papà ti fa dire di non andartene, vuole parlarti.

Irene                                  - Da chi ha saputo che Giacomo era qua?

Gisella                                - Da me. E' rientrato poco fa; è andato a vedere la tavola e non gli è piaciuta. Voleva che venissi a cercarti; gli ho detto che eri con Giacomo. Ho fatto male?

Irene                                  - (seccata) No, cara!

Gisella                                - Allora, mi ha mandata a dire a Giacomo d'aspettarlo cinque minuti perché vuole vederlo. Ho fatto male?

Giacomo                            - Ma no, Gisella, affatto.

Gisella                                - Ah! Non potevo saperlo. Dovevate avver­tirmi. (Esce. Irene resta un istante immobile, poi, im­provvisamente risoluta, si precipita nella stanza da toe­letta, riappare con un mantello che si getta sulle spalle e va verso il fondo).

Giacomo                            - (stupito) Che fai? Esci?

Irene                                  - Parto.

Giacomo                            - Parti? E dove vai?

Irene                                  - Riguarda me sola!... Me ne vado, ecco tutto!

Giacomo                            - (sbarrandole il passo) Tu diventi pazza!

Irene                                  - Lasciami passare.

Giacomo                            - Ma perché vuoi partire?

Irene                                  - Così tutto si regolerà.

Giacomo                            - Non sei in te, in questo momento.

Irene                                  - Lasciami passare.

Giacomo                            - Che dirò a tuo padre?

Irene                                  - Ciò che vorrai, mi è indifferente. Lasciami passare.

Giacomo                            - No.

Irene                                  - Non hai diritto d'impedirmi di fare ciò che voglio.

Giacomo                            - Ho il diritto d'impedirti di commettere una pazzia.

Irene                                  - Ne ho abbastanza. Ho ventisette anni, cono liberi), non devo render conto a nessuno. Lasciami pas­sare, Giacomo!

Giacomo                            - Irene, calmati, te ne supplico...

Irene                                  - Non capisci ciò che sarà la mia vita, qui, quando mio padre saprà e ti avrà parlato? No! No! Non voglio più che mi si interroghi. Non voglio che tutti mi siano intorno a tormentarmi. Voglio andar- mene!: '

Giacomo                            - Irene!

Irene                                  - Ma che t'importa se io me ne vado?

Giacomo                            - Che m'importa?

Irene                                  - Che te ne importa, sì?...

Giacomo                            - (dopo una pausa, lasciandola) Hai ra­gione... Ebbene, vattene... (Ridiscende e si siede, la testa fra le mani. Irene lo segue con lo sguardo. Pausa) Vattene, dunque! Che aspetti, ora, per andare a tro­varlo? (Irene sorride tristemente, si avvolge nel suo mantello, va alla porta, sta per aprirla. Egli si alza) Irene!...

Irene                                  - (volgendosi) Cosa?

Giacomo                            - (dopo una pausa, nettamente) Resta!

Irene                                  - Come? '

Giacomo                            - Resta, ti dico.

Irene                                  - Non capisco!

Giacomo                            - Ma sì, capisci benissimo. Togliti il man­tello. Se tuo padre lo vede, sarà lui a non capire più nulla.

Irene                                  - Ma spiegati, dunque.

Giacomo                            - Fa ciò che ti dico. (Entra Montrel. Irene, nascosta dalla porta, lascia cadere il mantello. Montrel s'avvicina a Giacomo).

Montrel                              - Buona sera, Giacomo.

Giacomo                            - Buona sera, zio.

Montrel                              - Ti è seccato attendermi?

Giacomo                            - Affatto.

Montrel                              - Stavo per scriverti due righe per pregarti di passare da me domattina, ma avendo saputo che eri con Irene ho voluto approfittarne... Vorrei parlare Un poco con te. Vuoi che andiamo nel mio studio? (Gia­como s'inchina) Non ti tratterrò un pezzo. (Aprendo la porta) Passa, ti raggiungerò subito. (Giacomo esce. Montrel s'avvicina rapidamente ad Irene) Gli hai già parlato, nevvero?

Irene                                  - Come?

Montrel                              - Se è al corrente, dimmelo; mi eviterai un preambolo inutile.

Irene                                  - (dopo un istante) Sì.

Montrel                              - E allora?... la sua risposta?...

Irene                                  - Te la dirà lui.

Montrel                              - Bene. (Esce. Irene si lascia cadere su di una sedia vicino alla tavola e resta pensierosa e triste. Dopo un momento il suo sguardo si posa sulle violette. Attira a se il vaso, guarda i fiori; poi, come per un'idea improvvisa, consulta l'orologio, esita, quindi stende la mano verso il ricevitore telefonico, lo sgancia, mentre cala la tela).

                                                        

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

LA CASA DI GIACOMO

Studio-biblioteca. Porte a sinistra, a destra, nel fon­do. Al centro una grande tavola. Sedie. Giacomo è spro­fondato in una poltrona, tiene un album di fotografie aperto sulle ginocchia, ma lo sguardo è lontano, fisso nel vuoto. Pausa. Suoneria. Giacomo si scuote: guarda l'ora, mormora un « Andiamo » rassegnato e si alza. Giorgio, domestico, appare dal fondo.

Giorgio                              - Il signore riceve?

Giacomo                            - Aspetto la signora Meillant; deve essere lei.

Giorcio                               - Bene, signore. (Esce).

Giacomo                            - (chiude in un cassetto l'album delle fotografie).

Giorcio                               - (ritornando) - Non è la signora Meillaut. E' la signorina Montrel.

Giacomo                            - (sorpreso) La signorina Montrel?

Giorgio                              - Sì, signore.

Giacomo                            - (agitato) L'avete fatta accomodare nel salotto?

Giorgio                              - Sì, signore.

Giacomo                            - Bene. (Va verso la porta di destra) Ah! Se venisse la signora Meillaut, ditele... (esita) ...ditele che ho telefonato che ritarderò e che mi scuso con lei. Pregatela di voler ritornare verso le quattro, se può... Sì, verso le quattro...

Giorgio                              - Bene, signore! (Esce dal fondo. Giacomo apre la porta di destra).

Giacomo                            - Vuoi favorire? (Sorpreso) Come!?... Il cameriere mi ha detto: «La signorina Montrel» e avevo creduto...

Gisella                                - Avevi creduto che fosse Irene?

Giacomo                            - Sì.

Gisella                                - Oh, sono desolata, Giacomo!

Giacomo                            - Ma no... Perché?

Gisella                                - Perché devi essere assai seccato.

 Giacomo                           - Affatto! Sono felice di vederti, cara Gi­sella. Un po' sorpreso, ma felice.

Gisella                                - Sei sorpreso perché pensi che alla mia età non si va da sola in casa di un uomo, non è vero? Ma io non sono venuta sola: la signorina Marchand mi aspetta giù, in vettura.

Gucomo                             - Non devi scusarti, accomodati.

Gisella                                - Ho solo poche parole da dirti.

Giacomo                            - Accomodati lo stesso.

Gisella                                - (sedendosi) Volevo telefonarti questa mattina per chiederti a che ora sarei potuta venire, ma il telefono è in camera di Irene, e non volevo che mi sentisse.

Giacomo                            - Ah.

Gisella                                - No. (Pausa) Sono appunto venuta presto per poterti trovare in casa... (Esita) Forse tu stimerai questo mio passo un po' ridicolo e sciocco, ma non importa... Sono venuta per dirti che Irene è molto infelice.

Gucomo                             - Irene?

Gisella                                - Sì, e puoi credermi. Te lo dico, perché ne sono sicura... Già da un pezzo la trovo strana, ner­vosa... spesso ha gli occhi rossi... Anche la signorina Marchand l'ha notato. Infine, l'altro giorno, entrando per caso in camera sua per telefonare, io la credevo «scita, ho potuto vedere benissimo, nonostante che essa cercasse di nascondere, che stava piangendo.

Gucomo                             - Ah.

Gisella                                - Tu sai che deve avere un motivo grave, Irene, per piangere. Certo, non le accade spesso... Io non posso vederla soffrire... preferirei non so che cosa... Ho riflettuto a lungo, e finalmente mi sono detta che forse tu non ne sapevi nulla e che bisognava informar­tene. Ecco perché sono venuta. (Pausa. Giacomo resta pensoso) Ti dispiace che sia venuta a dirti questo?

Giacomo                            - Affatto, Gisella. Soltanto, ti confesso che non capisco perché tu hai creduto bene di avvertire proprio me...

Gisella                                - Come?

Giacomo                            - Ho molto affetto per Irene, ma non vedo che cosa...

Gisella                                - (sorridendo) Giacomo, papà mi ha parlato prima di partire.

Giacomo                            - (sorpreso e contrariato) Che cosa ti ha detto?

Gisella                                - Tranquillizzati. Mi ha parlato facendosi promettere il segreto, e tu sai bene che non sarò certo io a raccontare ad un altro ciò che mi ha confidato. Del resto, so anche che nulla è deciso, che voi Volete ancora riflettere e che tu non puoi impegnarti per ora, perché i tuoi affari ti procurano delle noie... So tutto questo. (Giacomo passeggia in lungo e in largo, seccato e malcontento) Ti secca che papà mi abbia parlato?

Giacomo                            - Ma no, non importa...

Gisella                                - Capirai che sarebbe stato difficile non dirmi nulla. Era deciso fin dal principio che noi si sa­rebbe andate a Roma con lui. Bruscamente tutto è cam­biato; noi siamo rimaste, e la signorina Marchand è venuta ad abitare da noi. Papà è stato costretto a darmi qualche spiegazione; del resto, non poteva pensare che io avevo già indovinato tutto.

Giacomo                            - Che cosa avevi indovinato?

 Gisella                               - Tutto. Non era difficile. Sapevo che Irene voleva restare a Parigi e che papà, invece, non voleva sentirne parlare. Poi, venne la tua visita, la tua conver­sazione con papà, e la sera stessa egli disse ad Irene che poteva rimanere. Ed io con lei. Non occorreva es­sere Sherlok HoJmes per capire il significato di tutto ciò. E se tu sapessi come fui felice, quando capii ogni cosa, non puoi immaginarlo.

Giacomo                            - Veramente?

Gisella                                - Sono così certa che voi siete fatti uno per l'altra... Tu non lo credi?

Giacomo                            - Ma sì, cara Gisella.

Gisella                                - Dunque, adesso capisci perché sono venuta?

Giacomo                            - Capisco.

Gisella                                - Ho fatto male?

Giacomo                            - No.

Gisella                                - Non è vero che tu ignoravi il dolore di Irene?

Giacomo                            - Infatti.

Gisella                                - (trionfante) Ne ero certa. Lo dicevo alla signorina Marchand! «Se Giacomo ha chiesto a papà dì lasciare Irene a Parigi, vuol dire che l'ama, e se l'ama, non può volere che essa sia infelice. Vuol dire che non se n'è accorto. Nulla di strano, del resto. Irene è così fiera, che certo non gli avrà mostrato la sua sof­ferenza. Intanto, se nessuno se ne preoccupa, ciò può durare indefinitivamente, ed invece non deve durare »!  (Gli prende la mano) Non è vero, Giacomo, che non deve durare?

Giacomo                            - No, cara. Soltanto, vedi.

Gisella                                - No, no, non dirmi nulla! Non voglio sa­per nulla! Non mi riguarda. Ti ho detto quello che volevo dirti, il resto riguarda te. La sola cosa che ti chiedo, è che Irene non sappia mai che io sono venuta a trovarti. Non mi perdonerebbe. Me lo prometti?

Giacomo                            - Te lo prometto.

Gisella                                - Grazie. (Si alza).

Giacomo                            - Aspetta, non andartene ancora... (Fa qualche passo, riflettendo, poi si ferma dinanzi a lui) Hai fiducia in me, Gisella?

Gisella                                - (sorpresa e un po' inquieta) Ma certo, Giacomo.

Giacomo                            - Al punto di credermi, senza chiedermi spiegazioni, anche se ciò che ti dirò potrà sembrarti sorprendente ed incomprensibile?

Gisella                                - (c, s.) Sì, che c’è?

Giacomo                            - Tu credi, ed è ben naturale, che dipenda da me la felicità di Irene, non è vero?

Gisella                                - Sì.

Giacomo                            - Ebbene t'inganni!

Gisella                                - Come?

Giacomo                            - Io non posso nulla per lei... o, per lo meno, ben poco.

Gisella                                - Tu!

Gucomo                             - Io.

Gisella                                - Non è dunque infelice per colpa tua?

Giacomo                            - No.

Gisella                                - (spaventata) No?

Giacomo                            - Se dipendesse da me, ti assicuro che la sua tristezza svanirebbe presto. Ed ora, ascoltami. Io, però, posso tentare di aiutarla; forse il mio tentativo non gioverà, ma è bene provare. Soltanto, io ho biso­gno di te.

Gisella                                - Di me?

Giacomo                            - Sì. Ho bisogno di una o due informa­zioni precise, che tu sola puoi darmi. Se potessi rivol­germi a qualcun altro, lo farei, ma non ho nessuno. Se le mie domande ti sembreranno indiscrete, o se potrà sembrarti che io sia spinto da altre ragioni estranee al­l'interesse d'Irene ed alla sua felicità, non rispondermi.

Gisella                                - Che vuoi sapere?

Giacomo                            - Vorrei dei particolari sulla vita che essa conduce e sulle persone che frequenta.

Gisella                                - Le persone che frequenta? Ma te, intanto.

Giacomo                            - Me?

Gisella                                - Sì.

Giacomo                            - E quando, dunque, mi vede?

Gisella                                - Ma... non so. Non prendete abitualmente il té insieme nel pomeriggio?

Giacomo                            - Te l'ha detto lei?

Gisella                                - (seccata) Credevo d'averlo capito... Ho potuto ingannarmi.

Giacomo                            - (dopa una pausa) E oltre me... chi fre­quenta?

Gisella                                - Non mi parla molto di ciò che fa, lo sai.

Giacomo                            - Ma uscendo, non ti dice mai dove va?

Gisella                                - Allo studio, tutti i giorni, dopo colazione.

Giacomo                            - Ah!... E la sera... esce talvolta?

Gisella                                - La sera? Oh, quasi mai! E' andata Una volta o due a teatro o al concerto.

Giacomo                            - Sola?

Gisella                                - No, con gli Aiguines.

Giacomo                            - Li ha conosciuti in Italia, questi signori?

Gisella                                - Sì, a Firenze, l'anno scorso.

Giacomo                            - E tu li vedi qualche volta?

Gisella                                - Io? Mai.

Giacomo                            - Perché?

Gisella                                - Ma io non li conosco.

Giacomo                            - Come non li conosci, se Irene è intima con loro?

Gisella                                - Non è una buona ragione. Irene non mi ha mai proposto di farmi fare la loro conoscenza, ed io non l'ho mai chiesto.

Giacomo                            - Non ti piacciono?

Gisella                                - Non li conosco.

Giacomo                            - E te ne parla qualche volta?

Gisella                                - No. mai.

Giacomo                            - E non t'è mai venuta la curiosità di farle delle domande sul conto loro?

Gisella                                - Mai! So soltanto che essa è della Polonia o austriaca, non ricordo bene...

Giacomo                            - Ma di lui, non sai nulla? Ciò che fa, di che cosa s'occupa?

Gisella                                - Affatto.

Giacomo                            - E fisicamente?

Gisella                                - Alto, sbarbato, chic...

Giacomo                            - Dunque lo hai visto.

Gisella                                - Sì, alla porta di casa, una sera che aveva accompagnato Irene. Io rincasavo in quel momento e l'ho visto... Ma perché?

Giacomo                            - Ho avuto un compagno di scuola che 6Ì chiamava Aiguines e mi chiedevo se potesse essere il medesimo.

 Gisella                               - Non credo. E' più vecchio di te.

Giacomo                            - Ah! Sarà forse un suo cugino... So che aveva molti parenti. (Pausa) E l'hai visto quella sola volta?

Gisella                                - Sì. Ho sentito la sua voce al telefono un giorno che chiedeva di Irene!

Giacomo                            - Viene forse a trovarla qualche volta?

Gisella                                - A casa? Mai...

Giacomo                            - Sai dove abitano?

Gisella                                - Via Victor Hugo, ma ho dimenticato il numero... Si può trovare nella guida telefonica... T'inte­ressano tanto quei signori Aiguines?

Giacomo                            - E come!... Perché sono amici di Irene, naturalmente. (Pausa).

Gisella                                - E' questo che volevi chiedermi?

Giacomo                            - Sì, grazie, Gisella. Non mi hai svelato nulla, sapevo, press'a poco, quanto mi hai detto. La nostra conversazione non sarà stata inutile, però... Sia­mo intesi che Irene dovrà sempre ignorarla.

Gisella                                - Te lo prometto.

Giacomo                            - So che posso contare su te.

Gisella                                - (dopo un'esitazione) Giacomo, prima di andarmene vorrei... farti una domanda anch'io...

Giacomo                            - Ma sì, volentieri.

Gisella                                - Ciò che farai per Irene... non puoi dir­melo?

Giacomo                            - No, Gisella. Inoltre, ci sono poche pro­babilità di riuscita. Una su dieci... forse...

Gisella                                - Ma se riuscirai... vorrà dire che... che vi sposerete?

Giacomo                            - No.

Gisella                                - Ah! (Pausa) Tuttavia, tu l'ami. E' un pezzo che io lo so. Tu l'ami da quell'estate che venisti a Montrel.

Giacomo                            - Non basta.

Gisella                                - Essa non ti ama?

Giacomo                            - Ma...

Gisella                                - Peccato!

Giacomo                            - Credi?...

Gisella                                - (fa segno di sì, poi, tendendogli la mano) Arrivederci, Giacomo.

Giacomo                            - Arrivederci, cara. (Essa lo guarda triste­mente, tenendo la sua nella mano di lui; poi, brusca­mente, con tenerezza, lo bacia sulle guance ed esce. Egli l'accompagna, ritorna dopo un poco, si siede sullo scrittoio e sembra riflettere. Poi, prende la guida tele­fonica e la consulta, sgancia il ricevitore telefonico) Pronto... Casa Aiguines?... Per favore, c'è il signore?... Dove?... Al suo ufficio?... Come?... (Prende un ap­punto) Bene... Grazie... Sapete sino a che ora? Grazie. (Riaggancia, fa qualche passo, ritorna al tavolo e scri­ve. Dopo un momento rilegge, straccia il foglio, ne prende un altro. Quando ha finito suona, e mette il foglio nella busta sulla quale scrive l'indirizzo. Entra Giorgio).

Giorgio                              - Il signore ha suonato?

Giacomo                            - Sì. Prendete un taxi e portate questa let­tera al suo indirizzo. E' una banca. Se questo signore c'è, consegnerete la lettera e aspetterete la risposta. (Si sente suonare) Se non c'è, mi riporterete la lettera e chiederete se si può trovarlo al mattino. Non dite il mio nome: è inutile.

Giorgio                              - Bene, signore.

Giacomo                            - Andate ad aprire.

Giobcio                              - Se è la signora Meillaut, che devo dirle? (Nuovo colpo di campanello, imperioso).

Giacomo                            - Se è lei, la farete entrare. (Giorgio esce e, dopo un istante, introduce Francesca, uscendo subito di nuovo).

Francesca                           - Credevo che mi si lasciasse fuori della porta! Dovreste dire a Giorgio d'aprire più in fretta. E' sempre sulle scale che si fanno dei brutti incontri.

Giacomo                            - Non è colpa di Giorgio, ma mia. Staro dandogli un ordine.

Francesca                           - Tanto peggio, allora... (Gli si avvicina) Buongiorno.

Giacomo                            - Buongiorno, Francesca! (Si baciano a fior di labbro),

Francesca                           - Non siete amabile, quest'oggi!

Giacomo                            - Io?... Ma sì!

Francesca                           - Perché ieri sera, non siete venuto in casa Van Garten?

Giacomo                            - Non ho potuto.

Francesca                           - Vi ho atteso fino a mezzanotte e mezzo... con un mal di capo spaventoso. Avreste anche potuto avvertirmi.

Giacomo                            - Ma non vi avevo detto che forse non sarei venuto?

Francesca                           - Lo so, ma io avevo insistito molto, vi avevo detto che mi avreste fatto piacere venendo, mi ero quindi lusingata che vi sareste imposto un piccolo sforzo. Vedo che è passato quel tempo in cui potevo chiedervi tal genere di sacrifici.

Giacomo                            - Francesca, sono desolato...

Francesca                           - Che avete dunque fatto di così impor­tante, se non sono indiscreta?

Giacomo                            - Ho pranzato da mio fratello, di dove sono uscito molto tardi.

Francesca                           - Non potevate dirmi che eravate impe­gnato?

Giacomo                            - E' appena giunto da un viaggio e non lo vedevo da due mesi.

Francesca                           - Certo, più interessante che venire a tro­varmi!

Giacomo                            - E poi, voi sapete benissimo che io odio i ricevimenti, e...

Francesca                           - Voi odiate tutto ciò che mi fa piacere... Sì, è sempre così. Comincio ad abituarmi. (Pausa) Sol­tanto, avete avuto torto di non venire ieri sera.

Giacomo                            - Davvero?

Francesca                           - Del resto, per voi è indifferente...

Giacomo                            - Che cosa?

Francesca                           - Che mi si faccia la corte, per esempio...

Giacomo                            - Vi hanno fatta la corte?

Francesca                           - Molto, sì. (Pausa) Diamine, quando si comincia a notare che una signora giunge sola, parte sola, e che il signore che si aveva l'abitudine di vederle accanto non si vede più, gli uomini cominciano ad inte­ressarsene... E poi, per giunta, ieri sera indossavo una « toilette » molto graziosa.

Giacomo                            - Quale?

Francesca                           - Non la conoscete. Figuratevi che avevo esitato ad acquistarla, perché temevo che voi la trovaste troppo scollata. Ho fatto bene, però, a prenderla. Ho avuto un vero successo.

Giacomo                            - Tanto meglio.

Francesca                           - Mi sono subito accorta che piaceva mol­to... dallo sguardo delle signore.

Giacomo                            - Non da quello degli uomini?

Francesca                           - Sì, ma dopo! Le donne notano tutto prima. Ho avuto l'impressione d'essere molto in forma, ieri sera.

Giacomo                            - Malgrado il mal di capo?

Francesca                           - Appunto... Me l'hanno detto molti.

Giacomo                            - Davvero?... E chi, per esempio?

Francesca                           - Che ve ne importa?

Giacomo                            - Me ne importa moltissimo! Non ne dubi­terete, spero?

Francesca                           - Ebbene, non so... molti uomini... Fra gli altri, il vostro amico Moreuil... Non mi ha lasciata un istante per tutta la sera!

Giacomo                            - Oh, guarda! Lo credevo in America.

Francesca                           - E' ritornato... ed è molto galante. Ha voluto assolutamente accompagnarmi alla porta di casa mia, e, poiché io avevo detto sbadatamente che Alfredo ha il sonno durissimo, così ho persino temuto stesse per propormi di salire...

Giacomo                            - Possibile?

Francesca                           - Fra noi; credo proprio che me l'abbia proposto.

Giacomo                            - (sorridendo, distratto) Quel caro Moreuil! (Essa si morde le labbra e lo fulmina con lo sguardo) Dicevate che vi ha...

Francesca                           - Oh, ve ne prego, parliamo d'altro.

Giacomo                            - Come volete.

Francesca                           - Ascoltatemi, Giacomo; vi assicuro che, venendo qui, non avevo intenzione di farvi una scenata. Ma giurerei che voi avete deciso di esasperarmi; da Un pezzo sopporto molte cose, ma questa volta... passa la misura.

Giacomo                            - Andiamo, via.

Francesca                           - Capisco benissimo che non mi amate più! E',il vostro diritto. Ma allora, ditelo, semplicemente. Non ci siamo giurati amore eterno! Non è vero? Siate dunque sincero una volta tanto; sarà meglio.

Giacomo                            - Ma non è cambiato nulla, Francesca.

Francesca                           - Ah, vi sembra? Lasciate che vi dica che se voi foste stato innamorato di me un tempo, come lo siete oggi, non vi avrei certo ceduto. Ah, no. Vi ho ce­duto troppo presto, lo riconosco. Mi avreste amata di più, se mi fossi fatta desiderare più a lungo. Mi piace­vate, ve l'ho lasciato scorgere: peggio per me. In prin­cipio, almeno, potevo farmi qualche illusione sul vostro amore, mentre adesso...

Giacomo                            - Vi assicuro, Francesca, che i miei senti­menti per voi sono immutati.

Francesca                           - Il che significa che non m'avete amata mai.

Giacomo                            - Non ho detto questo...

Francesca                           - Ma lo pensate. Siate franco, almeno. Finalmente! Ma allora, non amandomi... perché mi avete chiesto di essere la vostra amante? Volete dirmelo?

Giacomo                            - (dolcemente) Potrei rispondervi che io non ve l'ho chiesto, ma...

Francesca                           - Ah, questa poi!

Giacomo                            - Ma ricordatevi….

Francesca                           - Dunque, sono io che vi ho supplicato di diventare il mio amante?

Giacomo                            - Ma no...

Francesca                           - Insomma, deve pur essere stato uno dei due. Se non siete stato voi, sono stata io!

Giacomo                            - Fate conto che io non abbia detto nulla.

Francesca                           - No, no, no! Non ve la caverete così. Sarebbe troppo facile dire un'insolenza e poi...

Giacomo                            - Vi ho detto un'insolenza?

Francesca                           - Diamine, se per voi non è un'insolenza dire ad una donna, che è la vostra amante da sei mesi, che non le avete mai chiesto di diventarlo!... Allora, che cos'è?

Giacomo                            - In questo caso, vi faccio tutte le mie scuse. Ho semplicemente ceduto al bisogno di mettere le cose a posto. Ho avuto torto. Perdonatemi.

Francesca                           - Mettere le cose a posto? Dunque, ci ri­tornate?

Giacomo                            - Ma infine ricordatevi la nostra prima con­versazione.

Francesca                           - La nostra prima conversazione?

Giacomo                            - Una delle prime, se preferite! Fu a Ver­sailles... Mi avete telefonato al mattino, proponendomi d'accompagnarvi in una gita campestre, se ve ne ricor­date...

Francesca                           - Me ne ricordo...

Giacomo                            - Lasciata la vostra vettura all'entrata del parco, avevamo fatto pochi passi, quando bruscamente mi lanciaste questa frase che sempre ricordo: « Il grande errore delle donne è di scegliere lo stesso uomo per fare all'amore e per parlarne ». Io trovai la frase graziosa e vi risposi: «Infatti, non si può sperare d'essere contemporaneamente il primo in letteratura ed in ginnastica! ». « Sono certa che voi siete un cattivo letterato » aggiun­geste voi amabilmente. Scambiammo, quindi, delle con­siderazioni originalissime sugli uomini e sulle donne e, finalmente, mi dichiaraste che non vedevate perché due esseri, attratti fisicamente l'uno verso l'altro, non avreb­bero potuto stabilire fra loro una specie di « camaraderie » di fatti, escludendo rigorosamente qualsiasi incur­sione nel dominio sentimentale. L'idea mi parve seducen­te e, poiché la conversazione ci aveva ricondotti alla vo­stra automobile ed era l'ora del tè, vi proposi di andarlo a prendere a casa mia, ciò che di buona grazia accettaste. Ecco, esattamente, come andarono le cose.

Francesca                           - E tutto questo che cosa prova?

Giacomo                            - Ho sempre creduto che in quel giorno fu­rono stabilite le basi della nastra associazione.

Francesca                           - Come se tutte le parole che in quei casi si dicono, avessero la minima importanza.

Giacomo                            - Ne avevano per me. Ho assunto gli impegni che potevo mantenere. Se ne avessi presi degli altri, sarei stato disonesto.

Francesca                           - Lo siete adesso, mio caro. Vi pare una cosa indegna l'amarmi? Per quanto possa sembrarvi stra­no, molti uomini la pensano diversamente.

Giacomo                            - Lo credo, Francesca. Voi siete una donna seducentissima, e so benissimo che molti vorrebbero essere al mio posto. Sono desolato di farmi capire cosi male. Ho semplicemente inteso dire che nelle circostanze in cui ci siamo incontrati non potevo promettervi altro... all'infuori di ciò che vi ho promesso.

Francesca                           - Perché ne amavate un'altra, senza dub­bio. E l'amate ancora, non è vero? Ditelo. Ma ditelo, dunque.

Giacomo                            - Dominio sentimentale, Francesca. Non sono mai penetrato nel vostro, dovete convenirne. Ri­spettate dunque il mio.

Francesca                           - Chi è?

Giacomo                            - Ve ne prego.

Francesca                           - Non volete dirlo? Oh, ma lo saprò. Non sarà difficile. La conosco?

Giacomo                            - Vi assicuro, Francesca, che perderete il vostro tempo.

Francesca                           - (cercando) Una donna che amavate già sei mesi or sono e che non vi ama...

Giacomo                            - Come sapete che non mi ama?

Francesca                           - Diamine!  Altrimenti, non avreste cercato delle distrazioni altrove; è ben questo che io sono stata per voi: una distrazione.

Giacomo                            - V'ingannate, Francesca.

Francesca                           - Siete amabile, ma è inutile che protestia­te. Aspettate: scommetto che so chi è.

Giacomo                            - Ah!

Francesca                           - La piccola Barentier?

Giacomo                            - Appunto.

Francesca                           - Non è lei?

Giacomo                            - Ma sì, sì, è lei.

Francesca                           - Dio, m'esasperare.

Giacomo                            - Se cambiassimo discorso, Francesca? (Giorgio entra dal fondo. Giacomo, vedendolo si alza. A Francesca) Scusate! (A Giorgio) Ebbene?

Giorgio                              - Ho consegnato la lettera.

Giacomo                            - Avete trovato il signore?

Giorgio                              - Sì, signore. Non mi ha dato risposta, ma mi ha incaricato di dire al signore che verrà a trovarlo.

Giacomo                            - Quando?

Giorgio                              - Subito, signore. Mi ha chiesto se il signore era in casa. Ho risposto che credevo di sì. Allora, mi ha detto che sarebbe venuto.

Giacomo                            - Sta bene... Lo farete passare in salotto.

Giorgio                              - Bene, signore. (Esce).

Francesca                           - Aspettate qualcuno?

Giacomo                            - Sì, scusatemi, Francesca. E' un... signore... devo parlare d'affari... urgenti... circa i miei interessi al Marocco.

Francesca                           - Ma sì, ma sì...

Giacomo                            - Non prevedevo la sua visita... per oggi, almeno...

Francesca                           - Ma non importa. Del resto, non abbiamo molte cose da dirci, ancora, non è vero?

Giacomo                            - Ma, non so, Francesca.

Francesca                           - Vedete, Giacomo, m'accorgo che nel... dialogo che da sei mesi facciamo, sono quasi sempre io a formulare le domande e le risposte. Trovo che basta, e che è venuto il momento di decidere. Non è anche il vostro parere?

Giacomo                            - Come volete.

Francesca                           - Ah! Bene. Temevo opponeste delle dif­ficoltà. Oh, solo prò forma. Ma vedo che avete preso coraggiosamente la vostre decisione e che trovate persino inutile di protestare. Meno male. Mi rallegro per la vostra rassegnazione... (Pausa) A che pensate?

Giacomo                            - (distrattamente) Ma a voi, a ciò che mi dite...

Francesca                           - No.

Giacomo                            - Scusatemi, Francesca. Infatti, sono molto preoccupato per questa visita inattesa. Dovete perdonarmi. Non potremmo rivederci un po' più tardi?... Do­mani, per esempio?

Francesca                           - E perché?

Giacomo                            - Ma... vorrei tentare di spiegarvi... di giu­stificarmi...

Francesca                           - A che scopo? Ho capito, ve l'assicuro. Ho capito benissimo. (Sì sforza di non piangere, ma non può trattenere una lacrima che asciuga col fazzoletto).

Giacomo                            - (accostandosi a lei) Francesca.

Francesca                           - Non badateci, è finito. Ed ora, diciamoci addio gentilmente, come persone ben educate e buoni compagni. Vi rimpiangerò, mio piccolo Giacomo.

Giacomo                            - Eh, via.

Francesca                           - Sì, sì, ve l'assicuro. Non è merito vostro... Appartenete a quella specie d'uomini che si rimpian­gono. Nonostante tutto, abbiamo pure qualche grazioso ricordo, non è vero?

Giacomo                            - Sì, Francesca.

Francesca                           - Anche se non sono, come voi dite, ricor­di d'amore... non li rinnego per questo. E poi, Giacomo, quando una donna s'impegna ad amarvi, non dovete cre­derle; ma quando s'impegna a non amarvi, dovete cre­derle ancora meno.

Giacomo                            - Mia cara...

Francesca                           - Non inteneriamoci, adesso...

Giacomo                            - Permettetemi almeno di scrivervi...

Francesca                           - Sì, scrivete una bella lettera piena di pensieri delicati e di riflessioni melanconiche sulle cose che finiscono, e fatemela portare dal vostro fioraio con qualche bel garofano. Sapete che li adoro. Aspetterò che siano appassiti, per dimenticarvi. Arrivederci. (Gli tende la mano che egli bacia, poi essa risale verso il fondo. Si sente suonare).

Giacomo                            - Aspettate un momento, per favore! (Schiu­de l’uscio e ascolta un istante; poi, l'apre mentre appare Giorgio) E' quel signore?

Giorgio                              - Sì, signore.

Giacomo                            - Sta bene. (Giorgio esce).

Francesca                           - (con emozione) I garofani... non dimen­ticateli! (Esce. Egli l'accompagna. Dopo un istante rien­tra e va ad aprire la porta di destra).

Giacomo                            - Volete accomodarvi, signore? (Appare Aiguines che si ferma un momento, poi gli si avvicina con la mano tesa).

Aiguines                            - Come stai?

Giacomo                            - (sorpreso) Come?...

Aiguines                            - Sono io, sì. Non sapevi d'aver scritto a me quella lettera?

Giacomo                            - Ma no, altrimenti...

Aiguines                            - Non m'avresti dato del « signore » spero. Il mio nome, dunque, non ti aveva detto nulla?

Giacomo                            - Sì, ma avevo creduto che l'Aiguìnes, al quale mi rivolgevo, fosse un tuo parente... Avevi dei cugini, credevo si trattasse d'uno di loro.

Aiguines                            - Ah! Ma a proposito di che?

Giacomo                            - Ti spiegherò. (Pausa) Accomodati.

Aiguines                            - Mi osservi... mi trovi cambiato? Sono si­curo che non mi avresti riconosciuto.

Giacomo                            - Sì... tuttavia...

Aiguines                            - Perbacco, sono quasi vent'anni che non ci siamo visti. Dal tempo felice in cui consumavamo il fondo dei calzoni sulle panche di Gerson. Venti anni lasciano traccia. Tu, però, sei poco cambiato. Sono lieto di Vederti.

Giacomo                            - Grazie.

Aiguines                            - Che strano che non ci si sia mai incon­trati. Veramente, io sono stato poco in Francia... E tu che cosa hai fatto? Non sei stato al Marocco, un tempo?

Giacomo                            - Sì.

Aiguines                            - Chi me l'ha detto?... Ah, ci sono! Sicard, te lo ricordi il grosso Sicard? L'incontrai un giorno a Madrid, eravamo nello stesso hotel, veniva da Casablanca dove ti aveva visto.

Giacomo                            - Infatti.

Aiguines                            - Ed ora sei fermo qui?

Giacomo                            - Sì.

Aiguines                            - Che buffa la vita. Non sapevi, dunque, di aver scritto a me?

Giacomo                            - No.

Aiguines                            - Io non ho avuto un attimo di esitazione, invece, leggendo il tuo nome; ecco perché sono venuto subito. Giacomo Virieu mi chiedeva di vedermi, non dovevo farlo attendere.

Giacomo                            - E' solo per questo che sei venuto subito?

Aiguines                            - (sorpreso) Diamine! Non ho la minima idea di ciò che vuoi dirmi.

Giacomo                            - Ah!

Aiguines                            - (dopo una pausa, guardandolo) Ma sai che m'incuriosisci? Sembri un giudice istruttore... Di che cosa si tratta?

Giacomo                            - Di chi si tratta... è più appropriato.

Aiguines                            - Di chi?... Infine, spiegati.

Giacomo                            - Si tratta di Irene di Montrel.

Aiguines                            - (di colpo, seccato) D'Irene di Montrel?

Giacomo                            - Sì... Pare che tu cominci a comprendere...

Aiguines                            - (nervoso) No!,.. Che puoi dirmi a pro­posito di quella signorina?

Giacomo                            - Non lo immagini?

Aiguines                            - Ma no.

Giacomo                            - Sono quasi suo cugino, ma sono, soprat­tutto, un suo amico, uno dei suoi migliori amici, anzi, il migliore.

Aiguines                            - Ebbene?

Giacomo                            - Lo sapevi? Non ti ha mai parlato di me?

Aiguines                            - Mai.

Giacomo                            - Non ti ha neppure parlato del servigio che qualcuno le rende in questo momento?

Aiguines                            - Che servigio?

Giacomo                            - Ignori che qualcuno ha accettato di pas­sare agli occhi di suo padre come suo fidanzato... per distogliere i sospetti e permetterle di restare a Parigi?

Aiguines                            - (dopo una pausa) Si è rivolta a te?

Giacomo                            - Sì.

Aiguines                            - E tu hai accettato?

Giacomo                            - Sì. (Pausa) Lo ignoravi? Pensavo che tu ne fossi al corrente.

Aiguines                            - Ma dove vuoi giungere?

Giacomo                            - Ho solo voluto che tu conoscessi il titolo che mi permette di parlarti di lei al modo che sto per fare.

Aiguines                            - Mi dispiace, ma io non ho alcun titolo per ascoltarti a proposito di quella signorina... (Si alza).

Giacomo                            - Resta seduto, te ne prego...

Aiguines                            - E' inutile. Ti ripeto che tutto ciò non mi riguarda. Infine, che pretendi da me?

Giacomo                            - (fra Aiguines e la porta) Ti giuro che mi ascolterai.

Aiguines                            - Ma tu sei pazzo.

Giacomo                            - No.

Aiguines                            - Vuoi proprio che ti ascolti?

Giacomo                            - Sì. Sarò breve, rassicurati. Se contraria­ mente a quanto suppongo, ciò che ti dirò non ti riguar­da, saprai ben ripeterlo a chi potrà interessare. Ecco qua: quando un uomo occupa nella vita di una fanciulla il posto che, colui di cui parlo, occupa nella vita di Irene, costringendo la fanciulla a fare ciò che Irene ha fatto per non allontanarsi da lui, quest'uomo non può avere alcuna scusa per non sposarla. Se è libero, tutto è facile. Se non lo è... cerca di diventarlo, non importa a che prezzo, ed il più presto possibile. ,

Aiguines                            - (dopo una pausa) E' tutto?

Giacomo                            - Quasi, poiché non voglio prospettare la ipotesi che l'uomo sia un disonesto. In tal caso, il dovere di un amico sarebbe semplicissimo. Avvisare il padre perché protegga la figlia. Spero non si debba giungere a tanto.

Aiguines                            - Hai finito?

Giacomo                            - Sì.

Aiguines                            - Allora, ascolta me... A meno che io non sia ubriaco, il significato del tuo discorso è questo: tu mi credi l'amante della signorina di Montrel. E' cosi, non è vero?

Giacomo                            - Infatti, è l'ipotesi più verosimile.

Aiguines                            - Ebbene: guardami e, malgrado il tuo ner­vosismo, cerca di veder chiaro. Ti dò la mia parola d'onore che ti inganni, che non sono, e non sono mai stato per lei che una semplice conoscenza... mi capisci?... Neppure un amico! Credimi o no, è affar tuo. Non ag­giungerò altro, e sii certo, che se mi son preso la pena di disingannarti invece d'alzare le spalle, pensando di avere a che fare con un pazzo, è unicamente per il ri­cordo della nostra vecchia amicizia.

Giacomo                            - (colpito dalla sincerità di Aiguines, con an­goscia) Ma... allora chi è?

Aiguines                            - Non so nulla, io! Ha dunque un amante? Te l'ha detto lei?

Giacomo                            - Me l'ha lasciato capire, è lo stesso...

Aiguines                            - Non sempre.

Giacomo                            - E' la sola spiegazione possibile. Se non fosse vero, avrebbe cercato di disingannarmi.

Aiguines                            - Mi dispiace, ma, in ogni caso, non posso fornirti nessuno schiarimento... e se non hai altro da dirmi...

Giacomo                            - Non vorrai andartene, spero.

Aiguines                            - Ma sì, devo andarmene. Sono corso ap­pena ricevuto la tua lettera, ma... lascio Parigi fra qual­che giorno... ho molto da fare e...

Giacomo                            - Te ne supplico, rimani. Sei l'unica perso­na che possa aiutarmi a cercare, e io devo sapere.

Aiguines                            - Ma poiché io non so nulla.

Giacomo                            - E' impossibile. Tu hai un'idea... un dub­bio... vedendola continuamente... conoscendo la sua vita… le sue conoscenze.

Aiguines                            - Ma tu t'inganni, io non la vedo continua­mente... Esce con noi qualche volta, ma... sono ben poco al corrente della sua vita...

Giacomo                            - Ma se essa non vede, si può dire, che Voi, passa le sue ore a casa vostra! Tu puoi saperne qualcosa.

Aiguines                            - (freddamente, senza guardarlo) Non so nulla!

Giacomo                            - Non ti credo.

Aiguines                            - Basta...

Giacomo                            - Ti ho creduto poco fa, ti ho creduto senza prove, quando mi hai detto che non sei il suo amante. Dicevi la verità. Adesso, no. Menti. Menti per non tra­dire il segreto di un altro, che probabilmente è tuo amico. E' così, non è vero?

Aiguines                            - Non so nulla.

Giacomo                            - Ma non capisci che bisogna aiutarla quel­la piccina? Che non si può lasciarla perdere? Ora, poi, incomincia a soffrire... Che accade? Vorrebbe forse la­sciare quell'uomo? So che passa il suo tempo, chiusa in camera, a singhiozzare. Ecco dov'è giunta!

Aiguines                            - Ciò... (Gesto).

Giacomo                            - Ciò ti è indifferente? A me, no. Darei la vita, capisci, perché fosse felice.

Aiguines                            - (lo guarda, sorpreso) Allora l'ami?

Giacomo                            - Sono suo amico.

Aiguines                            - Andiamo, rispondimi. Non si fa ciò che tu hai fatto per semplice amicizia; non si accetta di recitare la parte del fidanzato e, soprattutto, non saresti in questo stato... Tu l'ami?

Giacomo                            - Sì, l'amo. L'amo da dieci anni e non amerò che lei.

Aiguines                            - (gli mette le mani sulle spalle e lo guarda) Tu l'ami davvero?

Giacomo                            - Sì.

Aiguines                            - Allora fuggi, va via, fuggi. Non importa dove, ma molto lontano, per molto tempo, e non ritor­nare prima di essere guarito. Ecco ciò che posso dirti.

Giacomo                            - (sorpreso) Che significa?

Aiguines                            - Ti dò un consiglio, un buon consiglio: è tutto.

Giacomo                            - Mi spiegherai ciò che hai voluto dire.

Aiguines                            - (con un certo imbarazzo) Ma... Non c'è nulla da spiegare. Tu ami quella fanciulla, e, da quanto hai detto, essa ama un altro! In tal caso, mi pare che la sola cosa da fare è partire. Non ti pare?

Giacomo                            - Partire, lasciandola nelle mani di un altro, di un bellimbusto che l'ha desiderata e le ha fatto credere di volerla sposare?

Aiguines                            - Ma la credi così ingenua?

Giacomo ----------------- - Una donna è sempre ingenua la prima volta che ama. Ed essa ama per la prima volta. Ho ragione di crederlo. Se ella avesse dovuto amare qual­cun altro prima di costui, avrebbe dovuto amare me che l'adoravo, che ho vissuto sino all'anno scorso nella speranza che essa acconsentisse a divenire mia moglie. E lo sarebbe divenuta, capisci, se non fosse giunto quell'altro. Non ho lottato. Non ne valeva la pena. Soltanto, poiché egli ha fatto la mia infelicità, voglio almeno che faccia la felicità di lei. E per questo, è necessario che io lo trovi.

Aiguines                            - Non puoi far nulla per lei.

Giacomo                            - Che ne sai tu?

Aiguines                            - Nessuno può nulla per lei.

Giacomo                            - Perché? (Aiguines tace) Ecco che tu ti tradisci. Non vorrai continuare a dire che non sai nulla. Non puoi più tacere, adesso!

Aiguines                            - Ascoltami, lascia stare questa storia, non chiedermi più nulla.

Giacomo                            - Non supporrai che mi basteranno quelle tue frasi enigmatiche. Anzi, mi turbano di più! Non è un consiglio che ti chiedo, è un nome.

Aiguines                            - (bruscamente) Il nome del suo amante? Essa non ha amanti. Sei contento?

Giacomo                            - Come?

Aiguines                            - Ma forse, sarebbe meglio ne avesse uno!

Giacomo                            - Non capisco.

Aiguines                            - Di un amante, fosse il peggiore degli uomini, ci si libera, si guarisce, mentre essa...

Giacomo                            - Ebbene, cosa? Paria!

Aiguines                            - Non è la stessa schiavitù! E questa...

Giacomo                            - Non è la stessa schiavitù?

Aiguines                            - Non soltanto un nomo può essere peri­coloso per una donna. In certi casi, può esserlo anche una donna.

Giacomo                            - Una donna?

Aiguines                            - Sì.

Giacomo                            - E' per una donna che essa piange?

Aiguines                            - Sì.

Giacomo                            - Che storia è questa?

Aiguines                            - E' una storia come tante altre... checché ne possano pensare gli uomini... Una di quelle storie alle quali essi non credono, in genere, e davanti alle quali sorridono assai divertiti e piuttosto indulgenti.

Giacomo                            - Ma è impossibile! Irene è molto equili­brata!

Aiguines                            - Che cosa prova questo?

Giacomo                            - Sei sicuro di quanto dici?

Aiguines                            - Sì.

Giacomo                            - Tu... la conosci questa donna?

Aiguines                            - La conosco.

Giacomo                            - (dopo una pausa) Sono sbalordito.

Aiguines                            - E un po' sollevato, non è vero?

Giacomo                            - Diamine! Dopo quanto avevo supposto.

Aiguines                            - Tu preferisci... (Pausa) Ebbene, hai torto.

Giacomo                            - Tu preferiresti che avesse un amante?

Aiguines                            - Al tuo posto, lo preferirei cento volte, mille volte!

Giacomo                            - Sei pazzo?

Aiguines                            - Sei tu pazzo! Se ella avesse un amante, ti direi: pazienza, mio caro. Pazienza e coraggio'; nulla è perduto. Un uomo non è eterno nella vita di una donna. Tu l'ami, e lei ritornerà a te, se l'attenderai. Ma ti dico, invece: non attenderla; non ne vale la pena. Ella non ritornerà più, e se mai il destino la rimetterà sul tuo cammino, fuggila! Fuggila, capisci? Altrimenti, tu sei perduto. Passerai la tua vita a correre dietro ad un fantasma che non raggiungerai mai. Perché non si possono mai raggiungere. Sono delle ombre. Bisogna lasciarle sole, nel loro raggio d'ombra. Non bisogna avvicinarle. Sono dannose. Soprattutto, non cercare di essere qualche cosa per loro, per quanto poco. E' questo il male. Esse hanno sempre bisogno un poco di noi, nella loro vita. Non è sempre facile per una donna, vivere. Se un uomo propone loro di aiutarle, di dividere ciò che egli ha e di dar loro il suo nome, esse accettano, naturalmente! Che cosa importa? Purché non si doman­di loro dell'amore. Non sono avare del rimanente. Ma immagini tu l'esistenza di quest'uomo, se ha la disgrazia di amare, di adorare l'ombra vicino alla quale vive? Dimmi, l'immagini? Ebbene, credimi, caro, è una vita spregevole. Ci si abitua presto, e s'invecchia precoce­mente. A trentacinque anni, guarda: si hanno i capelli grigi.

Giacomo                            - Come?

Aiguines                            - Sì... Che il mio esempio ti serva. Esse non sono per noi. Bisogna sfuggirle, lasciarle! Non fare come me, non dire come io dissi in una circostanza quasi identica alla tua: «Ah, bene! Non è che questo? Amicizia passionale... intimità troppo tenera! Niente di grave. Sappiamo di che si tratta! ». No, non lo sappiamo. E' misterioso, ripugnante. L'amicizia non è che la ma­schera. Con il pretesto dell'amicizia una donna s'intro­duce in una casa quando vuole, in ogni ora, s'impadro­nisce di tutto, saccheggia tutto, senza che l'uomo, del quale si distrugge il focolare, s'accorga di quanto gli accade. Quando se ne accorge, è troppo tardi. E' solo. Solo, davanti all'alleanza segreta di due esseri simili che s'intendono, che s'indovinano perché sono simili, dello stesso sesso, di un pianeta diverso dal suo: lo straniero, il nemico. Ecco. Contro un uomo che vuole prendere una donna ci si può difendere. Si lotta ad armi pari e si ha la risorsa di rompergli le ossa; ma nell'altro caso non c'è nulla da fare. Partire quando si può, quando si ha la forza. E' questo che tu devi fare.

Giacomo                            - E tu perché non parti?

Aiguines                            - Oh, io? Non è la stessa cosa. Non la posso abbandonare. Siamo sposati da più di otto anni. Dove andrebbe? E' troppo tardi. Io non potrei vivere senza di lei. L'amo! L'hai mai vista tu? Capiresti meglio, se tu la vedessi. Ha tutte le seduzioni. Chi l'avvicina, subi­sce il suo incanto; non solo io, tutti, ma io più di tutti, perché vivo vicino a lei. Io credo che ella sia l'essere più grazioso, più armonioso che sia mai esistito. Quando sono lontano da lei, ho talvolta la forza di detestarla per il male che mi fa, ma vicino, non discuto più. La guardo, l'ascolto, l'ammiro.

Giacomo                            - Perché Irene soffre?

Aiguines                            - Non so. Non crederai mi si facciano delle confidenze. Ella soffre come un essere debole alle prese con un essere forte... fino a che non sarà stata vinta.

Giacomo                            - Irene un essere debole?

Aiguines                            - Davanti all'altra? Sì, può essere che ancor» si dibatta...

Giacomo                            - Ah! Per questo soffre?

Aiguines                            - Per questo e per l'altro. Ella non ha che l'imbarazzo della scelta.

Giacomo                            - Spiegati.

Aiguines                            - Perché non dovrebbe soffrire? Soffro pur io.

Giacomo                            - Non è la stessa cosa.

Aiguines                            - Tu credi? Io credo di sì, invece. Non c'è che un modo di amare e di soffrire. E' la stessa formula per tutti e possiamo darci la mano, ella ed io, da qualche tempo. Soltanto, ella non è ancora abi­tuata a soffrire, io sì!

Giacomo                            - Non sono sicuro di capire.

Aiguines                            - Non hai sentito parlare di un viaggio?

Giacomo                            - Un viaggio?

Aiguines                            - Nel Mediterraneo, con un yacht?

Giacomo                            - Ella non mi ha mai detto nulla... La vedo così di rado...

Aiguines                            - Al suo posto, rifiuterei di parteciparvi... ma dubito che possa farlo. Infine, è affar suo... Ciò che importa, sei tu. Che farai? Seguirai il mio consiglio? Partirai?

Giacomo                            - (pensieroso) Non so ancora. Vedrò!

Aiguines                            - Non aspettare. Credimi... Ella saprà ben trovarti, quando avrà bisogno di te. Anche prevenuti, ci lasciamo prendere. Ricordati di quanto ti ho detto.

Giacomo                            - Ma dove vuoi che vada?

Aiguines                            - Non importa dove, purché sia. lontano. (Pausa) Non hai affari al Marocco? Ritornaci per qual­che tempo... Così, almeno, non ti avrà sottomano.

Giacomo                            - Ti assicuro che se tu la conoscessi me­glio, ti renderesti conto che i tuoi timori sono delle chimere. Ella ha potuto rivolgersi a me in un momento di disperazione, ma è troppo fiera per ricominciare. E poi, non vedo davvero a che potrei esserle utile.

Aiguines                            - Chi lo sa?... (Pausa) Se non vuoi par­tire, cerca almeno una donna che ti piaccia, una vera, che ami l'amore, il nostro amore... Cerca chi ti faccia dimenticare l'altra.

Giacomo                            - L'ho già tentato.

Aiguines                            - E non sei riuscito? Vedi che non esage­ravo il pericolo? Non c'è più che la lontananza... In­fine, mi dispiace, ma è affar tuo! (Suoneria) Aspetti qualcuno?

Giacomo                            - No.

Aiguines                            - In ogni caso, ti lascio... Arrivederci. Giacomo... Se avessi almeno potuto convincerti. (Entra Giorgio dal fondo).

Giacomo                            - Che c'è?

Gioecio                              - La signorina Montrel chiede se il signore può riceverla.

Giacomo                            - (colpito) Ma...

Giorgio                              - Le ho risposto che andavo a vedere se il signore era in casa.

Giacomo                            - Fatela entrare nel salotto e chiudete la porta dell'anticamera. Giorgio - Bene, signore.

Giacomo                            - E' la signorina Irene? Giorgio     - Sì, signore. (Esce).

Giacomo                            - Non mi aspettavo questa visita.

Aiguines                            - Non ripeterai una sola parola detta fra noi alla signorina Irene, non è vero?

Giacomo                            - Sei pazzo? Credi che mi perdonerebbe di sapere?

Aiguines                            - Ed ora, buona fortuna. (Stretta di mano) Ricordati che per quanto tu faccia, ella non s per te. Esse non sono per noi. Addio. (Esce. Giacomo I accompagna. Scena vuota per un istante. Giacomo rientra con Irene).

Irene                                  - Non ti disturbo? Dimmelo, sai...

Giacomo                            - Te lo direi.

Irene                                  - Sei solo?

Giacomo                            - Ero con un amico... che stava per uscire quando hai suonato.

Irene                                  - Aspetti forse qualche altro?

Giacomo                            - Nessuno.

Irene                                  - Allora, posso restare? Non ti annoio?

Giacomo                            - Non mi annoi.

Irene                                  - Ti ha sorpreso la mia visita?

Giacomo                            - Un poco.

Irene                                  - Ti sei chiesto che cosa venivo a fare qui, non è vero? Ti sei detto: «Comincia a seccarmi anche a casa mia? ».

Giacomo                            - Ho pensato che dovevi certo parlarmi. Ti ascolto.

Irene                                  - Oh, non così. Non parlarmi come un notaio. Sii un po' gentile, un po' affettuoso. Lascia quell'aria severa.

Giacomo                            - Ma t'inganni...

Irene                                  - Sii buono come sempre. Ho bisogno della tua tenerezza... Ti meravigli che ti chieda d'essere buo­no, affettuoso?

Giacomo                            - E' un pezzo che ho rinunziato a meravi­gliarmi sul tuo conto, Irene...

Irene                                  - Non essere cattivo. So che, ti ho dato il diritto di esserlo, ma non esserlo oggi, almeno, Vuoi? (Volge il capo per nascondere le lacrime).

Giacomo                            - (più dolce) Che accade?

Irene                                  - Nulla... Non badarci.

Giacomo                            - Accomodati e scusami un momento. Vado ad avvertire il domestico che non sono in casa per nessuno. (Esce e rientra dopo un istante) Vuoi una tazza di té?

Irene                                  - No, grazie. (Pausa) Giacomo, vorrei che tu mi dicessi qualche cosa.

Giacomo                            - Che cosa?

Irene                                  - Da quando ti domandai il favore di fare quella parte con mio padre, il tuo affetto per me è svanito?

Giacomo                            - Perché me lo chiedi?

Irene                                  - Ho bisogno di saperlo.

Giacomo                            - L'affetto è immutato, soltanto...

Irene                                  - Soltanto?

Giacomo                            - Si è modificato. Un tempo ti ammiravo, ora ti compiango!

Irene                                  - (pensierosa) E mi disprezzi! Sì... sì... hai ragione... sono da compiangere, non saprai mai quanto… (Pausa) Sei sempre mio amico?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Ho così. bisogno d'esserne sicura... Tu non sai, Giacomo, che cosa sei per me.

Giacomo                            - Davvero... tanto?

Irene                                  - Non essere ironico. Dici che mi compiangi, ebbene, provalo.

Giacomo                            - Facendo cosa?

Irene                                  - Oh, nulla. Testimoniandomi un po' di tene­rezza e d'indulgenza.

Giacomo                            - Non sei felice?

Irene                                  - In alcuni momenti vorrei essere morta.

Giacomo                            - E' una soluzione, ma...

Irene                                  - Non lo credi?

Giacomo                            - Spero che esageri. Sé ci si dovesse ucci­dere ogni volta che si è infelici...

Irene                                  - Non penso ad uccidermi: ci vuole coraggio per farlo; ed io non ho più neanche quello. Non ho più nulla.

Giacomo                            - Infatti, mi sembri ben avvilita, mia po­vera Irene. Non hai ciò che desideravi? Volevi ad ogni costo restare a Parigi; ebbene, ci sei... Anzi, a propo­sito... volevo dirti: è necessario ch'io scriva a tuo padre.

Irene                                  - A papà?

Giacomo                            - Sì. Era convenuto che la nostra situa­zione non si prolungasse oltre la sua partenza, te ne ricordi?

Irene                                  - Sì, ebbene?

Giacomo                            - Del resto, egli ha molto insistito perché io gli facessi conoscere le mie intenzioni al più presto possibile, e mi sono impegnato. E' già un mese che è partito, e non gli ho ancora scritto; è tempo che lo faccia. Gli dirò che le inquietudini per i miei affari si sono aggravate e che in tali condizioni non mi è per­messo fare progetti per l'avvenire. Che ne dici? Ti va?

Irene                                  - Come vorrai.

Giacomo                            - Aggiungerò che sto per partire per il Marocco per stabilirmici a causa dei miei affari.

Irene                                  - E' vero? devi partire?

Giacomo                            - Si, probabilmente.

Irene                                  - (spaventata) Oh!... (Pausa) Ma perché? Proprio per i tuoi affari?

Giacomo                            - No.

Irene                                  - Allora... non parti solo?...

Giacomo                            - Solo.

Irene                                  - Allora, perché devi partire?

Giacomo                            - Ho bisogno di cambiare aria. Quella di qui non mi si confà. (Pausa) E' tanto che avrei dovuto partire... è un anno... dal tuo ritorno dall'Italia... Oggi, forse, sarei guarito.

Irene                                  - E' per me che parti?

Giacomo                            - Diamine! Non credi sia tempo che io pensi un poco al mio riposo ed alla mia tranquillità? Non posso trascorrere la mia vita ad amarti ed a rico­minciare a soffrire ogni volta che ti vedo.

Irene                                  - Mi ami dunque ancora, Giacomo? E' vero?

Giacomo                            - Ti meraviglia, non è Vero?

Irene                                  - Dopo quanto hai potuto supporre di me in questi ultimi tempi, pensavo che fosse finito... che tu non mi amassi più... Pensavo così... ma speravo il con­trario...

Giacomo                            - Speravi il contrario? Speravi che t'amassi sempre ?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - (dopo una pausa) Non capisco.

Irene                                  - (senza guardarlo) Non partire, Giacomo.

Giacomo                            - Che dici?

Irene                                  - Non partire! (Egli la guarda, stupito).

Giacomo                            - Ah, sì, sì! Capisco...

Irene                                  - Che cosa?

Giacomo                            - Temi che tuo padre ti richiami, non ap­pena riceverà la mia lettera, e saprà che io non sono più qui. Oppure ti venga a prendere. Ebbene, tanto peggio. Mi dispiace, ma questa volta non contare più su di me. Farai ciò che vorrai, ti arrangerai come potrai, ma questa sera stessa scriverò a tuo padre.

Irene                                  - (alzando le spalle) Ma scrivigli quando vor­rai; mi è indifferente!

Giacomo                            - (sarcastico) Davvero?

Irene                                  - Te lo giuro!

Giacomo                            - Allora, perché non vuoi che parta?

Irene                                  - (con stanchezza) Oh, per nulla! (Si alza).

Giacomo                            - Siediti e rispondimi.

Irene                                  - Non ne vale la pena. Parti, va, poiché hai tanta premura di dimenticarmi. Parti.

Giacomo                            - Ma, Irene, a che giuoco giuochi tu in questo momento? Non ti rendi conto che il tuo modo d'agire è una terribile civetteria? Te ne rendi conto?

Irene                                  - E' vero, ti chiedo perdono. Non so più quel che dico. Oh, Giacomo, sono tanto infelice. (Cade sulla sedia e piange).

Giacomo                            - (accostandosi, commosso) Che hai?

Irene                                  - (aggrappandosi a lui) Non devi abbando­narmi. Sono così sola, così miserabile... Non ho che te, Giacomo. Non ci sei che tu che possa aiutarmi!

Giacomo                            - Ma che vuoi da me?

Irene                                  - Che tu mi protegga, mi difenda!

Giacomo                            - Ti difenda?... Ti assicuro, Irene, che mi sforzo di comprenderti, ma veramente...

Irene                                  - Ah, lo so! Devo sembrar pazza! Ebbene, sì, sono pazza! Devi trattarmi come tale... e curarmi! Se non vieni in mio aiuto subito, sarà troppo tardi.

Giacomo                            - Ti minaccia un pericolo?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Non puoi dirmi di che si tratta?

Irene                                  - (dopo aver esitato) D'una partenza, di un viaggio. E non devo partire. Non voglio partire. Se parto, è finita. Sono perduta!

Giacomo                            - Ma... chi ti costringe a partire?

Irene                                  - Ah! (Gesto) Ho paura di me stessa!

Giacomo                            - Allora, parti per Roma con Gisella. Va da tuo padre.

Irene                                  - L'ho pensato. Ma all'ultimo momento non partirei, non ne avrei la forza.

Giacomo                            - Ma sì. Ti aiuterò io, se vuoi.

Irene                                  - (scuotendo il capo) Ritornerei...

Giacomo                            - Ma no.

Irene                                  - Tu non capisci che in certi momenti, come adesso, io vedo chiaro, ho tutto il mio buon senso; ma in certi altri momenti non l'ho più, non so più quel che faccio. E' come... una prigione, verso la quale mi dirigo mio malgrado... Sono...

Giacomo                            - Ipnotizzata...

Irene                                  - Sì... Sarebbe necessario che qualcuno mi te­nesse, mi sorvegliasse... qualcuno che avesse compreso o indovinato certe cose che non posso dire, che non dirò mai.

Giacomo                            - E' questo che aspetti da me? Ma, come vuoi che ti trattenga, che t'impedisca di fare ciò che dici? Ho forse la più piccola influenza su di te, io? Hai mai seguito i miei consigli? Ricordati, un mese fa mi mandasti a spasso...

Irene                                  - Quante cose sono mutate. Ti ascolterò adesso. Voglio ascoltarti.

Giacomo                            - Ma non potrai. Non ti lasceranno. Che mezzi ho io per lottare? Che ti dirò per convincerti meglio di ciò che già sai, poiché tu stessa riconosci che questo viaggio sarebbe la tua sciagura? Che cosa posso aggiungere? E poi, pensi forse che delle buone parole siano sufficienti a trattenerti in quest'ora di abnegazione che tu attraversi? (Irene scuote il capo) Lo vedi! Ne potrò trattenerti con la forza. Dunque? Che posso fare per te?

Irene                                  - Tutto! Puoi salvarmi,

Giacomo                            - Ma come?

Irene                                  - Tu solo puoi salvarmi, perché mi ami.

Giacomo                            - Ma appunto per questo non posso nulla. Vedendoti soffrire, sarei disarmato. Non si prende per infermiere un uomo che ama!

Irene                                  - Non come infermiere...

Giacomo                            - Come che cosa, allora?

Irene                                  - (senza guardarlo) Giacomo, vuoi che t'ap­partenga?

Giacomo                            - Irene!

Irene                                  - Vuoi? „

Giacomo                            - Basta, taci.

Irene                                  - Perché?

Giacomo                            - Dunque... è questo, questo che sei venuta ad offrirmi?

Irene                                  - Sì... non vuoi? (China il capo).

Giacomo                            - Povera Irene, ma io ti amo. Non capisci che cosa vuoi dire?

Irene                                  - Ma si...

Giacomo                            - (violentemente) Mi offri il tuo corpo, il tuo povero corpo prigioniero? Vuoi darti a me per poter dire a quella donna...

Irene                                  - (con un grido) Giacomo...

Giacomo                            - Sì, lo so, ho indovinato! Vuoi dirle, è vero, che ti sei data ad un uomo, perché poi ti lasci tranquilla? Ma non è il tuo corpo che io voglio, sei tu, tu, tutta intera, mi capisci? E questo puoi darmelo? Si può dare tutto ad un essere che non si ama? Poiché tu non mi ami, non è vero? Tu non mi ami!

Irene                                  - (sfiduciata) Ma vorrei tanto amarti. (S'ab­batte sul suo petto, singhiozzando).

Giacomo                            - (sconvolto) Povera Irene.

Irene                                  - (tra le lacrime) Credi che io non sappia che sarebbe la mia felicità? So bene che il mio posto, il mio vero posto, sarebbe qui, contro la tua spalla. Perché non vuoi lasciarmici?

Giacomo                            - Oh, Irene! E' terribile ciò che mi chiedi.

Irene                                  - Perché?... Forse ti amerei...

Giacomo                            - Poi, non è vero?... No, povera cara...

Irene                                  - Tuttavia, una volta tu mi dicesti...

Giacomo                            - In quel momento credevo cha fra noi ci fosse solo il suo orgoglio. Non sapevo ciò che ci separava.

Irene                                  - Ma quando mi avrai guarita...

Giacomo                            - Credi che lo potrai?

Irene                                  - Mi respingi? E' vero, Giacomo? Che ne sarà di me?

Giacomo                            - Pensa che diventerò io. Mi hai fatto già tanto male!

Irene                                  - Ma è finita, non te ne farò più. Come potrei fare del male a te che mi avrai salvato? Giacomo, guar­dami, guardami negli occhi. Tutto ciò che un uomo può attendere dalla donna amata, io te lo darò.

Giacomo                            - (turbalo) Non tentarmi, Irene! Ho tanto sognato questo momento; bada!

Irene                                  - Ed ora è giunto. Prendimi fra le tue brac­cia... Sono tua, Giacomo.

Giacomo                            - Non sai a che t'impegni. C'è ancora tempo... Puoi ancora andartene.

Irene                                  - Non ho paura!

Giacomo                            - Lo vuoi? Sei certa di ciò che vuoi?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Irene, è vero?... (Si china su lei. Ella, davanti al viso dell'uomo sconvolto dal desiderio, fa un brusco movimento per indietreggiare. Egli la lascia) Vedi?

Irene                                  - Sì... sì... scusa... (Ed è lei, questa volta, che gli tende le labbra. Poi, penosamente, abbandona la testa sulla spalla di Giacomo; lotta ancora un istante e piange).

Giacomo                            - (scoraggiato) Oh.

Irene                                  - No! No! Non badarvi,.. Non è nulla! E' finito. Mi terrai con te?

Giacomo                            - Proverò...

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

LA STESSA SCENA DELL'ATTO PRECEDENTE

Giacomo, solo, seduto in una poltrona, le mani die­tro il capo, fuma e sogna. Giorgio entra dal fondo, por­tando una lettera che consegna a Giacomo. Questi guarda la busta e sembra sorpreso.

Giacomo                            - Chi ha portato questa lettera?

Giorgio                              - Un cameriere, signore. Attende la risposta. (Risale verso l'uscio. Giacomo legge la lettera. Dopo qualche istante di riflessione va allo scrittoio e comin­cia a scrivere).

Giacomo                            - Per che ora la signora ha ordinato la Vettura?

Giorgio                              - Per le tre, signore. (Giacomo guarda l'ora, poi tende la lettera che ha scritto, a Giorgio) Ecco. (Giorgio esce. Giacomo rilegge la lettera che ha rice­vuta, poi ne respira il profumo e sorride. Irene appare a sinistra. E' vestita, pronta per uscire. Tiene in mano dei campioni di stoffa per tappezzeria).

Irene                                  - Non mi hai detto quale preferisci. Questa, o questa?

Giacomo                            - E' per la tua camera? Scegli tu!

Irene                                  - Ma io voglio che ti piaccia.

Giacomo                            - Mi piacerà, se tu l'avrai scelta.

Irene                                  - Ma mi potresti dire quale preferisci!

Giacomo                            - Se approvo la tua scelta...

Irene                                  - Come sei noioso.

Giacomo                            - Vai a fare degli acquisti?

Irene                                  - Sì... Debbo passare dal tappezziere, dal pit­tore, poi, ho un appuntamento alle tre e mezzo nello studio di Apraseine per vedere quel piccolo quadro che m'è tanto piaciuto l'altro giorno. Vuoi venire con me?

Giacomo                            - Non posso.

Irene                                  - Dovrai pure venire a vederlo. Non voglio comperare un quadro di quel prezzo, senza che tu l'abbia visto.

Giacomo                            - Tu non hai bisogno del mio parere. Non me ne intendo di pittura. Se quel quadro ti piace, com­peralo.

Irene                                  - Non vuoi proprio venire? Ritornerò a pren­derti con la vettura. Non perderai più di venti minuti.

Giacomo                            - Non posso, te lo ripeto. Aspetto una visita.

Irene                                  - Una visita? A che ora?

Giacomo                            - Alle tre e mezzo.

Irene                                  - Sarà una visita lunga?

Giacomo                            - Non so. (Suona il telefono) Pronto... Da parte di chi? Ah, bene... Restate all'apparecchio! (A Irene) Apraseine vuole parlarti.

Irene                                  - (all'apparecchio) Pronto? Buongiorno, signo­re. Ma no, non l'ho dimenticato. Alle tre e mezzo, come d'accordo... Come... No, è desolato e vi prega di scu­sarlo. Ha un appuntamento e non potrà venire... A fra poco! (Riaggancia) Mi dice di essere puntuale perché deve uscire. (Pausa) Dunque?

Giacomo                            - Dunque, che cosa?

Irene                                  - Posso proprio comperarlo? Me lo permetti?

Giacomo                            - Ma sì.

Irene                                  - Sei gentile, grazie. Credo che sia un buon affare. Me lo lascia per quel prezzo perché sono io.

Giacomo                            - Tanto meglio.

Irene                                  - Purché ti piaccia. Ti prevengo che è molto moderno. Forse non ti piacerà.

Giacomo                            - Ma ti ripeto che mi piacerà... A che ora rientrerai?

Irene                                  - Oh, presto. Passerò dal libraio, perché mandi dei libri a Gisella che mi ha scritto di non aver più nulla da leggere. Verrò a prendere il té a casa.

Giacomo                            - Se per caso la persona che aspetto 6arà ancora qui, ti chiedo di non entrare.

Irene                                  - Ma certo, si capisce.

Giacomo                            - Preferisco che non v'incontriate.

Irene                                  - Ah! E perché?

Giacomo                            - Penso che non farebbe piacere né all'una né all'altra.

Irene                                  - Ah! E si può sapere chi è?

Giacomo                            - T'interessa?... E' una graziosa signora verso la quale mi sono condotto malissimo.

Irene                                  - (cercando) Una signora verso la quale... la si­gnora Meillaut.

Giacomo                            - Proprio lei!

Irene                                  - Strano. E viene a trovarti?

Giacomo                            - Le ho dato appuntamento. Verrà? Non ne sono sicuro.

Irene                                  - Perché l'hai invitata?

Giacomo                            - Guarda. (Le dà la lettera che ha ricevuto).

Irene                                  - (dopo averla letta) Di quali lettere parla?

Giacomo                            - Delle lettere che mi scrisse quando... l'anno scorso... Siamo partiti da Parigi così in fretta, allora, e non ebbi il tempo di rendergliele. Dal nostro ritorno, poi, non ci avevo mai pensato...

Irene                                  - (sorridendo) Povera donna.

Giacomo                            - Non ti dispiace che la riceva qui?

Irene                                  - Perché dovrebbe dispiacermi? Ho fiducia in te.

Giacomo                            - Infatti.

Irene                                  - Che hai?

Giacomo                            - Nulla.

Irene                                  - Sembri offeso che io prenda la cosa cosi!

Giacomo                            - lo? Anzi, sono felice.

Irene                                  - Vorresti che fossi gelosa? Non c'è ragione.

Giacomo                            - La gelosia, anzi, sarebbe un lusso; giacché se è naturalissima quando si ama, è però ridicola ed incomprensibile quando non si ama.

Irene                                  - Dunque, io non ti amo?

Giacomo                            - Naturalmente.

Irene                                  - Che cosa mi rimproveri?

Giacomo                            - Nulla!... Va a fare i tuoi acquisti, va, te ne prego.

Irene                                  - No, spieghiamoci: preferisco.

Giacomo                            - E' inutile.

Irene                                  - Non faccio tutto il possibile perché tu sia felice?

Giacomo                            - Tutto quello che puoi.

Irene                                  - - Da che sono tua moglie, ho forse un altro pensiero oltre la tua felicità? La mia vita ha forse un altro scopo? Non mi chiedo sempre, prima di fare qual­siasi cosa, se tu sarai contento e se mi approverai?

Giacomo                            - Anche per il colore della tappezzeria, è esatto! Sei proprio una sposa devota e fedele. Che posso pretendere di più? Se non sono contento, vuol dire che sono incontentabile.

Irene                                  - Non ti capisco, Giacomo!

Giacomo                            - Non è colpa tua, ed io non ho da farli alcun rimprovero, te lo ripeto.

Irene                                  - (con stanchezza) Ma che devo fare, allora?

Giacomo                            - Nulla.

Irene                                  - Hai tutti i miei pensieri, lo sai.

Giacomo                            - A! no, perbacco! Non so nulla, io! Come vuoi che conosca i tuoi pensieri? Del resto, essi sono tuoi. I pensieri di ogni individuo appartengono all'indi­viduo. I tuoi non mi riguardano.

Irene                                  - Ma io non ti nascondo nulla! Nulla di cui tu debba tormentarti, te lo giuro... Non mi credi? Inter­rogami, allora...

Giacomo                            - Ci sono dunque delle cose che io non so?

Irene                                  - Cose che solo possono rassicurarti.

Giacomo                            - Parla! Ti ascolto. (Pausa) L'hai rivista?

Irene                                  - Sei pazzo!

Giacomo                            - Ti ha scritto?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Quando?

Irene                                  - Qualche tempo dopo il nostro ritorno! (Pausa) Due volte. Ho rimandate le lettere, senza aprir­le... Te lo giuro.

Giacomo                            - Come le hai rimandate?

Irene                                  - Per mezzo della persona che le aveva portate.

Giacomo                            - Probabilmente, hanno attesa la mia uscita per portartele.

Irene                                  - E' possibile, non so. Tu non eri in casa.

Giacomo                            - Quindi, non sai ciò che voleva?

Irene                                  - Rivedermi, senza dubbio.

Giacomo                            - Cosa te lo fa credere?

Irene                                  - L'ho supposto.

Giacomo                            - E' tutto?

Irene                                  - Dopo la seconda lettera, la sua cameriera mi ha attesa e mi ha parlato per la strada.

Giacomo                            - Ah!

Irene '                                 - Non era lei, però, che me la mandava. Poiché era ammalata - è un pezzo che è ammalata - aveva avuto il delirio tutta la notte e... sembra... che mi avesse chiamata... molte volte... Allora la cameriera, turbata, aveva creduto bene di venirmi ad avvertire.

Giacomo                            - E tu che hai fatto?

Irene                                  - Le ho solo detto di portarmi notizie l'indo­mani. Poi, le notizie sono state sempre migliori, e le ho detto di non ritornare più.

Giacomo                            - E poi?

Irene                                  - Non c'è stato altro, te lo giuro.

Giacomo                            - Perché non me ne hai parlato prima?

Irene                                  - Non volevo inquietarti. Nervoso come sei, ti saresti tormentato malgrado le mie assicurazioni. Avevo deciso d'aspettare ancora qualche giorno per dirtelo.

Giacomo                            - Perché?

Irene                                  - Dice che andrà per un lungo periodo a cu­rarsi in Svizzera. Desideravo, prima, che fosse partita.

Giacomo                            - Chi ti ha detto che partirà? La sua came­riera ?

Irene                                  - Sì. (Pausa) Sei più tranquillo, ora? Vedi che puoi aver fiducia in me.

Giacomo                            - Ma ho sempre avuto fiducia in te, Irene! Non ho mai dubitato che, al momento opportuno, tu avresti agito come hai agito. Ti eri impegnata, sposan­domi, a non rivedere più quella donna. Ero certo che non l'avresti rivista.

Irene                                  - Allora, che cosa è che ti preoccupa? Perché non sei felice?

Giacomo                            - Tu lo sei, forse?

Irene                                  - Io? (Pausa) lo sì, sono felice! Te l'assicuro. Non ho forse tutto per esserlo? Non abbiamo preoccu­pazioni, andiamo d'accordo, tu sei buono, generoso; che altro potrei desiderare?

Giacomo                            - Perché vuoi farmi credere che non ti manca nulla?

Irene                                  - Ma perché è vero.

Giacomo                            - No, non è vero. Tu non hai che trent'anni ed io non ne ho che trentacinque. La felicità, alla nostra età, non consiste in una vita di lusso, in collane di perle ed automobili. E' troppo presto. Ti manca d'amare, Ire­ne, come a me manca d'essere amato.

Irene                                  - Che vuoi che ti dica? Sei persuaso che non ti amo e...

Giacomo                            - Ah! se tu sapessi quanto ho sofferto prima di persuadermene. Se tu sapessi quante vane speranze ho nutrito. Ho sperato in tutte le forme dell'amore. La tenerezza, l'amicizia, sino nella più triste di tutte, la docilità. Ad una tua parola, ad ogni tuo atteggiamento, che interpretavo secondo il mio desiderio, riprendevo fiducia, ricominciavo a credere ad una possibile felicità. Ma adesso, tutte le illusioni non possono più servirmi... So che nulla posso su te. Sono incapace di renderti felice come di renderti infelice... Se potessi almeno farti soffrire.

Irene                                  - Lo puoi, continuando a dire simili sciocchezze.

Giacomo                            - Te ne prego, Irene, sai bene che non sono sciocchezze! A che serve chiudere gli occhi? Sai tu perché ho dato appuntamento, qui, a quella donna che è stata la mia amante, che mi ha amato, e che io ho fatto soffrire?

Irene                                  - Ma... Giacomo...

Giacomo                            - Per vedere l'effetto che ti avrebbe fatto, per vedere se tu fossi stata inquieta. Invece... ti ha fatto sorridere. Bel risultato!

Irene                                  - Volevi che piangessi?

Giacomo                            - Volevo vedere sino a che punto poteva giungere la tua indifferenza.

Irene                                  - E' forse colpa mia, se credo che tu mi ami e se non temo che tu possa ingannarmi?

Giacomo                            - Se tu mi amassi, avresti paura. Invece, tutto ti è indifferente.

Irene                                  - Soffrirei molto, invece.

Giacomo                            - E in che consisterebbe questa tua soffe­renza ?

Irene                                  - Sarei avvilita, triste! Mi pare che dopo un fatto simile, non vorrei più stare fra le tue braccia, come prima...

Giacomo                            - Ah! Ti piace, dunque, stare fra le mia braccia?

Irene                                  - (china il capo) Ma... sì-

Giacomo                            - Ma cara... credi che io sia cieco?

Irene                                  - (con sforzo) Mi sono mai rifiutata?

Giacomo                            - Hai molto coraggio... Ma amare... è bei altra cosa.

Irene                                  - Ti ho dato ciò che so darti. (Pausa) Del re­sto... (Guarda l'ora) E' tardi, devo andare. (Risale).

Giacomo                            - Irene.

Irene                                  - Che vuoi?

Giacomo                            - Perdonami... non volevo... ferirti... perdo­nami...

Irene                                  - (ritornando presso di lui) Perché sei così ingiusto?

Giacomo                            - Che vuoi... non posso rassegnarmi.

Irene                                  - Ma rassegnarti a che cosa? Che io non ti ami? Ma io ti amo! Sei tu che ammiro, sei tu che mi piaci, sei tu che io rispetto.

Giacomo                            - (malinconico) Sì, questo è vero.

Irene                                  - Amo forse un altro? No, non è vero? Dun­que? Se un anno fa ti avessero detto che tu avresti occupato il primo e l'unico posto nella mia vita, non saresti stato felice? Credi di non essere molto di più nel mio cuore, che non quella sera in cui venni a chie­derti di raccogliermi e di tenermi con te? Ti ricordi di quella sera?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - (sorridente) E, tre settimane dopo, del di­scorso del sindaco e di quella piccola cappella dove faceva tanto freddo, te ne ricordi?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Rimpiangi quello che accadde allora?

Giacomo                            - E tu?

Irene                                  - Ma no!

Giacomo                            - E' già qualche cosa!

Irene                                  - Allora... baciami.

Giacomo                            - Vuoi?

Irene                                  - Ma sì, lo voglio! (La prende fra le braccia e la contempla, immobile. Ella scorge sullo scrittoio una piccola sveglia e si sporge per vedere l'ora) Come? E' così tardi? Va bene quella sveglia?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Le tre e trentacinque. Il mio orologio ritarda, allora! Oh, che noia! Non avrò il tempo di passare dal tappezziere! (Egli la lascia) Presto, caro.

Giacomo                            - Cosa?

Irene                                  - Come, non mi baci?

Giacomo                            - Sei già in ritardo!

Irene                                  - Non importa.

Giacomo                            - Ma no, va.

Irene                                  - Che sciocco! Perché ho detto...

Giacomo                            - Va... va... (Le volge le spalle e si scosta).

Irene                                  - Come sei suscettibile! Mio Dio! Allora, a fra poco? Spero che non farai la corte a quella donna….

Giacomo                            - Grazie d'averci pensato.

Irene                                  - Me lo prometti, non è vero?

Giacomo                            - Ma si... sì... (Irene esce. Giacomo si siede, sfiduciato. Vede sullo scrittoio la lettera di Francesca, se la mette in tasca. Si alza, va a prendere in un cassetto un pacco che depone sullo scrittoio ed apre. Sono lettere. Ne legge una a caso. Suoneria. Rimette la lettera nel pac­co che depone in un cassetto. Giorgio entra).

Giorgio                              - La signora Meillaut.

Giacomo                            - Fatela entrare. (Giorgio, dopo un istante, introduce Francesca ed esce) Buongiorno Francesca. Gra­zie d'essere venuta. (Le bacia la mano).

Francesca                           - Sono venuta a prendere le mie lettere.

Giacomo                            - Vi ringrazio d'essere venuta.

Francesca                           - Perché non le avete consegnate alla mia cameriera? Era molto più semplice.

Giacomo                            - Ho preferito consegnarle nelle vostre mani. Mi pareva più sicuro. E poi, perché non dirlo? Volevo rivedervi.

Francesca                           - Davvero? E non vi siete chiesto, se desideravo rivedervi io?

Giacomo                            - Ho pensato che se vi fosse spiaciuto, non sareste venuta.

Francesca                           - Avreste potuto darmele prima della Vo­stra partenza, quelle mie lettere.

Giacomo                            - Me ne mancò il tempo.

Francesca                           - Infatti, siete partito cosi precipitosamente.

Giacomo                            - Ma voi non eravate certo inquieta per le lettere. Erano al sicuro, lo sapevate.

Francesca                           - Ah, vi sembra? E se vostra moglie avesse frugato nei vostri cassetti?

Giacomo                            - E' inverosimile.

Francesca                           - Non è dunque gelosa vostra moglie?

Giacomo                            - Affatto.

Francesca                           - Che fortuna. Non è in casa, spero.

Giacomo                            - No, è uscita.

Francesca                           - Meglio. (Avvicinandosi allo scrittoio) E' sua questa fotografia?

Giacomo                            - Sì.

Francesca                           - I miei complimenti.

Giacomo                            - Grazie.

Francesca                           - Perché non mi diceste la verità... l'ul­tima volta che fui qui?

Giacomo                            - La verità?

Francesca                           - Sì, che stavate per sposarvi! L'avrei preferito. Sarebbe stato più corretto; e poi, sarebbe stata anche una buona ragione.

Giacomo                            - Non ve lo dissi, perché non lo sapevo.

Francesca                           - Tre settimane dopo, i giornali annun­ziavano il vostro matrimonio. Non avete perduto tempo.

Giacomo                            - Una volta deciso...

Francesca                           - Era vostra amica d'infanzia?

Giacomo                            - Mia cugina.

Francesca                           - Tanto meglio. Vi amavate da sempre, dunque...

Giacomo                            - Dio mio...

Francesca                           - Oh, potete confessarmelo! Del resto, non so perché ve lo domando. Mi è indifferente! Vo­lete darmi le mie lettere?

Giacomo                            - Avete premura?

Francesca                           - Sì.

Giacomo ----------------- - Io, però, non vi domando le mie.

 Francesca                          - Le ho bruciate da un pezzo.

Giacomo                            - Non siete stata gentile.

Francesca                           - Perché conservarle?

Giacomo                            - Per rileggerle di tanto in tanto...

Francesca                           - . Avevo altro da fare. E poi, dimenticate che io ho un marito... ed anche geloso?

Giacomo                            - No!... A proposito, come sta?

Francesca                           - Benissimo. E' a caccia in Sologne.

Giacomo                            - Uomo felice.

Francesca                           - Oh! Non scherzate. Io l'amo molto e non vorrei davvero farlo soffrire.

Giacomo                            - Ne sono sicuro.

Francesca                           - Giacomo... le mie lettere?

Giacomo                            - Un momento. Abbiamo tante cose da dir­ci, prima.

Francesca                           - Non abbiamo proprio nulla da dirci. Inoltre, vostra moglie può rientrare da un momento all'altro e non ci tengo ad incontrarla... come lei, del resto, non ci terrà a vedere me.

Giacomo                            - Accomodatevi. Ella non ritornerà prima di un'ora e poi... non verrà in questa stanza.

Francesca                           - Che ne sapete?

Giacomo                            - Le ho detto che vi aspettavo.

Francesca                           - Glielo avete detto? Ed ha permesso?

Giacomo                            - Sì.

Francesca                           - L'avete abituata bene.

Giacomo                            - Dunque, accomodatevi e raccontatemi...

Francesca                           - Che cosa?

Giacomo                            - Tutto... da un anno.

Francesca                           - Che cosa volete sapere?

Giacomo                            - Chi amate?... Vi prometto che non lo confiderò a nessuno. E' forse Moreuil?...

Francesca                           - Mi seccate...

Giacomo                            - Davvero? Moreuil?... Che peccato... No, no, non avete protestato... non è Moreuil.

Francesca                           - Che noioso. (Ride).

Giacomo                            - Ah! Ridete?... Siete graziosa.

Francesca                           - Rido, perché dite delle sciocchezze; non certo per piacervi.

Giacomo                            - Non dico che possa interessarvi, ma certo vi piace che io vi trovi graziosa. Ebbene, vi trovo bella, più bella di sempre.

Francesca                           - Giacomo, ve ne prego, datemi le mie lettere e lasciatemi andare.

Giacomo                            - Ve le darò, se mi direte chi amate.

Francesca                           - Ma nessuno... Cioè mio marito.

Giacomo                            - Nessuno? E' vero?

Francesca                           - Ve lo direi.

Giacomo                            - (pensieroso) Francesca... se voi non amate nessuno, non potreste provare ad amare un po' me?

Francesca                           - Voi?... Grazie tante.

Giacomo                            - - Ho lasciato un così cattivo ricordo?

Francesca                           - Ah, sì!

Giacomo                            - Tuttavia, non ci siamo lasciati male. Siete voi che avete preso l'iniziativa della separazione. Ricordo pure che mi diceste delle cose graziose, andandovene.

Francesca                           - Per civetteria, mio caro. Non pensavate che "io singhiozzassi. Ho resistito sino all'automobile, ma poi...

Giacomo                            - (colpito) Davvero?...

Francesca                           - E poi, per molti altri giorni ancora. Sì, sì, so che è ridicolo... ma che volete... son fatta così!...

Giacomo                            - (commosso) Mia piccola Francesca!

Francesca                           - Vi sembra buffo, non è vero?

Giacomo                            - Anzi, carino... Francesca mia cara... Voi che sapete amare... amatemi ancora, ve ne prego.

Francesca                           - No, è finito, fortunatamente...

Giacomo                            - Che peccato. Se aveste voluto amarmi... anche un poco soltanto... avrei potuto amarvi anch'io. Molto.

Francesca                           - Voi? Ma povero Giacomo, non sapete neppure cosa sia l'amore.

Giacomo                            - Credete?

Francesca                           - Ne sono certa. L'amore per voi è un gioco divertente... e non sempre... Non c'è che un mo­mento che vi diverta...

Giacomo                            - Come se quel momento non contenesse tutti gli altri.

Francesca                           - E di vostra moglie, che ne fate? Non vi basta già più?

Giacomo                            - Volete non parlarne?

Francesca                           - Poverina. Come la compiango.

Giacomo                            - Non è da compiangere.

Francesca                           - Un anno. Nemmeno undici mesi! L'avete sposata da undici mesi e siete già in cerca d'avventure. Del resto sapevo che sarebbe finita così.

Giacomo                            - Davvero?

Francesca                           - Leggendo poco fa il vostro biglietto, non ho avuto un attimo di dubbio; ho capito subito ciò che volevate.

Giacomo                            - E siete venuta?

Francesca                           - Per le mie lettere.

Giacomo                            - E' vero, scusatemi.

Francesca                           - Ma ho capito che il vostro pensiero non era tanto di restituirmele, quanto di vedere se Vi amassi ancora. Vi conosco, Giacomo.

Giacomo                            - Molto male.

Francesca                           - E' così naturale. Dopo quel lungo viag­gio che vi ha tenuto occupato, rientrato a Parigi, avete cominciato ad annoiarvi. La vita coniugale, per un uomo come voi, è terribilmente monotona. Allora, vi siete guardato attorno per vedere con chi potevate distrarvi... Non avevate nessuna sottomano... Le mie lettere vi hanno riportato al mio ricordo e vi siete detto: « Quella buona Francesca!... Perché no?... Starà certo consuman­dosi d'amore per me, ricominciamo pure da lei! ». Sol­tanto, avete sbagliato strada. La buona Francesca non vi ama più.

Giacomo                            - Tanto peggio.

Francesca                           - Vi meraviglia che 3i possa non amarvi?

Giacomo                            - (triste) Ma no, Francesca, non mi mera­viglia affatto, è destino...

Francesca                           - (dopo una pausa) Dunque?

Giacomo                            - Vi dò le vostre lettere. (Prende le lettere e le dà a Francesca) Sono tutte.

Francesca                           - (guardandolo) Che avete? Siete triste? Sono io la causa?

Giacomo                            - Ma no. Non è nulla. Sono triste perché... perché stiamo per lasciarci ed ora, davvero, non ci rive­dremo più.

Francesca                           - Che ve ne importa?

Giacomo                            - Mi mancherete, Francesca.

Francesca                           - Avete sentito la mia mancanza... in un

Giacomo                            - Forse...

Francesca                           - Che storia è questa? Me l'avreste detto. Potevate scrivermi, non ve l'avevo proibito.

Giacomo                            - E' vero...

Francesca                           - Nemmeno una parola. Non una carto­lina. E vorreste che vi amassi ancora? Sarei troppo sciocca, confessatelo.

Giacomo                            - Mi conoscete male, Francesca.

Francesca                           - Di chi la colpa?

Giacomo                            - Mia, lo riconosco.

Francesca                           - Se siete capace d'amare, perché non me l'avete mai dimostrato? Perché avete sempre avuto l'aria di disprezzare il mio amore? Un giorno rimpiangerete quel tempo.

Giacomo                            - Lo rimpiango già, state tranquilla.

Francesca                           - Non ancora, siete troppo giovane, ma...

Giacomo                            - Non potete immaginare come lo rimpian­ga, Francesca.

Francesca                           - Siete veramente l'uomo più incompren­sibile che io conosca. Con voi, le cose capitano quando non si aspettano... ed è troppo tardi.

Giacomo                            - Siete sicura che sia troppo tardi? (Le prende la mano) Francesca...

Francesca                           - Lasciatemi...

Giacomo                            - Siete sicura che in fondo... nel vostro intimo... non ci sia una piccola fiamma... che si potrebbe rianimare... con molta cautela... con infinite precauzioni?

Francesca                           - No, non voglio. (Si alza) Dove sono le mie lettere?

Giacomo                            - Volete farmi un ultimo piacere?

Francesca                           - Quale?

Giacomo                            - Poiché tutto è finito, perché stiamo per dir. ci addio, e non ci rivedremo più... lasciate che vi baci...

Francesca                           - Siete pazzo.

Giacomo                            - Ve ne supplico. Vorrei vedere ancora una volta, una volta sola... i vostri occhi...

Francesca                           - I miei occhi?...

Giacomo                            - Non gli occhi di adesso, ma quelli di un tempo: gli occhi che io ricordo...

Francesca                           - I miei occhi che chiedono grazia...

Giacomo                            - (accostandosi a lei) Sì: quelli! Voglio ri­vederli.

Francesca                           - No!

Giacomo                            - Dopo ve ne andrete. Non vi tratterrò più; prometto; giuro! Accordatemi questa gioia. (Vuole abbracciarla).

Francesca                           - (difendendosi) No, non voglio... Lascia­temi.

Giacomo                            - Francesca.

Francesca                           - Lasciatemi, ve ne prego, non voglio! (De-bolmente) Non voglio!... Non... (Si baciano. Essa si ab­bandona. Il bacio lunghissimo la lascia sfinita, la testa rovesciata sul petto di Giacomo, gli occhi chiusi).

Giacomo                            - (chinandosi su di lei, a mezza voce) Che cosa bella...

Francesca                           - (debolmente) Che cosa?...

Giacomo                            - Una donna...

Francesca                           - (svincolandosi) Siete soddisfatto? Avete avuto ciò che volevate? Ero tranquilla, vi avevo quasi dimenticato... Mi avete fatto venir qui per avere il pia­cere di tormentarmi ancora... Ah! Non so che cosa mi farei!... Sapevo che sarebbe andata così... lo sapevo...

Giacomo                            - (sorridendo, avvicinandosi) Mia piccola cara...

Francesca                           - No, no, non vi avvicinate. Ve ne sup­plico! Avete voluto vedere se conservavate il vostro potere... Ora l'avete visto. Deve bastarvi!

Giacomo                            - Credete che possa bastarmi?

Francesca                           - Vorreste ancora farmi soffrire?... Datemi le mie lettere; voglio andarmene.

Giacomo                            - Ve le porterò a casa vostra.

Francesca                           - No.

Giacomo                            - Fra poco. ,

Francesca                           - Non voglio.

Giacomo                            - Verso le cinque sarete a casa?

Francesca                           - A casa mia? Siete pazzo?

Giacomo                            - Non mi avete detto che siete sola a Parigi?

Francesca                           - Ma non voglio che veniate.

Giacomo                            - (la prende per le braccia e la forza a guardarlo) Non volete? E' vero?

Francesca                           - (supplichevole) No.

Giacomo                            - Francesca!

Francesca                           - (chinando il capo) Oh, ricomincerà...

Giacomo                            - Che cosa ricomincerà?

Francesca                           - Ma tutto, come prima...

Giacomo                            - No! Non come prima... Vedrete.

Francesca                           - Che cosa ci sarà di mutato? Credete che Si possa cambiare?

Giacomo                            - S'imparano tante cose...

Francesca                           - (sorridendo) Viaggiando? Che cosa si impara?

Giacomo                            - Ad amare le persone della propria terra, le persone che capiscono ciò che dite. E' faticoso par­lare, quando non si è capiti... ci si stanca.

Francesca                           - (sorpresa) Povero Giacomo!

Giacomo                            - Non compiangetemi; ho ritrovato il mio paese.

Francesca                           - (sorridendo) Sono io?

Giacomo                            - Non lo credete?

Francesca                           - (accostandosi a lui, con tenerezza) Sì.

Giacomo                            - (stringendola fra le braccia) Noi ci si ca­pisce, non è vero?

Francesca                           - Sì. (Si guardano in silenzio) Giacomo, è terribile: vi amavo già quando eravate scortese, che cosa accadrà ora se sarete buono?

Giacomo                            - Mi amerete di più.

Francesca                           - Temo di non sapervi tenere.

Giacomo                            - Sì, questa volta mi terrete!

Francesca                           - (vicino a lui) Mio caro... sono felice...

Giacomo                            - E' vero? (Si sente il rumore di una porta. Giacomo alza il capo, sorpreso).

Francesca                           - Chi sarà? (Si separano).

Giacomo                            - Certo, mia moglie... Ma state tranquilla, non entrerà. (Ascoltano in silenzio) Vedete?... Siete ras­sicurata?... Potete uscire, non incontrerete nessuno.

Francesca                           - Ma... verrete?

Giacomo                            - Certo... verrò.

Francesca                           - Fra poco?

Giacomo                            - (baciandole la mano) Fra poco. (Ella esce. Egli l'accompagna; poi rientra con Giorgio).

Giorgio                              - La signora mi ha detto di avvisarla non appena il signore sarà libero.

Giacomo ----------------- - (contrariato) Ebbene, andate... Poi, porta­ temi soprabito e cappello.

 Giorgio                             - Bene, signore. (Esce. Dopo un momento entra Irene).

Giacomo                            - Sei già tornata? Hai fatto presto. E quel quadro?

Irene                                  - Quale quadro?

Giacomo                            - Quello che volevi comperare... Non l'hai preso?

Irene                                  - No... Giacomo, vorrei parlarti. Posso? (Entra Giorgio con soprabito e cappello) Ah! Esci?

Giacomo                            - Sì, ma per cinque minuti. (Al domestico) Lasciate. (Giorgio esce) Che vuoi dirmi?

Irene                                  - Aspetterò che tu torni, ti farei perdere tempo.

Giacomo                            - (la guarda meravigliato dell'aspetto strano di lei) Che hai?

Irene                                  - Ti dirò poi...

Giacomo                            - Ma no! Dì subito...

Irene                                  - Giacomo, vorrei partire... lasciare Parigi...

Giacomo                            - Lasciare Parigi? E perché? Per andare dove?

Irene                                  - Potremmo andare a Montrel per qualche tempo. Papà sarebbe contento, me l'ha offerto tante volte...

Giacomo                            - Ma perché lasciare Parigi? Se non è neanche un mese che siamo tornati. Cos'è questo ca­priccio? Spiegati.

Irene                                  - Non è un capriccio... Speravo che tu capissi!

Giacomo                            - Non capisco...

Irene                                  - Non devo restare qui...

Giacomo                            - (violento) Ma infine, perché?

Irene                                  - (tremante) L'ho rivista!

Giacomo                            - Ah! (Pausa) Dove l'hai rivista?

Irene                                  - Nello studio di Aproseine. Ella sapeva che dovevo andarci e... m'aspettava...

Giacomo                            - Come l'ha saputo? Conosce forse Apro­seine?

Irene                                  - Lei sa tutto!

Giacomo                            - E le hai parlato?

Irene                                  - Mi ha parlato.

Giacomo                            - Che ti ha detto?

Irene                                  - Non so più...

Giacomo                            - Non vuoi dirlo?

Irene                                  - Non lo ricordo, te l'assicuro... Ho ascoltato appena...

Giacomo                            - Ti ha chiesto di rivederti?

Irene                                  - Sì.

Giacomo                            - Che cosa le hai risposto?

Irene                                  - Che non volevo.

Giacomo                            - E allora?

Irene                                  - Mi ha detto che aspetterà sino a quando mi deciderò ad andare...

Giacomo                            - Non va dunque più in Svizzera? E' gua­rita?...

Irene                                  - Ha detto che le è indifferente morire...

Giacomo                            - Non morirà, sta tranquilla. E' il solito ricatto. Ma, suo marito non vive più con lei?

Irene                                  - L'ha abbandonato.

Giacomo                            - Ah!

Irene                                  - Giacomo... è vero che un anno fa egli venne a trovarti?

Giacomo                            - Sì, come l'ha saputo?

Irene                                  - Non me l'ha detto. (Pausa) Fu in seguito a quella visita che lo ha lasciato.

Giacomo                            - Tanto meglio per lui. Ora, con lei non c'è nessuno che possa accompagnarla?

Irene                                  - Nessuno. (Trattenendo la sua emozione) E' sola... sola...

Giacomo                            - (dopo averla guardata) Ah! E' forte, bisogna riconoscerlo. (Irene alza le spalle) Non è forte, se è riuscita a sconvolgerti a tal punto? Di primo ac­chito?

Irene                                  - E che ne sai tu, se lei non era più scon­volta di me?

Giacomo                            - Naturalmente, ciò fa parte della « mise-en-scène ». Ciò che mi meraviglia è che, vedendoti in que­sto stato, ti abbia lasciata andare, e non abbia cercato di trattenerti.

Irene                                  - Credi che non abbia tentato? Per poter andare, ho dovuto prometterle che andrò subito da lei.

Giacomo                            - E ci vai?

Irene                                  - Sai bene che no!

Giacomo                            - Avrai coraggio?... Quanto potrai resi­stere ?

Irene                                  - Non so. E' per questo che ti chiedo di partire.

Giacomo                            - Ebbene, parti! Chi te l'impedisce? Non hai bisogno di me per questo.

Irene                                  - Tu non verrai? Perché?

Giacomo                            - Vuoi sapere perché? Guardati: quell'aria sperduta, quegli occhi cerchiati quelle mani tremanti, perché l'hai rivista... E' un anno che vivo vicino ad una statua ed è bastato che quella donna ricomparisse, perché la statua si animasse, divenisse una creatura viva, capace di soffrire! Ebbene, io ri­nuncio. Capisci? Rinuncio! Ti ho amata più di tutto al mondo, lo sai, te l'ho provato. Fino a quando ho potuto sperare che tu potessi amarmi, come devono amarsi un uomo ed una donna, con il cuore e con i sensi, ho accettato di montare la guardia vicino a te. Ma adesso, basta! Rinuncio a questo compito ingrato e inutile. Pensa a te stessa, non m'interessi più. E' finita. Sono stanco di correre dietro ad un fantasma. Lo sapeva Aiguines, quando mi diceva: « Lasciala, togliti dalla sua strada. Ella non è per te. Esse non sono per noi». Aveva ragione! Fortunatamente, ci sono del­le donne per noi!

Irene                                  - La signora Meillaut, forse?

Giacomo                            - Sì.

Irene                                  - Ecco la mia ricompensa per aver lottato tanto.

Giacomo                            - Sei tu che sei venuta a cercarmi. Dovevi dirmi che non potevi amarmi.

Irene                                  - E che ne sapevo io? Ho fatto quanto ho potuto per amarti. Parli sempre di quanto hai fatto tu! Ed io? Hai mai saputo nulla delle mie rivolte, tu? Te ne sei forse occupato? Mi amavi, sì, ma a modo tuo.

Giacomo                            - Attendevi da me un amore platonico?

Irene                                  - Attendevo più tenerezza e meno desiderio.

Giacomo                            - Tu lo odii il mio desiderio, è vero? Sii franca, almeno! E poi, taci, non ne vale la pena. E' un pezzo che lo so.

Irene                                  - (senza guardarlo) Ah!

Giacomo                            - Non lo si sarebbe creduto, nevvero? Eb­bene, sii felice! Ora ne sei sbarazzata. Non t'imporrò più il mio desiderio,, sta tranquilla. Puoi respirare, finalmente... Basta con le corvées. E' finita! Non mi ringrazi?

Irene                                  - (dopo una pausa) Giacomo, hai altro da dirmi ?

Giacomo                            - No! Credo che sia stato detto tutto ciò che si poteva dire! Tutto è molto chiaro, adesso! Farai ciò che vorrai... (Prende cappello e soprabito) Tutto mi sarà indifferente. Buonasera! (Esce. Ella lo segue con lo sguardo e resta immobile un lungo momento, forse spe­rando che egli ritorni. Poi si siede, pensosa, la fronte tra le mani. Entra da destra, Giuseppina, la cameriera, con un mazzo di fiori incartati).

Irene                                  - Che c'è?

Giuseppina                         - Hanno portato questi fiori per la si­gnora. (Irene svolge la carta. E' un mazzo di viole come quello del primo atto).

Irene                                  - Chi li ha portati?

Giuseppina                         - Il fioraio, signora.

Irene;                                 - Ah! (Pausa) Non vi ha consegnato una let­tera?

Giuseppina                         - No, signora, nulla!

Irene                                  - Sta bene, Giuseppina, grazie! (La cameriera esce. Irene contempla le viole. A poco a poco i suoi occhi si riempiono di lacrime. Avvicina i fiori al viso, alle labbra, li preme contro le guance. Il suo sguardo, freddo, si volge verso l'uscio da dove Giacomo è uscito, poi ritorna sui fiori e li fissa lungamente. Infine, inca­pace di resistere oltre al richiamo che da essi emana, si alza, va all'uscio di sinistra, sì volge ancora come se esitasse, poi esce bruscamente. Scena vuota per qualche istante, poi dal fondo entra Giacomo, il quéle si ferma sulla soglia, cerca con lo sguardo Irene, chiude l'uscio, si toglie cappello e soprabito e si siede allo scrittoio ri­flettendo. Si sente il rumore della porta d'entrata che si richiude. Giacomo solleva il capo e chiama dolcemente)

Giacomo                            - Irene?... (Va all'uscio di sinistra) Irene? (Entra nella camera, poi ritorna con l'aria sorpresa e suona. Entra Giorgio) La signora è uscita?

Giorgio                              - Sì, signore, proprio ora...

Giacomo                            - Ah! (Pausa) Non ha detto nulla, uscendo?

Giorgio                              - No, signore.

Giacomo                            - Sta bene, grazie. (Si siede. Giorgio risale, poi, vedendo il cappello e soprabito, si volge).

Giorgio                              - Ilsignore non ha più bisogno della sua roba? Posso ritirarla? (Giacomo, assorto nei suoi pen­sieri, non l'ascolta. Dopo un momento alza il capo e scorge il domestico che attende).

Giacomo                            - Che volete?

Giorgio                              - Chiedevo se potevo portar via il soprabito e il cappello.

Giacomo                            - (dopo una pausa) No. (Alzandosi) Date­meli... esco anch'io. (Il cameriere l'aiuta ad indossare il soprabito, mentre cala la tela),

FINE