La sacra rappresentazione
di Santa Marina
Commedia in un prologo e otto scene
Di TULLIO PINELLI
PERSONAGGI
Personaggi del dramma:
La bimba Marina
Il monaco Marina
Il monaco Eugenio
Il Locandiere
La Figlia del Locandiere
Il padre Abate
Il Monaco cuciniere
Un Monaco
Un secondo Monaco
L'Amante
Lo Sposo
I Monaci
Gli Invitati alle nozze
Personaggi del coro:
Lo Scrittore L'Ingegnere
II Benedettino
Il Prete secolare
Commedia formattata da
PROLOGO
La scena è immersa nel buio. Avanti, da un lato, stanno seduti in semicerchio i quattro personaggi del coro, tutti in abiti moderni. Sono un Benedettino, un Prete secolare, che tiene un basco in testa e una sciarpa di lana nera buttata intorno al collo, e due laici: lo Scrittore e l'Ingegnere.
Lo Scrittore - Ecco, « paucorum palmorum fecisti dies meos, et vita mea nihil est coram te; ut halitus tantum stat omnis homo ».
Il Prete secolare - « Ut umbra pertransit homo ».
Il Benedettino - « Inaniter tantum tumultua-tur; coacerunt, nec scit quis percipiat ea ». Ecco: hai dato ai miei giorni la lunghezza di una mano, e la mia vita è come un nulla di fronte a te. Ogni uomo non è che un soffio; passa come un'ombra ogni uomo; vanamente si agita, ammassa, e ignora chi raccoglierà. (Breve pausa).
Lo Scrittore - Io ho sempre amato le cose del mondo, in un modo molto terreno; ma la loro caducità non ha mai smesso di darmi un senso di angoscia. In principio era più vago; restava nascosto in fondo all'animo; soltanto a tratti, più sovente durante la notte, si rivelava all'improvviso e mi spauriva. Ma gli anni passano; e si scopre che persino il ricordo delle cose lontane è incerto e faticoso, come di cose sognate. Amori, affanni, gioie, rancori sono scivolati via, non è rimasto più niente. Il pensiero della morte mi è diventato familiare. Mi succede di interessarmi alle piante, che saranno presto le compagne del mio corpo. Ho visto morire amici cari e parenti; il giorno della morte è sempre meno remoto. Forse la cosa definitiva che si cerca dietro la caducità terrena è questa: l'incontro, oltre la morte, con l'eterno. L'inconoscibile. Dio. Allora, tutto quello che non vale ora a prepararci a questo incontro, e anzi ce ne distrae, appare veramente superfluo e vano.
Il Benedettino - « Tutti i nostri giorni sono passati nella tua collera, abbiamo terminato i nostri anni come un sospiro ».
Lo Scrittore - Ero in queste condizioni di spirito, quando mi accadde di conoscere la storia di santa Marina. (Prende un volume e lo mostra). È la storia di una santa molto antica; una ragazza di 1400 anni fa. Sta negli « Acta Sanctorum » dei Bollandisti, al volume quarto, il volume del mese di luglio, e non è più conosciuta e ricordata da nessuno. Forse i fatti che si raccontano di lei sono in parte leggenda, ma non importa; quello che importa è che siano stati raccolti e narrati come prova di santità. Vorrei parlarvene, perché in principio io non l'ho compresa, anzi, quel racconto, in principio, mi è apparso assurdo e quasi rivoltante. Noi non ci conoscevamo, prima di questa sera; per caso ci troviamo riuniti nella foresteria di questo convento, dove tutti e tre siamo venuti a cercare un poco di silenzio e di solitudine, sfiniti dalla nostra vita secolare assillante; ma i quesiti, le emozioni e i dubbi che la storia di santa Marina solleva non possono non toccarci tutti, se siamo convenuti qui dentro. I monaci si sono già ritirati a dormire nelle loro celle, fino alla veglia per la preghiera notturna; noi, che non ne abbiamo l'obbligo come loro, possiamo intrattenerci ancora un poco; e leggendo la storia di santa Marina vedere, insieme, come si debba intenderla, e applicarla, a ciascuno di noi. (Al Benedettino) Non so se il padre foresterario vorrà rimanere con noi ad aiutarci.
Il Benedettino - Non conosco la storia di santa Marina, e la conoscerò volentieri. (Sorridendo) Il mio sonno non conta: tanto mi alzo col sonno e me lo trascino sempre appresso, da un giorno all'altro. (Apre il volume e legge) « De sancta Marina virgine. Primus: Pater sollicitus de salute fìliae Marinae. Erat quidem saecularis, nomine Eugenii, ha-bens unicam filiam parvulam. Ipse converti cupiens, commendavit eam cuidam parenti suo et abit ad monasterium, quod longe erat de civitate miliaria triginta duo ». (Traduce dal volume) Santa Marina Vergine. Primo: Il padre ansioso della salvezza della figlia Marina. Vi fu un laico, di nome Eugenio, che aveva un'unica figlia piccoletta. Desiderando convertirsi, la affidò a un suo parente, e si ritirò in un monastero che distava dalla città trentadue miglia. E ammesso nel monastero, vi ci compiva tutti i lavori necessari; cosicché l'Abate portava maggiore affetto a lui, che non agli altri monaci, tanto egli era fedele e obbediente. Successe però dopo un certo tempo che egli si ricordò con amore pietoso della figlia sua e cominciò ad affliggersene e a contristarsi... Ciò vedendo, gli disse l'Abate: « Che hai, fratello? Dimmelo, Dio che tutti consola, ti aiuterà ». Quegli allora, inginocchiatoglisi davanti e piangendo disse: « Ho, nella città, un figlio, che lasciai piccoletto e mi affliggo pensando a lui ». E non volle dire che era una fanciulla. Disse allora l'Abate: « Se lo ami, va', e portalo qui con te ».
SCENA PRIMA
Durante le ultime battute si illumina la scena. È notte. Il monaco Eugenio è seduto su un sasso e sta parlando.
Marina è semisdraiata a terra, a poca distanza da lui. È una fanciulla sui dodici anni. Sta appoggiata a un gomito e ascolta in silenzio le parole del padre, dal quale non distoglie lo sguardo. Un mantello la ricopre a mezzo; evidentemente si era sistemata per dormire.
Eugenio - (sommessamente, pianamente: con ardore contenuto). Noi non siamo nati santi. Qualcuno riceve la pienezza della grazia fin dal seno della madre, secondo i disegni di Dio; ma noi dobbiamo scoprire la strada del cielo un poco alla volta; saliamo i gradini uno alla volta, con fatica. Non abbiamo che una guida, in questa fatica: .l'amore di Dio; e di questo non si può parlare; non ci sono parole per dire cos'è, come nasce, quando, tanto è misterioso, tanto pare assurdo a chi non lo ha provato e sta nel mondo; perché non si può amare Dio senza rinnegare se stessi. (Breve silenzio) La ragione di questo è veramente il più alto mistero. Ma nessuno che abbia amato se stesso, il mondo, le cose del mondo, è mai giunto a Dio. Sappiamo che Dio è circondato di santi, e che tutti i santi hanno rinnegato se stessi; e forse nemmeno questo, ci occorre sapere; basta abbandonarsi all'amore di Dio, e tutto il resto viene da sé. Non c'è più limite né all'amore né alla rinuncia. Si dice: delle cose del mondo io prenderò solo quel poco che mi è necessario per vivere rettamente. E lascerò il resto. Non è male amare la moglie, la casa, il lavoro, la patria; ma presto t'accorgi che in tutte queste cose tu ami ancora te stesso, le tue passioni, le tue preferenze. Non hai ancora evitato l'ira, l'orgoglio, non hai evitato, soprattutto, di essere sempre lo stesso. Non puoi vivere nel mondo e odiare le cose del mondo. È strano! Cristo lo ha detto e pochi lo intendono: « Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, mi segua. Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà. Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me ». Per vivere veramente in Dio, scopri che devi morire. Devi diventare come i morti, che non vedono, non sentono, non si lamentano. Scopri che devi ucciderti, respingere giorno per giorno persino i pensieri che la tua natura ti suggerisce, e non rimpiangerli, e anzi rinunciarvi con gioia, perché soltanto in questa morte trovi la vera vita: eppure nemmeno questo è ancora sufficiente. C'è qualcosa più che morire: morire crocifisso. (Pausa. Eugenio si volge lentamente a guardare Marina che lo fissa in silenzio, come affascinata, sorridendogli in silenzio) Io forse non so parlare alle ragazze della tua età. Forse sto dicendo cose che tu non puoi ancora capire. Ma se mi ascolti con amore, credo che puoi capire. Persino Dio si arriva a capirlo, non con l'intelletto, ma con la preghiera, perché la preghiera è un atto di amore. E la notte e il silenzio aiutano. Cosa significa finire la vita nel tormento, disprezzati da tutti, senza voler difendersi dalle calunnie e dallo scandalo - com'è morto Gesù - puoi capirlo. Chi non lo capisce? È facile arrivarci con l'intelletto e in uno slancio d'orgoglio, ma pochi - i santi - ci arrivano con umiltà, per amore di Dio, e sanno persistervi. Niente può ripugnare di più alla natura umana. E la nostra natura, al rinnegamento in sé, non smette mai di ribellarsi; non si rassegna mai. (Si interrompe, quasi bruscamente; sorride) Ma la notte passa, manca poco al mattino, e noi seguitiamo a parlare. Tu hai camminato tutto il giorno, oggi dobbiamo ancora fare molta strada su queste montagne. Prova a dormire, Marina.
Marina - (con un sorriso). Non posso.
Eugenio - (ammiccando, con un sorriso). È troppo duro, per terra?
Marina - (con un sorriso giocondo). Sì, è troppo duro. Non ho mai dormito fuori. È bello.
Eugenio - (quasi sorridendo di se stesso). Io sono come quello che ha scoperto una fonte e ha fretta di dissetare i suoi cari. Non avevo più pace, pensando che mi eri stata affidata e non potevo farti parte di ciò che avevo scoperto. Quando ti ho lasciata, non sapevo bene che cosa venivo a cercare in queste solitudini. Avevo desiderio di quiete, di riposo come lo intende il mondo: tua madre era morta, avevo visto periodi di pace e tempi di guerra, della vita più niente mi attirava. (Si interrompe bruscamente; chiede) Non vuoi dormire, Marina?
Marina - (con un sorriso, fissandolo). No. Parliamo.
Eugenio - (riprende subito). Oggi tu vedrai il nostro monastero; è un posto deserto come questo; si lavora in silenzio, si mangia in silenzio; di notte, quando ci alziamo per pregare, non si sente né un rumore né una voce. Dei fratelli, qualcuno è più giovane, qualcuno è più vecchio, ciascuno è diverso dall'altro, ma tutti hanno la stessa attitudine, come custodissero dentro di sé un mondo segreto. Io sono arrivato in mezzo a loro come un naufrago, con l'animo pieno di affanni e di rancori terreni, di triste amarezza umana; cercando una quiete che è soltanto egoismo; e mi sono trovato innanzi a questa cosa meravigliosa: la contemplazione di Dio e la preghiera. Gli antichi padri si ritiravano nel deserto, dentro una grotta o una capanna, e ci restavano per anni, per tutta la vita, da soli. San Benedetto era poco più vecchio di te e ha passato tre anni in una grotta da solo. Nessuno di noi sa vivere come gli antichi eremiti; nessuno è santo, di noi, e se c'è un santo, non lo riconosciamo; ma la ragione del nostro silenzio, della nostra separazione dal mondo, è quella stessa pregare e contemplare Dio. Perfino la mortificazione di sé non sarebbe che egoismo e orgoglio se non avesse questo scopo. Marina, è veramente meraviglioso vivere per pregare. Non c'è altra vita; il resto è inganno. Vuol dire, non chiedere qualcosa a Dio; Dio sa di che cosa abbiamo bisogno. Gesù lo ha detto; vuol dire adorare Dio in ogni atto e in ogni istante, con l'animo pieno di pace e purificato da ogni passione. È un esercizio duro, pregare così; non per niente gli antichi eremiti sceglievano il deserto, il silenzio perfetto, e si maceravano il corpo ben più di noi; e arrivare alla perseveranza ininterrotta della preghiera è cosa umanamente quasi impossibile. È uno stato perfetto, vicino all'immortalità; chi lo raggiunge, ha reso la propria anima quasi incorruttibile, come sarà dopo la resurrezione. Allora i confini fra materia e spirito spariscono, il miracolo perpetuo circonda la creatura, e il Cristo stesso vive in lei. (Pausa. Più sommesso) TI limite che divide l'orgoglio temerario dall'amore di Dio, è visibile soltanto a Dio; eppure ciascuno di noi ha il diritto di dire: «Perché non anch'io?». I santi sono uomini come noi. Ma ormai il giorno sta nascendo; presto potremo metterci in cammino. (Una pausa. Marina, come ridestandosi da un sogno, volge attorno lo sguardo) Guarda: dietro quelle cime il cielo è bianco. Si incominciano a vedere le nebbie, in fondo alla valle; vedi laggiù quella striscia che sembra di latte?
Marina - (come rapita). Non avevo mai visto il mattino a quest'ora. (Eugenio si volge a guardarla; si sorridono).
Eugenio - (a mezza voce). Tu ti ricordavi di me?
Marina - (a mezza voce). Non tanto.
Eugenio - Quando mi hai visto arrivare sei diventata pallida; tremavi tutta. (Marina distoglie in silenzio lo sguardo da lui, con un sorriso contenuto) Mi hai riconosciuto subito?
Marina - Sì.
Eugenio - Anch'io ti ho riconosciuta subito; e sei molto cambiata. (Breve silenzio) Adesso tu sei con me. (Si avvicina, le prende una mano) Alzati, è ora. (Marina gli tende la mano e si alza; essi rimangono qualche istante con la mano in mano) Vedi come nasce rapidamente il sole? Tocca già quella vetta. (Lascia la mano di Marina e toglie da un sacco un abito da ragazzo, giubbetto e calzoni, che le tende continuando a dire) Cambia il vestito e partiamo. (Marina, con docilità, quasi festosa, prende a mutarsi d'abito, si sfila il grazioso vestito da fanciulla, infila i calzoni e la giubba) Abbiamo, al monastero, un carro, con un paio di buoi. Sono io che lo porto in paese per caricare ciò che occorre. (Sorride, ammiccando) L'Abate sa che ero abituato a essere servito, mi ha messo a servire. Tu verrai con me, se l'Abate permetterà; o forse dovrai lavorare nell'orto, con frate Gregorio. La notte, dormirai nella mia cella. (Si volge, la guarda; le sorride, ammiccando, ma con una tenerezza lievemente ansiosa) Ti ricorderai di non dire a nessuno che sei una bambina?
Marina - (con un sorriso festoso, ammiccando a sua volta). Sì.
Eugenio - E che il tuo nome, adesso, è Marino, te lo ricorderai?
Marina - Marino; sì. (Marina ora sta di fronte al padre, vestita da ragazzo. Eugenio la guarda, sorride).
Eugenio - Marino, vieni. Tagliamo i capelli. (Marina si avvicina subito ad Eugenio che ha tratto dal sacco un paio di forbici e si appresta a tagliare i lunghi capelli) Io sono con te, non aver timore. Se il lavoro ti sembrerà pesante o la vita faticosa, ti aiuterò.
Marina - (con un sorriso di gioiosa fiducia). Il Signore mi vuole bene, sa che valgo poco, non mi manda delle cose troppo difficili. (Eugenio le ha tagliato i capelli. Marina si volge, prende la lunga treccia dalla mano di lui, la guarda e la mostra al padre con semplice ammirazione, senza ombra di tristezza) Guarda che bei capelli. Sembrano d'oro, lo sono fortunata, non son brutta, ho avuto un buon carattere. (Con un salto grazioso, infantile, piroetta su se stessa tre o quattro volte, in tondo, facendo roteare a braccio teso la chioma recisa. Si ferma: ride, un po' ansante) Non pareva un raggio di sole? (Si avvicina a un arbusto, vi appende la chioma recisa) La appendo qui; così la muoverà il vento. (Prende l'abito multicolore che ha smesso, lo piega con cura, lo mostra al padre) Vedi come è bello? Questi ricami li ho fatti io; anche gli altri abiti miei, li ho tutti ricamati io. (Mette l'abito sotto una roccia, ben piegato; ha un attimo di preoccupazione) Si guasterà tutto. (Si risponde, col solito gioioso ottimismo) Tanto io cresco, presto non mi andrebbe più bene. (Si volge attorno a guardare il posto: si bacia la punta delle dita; ne sfiora la roccia sotto la quale ha dormito, con te nerezza gioconda) Addio, pietra. (Sorridendo al padre come per giustificarsi) L'ho sentita premere sulla schiena tutta la notte, mi ha fatto compagnia. Io voglio bene ai posti dove mi fermo.
Eugenio - (sorridendole). Prendi quei fiori,
Marina - Li portiamo ai fratelli. (Marina si china a raccogliere i fiori, poi corre a raggiungere Eugenio che la aspetta) Andiamo. (Eugenio prende la mano di Marina e si avvia con lei. Fatti alcuni passi, Marina volge lo sguardo in su verso il padre, guardandolo con infinita e lieta tenerezza; poi piega la guancia contro la mano di lui).
Marina - (a mezza voce). Papà. (Eugenio volge lo sguardo in quello di lei, le sorride e continua a salire; conducendola con sé. La scena si oscura).
Il Benedettino - (leggendo). « E la condusse con sé, e le mutò il nome, chiamandola Mari no. E la tenne presso di sé, ed essa studiava e lavorava nel monastero, e nessuno dei monaci si avvide che era una fanciulla, e tutti la chiamavano Marino. Ed egli ogni giorno la ammaestrava a lungo sul regno di Dio. (Breve pausa) Ma quando essa raggiunse i diciassette anni, il padre di lei venne in punto di morte ».
SCENA SECONDA
Si illumina la scena.
Eugenio è steso sul suo giaciglio. Ha terminato di confessarsi al padre Abate, un vecchio monaco dal volto scarno e dal rigido tratto, che pronuncia su di lui la formula dell'assoluzione.
L'Abate. « Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti ».
Eugenio - (si segna. Poi dice con voce arrochita, ma pacata). Padre Abate, vorrei parlare con mio figlio. (L'Abate fa un cenno di assenso ed esce. Poco dopo entra con ansiosa impetuosità un giovane monaco, esile e bianco: Marina . Essa si ferma subito, in silenzio, fissando il padre. Eugenio non si volge. Tiene lo sguardo nel vuoto, a lungo. Marina gli si avvicina; gli prende la mano, la preme contro la propria guancia. Un pianto calmo e silenzioso le riga il volto. Infine Eugenio gira gli occhi verso di lei, guardandola con un luminoso sorriso di tenerezza. Con voce sommessa) Non ho confessato la verità. Non sanno chi sei. (Marina alza lo sguardo in quello di lui, fissandolo in silenzio. Breve pausa) Presto non potrò più parlarti. L'agonia è dura: la lingua s'inceppa; si perde la mente, e la morte è venuta prima di quello che credevo. (Con un pallido sorriso) Come succede sempre. Tu non dubitare di niente; resta qui. Quando ti ho condotto con me, pensavo che ti avrei lasciata libera di scegliere. Ma tu hai già scelto, allora. Non puoi più tornare indietro. Non lasciarti tentare dal desiderio dell'azione. Le opere di carità non sono che un simbolo. Tu ama Dio, prega, e saranno le opere che verranno a cercarti, ma molto più grandi di quelle che tu potresti cercare, perché sarà Dio che le avrà inventate per te. Pensa che i corpi seguiteranno sempre a soffrire la fame, il freddo, le malattie; e le anime non si salvano con le parole. Tu salva te stessa, e costringerai infinite anime a salvarsi con te. Lascia che il mondo precipiti, i corpi soffrano la fame, il freddo, le malattie; tu prega; contempla Dio; prega, prega, prega senza curarti d'altro.
Marina - (sommessa). Questa è una vita privilegiata. Non sono che una donna, come tutte quelle che si sfiniscono, un figlio dopo l'altro, e vivono tribolando. Ora ti porteranno i sacramenti; e tu non hai confessato la verità. Che cosa ho fatto per meritarlo?
Eugenio - (con infinita tenerezza, sommessamente). Marina, hai fede in me?
Marina - (di slancio, tenera e sommessa). Sì.
Eugenio - Rimani qui e conserva il tuo segreto. Sono io che te lo comando. (Marina piega il volto sulla mano di lui, in silenzio. Eugenio, sommesso) Non ho rimorsi, vivi tranquilla. In punto di morte, tutto quello che sembrava assurdo appare vero.
Marina - (con tenerezza e commozione infinita, tenendo il volto premuto nella mano di Eugenio, e parlando sommessamente come per un'estrema confidenza). Io sarei stata contenta dappertutto, se tu mi avessi detto di andarmene, ma la mia anima sarebbe rimasta sempre qui. Tu sei stato il mio angelo, papà. Mi hai condotto con te dove io non avrei mai potuto andare. Ma tutti gli altri che erano con me, e sono rimasti dove ero io? Tu mi lasci ed io ho paura di peccare di egoismo e d'orgoglio.
Eugenio - (con amore infinito, allargando le braccia verso di lei). Marina! Figlia mia!... (Marina si getta nelle sue braccia piangendo sommessamente; egli la stringe a sé).
Marina - (sommessamente). Ti ringrazio.
Eugenio - Anche il conforto di spartire con qualcuno il tuo segreto ti mancherà. Vivrai nel rischio di essere scoperta e scacciata, non potrai sperare niente in questo mondo, nemmeno gli ordini sacri, perché sei donna, e dovrai soltanto servire. (Breve silenzio) Ti saluto,
Marina - Presto verranno i fratelli coi Sacramenti. Non farti prendere dalla tristezza, quando non ci sarò più: Dio ti dia sempre molto gaudio e allegrezza. Ho messo in te tutta l'anima mia; tu sei figlia più del mio spirito che della mia carne.
Marina - So bene che Cristo non può mancare alle sue promesse, e che ci troveremo in paradiso. Ma tu muori, e io resto qui.
Eugenio - Tienimi ancora la mano, fino a che il padre Abate non mi avrà dato l'Estrema Unzione; poi lasciami, dovrò restare solo con Dio. (Prende un libro, glielo tende aperto) Tienimi la mano e leggi.
Marina - (leggendo). « Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo ricevette nella sua casa. Essa aveva una sorella chiamata Maria, la quale seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola. Marta intanto si affannava in molte faccende e si presentò a dire: Signore; non t'importa che mia sorella mi lasci sola a servire? Dille dunque di aiutarmi. Ma il Signore le rispose: Marta, Marta, tu ti affanni e ti inquieti di troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria; Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta ».
Eugenio - (prende il libro dalle mani di Marina. Lo apre in un altro punto e glielo porge di nuovo dicendo). Leggi.
Marina - (leggendo). « Allora i suoi discepoli gli chiesero: Perché parli loro in parabole? Egli rispose loro: Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno de' cieli; ad essi, no. Infatti a chiunque ha, sarà dato; ma a chiunque non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo in parabole; perché vedendo non vedano, e udendo non odano e non intendano». (Mentre Marina legge, l'Abate in stola, seguito dai monaci che recitano le preghiere degli agonizzanti, si avvicina alla cella di Eugenio, recando i Sacramenti. Marina li sente, e leva gli occhi dal libro).
Eugenio - Vivi per tutti loro, Marina; e non temere l'orgoglio. (Sommesso, rapido) L'elezione è veramente il segreto di Dio. (Scioglie la sua mano da quella di lei) Ecco, lasciami. (Marina si inginocchia, ed Eugenio si solleva sul giaciglio mentre l'Abate recando i Sacramenti entra nella cella seguito dai monaci salmodiatiti. La scena torna nel buio).
Il Benedettino - (leggendo). « Egli rese lo spirito, ed essa rimase sola nella cella del padre suo. Disse un giorno l'Abate: Frate Marino, perché non vai col carro al paese, così come faceva tuo padre? Essa rispose: Come tu comandi. Cominciò dunque, frate Marino, a recarsi al paese con il carro e se faceva tardi per il ritorno sostava quivi con gli altri monaci in una locanda. E il locandiere aveva una figlia in età da marito... ».
SCENA TERZA
Sulle ultime frasi viene illuminata la scena. Frate Marino è seduto su uno sgabello di legno; la Figlia del Locandiere sta piegata sulle ginocchia, poco discosta, ed è intenta a ripulire un grosso paiolo. È una ragazza tozza, non bella; qualcosa di animalesco emana dai tratti del suo volto.
La Figlia del Locandiere - Dicono che la donna ha il conforto dei figli. (Si stringe nelle spalle) Io non voglio mica bene a mio padre. (Ci pensa un attimo) Forse un poco di più a mia madre, quando era viva; ma non me ne ricordo. Credo che anche a lei ho dato soltanto dei fastidi. A mio padre non do nemmeno la soddisfazione di vedermi piangere, quando mi prende a schiaffi. Mi metto a fischiare. Muore di rabbia. (Breve pausa) La donna non ha più niente, quando diventa vecchia. Anche il marito, se vuole tenerlo legato, deve tenerlo coi denari. C'è uno, che mio padre vuol farmi sposare; non sposerò quello, ma se mio padre non mi dà la roba, un altro non lo sposerò nemmeno. Non sono mica povera; abbiamo la casa, l'orto. Se fosse già tutto mio, qualcosa avrei; ma finché è vivo; è tutto di mio padre. (Ci pensa un momento; aggiunge, pacata) Ho la fortuna che non dovrò dividere con nessuno; avevo due fratelli, ma sono morti tutti e due. (Breve silenzio) Preferisco aspettare. So bene cosa succede alle ragazze che si sposano senza soldi: quando la gioventù è passata, devono fare le serve e prendere le botte. (Cupa) La gioventù passa presto, e la vita è dura. (Breve silenzio: volge lo sguardo lento e grave su Marina; dall'esterno giunge il bagliore di un lampo seguito dal fragore del tuono) Voi quanti anni avete?
Marina - Diciassette.
La Figlia del Locandiere - (senza tono). Anch'io ho diciassette anni. (Breve silenzio. Poi si stringe nelle spalle, dicendo quasi a se stessa) Ma voi siete un uomo, per voi è diverso. Noi, due, tre figli, e siamo già vecchie. Questo è il conforto che ci danno i figli, a noi che dobbiamo lavorare. Diventiamo tutte uguali, brutte, senza petto; senza denti: più nessuno ci vuole; però le voglie restano tutte. (Ha una risata sommessa, torbida. Poi riprende) Lo sapete? Toccherà anche a me; ma le vecchie mi fanno schifo. (Con fuoco torbido, improvviso, contenuto) Se nella vita non ci fosse quello che so io, mi sarei già impiccata. (Ride di nuovo, più bassa, più torbida. Si solleva, rovescia l'acqua sporca all'esterno, aprendo la porta donde viene un turbine di tempesta; la richiude; guarda frate Marino con greve provocazione, dice) Potete capire? C'è tanta gente che ruba e ammazza per l'amore? Sfido, lo farei anch'io. Tre, quattro anni, sei anni, e poi è finito tutto. (Marina seguita a tacere. La Figlia del Locandiere tace a sua volta per qualche istante, volgendo le spalle; poi dice) È la prima volta, che dormite qui. Siete nuovo?
Marina - No.
La Figlia del Locandiere - Come vi chiamate?
Marina - Frate Marino.
La Figlia del Locandiere - (torna a volgersi verso Marina, assumendo un tono di curiosità sempre più pesante e sfacciata. La guarda un attimo; chiede). Da quanto siete frate?
Marina - (con un sorriso cordiale). Avevo undici anni, quando mio padre mi ha portato con sé in convento. (Più sommessa) Mio padre era frate Eugenio.
La Figlia del Locandiere - (atona, impietosa). Quello che è morto?
Marina - Sì.
La Figlia del Locandiere - (non commenta subito; poi con elementare malizia). Siete figlio di un frate?
Marina - (seria, pacata). S'era fatto monaco quando mia madre morì.
La Figlia del Locandiere - Perché vi ha portato in convento così bambino? Non sapeva a chi darvi?
Marina - Non è stato per questo. Mi aveva lasciato in casa di parenti; mi volevano bene come a un figlio.
La Figlia del Locandiere - (guarda Marina per un attimo, si stringe nelle spalle, poi con pesante ironia). E adesso che è morto, rimanete ancora in convento? (Bruscamente ironica e quasi aggressiva) Non crederete di poter restare vergine tutta la vita?
Marina - (ha una reazione inattesa; si mette a ridere e risponde subito, giocondamente). Non mi preoccupo mica di sapere se domani avrò il fiato per respirare!
La Figlia del Locandiere - (insistendo pesantemente, ma più cupa nella sua greve sensualità). Chi può rimanere sempre vergine? (Marina non risponde. La ragazza, dopo un attimo di attesa, più ironica) E se anche ci riuscirete, a che cosa vi sarà servito?
Marina - (con pacata fermezza, fissando la ragazza). Perché mi fai queste domande?
La Figlia del Locandiere - Avete vergogna a rispondere?
Marina - (con una fermezza inaspettata, quasi aggressiva). Di tutto si può parlare, ma senza malizia e con carità. (// tono inatteso di Marina sorprende la ragazza. Marina e la Figlia del Locandiere si fissano per qualche istante in silenzio: lo sguardo della ragazza si fa decisamente ostile: il volto di Marina, invece, torna a rasserenarsi. Essa dice, con semplice cordialità, sorridendo) Devo dirti la verità, non ho simpatia per te. Certo te ne sei accorta; è più semplice confessarlo. Appena ti ho conosciuta, ho provato un sentimento di avversione; ma non è una cosa colpevole, non dipende dalla volontà provare simpatia o antipatia. È la nostra natura, che è piena di difetti e ci ispira sempre sentimenti riprovevoli: basta riderci sopra e non farci caso. Noi adesso avremo occasione di vederci spesso-; staremo molto insieme: è il modo sicuro per vincere le antipatie. Quando era vivo mio padre, lavoravo in cucina e nell'orto: adesso l'Abate mi manda in giro con il carro. Forse anche noi non ci intenderemo mai; per te tutte le parole significano cose molto diverse da quelle che sono per me; anzi, come contrarie. Non è mica detto che tutti devono riconoscere le stesse verità; ciascuno ha il suo conto, secondo quello che ha ricevuto. Io sto in convento perché è la mia vocazione. Non è merito mio; non avrei saputo far di meglio. Facciamo il possibile, non per capirci, ma per volerci bene; al resto pensa Dio. (Breve silenzio. Con sorridente cordialità prendendole confidenzialmente la mano) Come ti chiami, tu?
La Figlia del Locandiere - (lenta e sospettosa). Elena.
Marina - Sei innamorata di qualcuno? La Figlia del Locandiere - (ritrae la mano, sospettosa, ostile). Perché? Vi hanno detto qualcosa sul mio conto?
Marina - No. Tu hai parlato di questo. (Torna a prendere la mano) Siediti qui.
La Figlia del Locandiere - (ritrae la mano con gesto marcato, un sorriso di equivoca malizia sul volto). Cosa volete da me? (Breve silenzio. Greve, ostile, con un sottinteso ingiurioso) Parlavo tanto per far passare il tempo. Di voi, non me ne importa niente. Non ho mica niente da vedere, io, con voi. (Le volta le spalle, con un moto istintivamente animalesco ondeggiante dei fianchi, e si avvia per uscire).
Marina - (spontanea, accorata). Ah, poverina, non sei buona! (La ragazza passa, senza voltarsi, nella stanza accanto; ne viene più forte il canto degli avventori, col fragore del temporale. La scena si oscura).
Il Benedettino - (leggendo). « Successe, poi, che giacendo furtivamente la figlia del locandiere con un suo drudo, ne rimase incinta. Quando ciò fu scoperto dal padre suo e dai parenti, presero a vessarla chiedendole: Confessa, per opera di chi concepisti? Essa infine rispose: Per quel monaco, che si chiama frate Marino, il quale dormì sovente nella nostra locanda. Egli abusò della mia buona fede, e ne rimasi incinta. Temeva infatti di perdere colui che amava, se avesse detto il vero. Si recano allora i parenti di lei al monastero, e dicono all'Abate: Ecco, padre Abate, che ha fatto quel tuo frate Marino. Così ha ingannato la nostra figliola. Rispose l'Abate: Lasciate; vediamo se risulterà vero ciò che voi dite ».
SCENA QUARTA
Sulle ultime frasi si illumina una parte di scena. Marina sta lavorando nell'orto del convento. È sola. Lavora in silenzio, assorta; con le maniche rimboccate e un grembiule cinto alla vita; a tratti si asciuga il sudore del volto.
D'improvviso i suoi movimenti si arrestano; essa rimane per qualche istante quasi immobile, senza voltarsi; poi riprende a lavorare, ma lentamente, come trasognata. Alle sue spalle entra frate Eugenio; ha anch'egli le maniche rimboccate, e reca un secchio d'acqua; s'avanza adagio verso Marina come se stesse compiendo il medesimo lavoro, ma con qualcosa di rigido in tutti i suoi moti.
Eugenio - Perché continui a sarchiare e a innaffiare? Non serve più, è venuto l'inverno.
Marina - (senza voltarsi, quasi atona). Il padre Abate mi ha comandato di sarchiare e innaffiare la lattuga; oggi eravamo d'estate.
Eugenio - (tocca la terra). Non senti che è dura e gelata?
Marina - (senza toccare la terra). È vero!... com'è diventato tutto grigio! Poco fa c'era un tramonto così bello!...
Eugenio - Fa freddo; devi spogliarti,
Marina - Butta via tutto quello che hai addosso, e resta nuda.
Marina - Come posso restare nuda? La gente mi insulterà, ho vergogna.
Eugenio - Legioni di creature sono gettate nude nelle fosse; altre legioni mostrano le piaghe e la lebbra sul corpo nudo; e altre legioni vanno nude sui patiboli.
Marina - (volgendosi lentamente verso Eugenio, con leggero tremito di commozione nella voce). So che questa è un'apparizione, perché tu sei morto. Non andare via, aspetta.
Eugenio - (senza chinarsi e senza rispondere). Prendo il sarchiello, tanto a te non servirà più. (Indietreggia lentamente).
Marina - (con estrema commozione, volgendosi a guardarlo). Com'è il paradiso? Non lasciarmi qui. Aspetta... (Si solleva tendendogli le mani con un improvviso impeto di estrema e tenerissima commozione) Papà!
Eugenio - (con eguale, indicibile tenerezza, appena mormorata). Marina! Figlia mia! (Fa l'atto di aprirle le braccia. Marina, che stava per slanciarsi nelle braccia del padre, si arresta di botto; si copre il volto con le mani, quasi barcolla. Contemporaneamente Eugenio, arretrando, sparisce. È una lunghissima pausa. Marina si riprende molto lentamente. Abbassa le mani dal volto, ma per qualche istante rimane ancora come fuori di conoscenza, con lo sguardo nel vuoto. Poi volge adagio gli occhi attorno, per rendersi conto di ciò che è successo. Guarda la terra zappata di fresco, si china a raccogliere il sarchiello, che le sta ai piedi. Rimane profondamente assorta. Ad un tratto, un monaco appare in fondo all'orto e la chiama). Il Monaco. Frate Marino. (Marina ha un lieve sussulto e si volta) Frate Marino, il padre Abate ti aspetta.
Marina - (rimane un attimo silenziosa e immobile; poi depone il sarchiello, si abbassa le maniche, si pulisce le mani al grembiule e lo toglie, dicendo) Eccomi! (Marina, seguendo il Monaco, passa in altra parte della scena, che viene illuminata. I monaci stanno allineati quasi a semicerchio, avendo al centro il padre Abate. Più in un canto sta il Locandiere. Marina si inchina profondamente al padre Abate secondo le regole; poi volge lo sguardo sui frati silenziosi e immobili, con lieve stupore. L'Abate guarda Marina, qualche istante, in silenzio: malgrado la sua rigidezza appare commosso).
L’Abate - (quasi impetuosamente). Tu hai passato i tuoi giorni in mezzo a noi, a lavorare e a pregare; ti ho sempre visto sereno e contento del tuo stato; ed ecco, una grave accusa viene a colpirti. Da che cosa nasce un simile fatto, se tu sei innocente? (// volto di Marina si copre di pallore. Essa fissa l'Abate in silenzio; poi, smarrita, volge lo sguardo sui monaci. L'Abate vede il turbamento di lei, e riprende in tono più affettuoso, ma sempre accorato e commosso) No, non voglio impaurirti. È la mia età che non mi consente troppe illusioni; so che la natura umana è infida, viziata dal peccato, e riesce a tradire persino i santi; ma noi ti consideriamo il nostro figliolo, perché sei il più giovane di noi, ti abbiamo ricevuto quando eri bambino, ti abbiamo visto crescere, e molti di noi sono stati i tuoi maestri. Dunque, parla fiduciosamente, e non mentire. (C'è un momento di silenzio).
Marina - (è profondamente turbata; qualcosa la induce a fissare per qualche istante il Locandiere, che soltanto da poco ha notato. Poi si volge di nuovo all'Abate e risponde a mezza voce). Sì, padre.
L’Abate - (indicando il Locandiere). Sua figlia si è scoperta incinta, e per le insistenze dei parenti ora dice che sei stato tu a sedurla. (Uno sgomento mortale si impadronisce di Marina. Essa si serra le guance con le mani, volgendosi di scatto a fissare il Locandiere. L'Abate, con turbamento crescente, riprende quasi subito) Tu hai pernottato molte volte nella sua locanda. TI fatto appare possibile; ma se puoi, figlio, dicci che non è vero, e perché la ragazza ti accusa. (Lentamente Marina torna a volgere lo sguardo verso l'Abate; è in preda a uno smarrimento muto e atterrito. C'è una lunga pausa. Il Locandiere fa l'atto di parlare; l'Abate lo ferma con un gesto, e riprende, volto a Marina, con voce in cui, alla commozione, si sente unito un principio di sdegno) Rispondi. (Marina tace. L'Abate, con impeto a stento contenuto) Rispondi... Cosa significa questo silenzio? (Marina ha un sussulto. Si volge di nuovo, di scatto, verso il Locandiere, facendo l'atto di tendere le mani verso di lui e di dire qualcosa; ma si riprende e tace. L'Abate, che ha osservato il moto di Marina ed ha atteso con ansia che essa parlasse, rimane silenzioso qualche istante; poi si indirizza a sua volta al Locandiere e gli dice con voce più bassa, come per un estremo tentativo di giustificare Marina) Vedi quanto è grave ciò che hai detto. Ora frate Marino sta qui in tua presenza e il turbamento gli ha tolto la voce. Sei certo che sia vero, e puoi confermare davanti a lui. che si e macchiato di una tale colpa?
Il Locandiere - (lento, torvo, greve). Avrei voglia di ridere. Bell'utile, per mia figlia, partorire un figlio di un frale! Se fosse i[n ricco signore, sì, le converrebbe mentire; ma io ho dovuto prenderla a schiaffi per due giorni prima che si decidesse a parlare. (Con viole/ila querimonia, ingiurioso, indicando Marina) Guardate la sua faccia! Non vedete che non risponde?
L’Abate - (con improvvisa violenza di dolore e di sdegno). Perché tolleri un'accusa che ti separerebbe da noi per sempre? (Marina è in preda a un'angoscia estrema; respira a fatica, lacrime silenziose prendono a rigarle il volto. L'Abate domina l'impeto dei suoi sentimenti e riprende, con tono di accoramento profondo, ma di rigida severità) La strada della castità è dura. Dio non la esige da tutti, e non a tutti è concessa. È un dono e una grazia. Se tu avessi mancato al tuo voto, e ne fossi confessato, non potrei condannarti, e anche imponendoti di abbandonare la vita monastica, ti amerei ancora come un figlio. (Suo malgrado il suo tono si fa più concitato e violento) Ma se tu avessi peccato, seguitando a pregare, e meditando in cuor tuo la fornicazione, senza niente lasciar trasparire, giovane come sei. saresti un tale maestro di finzione e di malizia, che nemmeno il ricordo di te si potrebbe salvare. Vuoi passare il resto della tua vita sotto il peso di quest'onta, disprezzato e deriso, come tutti gli apostati, tu che avevi avuto in dono uno stato di perfezione? Non vedi che lo scandalo ti colpisce, e ci colpisce insieme a te? Difenditi; o abbi il coraggio di confessare il tuo peccato, e vattene. Per la santa obbedienza, ti ordino di parlare!...
Marina - (si piega lentamente sulle ginocchia; il volto è inondato di pianto; mormora a fatica). Padre, sono un peccatore. Pregate per me.
L’Abate - (con sgomento profondo, e impeto di sdegno). Oh, Dio ti perdoni!...
Il Locandiere - (prorompendo, aggressivo e violento, in ingiurie e lamentele). Ah, che cosa m'importa, che questo ladro getti la tonaca o se la tenga? Che cosa me ne faccio di questo frate sfratato? Farabutto, pendaglio da forca. Mia figlia è incinta e metterà al mondo un bambino! Cosa farai tu, per mantenerlo? E chi la prenderà ancora in moglie?
L’Abate - Basta così! (a Marina) Alzati e va' via. (La scena si oscura).
PRIMO INTERVENTO CORALE
Vengono illuminati i quattro personaggi del coro.
Il Benedettino - (leggendo). « E l'Abate la cacciò dal monastero; ed essa tutto questo sopportava in silenzio, tenendo chiuso dentro di sé il suo segreto ». (Interrompe la lettura e prende a dire, con semplicità e commozione contenuta) Non so quale sarà la fine di santa Marina; ma l'accettazione di un'accusa infamante, da cui le sarebbe stato facile liberarsi, basta a provare che veramente la sua anima era stata prescelta. Soltanto la grazia può dare la forza di vincere in tal modo la natura, ed è stupendo come Dio si rivela nei suoi santi per vie impensate e meravigliose. Noi sappiamo che altre donne hanno vissuto come monaci, sopportando la durezza e le fatiche di una simile vita e che questo è avvenuto in tempo e in luoghi lontani, quando ancora non esistevano monasteri femminili; ma questa considerazione storica niente aggiunge e niente toglie alla divina ispirazione che ha spinto il padre di Marina a separarla dal mondo e a metterla, con l'inganno, sulla via della perfezione. Veramente vivevano, gli antichi eremiti e i primi monaci, simili agli angeli, nel progressivo dominio delle passioni, ignari del sesso, vittoriosi della natura, trasformati nel corpo e nell'anima dall'amore di Dio e della sua ininterrotta contemplazione. E veramente questa, e non altra, è carità; e le opere di carità materiale non ne sono che un riflesso e un simbolo, perché solo se provengono da quello stesso spirito d'amore non per la creatura, ma per Dio, possono eguagliare la contemplazione e la preghiera. È bastato, a Marina, contemplare Dio e pregare. per trovarsi pronta, quando il Signore ha voluto proporglielo, all'opera della carità più perfetta: quella che non chiede se il sacrificio gioverà a qualcuno, e a chi, ma in se stessa ha la sua giustificazione. (Sorridendo, allo Scrittore) Così, quanto abbiamo letto fin qui mi sembra semplice e chiaro.
L’Ingegnere - Non è un'antica storia, questa, e santa Marina, una santa di tempi molto antichi? Persino il ricordo se n'è perduto: tant'è vero, che nemmeno voi la conoscevate. Forse in quel tempo gli uomini erano assai diversi. La storia di santa Marina piace, come un'antica leggenda: non cerchiamo niente però oltre questo suo fascino, perché se dovessimo giustificarla col nostro giudizio, tutto in questa storia ci offenderebbe e ci darebbe scandalo. Salvo il rispetto dovuto all'autorità della Chiesa e ai suoi santi. Dichiaro che non ho capito perché Eugenio e Marina si siano condotti come si sono condotti: non l'ho capito (al Benedettino) e le sue giustificazioni - chiedo scusa - non convincono. Non parlo tanto della convivenza di Marina coi monaci; parlo piuttosto dell'inganno, addirittura sacrilego di Eugenio, e del suo egoismo di padre; ma soprattutto parlo di quella forma di cristianesimo fanatico e ingenuo che vedeva un contrasto insanabile tra lo spirito e la vita del mondo. Chi, fra i tanti milioni di cristiani sparsi nel mondo, oggi crede di allontanarsi da Dio vivendo negli affetti naturali o difendendo i suoi legittimi interessi? Io frequento la Chiesa e i Sacramenti, secondo le mie possibilità, ma voglio bene a mia moglie, ai miei figli: procuro di dar loro, e di avere per me, una casa e una vita confortevole; e appoggio le organizzazioni cristiane che si adoperano per darla a tutti; cerco, per quanto posso, di non far male a nessuno, ma lotto nel mio lavoro, e lo difendo. Forse per questo non sono un buon cristiano? Nessuno potrebbe difendersi, e cioè vivere, se la regola fosse l'accettazione della calunnia. La nostra religione è equilibrio e buon senso; meglio avrebbe fatto, santa Marina, a rivelare la verità e a consacrarsi alla cura dei poveri, che non sacrificarsi in quell'inutile sacrificio; e se, nel seguito della storia, non ci sarà niente altro che giustifichi la sua santità, veramente essa non ha nessun rapporto con noi.
Il Prete secolare - Dentro di me pensavo: dal male sovente nasce il bene, ma certo è stato male, e gravissimo male, l'inganno del padre di Marina; in sé, perché il fine non giustifica i mezzi, e per il pericolo di tentazione cui ha esposto la figlia e gli altri monaci. Lei, padre, ha ragione: sono obiezioni umane che non hanno nessuna importanza di fronte alla chiamata di Dio; è curioso anzi che mi sia sfuggita questa giustificazione, la sola possibile, e per un cristiano la più naturale; sia chiaro, tuttavia, che si tratta di un caso per sé stante, da non proporsi né come esempio né come regola. Ristretto in quei limiti, in cui è necessario restringerlo, perché dovrebbe sconcertare e turbare? Sappiamo con certezza che il cristianesimo non è soltanto un fatto individuale: l'amore del prossimo, eguale all'amore di Dio, ci trascina al contatto coi nostri simili, e la vita nel mondo porta con sé necessità temporali, organizzazione, lotta e difesa. Nella contemplazione mistica-che anche oggi accettiamo - non si esaurisce il cristianesimo. Santità? Sta veramente nella raccolta ufficiale dei santi, santa Marina? Ascolteremo allora il seguito e la fine della sua storia. Forse, adesso, tolta dalla manifesta volontà di Dio a quella vita contemplativa che aveva usurpato, essa scoprirà, appunto, la vita attiva; e forse è proprio questo l'ammaestramento che la sua santificazione vuol darci. Non dimentichiamo però che regolari e legittimi processi di canonizzazione sono quelli soltanto posteriori al Concilio di Trento; prima d'allora, la santità veniva attribuita solo dalla tradizione e dalla venerazione pubblica. Certo, è prova di santa disposizione quel suo aver accettato con tanta rassegnazione una così enorme calunnia; sì, certo, lo è. È curioso: anche il motivo di quel suo silenzio (al Benedettino) che a lei è riuscito così naturale spiegare e a me era sfuggito. M'era sfuggito, e avrei dovuto comprenderlo. È curioso, è curioso. È una strana, sì, una strana storia.
Lo Scrittore - Ecco, al contatto con la storia di santa Marina, vera imitazione di Cristo, ciascuno di noi, come una diversa campana, ha dato un suono diverso. Ma ciascuno di noi, più vicino a quell'esempio, o più lontano, agisce secondo la sua convinzione. To sto a guardare: e sono il più colpevole. Io sono convinto che nella sua essenza, quello, e non altro, è cristianesimo; quello, dico, di Eugenio e di Marina: non la religione dell'equilibrio, del buon senso e dei problemi sociali; ma la religione dei folli, del rinnegamento del mondo, della conquista solitaria di Dio. Penso che mai nessuno potrebbe saper del Vangelo, se non si sapesse per altre fonti, che al tempo di Cristo esisteva quella che a noi sembra un'intollerabile piaga sociale, la schiavitù: tanto Cristo l'ha ignorata. Penso che tra le infinite divine contraddizioni delle sue parole, un solo insegnamento è costante e inesorabile: rinuncia al mondo e a te stesso per amore di Dio, se vuoi la vita eterna. E, tuttavia, se la vita del cristianesimo dev'essere come viene insegnato, la marcia diritta di un pellegrino che tende al fine ultimo senza fermarsi alle infinite stazioni che trova lungo il cammino, e anzi senza nemmeno posarvi lo sguardo, io debbo confessare che mi piace, pur sentendone la vanità, attardarmi in ogni osteria, guardare curiosamente ogni passante e ogni casa, nozze, morti, liti e adulteri, inoltrarmi per ogni viottolo traverso di cui non vedo la fine, sostare sdraiato sotto le grandi piante, nella divina ora del pomeriggio o nei lunghi, dolcissimi, accoranti tramonti estivi. Quanto spirito cristiano, d'amore per il prossimo e nel prossimo, di Dio, io metto in tutto questo, non so e non distinguo; perché guardo con sacro e attonito rispetto a tutto ciò che esiste, giusto e ingiusto, delitto e santità, nel continuo alternarsi e riproporsi di ogni umano atteggiamento secondo umane leggi immutabili. E, così, mi aggiro intorno alla casa di Cristo; sosto sulla porta senza avere il coraggio e la forza di entrarvi, e la storia di santa Marina mi suona come una nuova condanna, e mi fa tremare; perché essa non è, veramente e fino alla fine, altro che quella che è. (Al Prete e all'Ingegnere) Non piegherà, adesso, nel senso che voi nel vostro intimo sperate a vostra giustificazione; non ammette, fino alla fine, una interpretazione diversa e meno dura.
Il Benedettino - Molte cose sarebbero ancora da dire; molte e importanti; ma è prudente, prima di altre parole, conoscere come è vissuta, cacciata dal suo convento, santa Marina, e come è morta, e meditare in noi stessi l'insegnamento. (Riprende a leggere) « Uscita santa Marina, si gettò sulla porta del monastero, e giaceva sulla terra in penitenza, affliggendosi come se suo fosse stato il peccato, e chiedeva per carità ai monaci che entravano un boccone di pane. E non abbandonò il monastero e ciò fece per tre anni. La figlia del locandiere intanto partorì un figlio maschio; e lo allattò ».
SCENA QUINTA
Una campanella prende a suonare mentre si illumina la scena. Marina, che ha l'apparenza di un mendicante vestito di stracci, da un lato della scena; è accovacciata a terra, sotto un rudimentale riparo, e al suono della campana si alza, come se il richiamo fosse rivolto a lei. Così, ritta, appare estremamente macilenta e misera.
Nell'altra parte della scena, dove si figura l'interno del Convento, i monaci, con l'Abate, entrano alla spicciolata raccogliendosi in semicerchio, come fossero nel coro, per la preghiera del vespero. La campana cessa di suonare. I monaci, in piedi, prendono a recitare sommessamente le preghiere, guidati dall’Abate. Marina, in piedi, recita la medesima preghiera, come sentisse o vedesse ciò che accade all'interno; ma poiché in realtà non vede e non sente, e recita per abitudine a memoria, ci sono tra le sue parole e quelle dette in coro dai monaci delle lievi differenze di tempo. Le stesse differenze nelle genuflessioni e nelle prostrazioni.
Marina -
Lauda, anima mea,
[Dominum; laudabo Dominum
[in vita mea; psallam Deo meo
[quandiu ero.
Nolite confidere in principibus, in
[homine per quem non est
[salus.
Cum exierit spiritus
[eius, revertetur in terram
[suam; tunc peribunt omnia concilia eius.
Beatus cuius adiutor est Deus Jacob,
[cuius spes in Domino.
[Deo suo.
Dominus solvit
[ capti vos Dominus aperit oculos caecorum. Regnabit
[Dominus in aeternum, Deus tuus, Sion, in
[generationem et generationem.
L'Abate.
Lauda, anima mea,
[Dominum; laudabo Dominum
[in vita mea; psallam Deo meo
[quandiu ero.
I Monaci.
Nolite confidere in
principibus, in
[homine per quem non est
[salus.
L'Abate.
Cum exierit spiritus
[eius, revertetur in terram
[suam; tunc peribunt omnia concilia eius.
I Monaci.
Beatus cuius adiutor
est Deus Jacob,
[cuius spes in Domino
[Deo suo.
L'Abate.
Dominus solvit
[capti vos Dominus diligit
[iustos. Regnabit
[Dominus in aeternum, Deus tuus, Sion, in
[generationem et generationem.
(Terminata la preghiera, i monaci si piegano profondamente su se stessi, rimanendo qualche istante in adorazione, in un profondo silenzio. Marina fa lo stesso. Poi i monaci si sollevano, si segnano ed escono. Marina rimane prostrata più a lungo. Infine si raddrizza lentamente, si segna; prende dal giaciglio una vecchia scodella, e va a sedersi a terra accanto alla porta del convento, in attesa dei resti. Rimane seduta in atteggiamento di abituale e serena pazienza, tutta assorta in altri pensieri. Sta scendendo la sera. Entra il Locandiere; tiene per mano un bambino di circa tre anni, che a stento cammina. Si sofferma a pochi passi da Marina, guardandola per qualche istante in silenzio).
Il Locandiere - (a voce sommessa, greve). Marino, sei tu, là?
Marina - Sì. (Pausa. Il Locandiere lentamente volge lo sguardo intorno, lo ferma sul ricovero di Marina, simile a una tana).
Il Locandiere - Là dentro stai?
Marina - Sì. (Breve pausa). Il Locandiere. L'avevo sentito, ma non potevo crederlo. (Breve silenzio. Il Locandiere si accorge che lo sguardo di Marina si è fermato sul bambino) Sì, è il tuo. (Breve silenzio. Il Locandiere si avvicina ancora di qualche passo) Te l'ho portato perché mia figlia si sposa. L'ha allattato, lo abbiamo allevato, ma adesso per noi deve sparire. Non dobbiamo sapere se è vivo o morto; come se non fosse mai esistito. (Butta a terra un fagottello) Questa è la sua roba. Ci ho messo anche un po' di denaro. (Breve silenzio. Marina, smarrita, tutta in preda a un profondo turbamento, guarda in silenzio ora il Locandiere ora il bambino. Il Locandiere si volge di nuovo, lentamente, intorno, considerando il ricovero e gli stracci di Marina. A voce bassa, in tono tra lo stupore e l'estremo aggressivo sprezzo) Tu proprio contavi di non doverci pensare mai. Trovavi più comodo fare il mendicante; lavorare per mantenerlo toccava a noi. (Breve silenzio) Cosa fai qui? Sei giovane; potevi metterti a lavorare, potevi vivere come un cristiano. No. Te ne stai qui a marcire sotto la pioggia e a mangiare i rifiuti. (Più aggressivo) Perché non vai a lavorare come tutti i cristiani?
Marina - (sommessamente, con la buona volontà di spiegare). Ma io non ho bisogno di niente.
Il Locandiere - (la guarda un momento in silenzio; poi, con collera contenuta e sdegnosa, spinge bruscamente il bimbo verso di lei). Va', va' da quello straccione, che è tuo padre. (// bambino, spaventato, si aggrappa alle gambe di lui. Il Locandiere riprende rivolto a Marina, più aggressivo) Chi fa il contadino, chi fa l'operaio, chi studia; tutti si industriano, tutti lavorano, chi per una cosa chi per l'altra; quelli che non sanno fare altro, toh!, si arruolano soldati. Le persone come te, a cosa servono? Perché vivi? Il mulo che tira il carro è più utile di te; è più utile il cane che fa la guardia. (Di nuovo spinge il bambino verso Marina, dicendo con altro tono) Pensaci tu. Se non puoi mantenerlo, fanne quello che vuoi, non mi riguarda, il bambino è tuo.
Marina - (sommessamente, con costernato stupore). Cosa hai fatto! L'hai tolto alla madre!
Il Locandiere - (cercando di distaccare da sé il bambino, che gli si aggrappa). Prendilo in braccio, e tienilo, se no non si distacca. Mi corre dietro. (Al bambino, con durezza) Vai!... Vai, ti dico! (// bambino, spaventato, si mette a piangere).
Marina - (con forza). Non trattarlo così! Ha paura!
Il Locandiere - (spingendo il bambino piangente verso di lei, con durezza). Resta qui, hai capito? Se non ubbidisci, guarda! (Alza la mano minacciosamente, poi a Marina) Credi che lo abbia portato via di nascosto? Ero anche capace di farlo, se fosse stato necessario, ma mia figlia le cose le capisce da sé. È un bastardo, prendilo, e trattienilo.
Marina - (ha avuto un sussulto di sgomento; tocca la testa del bimbo, che si ritrae spaventato, mormorando). È sua madre che non lo vuole più!... Così piccolo!... (Poi, sommessamente, alzando gli occhi sul Locandiere) Non credi che lo starà già cercando? Diventerà matta!... Riportaglielo. Se il suo sposo non lo vuole, è meglio che non si sposi. È difficile che questo il Signore glielo perdoni.
Il Locandiere - (di nuovo alzando la voce e la mano verso il bimbo, che cerca di aggrapparsi a lui e di seguirlo). Guarda, se non ubbidisci!... Resta lì! (// bimbo piange forte. Marina gli si inginocchia d'impeto accanto, come per proteggerlo).
Marina - No!...
Il Locandiere - (a mezza voce, con greve amarezza). E tu tienilo; basta. Ha avuto la fortuna di trovare ancora un marito, va a star bene, va a mangiare e a dormire da signora, bisogna che se lo paghi. Chi la manteneva lei e il suo bastardo, quando io morivo? Chi si occupava di lei? Tu, che l'hai rovinata? Non si può avere tutto insieme. A questo mondo non ti danno niente per niente, la vita non l'ho inventata io. (Sta per uscire, si sofferma) Ah!... È battezzato, siamo cristiani. Si chiama Luca. (Esce).
Marina - (rimane sola col bambino che piange. Appare estremamente turbata: una commozione ansiosa e insieme sempre più gioiosa. Quasi non osa toccarlo, in principio. Non sa che fare per calmarlo. Gli accarezza il capo, timidamente; gli mormora alcune parole confuse; finisce per prenderlo in braccio e dondolarlo un poco. Lo porta sul suo giaciglio, ve lo siede. Fruga ansiosamente tra gli stracci, come per cercarvi qualcosa da dargli, ma non trova niente. Allora si inginocchia davanti, contemplandolo e mormorandogli di nuovo frasi indistinte. Ora è quasi buio. Il Monaco cuciniere esce sulla porta del convento con una pentola, cercando Marina al suo solito posto sulla soglia. Non la vede, e per richiamare l'attenzione di lei batte col mestolo sulla pentola. Marina si riscuote. Prende la scodella, si alza in fretta dicendo a mezza voce al bambino). Aspettami. Ti porto da mangiare. (Si avvicina rapidamente al Monaco cuciniere; questi le riempie la ciotola e le porge un pezzo di pane. È attratto dal pianto del bambino che piange dai ricovero di Marina. Essa frettolosamente ritorna verso il bambino, dicendo al monaco) Grazie. (// Monaco la osserva e ascolta; poi si avvicina al ricovero di lei). Il Monaco cuciniere. Chi è che piange? (Si china e guarda; vede Marina che, inginocchiata, cerca di far mangiare il bambino, il cui pianto si affievolisce. Sorpreso) Dove l'hai trovato?
Marina - (con trepidazione gioiosa e insieme quasi vergognandosi). L'ha portato qua il locandiere.
Il Monaco cuciniere - (dopo un istante, colpito, guardando Marina). È tuo figlio?
Marina - Non lo vogliono più. Me l'ha lasciato. Non ha nessuno. (Con tremore gioioso) È mio. (Un silenzio).
Il Monaco cuciniere - (guarda colpito il bambino che mangia e Marina che lo imbocca). Ma cosa vuoi farne? Dove lo terrai?
Marina - (quasi con stupore). Con me, qui. Si sta benissimo.
Il Monaco cuciniere - Tu sei pazzo. È piccolo. Presto verrà l'inverno, ti morirà di freddo e di stenti.
Marina - (con gioiosa e ridente sicurezza). Oh, c'è ancora quasi un mese!... (Una pausa. Ora il bambino non piange più. Marina lo corica sul giaciglio, lo copre alla meglio, si toglie la mantella che ha addosso e la mette addosso a lui, contemplandolo, poi solleva lo sguardo verso il Monaco e ripete, sommessa, trepidante, come per convincersene) È mio. (Breve silenzio. Più commossa) Mi sembra di essere di nuovo con mio padre.
Il Monaco cuciniere - (scuotendo il capo, turbato, e tornando verso il convento). Non potrai tenerlo così. Morirete tutti e due. (Fa per rientrare).
Marina - (si alza, lo raggiunge). Senti!... (Più basso, turbatissima) Di' ai fratelli che preghino molto per sua madre. (Quasi esitando a dirlo) È lei che non lo vuole più. (// Monaco entra in convento. Marina torna in fretta verso il giaciglio, e vi si siede delicatamente, contemplando il bimbo. La scena si oscura).
Il Benedettino - (leggendo). « Ciò appreso, i monaci, toccati da pietà, si recarono dall'Abate e lo pregarono di accogliere Marino nel monastero, dicendo: Padre Abate, abbi misericordia e dai ricetto a frate Marino. Ecco, egli da tre anni giace in penitenza sulla porta del monastero e ora deve provvedere al suo bambino. Assumilo in penitenza, così come ci ha ordinato Nostro Signore Gesù Cristo. E l'Abate, quasi da loro costretto, ordinò che fosse fatto entrare e lo chiamò presso di sé».
SCENA SESTA
Si illumina la scena.
L'Abate, in piedi, rigido, guarda silenziosamente Marina che entra con il bambino per mano; e subito si inginocchia. Marina appare estremamente commossa, di una commozione intima, contenuta, che rende i suoi pallidi tratti ancora più stirati e miseri. C'è un breve silenzio.
L'Abate scruta quel volto silenziosamente, poi, a voce bassa e con forza contenuta, dice:
L’Abate - Perché sei rimasto qui fuori, tre anni? (Marina, in silenzio, leva gli occhi su di lui, smarrita, e torna ad abbassarli. L'Abate duramente, turbato) Alzati. (Marina si alza) Il tuo dovere era di provvedere al tuo bambino e a sua madre. Tu non ti sei più occupato di loro. Perché? (Marina non risponde; i suoi tratti si alterano ancora di più. Con forza maggiore) Rispondi. Credevi che ti avrei riassunto nell'ordine?
Marina - (subito, con voce sommessa e spontanea). Oh, no! Come sarebbe possibile? (Quasi esitando, sommessamente) Potevo continuare a pregare come quando ero in convento.
L’Abate - (quasi con violenza). Non rispondere così, sii sincero! (Sì contiene, riprende) Tu sai bene che le preghiere non valgono niente se sono contraddette dall'azione. Tu conoscevi il tuo dovere. Era un altro. La tua penitenza era un'altra. Ecco, adesso quella donna ripudia questo innocente, perché prende marito e tu non puoi provvedere a lui. Il tuo peccato è peggiore di prima. (Marina tace; lacrime silenziose le rigano le guance. Breve silenzio. L'Abate, turbatissimo, scruta ed esamina il volto di lei. Con amarezza) Se tu fossi privo d'intelligenza, potrei pensare che non sai quello che fai. Ma l'intelligenza non ti manca, lo so, perché ti ho allevato e guidato negli studi. La tua volontà e la tua coscienza non sono estranee ai tuoi atti. Ecco, quasi non ti reggi in piedi; la tua giovinezza è rovinata. Per tre anni sei rimasto là fuori, con la fame e il freddo, senza poter sperare né nel perdono di Dio, né nel nostro. Perché lo hai fatto?
Marina - (quasi con un sorriso spontaneo). Ma io non ho mica sofferto tanto.
L’Abate - (con trasporto, dopo un attimo di silenzio). Non sfuggire; non evitare di rispondermi. Perché lo hai fatto?
Marina - (sommessa, umile, quasi esitante). Te l'ho detto, padre. Perché potevo continuare a pregare.
L’Abate - E tu, per pregare, hai vissuto tre anni sulla nuda terra?
Marina - (quasi giustificandosi, sommessamente, esitante). Cosa potevo fare di meglio? Cerco di pregare come pregate voi da quando mio padre mi ha portato qui, perché non c'è niente di più importante. Io so che è vero. Non sono niente; non succede niente di quello che immaginiamo, tutto è diverso da quello che sembra. Qualunque cosa è buona.
L’Abate - (la colpisce con uno schiaffo, ed esclama con voce rotta e soffocata dall'emozione e dallo sdegno). Ipocrita, ipocrita, ipocrita! Cosa vuoi farmi credere di te? Che sei santo? (La commozione gli toglie la parola, tace un istante, come per dominarsi; poi con voce più bassa, soffocata, riprende) Tu hai accettato i Sacramenti in peccato mortale, senza confessare la tua colpa; hai potuto vivere così, ingannando Dio e i tuoi fratelli; e adesso ti vanti di una fede che soltanto un santo potrebbe avere. Avanti, dimmi, di dove ti è nata? Quando?
Marina - (con improvviso scatto di dolore esasperato, ma quasi a se stessa, sommessamente, con gli occhi pieni di lacrime). Adesso basta, restare qui. Fammi morire.
L’Abate - (estremamente commosso, amaro). Ecco, alla mia età io sono costretto a trattare in questo modo uno di quelli che mi erano stati affidati. Te, che ho visto bambino e che tuo padre mi ha lasciato. (Piange) Nelle notti d'inverno, dovevo pensarti steso a terra, senza letto e senza riparo, e quando voglio avvicinarmi alla tua anima non trovo che turbamento, contraddizione, sdegno, dolore. No, tu non sei quello che vuoi apparire. (Di nuovo violento, ma sempre tra le lacrime) Per te, l'esistenza del monaco era soltanto un modo di sfuggire le fatiche e le responsabilità della vita. Tu speravi che ci commovessimo per la tua perseverante finta pietà e ti riprendessimo con noi. Ma questo non sarà mai; mai nessuno, in questo monastero, ha fatto quello che hai fatto tu.
Marina - (piangendo si piega, gli afferra le mani, gliele bacia ripetutamente con trasporto d'amore pietoso). Perdonami, padre. Forse era meglio per te e per i fratelli se io non fossi mai venuto qui. Vi avrei risparmiato tanto dolore. Perché ti affliggi per me? Qualunque cosa si soffra, è sempre poco per la nostra miseria, lo sai. Non ti affannare; tutto quello che è successo, non so perché sia successo, ma è stata volontà di Dio. Se puoi, perdonami, come sono. (Più sommessa, quasi supplichevole) Dio è dentro ciascuno di noi.
L’Abate - (ancora piangendo, amaro). Oh, io vorrei poter vedere dentro di te, nel tuo animo, e trovare qualcosa di diverso dalla malizia e dall'egoismo; ma non lo credo. Tu non sarai mai più monaco. Ti acconsento di rimanere sotto il nostro tetto per pietà di questo innocente, che non muoia di fame e di freddo. Resterai qui come inserviente, porterai l'acqua, spazzerai, sgombrerai le immondizie.
Marina - (piangendo di gioia e baciandogli le mani, con voce soffocata e rotta). Grazie, padre. Grazie, padre.
L’Abate - Va', e lasciami il bambino. Tu non dovrai più occupartene. A educarlo provvederemo noi. (Prende per mano il bambino, togliendolo a Marina).
Marina - (piangendo di gioia e mandando baci con la mano all'Abate e ai monaci). Grazie, padre. Grazie, padre! (La scena si oscura).
Il Benedettino - (leggendo). « Ma dopo pochi giorni successe che, sfinita dalle lunghe tribolazioni, Marina si addormentò nel Signore... Andarono i fratelli e lo annunciarono all'Abate, dicendo: Marino è morto».
SCENA SETTIMA
S'illumina una parte della scena. Il padre Abate sta lavorando la terra con gli altri monaci. Hanno tutti le maniche rimboccate, qualcuno tiene un grembiule legato sulla tonaca. Il Monaco cuciniere è entrato e si inchina davanti all'Abate.
Il Monaco cuciniere - Padre Abate. Marino è morto. .
L’Abate - (con voce sommessa, improvvisamente turbata). Marino è morto? (Gli altri monaci sospendono il lavoro e ascoltano; qualcuno si avvicina adagio).
Il Monaco cuciniere - L'ho trovato morto poco fa; adesso.
L’Abate - (sommessamente, sbigottito, turbato). Marino è morto. (Brevissimo silenzio) E come?
Il Monaco cuciniere - Ieri sera è venuto in cucina per spazzare e portar via i rifiuti; dopo non l'ho più veduto. Questa mattina non mi ha portato l'acqua, ma io ho creduto che tu gli avessi dato un altro incarico, e non ci ho pensato più. Non è venuto nemmeno alla refezione; volevo chiedere a frate Clemente se l'aveva visto, ma poi, di nuovo, mi è passato di mente. Era in convento da pochi giorni, una morte terribile. Non ha avuto i Sacramenti, nessuno gli è stato vicino nella sua ultima ora; e il suo corpo è rimasto una notte e un giorno tra i rifiuti. (Una pausa) Vi ricordate com'era docile, pio, candido, sempre lieto? Prima? (Breve silenzio) Era o sembrava? (Brevissimo silenzio) Lo stesso candore, la stessa anima lieta e pia dimostrava anche quando viveva già in peccato mortale e noi lo ignoravamo. (Lentamente si volge verso gli altri monaci, turbato, quasi smarrito) Voi che cosa pensavate di lui? (Nessuna risposta) Che fosse un ipocrita pieno di malizia? O un debole che conosceva il bene, e lo desiderava, ma non aveva la forza di raggiungerlo? (Brevissimo silenzio: più turbato, più commosso) O un povero peccatore, sinceramente pentito? (Più sommesso, con intimo timore) Qualcuno di voi mi ha rimproverato di essere stato troppo severo con lui. Lo pensate?
Primo Monaco - (quasi esitante, con un lieve sorriso triste). Credo che nemmeno tra di noi fossimo d'accordo sul suo conto.
Secondo Monaco - (più reciso). No, non eravamo d'accordo. Molti ti approvano.
Primo Monaco - Sarà difficile, anche in avvenire, mettersi d'accordo su di lui, o essere certi di averlo giudicato bene o male. Quello che ha fatto era troppo in contraddizione col suo modo di comportarsi. Ciascuno lo giudicava diversamente (con il solito sorriso triste) e forse i più severi erano i più giovani. Io ho ringraziato sovente il cielo che non spettasse a me decidere di lui; perché davvero la sola cosa che si può dire è che il suo peccato è stato grande, ma che ha sofferto molto. Questo lo sappiamo con certezza. Di tutto il resto, cosa possiamo pensare? Anche se i suoi peccati sono stati infiniti, non possiamo sapere quello che Dio ha operato nel suo cuore. Forse è meglio non dire altro e non pensare altro, perché tanto questo fatto di Marino ci ha divisi.
L’Abate - Dunque, è morto ieri sera, là sotto?
Il Monaco cuciniere - È certo, padre Abate, perché non ha nemmeno scaricato il sacco che portava; ci è cascato sopra, ed è rimasto fi. (Breve silenzio).
L’Abate - (sommesso). Ma com'era, quando l'hai visto l'ultima volta? Ha parlato? Cosa ha detto?
Il Monaco cuciniere - Niente. Ha spazzato, s'è caricato il sacco, non ha detto niente. (Breve silenzio) Quasi non parlava, lo sai. (Breve silenzio) Forse, a pensarci adesso, era più pallido e più stanco. (Pausa).
L’Abate - (sommesso e turbato). Questa è pagina 48 - 49
L’Abate - (sommesso, amaro). Sì, ci è stato detto di giudicare; ma c'è sempre qualcuno, finché siamo su questo mondo, che deve accettare il peso e le conseguenze del giudicare. (Brevissimo silenzio) Devo dirvi che nessuno, come lui, mi ha dato tanta afflizione e tanti dubbi. Il pensiero di Marino, del suo animo, del suo peccato e della sua dura penitenza, è stato il tormento più grave della mia vita. Forse perché l'ho conosciuto bambino. L'ho cresciuto, e avevo riposto in lui molte speranze e molto affetto. Suo padre era un uomo giusto, e me lo aveva affidato. Sovente mi sono accusato io stesso di essere stato troppo severo con lui; ma ho sempre respinto questa tenerezza umana perché tutto mi costringeva a condannarlo. Tutto. E ciò malgrado, c'era ancora qualcosa in lui - e non so cosa - c'era qualcosa che mi rimproverava e mi accusava. (Lunga pausa) Pensare che bene o male siamo già puniti o premiati da Dio su questa terra, non si deve; e non sempre si può interpretare come segno di condanna o di premio la disgrazia o la fortuna. Ma questa morte è veramente troppo piena di maledizione per non essere voluta da Dio come segno della sua condanna. Io m'ero commosso per lui, e lo avevo accolto in convento, e dopo tre giorni soltanto la morte lo ha colpito nel modo più infame. Veramente dunque era un indegno. Di suo padre e di quelli che vivono santamente si può dire, quando la morte viene: «Egli ha raggiunto il grado di perfezione ». Di lui dobbiamo dire: «È morto». Perché è veramente morto. (Breve silenzio. Quasi duramente) Lavatelo, e poi seppellitelo fuori del convento. (Si sente la voce del terzo Monaco che grida).
Voce del terzo Monaco - Padre Abate! Padre Abate! (Entrano il terzo e il quarto Monaco, stravolti, piangenti).
Terzo Monaco - Padre Abate! Accorri! Quarto Monaco. Cosa abbiamo fatto! Dio mio, cosa abbiamo fatto! Venite!
Terzo Monaco - Fratelli, cosa abbiamo fatto! Venite! Venite! Marino era una donna!
L’Abate - (con un grido). Cosa dici? Quarto Monaco. Marino era una donna! Dio mio, Dio mio! (L'Abate, che è rimasto immobile, come fulminato, getta un forte grido e si precipita coi monaci verso l'altra parte della scena che ora viene illuminata. Su una barella rozza, coperta da un lenzuolo bianco, giace il corpo di Marina. L'Abate e i monaci la raggiungono impetuosamente. L'Abate si arresta un attimo, come in preda al terrore, poi con gesto brusco toglie il lenzuolo. Appare, esile, bianco, incorporeo, il corpo verginale di Marina. Il profondo silenzio è rotto da improvvisi, soffocati singhiozzi- I monaci, a uno a uno, cadono in ginocchio piangendo; alcuni si prostrano col capo a terra. L'Abate, in piedi, immobile, come una statua, contempla il volto di Marina. Intorno a lui i singhiozzi si fanno più alti. L'Abate cade in ginocchio; si prostra col capo a terra. La sua voce è irriconoscibile, quasi mormora).
L’Abate - Santa, santa, santa, abbi pietà di me. Santa, santa, santa, non accusarmi in cospetto di Dio. Perché io non ho conosciuto il tuo segreto e ti ho tormentata senza colpa. Santa, gloriosa, vergine santa, in nome di Gesù Cristo, ti scongiuro, abbi pietà di noi. (La scena si oscura).
Il Benedettino - (leggendo). « Nello stesso giorno quella fanciulla che l'aveva accusata, mentre celebrava le nozze, fu invasa dal demonio ».
SCENA OTTAVA
La scena viene illuminata. Si sente suonare una musica di danza e le voci e i passi cadenzati dei ballerini. La Figlia del Locandiere, nei multicolori e ricchi abiti da sposa, corona di fiori sui capelli, entra quasi subito impetuosamente seguita da un giovane aitante, entrambi in atto di nascondersi.
L'Amante - (sottovoce, tra la collera e la paura, guardandosi alle spalle). Che vuoi?
La Figlia del Locandiere - (con voce lenta, grave, roca). Un momento solo, vieni. (L'Amante getta un'altra occhiata alle spalle e le si avvicina in fretta; essa lo abbraccia con violenza).
L'Amante - (spaurito, cercando di sciogliersi). Sei impazzita.
La Figlia del Locandiere - Dammi un bacio.
L'Amante - (c.s.). Lo sposo è di là!... (La ragazza lo stringe e lo bacia con furia; egli la bacia e subito cerca di sciogliersi) Vai, adesso, vai.
La Figlia del Locandiere - (gli prende le mani, se le stringe ai fianchi). Toccami tutta prima che mi tocchi lui. Se non mi baci, mi metto a gridare.
L'Amante - (senza capire, spaurito). Cosa vuoi fare?
La Figlia del Locandiere - Mi metto a gridare, e dico tutto. Anche del bambino. (Gli prende una mano, se la preme sulla bocca) La tua pelle sa di giovane, la sua ha odore di vecchio... (Lascia la mano di lui; quasi barcolla, portandosi le mani al collo).
L'Amante - (ridacchiando, malcerto, e insieme baldanzoso). Va', bevi un po' di vino, sta' allegra. Adesso siamo a posto per sempre.
La Figlia del Locandiere - (con le mani strette al collo). Vorrei bere, ma non posso. Da ieri sera ho la gola chiusa. Sto male.
L'Amante - (sorridendo, sottovoce). Ti fa tanta avversione andare a letto con lui?
La Figlia del Locandiere - Non me ne importa niente. Sono curiosa, anzi. Domani sera starò con te e ti racconterò tutto.
L'Amante - (con spavento, rude). Senti? Ti cercano! Torna là!
La Figlia del Locandiere - Vorrei diventare di nuovo bambina. Ma cosa servirebbe? Mi divertivo già coi ragazzi. (Con una risata amara e torbida) Non sono nata per fare la monaca.
L'Amante - (sommesso, rude, ansioso). Tu vuoi farci scoprire! Va', presto.
La Figlia del Locandiere - (ridendo). I bei ragazzi non hanno denaro. Bisogna essere furbi in questo mondo. (Lo afferra, mentre egli vuole andarsene) Vieni qua. Questa notte avevo il fuoco addosso; ho pensato a te tutta la notte. (Cerca di abbracciarlo di nuovo, ma egli la respinge con violenza).
L’Amante - Basta, adesso!...
La Figlia del Locandiere - (rauca, stravolta). Penso a te, penso sempre a te: ho il fuoco addosso.
L’Amante - Oh, mi hai stancato!...
La Figlia del Locandiere - (con un breve riso sommesso, disperato). Sei dentro la mia bocca, e il mio ventre. (D'improvviso barcolla, getta un grido roco). L'Amante - (la sostiene spaventato). Ma cosa hai? Cosa dici? Su! Su! (La schiaffeggia per farla riprendere) Ti cercano!... Vengono qui! Su, per Cristo!... (La Figlia del Locandiere si risolleva, si guarda attorno selvaggiamente) Vuoi rovinare tutto all'ultimo momento? Hai dato via il bambino, per non farci scoprire, e t'agiti tanto per andare a letto col tuo sposo! Va', cammina!
La Figlia del Locandiere - (cupa, selvaggia). Oh, il bambino! Fosse bastato ucciderlo per averti, lo avrei ucciso! (La musica e le voci sono prossime. L'Amante fugge. Uomini e donne vestiti a festa entrano collo sposo, un uomo anziano, corpulento, e circondano la ragazza).
Voci - Dove sei? Cosa fai qui? Perché non balli? Su balla! Balla!... Avanti gli sposi!
La Figlia del Locandiere - (cupa, roca, gli occhi a terra). Non ne ho voglia!
Le Ragazze - (cercano di spingerla e ballare). Balla, su! Balla col tuo sposo! Perché non balli?
La Figlia del Locandiere - (violenta, selvaggia, roca). Non mi seccate! Non ne ho voglia! (C'è un momento di silenzio, stupito. La musica continua insistente).
Lo Sposo - Non vuoi ballare con me? (La Figlia del Locandiere rompe d'improvviso in una risata stridula e si butta a ballare con violenza. Intorno si levano di nuovo voci ed esclamazioni festose. Lo Sposo balla pesantemente con lei. Ma essa a un tratto si arresta, ansante, stravolta; si porta di nuovo le mani al collo, volgendo attorno due occhi spiritati) Sei stanca? (Senza rispondere, essa riprende a ballare; balla con violenza disordinata, tanto che gli altri se ne avvedono e si fermano a poco a poco, stupiti, osservandola. Essa continua a ballare, con atti sempre più folli. Si strappa la corona e la butta). Fermati! Cos'hai? (Essa non risponde, getta un grido terribile e cade a terra. Tutti, con alte esclamazioni, accorrono intorno. La musica cessa. Dietro gli altri, pallido e atterrito, c'è
L’Amante - La ragazza viene sollevata e deposta su un sedile. Tiene gli occhi sbarrati, mugola bestialmente parole indistinte. Lo Sposo, spaurito) Aiuto! Sta male!
La Figlia del Locandiere - (d'un tratto, con voce spaventosa e nuova grida). Frate Marino è morto! Lasciami stare, Marina!... Perché mi chiami? Non ho niente da fare, con te!... (Si solleva, cammina verso l'Amante, che indietreggia; grida) Il figlio è suo! (Sputa sul volto dell'Amante) Lasciami stare Marina!... Che cosa c'è tra me e te?... Perché mi chiami?... Dove... Dove mi chiami? Non voglio venire con te, lasciami stare!... (Fugge, gridando e strappandosi le vesti di dosso. Intorno cercano di fermarla. Essa si divincola e si libera con forza inumana, mordendo, sputando e gridando; e nel fuggire seguita a denudarsi. La scena si oscura).
SECONDO INTERVENTO CORALE
Viene illuminato il coro.
Il Benedettino - (leggendo). « E nel settimo giorno da che Marina riposava nel Signore, venne quella indemoniata al sepolcro di lei, e ivi fu liberata dal demonio, ed essa si convertì e fu salva ».
L'Ingegnere - (con forza). Abbia la gloria del paradiso. Marina; e le sia concesso di far miracoli. Fra i moltissimi santi della Chiesa, altri ci sono che sento vicino al mio spirito, ma santa Marina è lontana da me; per cui anzi ora che ne conosco tutta la sua storia, provo nell'animo - lo confesso - qualcosa di simile all'avversione. Io ho sempre condannato, dentro di me, come istituzioni sorpassate, e irragionevoli, i conventi di clausura. Ecco, ora sono convinto di aver ragione. No. veramente, la Chiesa dovrebbe sopprimere questa parte di sé ch'è fuori del tempo e che la fa apparire ai profani come qualcosa di lontano e di assurdo; sopprimere questi luoghi di inutili genuflessioni, forme di fanatismo egoistico che offendono il senso di umanità, quando il mondo è pieno di gente che soffre. No, veramente, veramente c'è qualcosa dentro di noi che si ribella, secoli di ragione e di indagine, rispetto per la vita umana e l'intelletto, qualcosa si ribella dentro di noi a un simile travisamento della natura umana.
Il Prete secolare - (con commozione contenuta). Noi che viviamo e operiamo nel mondo, insegnando, organizzando, scrivendo, praticando, avendo cura d'anime e di corpi dal mattino alla sera, tanto che ne restiamo sfiniti e malati, sovente - è vero - ci lasciamo sopraffare dalle cure terrene, dalle lotte, dalle rivalità. Trascinati dall'assillo della nostra attività, sovente ci sembra che in essa stia la parte più importante del nostro ministero. La vita di santa Marina ci ricorda il valore della preghiera e del sacrificio, ed è giusto richiamo. Mi ha commosso, e colpito; la nostra solitudine, nella vita secolare, è grande. (Con forza, allo Scrittore) Ma non sia interpretata questa vicenda come una condanna di tutto quanto è stato fatto, e viene fatto, nel mondo, per realizzare una civiltà cristiana. Molti di noi, i più, oggi lavorano per cento strade diverse, a questa impresa; e la preghiera di coloro che sono rimasti nei chiostri ci sorregge. Oggi il cristianesimo, uscito appunto dai chiostri, agisce nella vita sociale, nella professione, nell'arte; e tutti i mezzi della scienza moderna sono messi al servizio di questa lotta per una società cristiana. Nego che, oggi, Marina sarebbe elevata dalla Chiesa agli altari. Diversa è la nostra ricerca di Dio.
Lo Scrittore - Forse, ereticamente, io non so bene distinguere dai pagani i cristiani che vivono nel mondo senza essere del mondo. È scritto: « Chi amerà suo padre e sua madre e la sua vita più di me, non è degno di me »; e la catena degli affetti e degli interessi umani non ha soluzione di continuità. Ma voi, stando nel mondo, siete veramente divenuti parte del mondo. Mi perdoni, padre, e mi lasci parlare. Dalle necessità di contatti con gli altri uomini siete scivolati da secoli nel mito pagano e anticristiano di una società temporale cristiana. (All'Ingegnere) Che cosa ha da fare, mi scusi, la società temporale col cristianesimo? Più cibo, più macchine, più agi, questa è in definitiva la società temporale per cui vi adoperate, pur esigendo che si frequentino i Sacramenti e le funzioni religiose. Credete di avvicinarvi allo spirito moderno prendendo in prestito i ritrovati della tecnica e della sociologia, ma il mondo non può suggerirvi altro che idee di potenza e di dominio. (Al Prete) I più avanzati di voi fanno di Cristo un agitatore sociale; e così, mentre condannano la violenza di cui il cristianesimo si è servito nei secoli passati - le Crociate, l'Inquisizione, le guerre di religione giungono inevitabilmente agli stessi risultati, poiché oggi già si affaccia nella loro dottrina la giustificazione della violenza quando è rivolta a correggere le ingiustizie sociali.
Il Prete secolare - E quali mezzi abbiamo nel mondo moderno, meccanizzato, rapido, tutto pagano, per avvicinare ancora gli uomini, se non usando gli stessi sistemi di cui dispongono i nostri nemici? Quale influenza può ancora esercitare su quelli che vivono nel mondo la contemplazione claustrale? Noi abbiamo riconquistato masse imponenti; milioni di fedeli si confessano e si comunicano, milioni di lavoratori aderiscono alle nostre organizzazioni. Noi abbiamo il dovere e il diritto di interferire nella vita della società. Perché rinnegare tutto questo?
L’Ingegnere - Dica, allora, apertamente, che non si sente cattolico; e nemmeno cristiano.
Il Prete secolare - Appunto. Dica, allora, apertamente che secondo lei il cristianesimo ha esaurito la sua funzione nel mondo moderno. Ma se ancora sussiste, proprio in questo sussiste: imitando Cristo che è andato verso il mondo, a contatto con gli uomini; e ha identificato il prossimo con Dio.
Lo Scrittore - Nel mondo, Cristo è andato soltanto per separarne gli eletti. « Io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato », ha detto un'ultima volta prima di morire. Togliere gli eletti dal mondo, diffondere quella buona novella che può dare a ciascuno il mezzo dì identificarsi con Dio. Ma guai quando questa strada di perfezione individuale viene interpretata come messaggio sociale. Società temporale e cristianesimo sono due termini che si contraddicono senza misericordia, fin da quando l'ingenuità degli apostoli ha tentato di creare una società cristiana con leggi cristiane, comunistiche, fallendo miseramente la prova. Ogni volta che i vostri sforzi per una società cristiana vi hanno dato il potere, ne sono nati gli Stati più anticristiani della storia. È tragica questa vostra illusione, quando Cristo ha costantemente affermato: « Il mio regno non è di questo mondo ». Sì, davvero, noi siamo il mondo per cui Cristo si è perfino rifiutato di pregare; e per noi è legittima la domanda: « Chi si salverà? ».
Il Benedettino - Ma non è una domanda senza risposta. Cristo stesso ha risposto: « Ciò che agli uomini è impossibile, è possibile a Dio ». Carità, carità! Sì, il cristianesimo è la religione dei santi, la strada della santità; ma ciascuno la percorre con le forze e i mezzi che Dio gli ha dato. Resta, l'esempio di santa Marina, come segno di interna contraddizione per ciascuno di noi, poiché sicuramente quella, e non altra, è la legge: il turbamento continuo delle coscienze; il dissidio fra padre e figlio, fra marito e moglie; non la quiete, ma la lotta, nell'interno di ciascuno, e tra uomo e uomo, fino alla fine del mondo, verso la perfezione cristiana, in unione mistica con Cristo e coi santi. In questo senso il cristiano non è solo; ma in questo unico senso; e la sua scoperta di Dio non ha dunque nulla a che fare con la società temporale. Ma non spaventiamoci, e non spaventiamo le infinite legioni dei nostri fratelli; siamo dei poveretti carichi di bisogni, di miserie, di affanni; gli angeli che hanno annunciato la nascita di Cristo cantavano: « Pace in terra agli uomini di buona volontà». Lo spirito dì Dio soffia dove vuole e la grazia non ha leggi umane. Ecco, la storia di santa Marina è finita. Dice ancora il testo: «Udendo di quel miracolo, dai luoghi e dai monasteri vicini, prese le croci e i ceri, vennero benedicendo Dio con inni e cantici, ed entrati nell'oratorio in cui riposava il corpo di Marina, benedissero Dio. Ed ivi, il santo corpo dì quella vergine fece molti prodigi, per grazia di Cristo e gloria del nome suo ». (Mentre il Benedettino ha ripreso a leggere, la scena si è di nuovo illuminata; monaci e laici avanzano cantando salmi verso la tomba di Marina; fra i laici, cammina a piedi scalzi, vestita di sacco e coi capelli sciolti, la Figlia del Locandiere. Anche i personaggi del coro si levano in piedi) È scritto infine che le spoglie di santa Marina vennero trasferite a Venezia, su una grande galea, verso il 1200, ed ivi, accolte con trionfo di popolo, furono sepolte nella chiesa che prese il suo nome. A lode di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. (Sulla scena e nel coro, tutti si segnano, rispondendo).
Tutti -Amen.
FINE