La sacra rappresentazione di Santa Marina

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La sacra rappresentazione

di Santa Marina

Commedia in un prologo e otto scene

Di TULLIO PINELLI

PERSONAGGI

Personaggi del dramma:

La bimba Marina

Il monaco Marina

Il monaco Eugenio

Il Locandiere

La Figlia del Locandiere

Il padre Abate

Il Monaco cuciniere

Un Monaco

Un secondo Monaco

L'Amante

Lo Sposo

I Monaci

Gli Invitati alle nozze

Personaggi del coro:

Lo Scrittore L'Ingegnere

II Benedettino

Il Prete secolare

Commedia formattata da

PROLOGO

La scena è immersa nel buio. Avanti, da un lato, stanno seduti in semicer­chio i quattro personaggi del coro, tutti in abiti moderni. Sono un Benedettino, un Prete secolare, che tiene un basco in testa e una sciarpa di lana nera buttata intorno al collo, e due laici: lo Scrittore e l'Ingegnere.

Lo Scrittore                   -  Ecco, « paucorum palmorum fecisti dies meos, et vita mea nihil est coram te; ut halitus tantum stat omnis homo ».

Il Prete secolare             - « Ut umbra pertransit homo ».

Il Benedettino               -  « Inaniter tantum tumultua-tur; coacerunt, nec scit quis percipiat ea ». Ecco: hai dato ai miei giorni la lunghezza di una mano, e la mia vita è come un nulla di fronte a te. Ogni uomo non è che un soffio; passa come un'ombra ogni uomo; vanamente si agita, ammassa, e ignora chi raccoglierà. (Breve pausa).

Lo Scrittore                   -  Io ho sempre amato le cose del mondo, in un modo molto terreno; ma la loro caducità non ha mai smesso di darmi un senso di angoscia. In principio era più vago; restava nascosto in fondo all'animo; soltanto a tratti, più sovente durante la notte, si rive­lava all'improvviso e mi spauriva. Ma gli anni passano; e si scopre che persino il ricordo delle cose lontane è incerto e faticoso, come di cose sognate. Amori, affanni, gioie, ran­cori sono scivolati via, non è rimasto più niente. Il pensiero della morte mi è diven­tato familiare. Mi succede di interessarmi alle piante, che saranno presto le compagne del mio corpo. Ho visto morire amici cari e pa­renti; il giorno della morte è sempre meno remoto. Forse la cosa definitiva che si cerca dietro la caducità terrena è questa: l'incon­tro, oltre la morte, con l'eterno. L'inconosci­bile. Dio. Allora, tutto quello che non vale ora a prepararci a questo incontro, e anzi ce ne distrae, appare veramente superfluo e vano.

Il Benedettino               -  « Tutti i nostri giorni sono passati nella tua collera, abbiamo terminato i nostri anni come un sospiro ».

Lo Scrittore                   -  Ero in queste condizioni di spirito, quando mi accadde di conoscere la storia di santa Marina. (Prende un volume e lo mostra). È la storia di una santa molto antica; una ragazza di 1400 anni fa. Sta negli « Acta Sanctorum » dei Bollandisti, al volume quarto, il volume del mese di luglio, e non è più conosciuta e ricordata da nessuno. Forse i fatti che si raccontano di lei sono in parte leggenda, ma non importa; quello che impor­ta è che siano stati raccolti e narrati come prova di santità. Vorrei parlarvene, perché in principio io non l'ho compresa, anzi, quel racconto, in principio, mi è apparso assurdo e quasi rivoltante. Noi non ci conoscevamo, prima di questa sera; per caso ci troviamo riuniti nella foresteria di questo convento, do­ve tutti e tre siamo venuti a cercare un poco di silenzio e di solitudine, sfiniti dalla nostra vita secolare assillante; ma i quesiti, le emo­zioni e i dubbi che la storia di santa Marina solleva non possono non toccarci tutti, se sia­mo convenuti qui dentro. I monaci si sono già ritirati a dormire nelle loro celle, fino alla veglia per la preghiera notturna; noi, che non ne abbiamo l'obbligo come loro, possiamo in­trattenerci ancora un poco; e leggendo la sto­ria di santa Marina vedere, insieme, come si debba intenderla, e applicarla, a ciascuno di noi. (Al Benedettino) Non so se il padre foresterario vorrà rimanere con noi ad aiutarci.

Il Benedettino               -  Non conosco la storia di santa Marina, e la conoscerò volentieri. (Sor­ridendo) Il mio sonno non conta: tanto mi alzo col sonno e me lo trascino sempre ap­presso, da un giorno all'altro. (Apre il volu­me e legge) « De sancta Marina virgine. Primus: Pater sollicitus de salute fìliae Marinae. Erat quidem saecularis, nomine Eugenii, ha-bens unicam filiam parvulam. Ipse converti cupiens, commendavit eam cuidam parenti suo et abit ad monasterium, quod longe erat de civitate miliaria triginta duo ». (Traduce dal volume) Santa Marina Vergine. Primo: Il padre ansioso della salvezza della figlia Marina. Vi fu un laico, di nome Eugenio, che aveva un'unica figlia piccoletta. Desiderando convertirsi, la affidò a un suo parente, e si ritirò in un monastero che distava dalla città trentadue miglia. E ammesso nel monastero, vi ci compiva tutti i lavori necessari; cosicché l'Abate portava maggiore affetto a lui, che non agli altri monaci, tanto egli era fedele e obbediente. Successe però dopo un certo tem­po che egli si ricordò con amore pietoso della figlia sua e cominciò ad affliggersene e a con­tristarsi... Ciò vedendo, gli disse l'Abate: « Che hai, fratello? Dimmelo, Dio che tutti consola, ti aiuterà ». Quegli allora, inginocchiatoglisi davanti e piangendo disse: « Ho, nella città, un figlio, che lasciai piccoletto e mi affliggo pensando a lui ». E non volle dire che era una fanciulla. Disse allora l'Abate: « Se lo ami, va', e portalo qui con te ».

SCENA PRIMA

Durante le ultime battute si illumina la scena. È notte. Il monaco Eugenio è seduto su un sasso e sta parlando.

Marina è semisdraiata a terra, a poca distan­za da lui. È una fanciulla sui dodici anni. Sta appoggiata a un gomito e ascolta in silenzio le parole del padre, dal quale non distoglie lo sguardo. Un mantello la ricopre a mezzo; evidentemente si era sistemata per dormire.

Eugenio                         - (sommessamente, pianamente: con ardore contenuto). Noi non siamo nati santi. Qualcuno riceve la pienezza della grazia fin dal seno della madre, secondo i disegni di Dio; ma noi dobbiamo scoprire la strada del cielo un poco alla volta; saliamo i gradini uno alla volta, con fatica. Non abbiamo che una guida, in questa fatica: .l'amore di Dio; e di questo non si può parlare; non ci sono parole per dire cos'è, come nasce, quando, tanto è misterioso, tanto pare assurdo a chi non lo ha provato e sta nel mondo; perché non si può amare Dio senza rinnegare se stes­si. (Breve silenzio) La ragione di questo è ve­ramente il più alto mistero. Ma nessuno che abbia amato se stesso, il mondo, le cose del mondo, è mai giunto a Dio. Sappiamo che Dio è circondato di santi, e che tutti i santi hanno rinnegato se stessi; e forse nemmeno questo, ci occorre sapere; basta abbandonarsi all'amore di Dio, e tutto il resto viene da sé. Non c'è più limite né all'amore né alla rinun­cia. Si dice: delle cose del mondo io prenderò solo quel poco che mi è necessario per vivere rettamente. E lascerò il resto. Non è male amare la moglie, la casa, il lavoro, la patria; ma presto t'accorgi che in tutte queste cose tu ami ancora te stesso, le tue passioni, le tue preferenze. Non hai ancora evitato l'ira, l'orgoglio, non hai evitato, soprattutto, di es­sere sempre lo stesso. Non puoi vivere nel mondo e odiare le cose del mondo. È strano! Cristo lo ha detto e pochi lo intendono: « Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, mi segua. Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà. Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me ». Per vivere veramente in Dio, scopri che devi morire. Devi diventare come i morti, che non vedono, non sentono, non si lamen­tano. Scopri che devi ucciderti, respingere giorno per giorno persino i pensieri che la tua natura ti suggerisce, e non rimpiangerli, e anzi rinunciarvi con gioia, perché soltanto in questa morte trovi la vera vita: eppure nem­meno questo è ancora sufficiente. C'è qual­cosa più che morire: morire crocifisso. (Pau­sa. Eugenio si volge lentamente a guardare Marina che lo fissa in silenzio, come affasci­nata, sorridendogli in silenzio) Io forse non so parlare alle ragazze della tua età. Forse sto dicendo cose che tu non puoi ancora ca­pire. Ma se mi ascolti con amore, credo che puoi capire. Persino Dio si arriva a capirlo, non con l'intelletto, ma con la preghiera, per­ché la preghiera è un atto di amore. E la notte e il silenzio aiutano. Cosa significa fi­nire la vita nel tormento, disprezzati da tutti, senza voler difendersi dalle calunnie e dallo scandalo - com'è morto Gesù - puoi capirlo. Chi non lo capisce? È facile arrivarci con l'in­telletto e in uno slancio d'orgoglio, ma pochi - i santi - ci arrivano con umiltà, per amore di Dio, e sanno persistervi. Niente può ripu­gnare di più alla natura umana. E la nostra natura, al rinnegamento in sé, non smette mai di ribellarsi; non si rassegna mai. (Si in­terrompe, quasi bruscamente; sorride) Ma la notte passa, manca poco al mattino, e noi se­guitiamo a parlare. Tu hai camminato tutto il giorno, oggi dobbiamo ancora fare molta strada su queste montagne. Prova a dormire, Marina.

Marina                           - (con un sorriso). Non posso.

Eugenio                         - (ammiccando, con un sorriso). È troppo duro, per terra?

Marina                           - (con un sorriso giocondo). Sì, è trop­po duro. Non ho mai dormito fuori. È bello.

Eugenio                         - (quasi sorridendo di se stesso). Io sono come quello che ha scoperto una fonte e ha fretta di dissetare i suoi cari. Non avevo più pace, pensando che mi eri stata affidata e non potevo farti parte di ciò che avevo sco­perto. Quando ti ho lasciata, non sapevo be­ne che cosa venivo a cercare in queste soli­tudini. Avevo desiderio di quiete, di riposo come lo intende il mondo: tua madre era morta, avevo visto periodi di pace e tempi di guerra, della vita più niente mi attirava. (Si interrompe bruscamente; chiede) Non vuoi dormire, Marina?

 Marina                          - (con un sorriso, fissandolo). No. Parliamo.

Eugenio                         - (riprende subito). Oggi tu vedrai il nostro monastero; è un posto deserto come questo; si lavora in silenzio, si mangia in si­lenzio; di notte, quando ci alziamo per pre­gare, non si sente né un rumore né una voce. Dei fratelli, qualcuno è più giovane, qualcu­no è più vecchio, ciascuno è diverso dall'al­tro, ma tutti hanno la stessa attitudine, come custodissero dentro di sé un mondo segreto. Io sono arrivato in mezzo a loro come un naufrago, con l'animo pieno di affanni e di rancori terreni, di triste amarezza umana; cercando una quiete che è soltanto egoismo; e mi sono trovato innanzi a questa cosa me­ravigliosa: la contemplazione di Dio e la pre­ghiera. Gli antichi padri si ritiravano nel de­serto, dentro una grotta o una capanna, e ci restavano per anni, per tutta la vita, da soli. San Benedetto era poco più vecchio di te e ha passato tre anni in una grotta da solo. Nessuno di noi sa vivere come gli antichi eremiti; nessuno è santo, di noi, e se c'è un santo, non lo riconosciamo; ma la ragione del nostro silenzio, della nostra separazione dal mondo, è quella stessa pregare e contem­plare Dio. Perfino la mortificazione di sé non sarebbe che egoismo e orgoglio se non avesse questo scopo. Marina, è veramente meraviglioso vivere per pregare. Non c'è altra vita; il resto è inganno. Vuol dire, non chie­dere qualcosa a Dio; Dio sa di che cosa ab­biamo bisogno. Gesù lo ha detto; vuol dire adorare Dio in ogni atto e in ogni istante, con l'animo pieno di pace e purificato da ogni passione. È un esercizio duro, pregare così; non per niente gli antichi eremiti sceglievano il deserto, il silenzio perfetto, e si macerava­no il corpo ben più di noi; e arrivare alla per­severanza ininterrotta della preghiera è cosa umanamente quasi impossibile. È uno stato perfetto, vicino all'immortalità; chi lo rag­giunge, ha reso la propria anima quasi incor­ruttibile, come sarà dopo la resurrezione. Al­lora i confini fra materia e spirito spariscono, il miracolo perpetuo circonda la creatura, e il Cristo stesso vive in lei. (Pausa. Più som­messo) TI limite che divide l'orgoglio teme­rario dall'amore di Dio, è visibile soltanto a Dio; eppure ciascuno di noi ha il diritto di dire: «Perché non anch'io?». I santi sono uomini come noi. Ma ormai il giorno sta na­scendo; presto potremo metterci in cammino. (Una pausa. Marina, come ridestandosi da un sogno, volge attorno lo sguardo) Guar­da: dietro quelle cime il cielo è bianco. Si in­cominciano a vedere le nebbie, in fondo alla valle; vedi laggiù quella striscia che sembra di latte?

Marina                           - (come rapita). Non avevo mai visto il mattino a quest'ora. (Eugenio si volge a guardarla; si sorridono).

Eugenio                         - (a mezza voce). Tu ti ricordavi di me?

Marina                           - (a mezza voce). Non tanto.

Eugenio                         - Quando mi hai visto arrivare sei diventata pallida; tremavi tutta. (Marina di­stoglie in silenzio lo sguardo da lui, con un sorriso contenuto) Mi hai riconosciuto subito?

Marina                           -  Sì.

Eugenio                         - Anch'io ti ho riconosciuta subito; e sei molto cambiata. (Breve silenzio) Ades­so tu sei con me. (Si avvicina, le prende una mano) Alzati, è ora. (Marina gli tende la mano e si alza; essi rimangono qualche istan­te con la mano in mano) Vedi come nasce rapidamente il sole? Tocca già quella vetta. (Lascia la mano di Marina e toglie da un sacco un abito da ragazzo, giubbetto e cal­zoni, che le tende continuando a dire) Cambia il vestito e partiamo. (Marina, con doci­lità, quasi festosa, prende a mutarsi d'abito, si sfila il grazioso vestito da fanciulla, infila i calzoni e la giubba) Abbiamo, al monastero, un carro, con un paio di buoi. Sono io che lo porto in paese per caricare ciò che occorre. (Sorride, ammiccando) L'Abate sa che ero abituato a essere servito, mi ha messo a ser­vire. Tu verrai con me, se l'Abate permetterà; o forse dovrai lavorare nell'orto, con frate Gregorio. La notte, dormirai nella mia cella. (Si volge, la guarda; le sorride, ammiccando, ma con una tenerezza lievemente ansiosa) Ti ricorderai di non dire a nessuno che sei una bambina?

Marina                           - (con un sorriso festoso, ammiccando a sua volta). Sì.

Eugenio                         - E che il tuo nome, adesso, è Ma­rino, te lo ricorderai?

Marina                           -  Marino; sì. (Marina ora sta di fronte al padre, vestita da ragazzo. Eugenio la guar­da, sorride).

Eugenio                         - Marino, vieni. Tagliamo i capelli. (Marina si avvicina subito ad Eugenio che ha tratto dal sacco un paio di forbici e si appresta a tagliare i lunghi capelli) Io sono con te, non aver timore. Se il lavoro ti sem­brerà pesante o la vita faticosa, ti aiuterò.

Marina                           - (con un sorriso di gioiosa fiducia). Il Signore mi vuole bene, sa che valgo poco, non mi manda delle cose troppo difficili. (Eu­genio le ha tagliato i capelli. Marina si vol­ge, prende la lunga treccia dalla mano di lui, la guarda e la mostra al padre con semplice ammirazione, senza ombra di tristezza) Guar­da che bei capelli. Sembrano d'oro, lo sono fortunata, non son brutta, ho avuto un buon carattere. (Con un salto grazioso, infantile, piroetta su se stessa tre o quattro volte, in tondo, facendo roteare a braccio teso la chio­ma recisa. Si ferma: ride, un po' ansante) Non pareva un raggio di sole? (Si avvicina a un arbusto, vi appende la chioma recisa) La appendo qui; così la muoverà il vento. (Prende l'abito multicolore che ha smesso, lo piega con cura, lo mostra al padre) Vedi come è bello? Questi ricami li ho fatti io; an­che gli altri abiti miei, li ho tutti ricamati io. (Mette l'abito sotto una roccia, ben piegato; ha un attimo di preoccupazione) Si guasterà tutto. (Si risponde, col solito gioioso ottimi­smo) Tanto io cresco, presto non mi andreb­be più bene. (Si volge attorno a guardare il posto: si bacia la punta delle dita; ne sfiora la roccia sotto la quale ha dormito, con te­ nerezza gioconda) Addio, pietra. (Sorridendo al padre come per giustificarsi) L'ho sentita premere sulla schiena tutta la notte, mi ha fatto compagnia. Io voglio bene ai posti dove mi fermo.

Eugenio                         - (sorridendole). Prendi quei fiori,

Marina                           -  Li portiamo ai fratelli. (Marina si china a raccogliere i fiori, poi corre a rag­giungere Eugenio che la aspetta) Andiamo. (Eugenio prende la mano di Marina e si av­via con lei. Fatti alcuni passi, Marina volge lo sguardo in su verso il padre, guardandolo con infinita e lieta tenerezza; poi piega la guancia contro la mano di lui).

Marina                           - (a mezza voce). Papà. (Eugenio vol­ge lo sguardo in quello di lei, le sorride e continua a salire; conducendola con sé. La scena si oscura).

Il Benedettino               - (leggendo). « E la condusse con sé, e le mutò il nome, chiamandola Mari­ no. E la tenne presso di sé, ed essa studiava e lavorava nel monastero, e nessuno dei monaci si avvide che era una fanciulla, e tutti la chia­mavano Marino. Ed egli ogni giorno la am­maestrava a lungo sul regno di Dio. (Breve pausa) Ma quando essa raggiunse i dicias­sette anni, il padre di lei venne in punto di morte ».

SCENA SECONDA

Si illumina la scena.

Eugenio è steso sul suo giaciglio. Ha termi­nato di confessarsi al padre Abate, un vec­chio monaco dal volto scarno e dal rigido tratto, che pronuncia su di lui la formula dell'assoluzione.

L'Abate. « Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti ».

Eugenio                         - (si segna. Poi dice con voce arro­chita, ma pacata). Padre Abate, vorrei par­lare con mio figlio. (L'Abate fa un cenno di assenso ed esce. Poco dopo entra con ansiosa impetuosità un giovane monaco, esile e bian­co:  Marina . Essa si ferma subito, in silenzio, fissando il padre. Eugenio non si volge. Tie­ne lo sguardo nel vuoto, a lungo. Marina gli si avvicina; gli prende la mano, la preme contro la propria guancia. Un pianto calmo e silenzioso le riga il volto. Infine Eugenio gira gli occhi verso di lei, guardandola con un luminoso sorriso di tenerezza. Con voce som­messa) Non ho confessato la verità. Non sanno chi sei. (Marina alza lo sguardo in quello di lui, fissandolo in silenzio. Breve pausa) Presto non potrò più parlarti. L'ago­nia è dura: la lingua s'inceppa; si perde la mente, e la morte è venuta prima di quello che credevo. (Con un pallido sorriso) Come succede sempre. Tu non dubitare di niente; resta qui. Quando ti ho condotto con me, pen­savo che ti avrei lasciata libera di scegliere. Ma tu hai già scelto, allora. Non puoi più tornare indietro. Non lasciarti tentare dal de­siderio dell'azione. Le opere di carità non sono che un simbolo. Tu ama Dio, prega, e saranno le opere che verranno a cercarti, ma molto più grandi di quelle che tu potresti cercare, perché sarà Dio che le avrà inventate per te. Pensa che i corpi seguiteranno sempre a soffrire la fame, il freddo, le malattie; e le anime non si salvano con le parole. Tu salva te stessa, e costringerai infinite anime a sal­varsi con te. Lascia che il mondo precipiti, i corpi soffrano la fame, il freddo, le malattie; tu prega; contempla Dio; prega, prega, prega senza curarti d'altro.

Marina                           - (sommessa). Questa è una vita pri­vilegiata. Non sono che una donna, come tutte quelle che si sfiniscono, un figlio dopo l'altro, e vivono tribolando. Ora ti porteran­no i sacramenti; e tu non hai confessato la verità. Che cosa ho fatto per meritarlo?

Eugenio                         - (con infinita tenerezza, sommessa­mente). Marina, hai fede in me?

Marina                           - (di slancio, tenera e sommessa). Sì.

Eugenio                         - Rimani qui e conserva il tuo se­greto. Sono io che te lo comando. (Marina piega il volto sulla mano di lui, in silenzio. Eugenio, sommesso) Non ho rimorsi, vivi tranquilla. In punto di morte, tutto quello che sembrava assurdo appare vero.

Marina                           - (con tenerezza e commozione infinita, tenendo il volto premuto nella mano di Euge­nio, e parlando sommessamente come per un'estrema confidenza). Io sarei stata con­tenta dappertutto, se tu mi avessi detto di andarmene, ma la mia anima sarebbe rima­sta sempre qui. Tu sei stato il mio angelo, papà. Mi hai condotto con te dove io non avrei mai potuto andare. Ma tutti gli altri che erano con me, e sono rimasti dove ero io? Tu mi lasci ed io ho paura di peccare di egoi­smo e d'orgoglio.

 Eugenio                        - (con amore infinito, allargando le braccia verso di lei). Marina! Figlia mia!... (Marina si getta nelle sue braccia piangendo sommessamente; egli la stringe a sé).

Marina                           - (sommessamente). Ti ringrazio.

Eugenio                         - Anche il conforto di spartire con qualcuno il tuo segreto ti mancherà. Vivrai nel rischio di essere scoperta e scacciata, non potrai sperare niente in questo mondo, nem­meno gli ordini sacri, perché sei donna, e dovrai soltanto servire. (Breve silenzio) Ti saluto,

Marina                           -  Presto verranno i fratelli coi Sacramenti. Non farti prendere dalla tristez­za, quando non ci sarò più: Dio ti dia sem­pre molto gaudio e allegrezza. Ho messo in te tutta l'anima mia; tu sei figlia più del mio spirito che della mia carne.

Marina                           -  So bene che Cristo non può man­care alle sue promesse, e che ci troveremo in paradiso. Ma tu muori, e io resto qui.

Eugenio                         - Tienimi ancora la mano, fino a che il padre Abate non mi avrà dato l'Estrema Unzione; poi lasciami, dovrò restare solo con Dio. (Prende un libro, glielo tende aperto) Tienimi la mano e leggi.

Marina                           - (leggendo). « Gesù entrò in un vil­laggio e una donna di nome Marta lo rice­vette nella sua casa. Essa aveva una sorella chiamata Maria, la quale seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola. Marta intan­to si affannava in molte faccende e si pre­sentò a dire: Signore; non t'importa che mia sorella mi lasci sola a servire? Dille dunque di aiutarmi. Ma il Signore le rispose: Marta, Marta, tu ti affanni e ti inquieti di troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria; Ma­ria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta ».

Eugenio                         - (prende il libro dalle mani di Marina.  Lo apre in un altro punto e glielo por­ge di nuovo dicendo). Leggi.

Marina                           - (leggendo). « Allora i suoi discepoli gli chiesero: Perché parli loro in parabole? Egli rispose loro: Perché a voi è dato cono­scere i misteri del regno de' cieli; ad essi, no. Infatti a chiunque ha, sarà dato; ma a chiun­que non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo in parabole; perché veden­do non vedano, e udendo non odano e non intendano». (Mentre Marina legge, l'Abate in stola, seguito dai monaci che recitano le preghiere degli agonizzanti, si avvicina alla cella di Eugenio, recando i Sacramenti. Mari­na li sente, e leva gli occhi dal libro).

Eugenio                         - Vivi per tutti loro, Marina; e non temere l'orgoglio. (Sommesso, rapido) L'ele­zione è veramente il segreto di Dio. (Scioglie la sua mano da quella di lei) Ecco, lasciami. (Marina si inginocchia, ed Eugenio si solleva sul giaciglio mentre l'Abate recando i Sacra­menti entra nella cella seguito dai monaci salmodiatiti. La scena torna nel buio).

Il Benedettino               - (leggendo). « Egli rese lo spi­rito, ed essa rimase sola nella cella del padre suo. Disse un giorno l'Abate: Frate Marino, perché non vai col carro al paese, così come faceva tuo padre? Essa rispose: Come tu co­mandi. Cominciò dunque, frate Marino, a recarsi al paese con il carro e se faceva tardi per il ritorno sostava quivi con gli altri mo­naci in una locanda. E il locandiere aveva una figlia in età da marito... ».

SCENA TERZA

Sulle ultime frasi viene illuminata la scena. Frate Marino è seduto su uno sgabello di le­gno; la Figlia del Locandiere sta piegata sulle ginocchia, poco discosta, ed è intenta a ripu­lire un grosso paiolo. È una ragazza tozza, non bella; qualcosa di animalesco emana dai tratti del suo volto.

La Figlia del Locandiere      - Dicono che la donna ha il conforto dei figli. (Si stringe nelle spalle) Io non voglio mica bene a mio padre. (Ci pensa un attimo) Forse un poco di più a mia madre, quando era viva; ma non me ne ricordo. Credo che anche a lei ho dato soltanto dei fastidi. A mio padre non do nem­meno la soddisfazione di vedermi piangere, quando mi prende a schiaffi. Mi metto a fi­schiare. Muore di rabbia. (Breve pausa) La donna non ha più niente, quando diventa vec­chia. Anche il marito, se vuole tenerlo legato, deve tenerlo coi denari. C'è uno, che mio pa­dre vuol farmi sposare; non sposerò quello, ma se mio padre non mi dà la roba, un altro non lo sposerò nemmeno. Non sono mica po­vera; abbiamo la casa, l'orto. Se fosse già tutto mio, qualcosa avrei; ma finché è vivo; è tutto di mio padre. (Ci pensa un momento; aggiunge, pacata) Ho la fortuna che non do­vrò dividere con nessuno; avevo due fratelli, ma sono morti tutti e due. (Breve silenzio) Preferisco aspettare. So bene cosa succede alle ragazze che si sposano senza soldi: quando la gioventù è passata, devono fare le serve e prendere le botte. (Cupa) La gioventù passa presto, e la vita è dura. (Breve silenzio: volge lo sguardo lento e grave su Marina; dall'ester­no giunge il bagliore di un lampo seguito dal fragore del tuono) Voi quanti anni avete?

Marina                           -  Diciassette.

La Figlia del Locandiere      - (senza tono). Anch'io ho diciassette anni. (Breve silenzio. Poi si stringe nelle spalle, dicendo quasi a se stessa) Ma voi siete un uomo, per voi è diver­so. Noi, due, tre figli, e siamo già vecchie. Questo è il conforto che ci danno i figli, a noi che dobbiamo lavorare. Diventiamo tutte uguali, brutte, senza petto; senza denti: più nessuno ci vuole; però le voglie restano tutte. (Ha una risata sommessa, torbida. Poi ripren­de) Lo sapete? Toccherà anche a me; ma le vecchie mi fanno schifo. (Con fuoco torbido, improvviso, contenuto) Se nella vita non ci fosse quello che so io, mi sarei già impicca­ta. (Ride di nuovo, più bassa, più torbida. Si solleva, rovescia l'acqua sporca all'esterno, aprendo la porta donde viene un turbine di tempesta; la richiude; guarda frate Marino con greve provocazione, dice) Potete capire? C'è tanta gente che ruba e ammazza per l'a­more? Sfido, lo farei anch'io. Tre, quattro anni, sei anni, e poi è finito tutto. (Marina seguita a tacere. La Figlia del Locandiere tace a sua volta per qualche istante, volgendo le spalle; poi dice) È la prima volta, che dor­mite qui. Siete nuovo?

Marina                           -  No.

La Figlia del Locandiere      - Come vi chia­mate?

Marina                           -  Frate Marino.

La Figlia del Locandiere      - (torna a volgersi verso Marina, assumendo un tono di curio­sità sempre più pesante e sfacciata. La guarda un attimo; chiede). Da quanto siete frate?

Marina                           - (con un sorriso cordiale). Avevo un­dici anni, quando mio padre mi ha portato con sé in convento. (Più sommessa) Mio pa­dre era frate Eugenio.

La Figlia del Locandiere      - (atona, impietosa). Quello che è morto?

Marina                           -  Sì.

La Figlia del Locandiere      - (non commenta subito; poi con elementare malizia). Siete figlio di un frate?

Marina                           - (seria, pacata). S'era fatto monaco quando mia madre morì.

La Figlia del Locandiere      - Perché vi ha por­tato in convento così bambino? Non sapeva a chi darvi?

Marina                           -  Non è stato per questo. Mi aveva la­sciato in casa di parenti; mi volevano bene come a un figlio.

La Figlia del Locandiere      - (guarda Marina per un attimo, si stringe nelle spalle, poi con pesante ironia). E adesso che è morto, rima­nete ancora in convento? (Bruscamente ironi­ca e quasi aggressiva) Non crederete di poter restare vergine tutta la vita?

Marina                           - (ha una reazione inattesa; si mette a ridere e risponde subito, giocondamente). Non mi preoccupo mica di sapere se domani avrò il fiato per respirare!

La Figlia del Locandiere      - (insistendo pesan­temente, ma più cupa nella sua greve sensua­lità). Chi può rimanere sempre vergine? (Ma­rina non risponde. La ragazza, dopo un atti­mo di attesa, più ironica) E se anche ci riu­scirete, a che cosa vi sarà servito?

Marina                           - (con pacata fermezza, fissando la ra­gazza). Perché mi fai queste domande?

La Figlia del Locandiere      - Avete vergogna a rispondere?

Marina                           - (con una fermezza inaspettata, quasi aggressiva). Di tutto si può parlare, ma senza malizia e con carità. (// tono inatteso di Ma­rina sorprende la ragazza. Marina e la Figlia del Locandiere si fissano per qualche istante in silenzio: lo sguardo della ragazza si fa decisamente ostile: il volto di Marina, invece, torna a rasserenarsi. Essa dice, con semplice cordialità, sorridendo) Devo dirti la verità, non ho simpatia per te. Certo te ne sei accor­ta; è più semplice confessarlo. Appena ti ho conosciuta, ho provato un sentimento di av­versione; ma non è una cosa colpevole, non dipende dalla volontà provare simpatia o an­tipatia. È la nostra natura, che è piena di di­fetti e ci ispira sempre sentimenti riprovevoli: basta riderci sopra e non farci caso. Noi ades­so avremo occasione di vederci spesso-; sta­remo molto insieme: è il modo sicuro per vincere le antipatie. Quando era vivo mio pa­dre, lavoravo in cucina e nell'orto: adesso l'Abate mi manda in giro con il carro. Forse anche noi non ci intenderemo mai; per te tutte le parole significano cose molto diverse da quelle che sono per me; anzi, come con­trarie. Non è mica detto che tutti devono riconoscere le stesse verità; ciascuno ha il suo conto, secondo quello che ha ricevuto. Io sto in convento perché è la mia vocazione. Non è merito mio; non avrei saputo far di meglio. Facciamo il possibile, non per capirci, ma per volerci bene; al resto pensa Dio. (Breve silen­zio. Con sorridente cordialità prendendole confidenzialmente la mano) Come ti chia­mi, tu?

La Figlia del Locandiere      - (lenta e sospetto­sa). Elena.

Marina                           -  Sei innamorata di qualcuno? La Figlia del Locandiere            - (ritrae la mano, sospettosa, ostile). Perché? Vi hanno detto qualcosa sul mio conto?

Marina                           -  No. Tu hai parlato di questo. (Torna a prendere la mano) Siediti qui.

La Figlia del Locandiere      - (ritrae la mano con gesto marcato, un sorriso di equivoca malizia sul volto). Cosa volete da me? (Breve silenzio. Greve, ostile, con un sottinteso in­giurioso) Parlavo tanto per far passare il tem­po. Di voi, non me ne importa niente. Non ho mica niente da vedere, io, con voi. (Le volta le spalle, con un moto istintivamente animalesco ondeggiante dei fianchi, e si avvia per uscire).

 

Marina                           - (spontanea, accorata). Ah, poverina, non sei buona! (La ragazza passa, senza vol­tarsi, nella stanza accanto; ne viene più forte il canto degli avventori, col fragore del tem­porale. La scena si oscura).

Il Benedettino               - (leggendo). « Successe, poi, che giacendo furtivamente la figlia del locan­diere con un suo drudo, ne rimase incinta. Quando ciò fu scoperto dal padre suo e dai parenti, presero a vessarla chiedendole: Con­fessa, per opera di chi concepisti? Essa infine rispose: Per quel monaco, che si chiama frate Marino, il quale dormì sovente nella nostra locanda. Egli abusò della mia buona fede, e ne rimasi incinta. Temeva infatti di perdere colui che amava, se avesse detto il vero. Si recano allora i parenti di lei al mo­nastero, e dicono all'Abate: Ecco, padre Aba­te, che ha fatto quel tuo frate Marino. Così ha ingannato la nostra figliola. Rispose l'Aba­te: Lasciate; vediamo se risulterà vero ciò che voi dite ».

SCENA QUARTA

Sulle ultime frasi si illumina una parte di scena. Marina sta lavorando nell'orto del convento. È sola. Lavora in silenzio, assorta; con le maniche rimboccate e un grembiule cinto alla vita; a tratti si asciuga il sudore del volto.

D'improvviso i suoi movimenti si arrestano; essa rimane per qualche istante quasi immo­bile, senza voltarsi; poi riprende a lavorare, ma lentamente, come trasognata. Alle sue spalle entra frate Eugenio; ha anch'egli le maniche rimboccate, e reca un secchio d'ac­qua; s'avanza adagio verso Marina come se stesse compiendo il medesimo lavoro, ma con qualcosa di rigido in tutti i suoi moti.

Eugenio                         - Perché continui a sarchiare e a in­naffiare? Non serve più, è venuto l'inverno.

Marina                           - (senza voltarsi, quasi atona). Il pa­dre Abate mi ha comandato di sarchiare e innaffiare la lattuga; oggi eravamo d'estate.

Eugenio                         - (tocca la terra). Non senti che è dura e gelata?

Marina                           - (senza toccare la terra). È vero!... com'è diventato tutto grigio! Poco fa c'era un tramonto così bello!...

Eugenio                         - Fa freddo; devi spogliarti,

Marina                           -  Butta via tutto quello che hai addosso, e resta nuda.

Marina                           -  Come posso restare nuda? La gente mi insulterà, ho vergogna.

Eugenio                         - Legioni di creature sono gettate nude nelle fosse; altre legioni mostrano le piaghe e la lebbra sul corpo nudo; e altre le­gioni vanno nude sui patiboli.

Marina                           - (volgendosi lentamente verso Euge­nio, con leggero tremito di commozione nella voce). So che questa è un'apparizione, perché tu sei morto. Non andare via, aspetta.

Eugenio                         - (senza chinarsi e senza rispondere). Prendo il sarchiello, tanto a te non servirà più. (Indietreggia lentamente).

Marina                           - (con estrema commozione, volgen­dosi a guardarlo). Com'è il paradiso? Non la­sciarmi qui. Aspetta... (Si solleva tendendogli le mani con un improvviso impeto di estrema e tenerissima commozione) Papà!

Eugenio                         - (con eguale, indicibile tenerezza, ap­pena mormorata). Marina! Figlia mia! (Fa l'atto di aprirle le braccia. Marina, che stava per slanciarsi nelle braccia del padre, si arre­sta di botto; si copre il volto con le mani, quasi barcolla. Contemporaneamente Euge­nio, arretrando, sparisce. È una lunghissima pausa. Marina si riprende molto lentamente. Abbassa le mani dal volto, ma per qualche istante rimane ancora come fuori di cono­scenza, con lo sguardo nel vuoto. Poi volge adagio gli occhi attorno, per rendersi conto di ciò che è successo. Guarda la terra zap­pata di fresco, si china a raccogliere il sar­chiello, che le sta ai piedi. Rimane profonda­mente assorta. Ad un tratto, un monaco ap­pare in fondo all'orto e la chiama). Il Monaco. Frate Marino. (Marina ha un lieve sussulto e si volta) Frate Marino, il pa­dre Abate ti aspetta.

Marina                           - (rimane un attimo silenziosa e im­mobile; poi depone il sarchiello, si abbassa le maniche, si pulisce le mani al grembiule e lo toglie, dicendo) Eccomi! (Marina, seguendo il Monaco, passa in altra parte della scena, che viene illuminata. I monaci stanno alli­neati quasi a semicerchio, avendo al centro il padre Abate. Più in un canto sta il Locan­diere. Marina si inchina profondamente al padre Abate secondo le regole; poi volge lo sguardo sui frati silenziosi e immobili, con lieve stupore. L'Abate guarda Marina, qual­che istante, in silenzio: malgrado la sua rigi­dezza appare commosso).

L’Abate                         - (quasi impetuosamente). Tu hai pas­sato i tuoi giorni in mezzo a noi, a lavorare e a pregare; ti ho sempre visto sereno e con­tento del tuo stato; ed ecco, una grave accusa viene a colpirti. Da che cosa nasce un simile fatto, se tu sei innocente? (// volto di Marina si copre di pallore. Essa fissa l'Abate in silen­zio; poi, smarrita, volge lo sguardo sui mo­naci. L'Abate vede il turbamento di lei, e riprende in tono più affettuoso, ma sempre ac­corato e commosso) No, non voglio impau­rirti. È la mia età che non mi consente troppe illusioni; so che la natura umana è infida, vi­ziata dal peccato, e riesce a tradire persino i santi; ma noi ti consideriamo il nostro figlio­lo, perché sei il più giovane di noi, ti abbia­mo ricevuto quando eri bambino, ti abbiamo visto crescere, e molti di noi sono stati i tuoi maestri. Dunque, parla fiduciosamente, e non mentire. (C'è un momento di silenzio).

Marina                           - (è profondamente turbata; qualcosa la induce a fissare per qualche istante il Lo­candiere, che soltanto da poco ha notato. Poi si volge di nuovo all'Abate e risponde a mezza voce). Sì, padre.

L’Abate                         - (indicando il Locandiere). Sua figlia si è scoperta incinta, e per le insistenze dei parenti ora dice che sei stato tu a sedurla. (Uno sgomento mortale si impadronisce di Marina.  Essa si serra le guance con le mani, volgendosi di scatto a fissare il Locandiere. L'Abate, con turbamento crescente, riprende quasi subito) Tu hai pernottato molte volte nella sua locanda. TI fatto appare possibile; ma se puoi, figlio, dicci che non è vero, e per­ché la ragazza ti accusa. (Lentamente Marina torna a volgere lo sguardo verso l'Abate; è in preda a uno smarrimento muto e atterrito. C'è una lunga pausa. Il Locandiere fa l'atto di parlare; l'Abate lo ferma con un gesto, e riprende, volto a Marina, con voce in cui, alla commozione, si sente unito un principio di sdegno) Rispondi. (Marina tace. L'Abate, con impeto a stento contenuto) Rispondi... Cosa significa questo silenzio? (Marina ha un sussulto. Si volge di nuovo, di scatto, verso il Locandiere, facendo l'atto di tendere le mani verso di lui e di dire qualcosa; ma si riprende e tace. L'Abate, che ha osservato il moto di Marina ed ha atteso con ansia che essa par­lasse, rimane silenzioso qualche istante; poi si indirizza a sua volta al Locandiere e gli dice con voce più bassa, come per un estremo ten­tativo di giustificare Marina) Vedi quanto è grave ciò che hai detto. Ora frate Marino sta qui in tua presenza e il turbamento gli ha tolto la voce. Sei certo che sia vero, e puoi confermare davanti a lui. che si e macchiato di una tale colpa?

Il Locandiere                 - (lento, torvo, greve). Avrei vo­glia di ridere. Bell'utile, per mia figlia, parto­rire un figlio di un frale! Se fosse i[n ricco signore, sì, le converrebbe mentire; ma io ho dovuto prenderla a schiaffi per due giorni pri­ma che si decidesse a parlare. (Con viole/ila querimonia, ingiurioso, indicando Marina) Guardate la sua faccia! Non vedete che non risponde?

L’Abate                         - (con improvvisa violenza di dolore e di sdegno). Perché tolleri un'accusa che ti separerebbe da noi per sempre? (Marina è in preda a un'angoscia estrema; respira a fatica, lacrime silenziose prendono a rigarle il volto. L'Abate domina l'impeto dei suoi sentimenti e riprende, con tono di accoramento pro­fondo, ma di rigida severità) La strada della castità è dura. Dio non la esige da tutti, e non a tutti è concessa. È un dono e una gra­zia. Se tu avessi mancato al tuo voto, e ne fossi confessato, non potrei condannarti, e anche imponendoti di abbandonare la vita monastica, ti amerei ancora come un figlio. (Suo malgrado il suo tono si fa più concitato e violento) Ma se tu avessi peccato, segui­tando a pregare, e meditando in cuor tuo la fornicazione, senza niente lasciar trasparire, giovane come sei. saresti un tale maestro di finzione e di malizia, che nemmeno il ricordo di te si potrebbe salvare. Vuoi passare il re­sto della tua vita sotto il peso di quest'onta, disprezzato e deriso, come tutti gli apostati, tu che avevi avuto in dono uno stato di per­fezione? Non vedi che lo scandalo ti colpi­sce, e ci colpisce insieme a te? Difenditi; o abbi il coraggio di confessare il tuo peccato, e vattene. Per la santa obbedienza, ti ordino di parlare!...

Marina                           - (si piega lentamente sulle ginocchia; il volto è inondato di pianto; mormora a fatica). Padre, sono un peccatore. Pregate per me.

L’Abate                         - (con sgomento profondo, e impeto di sdegno). Oh, Dio ti perdoni!...

Il Locandiere                 - (prorompendo, aggressivo e violento, in ingiurie e lamentele). Ah, che cosa m'importa, che questo ladro getti la to­naca o se la tenga? Che cosa me ne faccio di questo frate sfratato? Farabutto, pendaglio da forca. Mia figlia è incinta e metterà al mondo un bambino! Cosa farai tu, per man­tenerlo? E chi la prenderà ancora in moglie?

L’Abate                         - Basta così! (a Marina) Alzati e va' via. (La scena si oscura).

PRIMO INTERVENTO CORALE

Vengono illuminati i quattro personaggi del coro.

Il Benedettino               - (leggendo). « E l'Abate la cacciò dal monastero; ed essa tutto questo sopportava in silenzio, tenendo chiuso dentro di sé il suo segreto ». (Interrompe la lettura e prende a dire, con semplicità e commozione contenuta) Non so quale sarà la fine di santa Marina; ma l'accettazione di un'accusa infa­mante, da cui le sarebbe stato facile liberarsi, basta a provare che veramente la sua anima era stata prescelta. Soltanto la grazia può dare la forza di vincere in tal modo la na­tura, ed è stupendo come Dio si rivela nei suoi santi per vie impensate e meravigliose. Noi sappiamo che altre donne hanno vissuto come monaci, sopportando la durezza e le fa­tiche di una simile vita e che questo è avve­nuto in tempo e in luoghi lontani, quando an­cora non esistevano monasteri femminili; ma questa considerazione storica niente aggiunge e niente toglie alla divina ispirazione che ha spinto il padre di Marina a separarla dal mondo e a metterla, con l'inganno, sulla via della perfezione. Veramente vivevano, gli an­tichi eremiti e i primi monaci, simili agli an­geli, nel progressivo dominio delle passioni, ignari del sesso, vittoriosi della natura, tra­sformati nel corpo e nell'anima dall'amore di Dio e della sua ininterrotta contemplazione. E veramente questa, e non altra, è carità; e le opere di carità materiale non ne sono che un riflesso e un simbolo, perché solo se pro­vengono da quello stesso spirito d'amore non per la creatura, ma per Dio, possono egua­gliare la contemplazione e la preghiera. È ba­stato, a Marina, contemplare Dio e pregare. per trovarsi pronta, quando il Signore ha vo­luto proporglielo, all'opera della carità più perfetta: quella che non chiede se il sacrificio gioverà a qualcuno, e a chi, ma in se stessa ha la sua giustificazione. (Sorridendo, allo Scrittore) Così, quanto abbiamo letto fin qui mi sembra semplice e chiaro.

L’Ingegnere                  -  Non è un'antica storia, questa, e santa Marina, una santa di tempi molto an­tichi? Persino il ricordo se n'è perduto: tant'è vero, che nemmeno voi la conoscevate. Forse in quel tempo gli uomini erano assai diversi. La storia di santa Marina piace, come un'an­tica leggenda: non cerchiamo niente però ol­tre questo suo fascino, perché se dovessimo giustificarla col nostro giudizio, tutto in que­sta storia ci offenderebbe e ci darebbe scan­dalo. Salvo il rispetto dovuto all'autorità della Chiesa e ai suoi santi. Dichiaro che non ho capito perché Eugenio e Marina si siano con­dotti come si sono condotti: non l'ho capito (al Benedettino) e le sue giustificazioni - chie­do scusa - non convincono. Non parlo tanto della convivenza di Marina coi monaci; parlo piuttosto dell'inganno, addirittura sacrilego di Eugenio, e del suo egoismo di padre; ma so­prattutto parlo di quella forma di cristianesi­mo fanatico e ingenuo che vedeva un contra­sto insanabile tra lo spirito e la vita del mon­do. Chi, fra i tanti milioni di cristiani sparsi nel mondo, oggi crede di allontanarsi da Dio vivendo negli affetti naturali o difendendo i suoi legittimi interessi? Io frequento la Chiesa e i Sacramenti, secondo le mie possibilità, ma voglio bene a mia moglie, ai miei figli: pro­curo di dar loro, e di avere per me, una casa e una vita confortevole; e appoggio le orga­nizzazioni cristiane che si adoperano per darla a tutti; cerco, per quanto posso, di non far male a nessuno, ma lotto nel mio lavoro, e lo difendo. Forse per questo non sono un buon cristiano? Nessuno potrebbe difendersi, e cioè vivere, se la regola fosse l'accettazione della calunnia. La nostra religione è equili­brio e buon senso; meglio avrebbe fatto, santa Marina, a rivelare la verità e a consacrarsi alla cura dei poveri, che non sacrificarsi in quell'inutile sacrificio; e se, nel seguito della storia, non ci sarà niente altro che giustifichi la sua santità, veramente essa non ha nessun rapporto con noi.

Il Prete secolare             - Dentro di me pensavo: dal male sovente nasce il bene, ma certo è stato male, e gravissimo male, l'inganno del padre di Marina; in sé, perché il fine non giu­stifica i mezzi, e per il pericolo di tentazione cui ha esposto la figlia e gli altri monaci. Lei, padre, ha ragione: sono obiezioni umane che non hanno nessuna importanza di fronte alla chiamata di Dio; è curioso anzi che mi sia sfuggita questa giustificazione, la sola possi­bile, e per un cristiano la più naturale; sia chiaro, tuttavia, che si tratta di un caso per sé stante, da non proporsi né come esempio né come regola. Ristretto in quei limiti, in cui è necessario restringerlo, perché dovrebbe sconcertare e turbare? Sappiamo con cer­tezza che il cristianesimo non è soltanto un fatto individuale: l'amore del prossimo, egua­le all'amore di Dio, ci trascina al contatto coi nostri simili, e la vita nel mondo porta con sé necessità temporali, organizzazione, lotta e difesa. Nella contemplazione mistica-che anche oggi accettiamo - non si esaurisce il cristianesimo. Santità? Sta veramente nella raccolta ufficiale dei santi, santa Marina? Ascolteremo allora il seguito e la fine della sua storia. Forse, adesso, tolta dalla manife­sta volontà di Dio a quella vita contempla­tiva che aveva usurpato, essa scoprirà, ap­punto, la vita attiva; e forse è proprio questo l'ammaestramento che la sua santificazione vuol darci. Non dimentichiamo però che re­golari e legittimi processi di canonizzazione sono quelli soltanto posteriori al Concilio di Trento; prima d'allora, la santità veniva at­tribuita solo dalla tradizione e dalla venera­zione pubblica. Certo, è prova di santa di­sposizione quel suo aver accettato con tanta rassegnazione una così enorme calunnia; sì, certo, lo è. È curioso: anche il motivo di quel suo silenzio (al Benedettino) che a lei è riu­scito così naturale spiegare e a me era sfug­gito. M'era sfuggito, e avrei dovuto compren­derlo. È curioso, è curioso. È una strana, sì, una strana storia.

Lo Scrittore                   -  Ecco, al contatto con la storia di santa Marina, vera imitazione di Cristo, ciascuno di noi, come una diversa campana, ha dato un suono diverso. Ma ciascuno di noi, più vicino a quell'esempio, o più lontano, agisce secondo la sua convinzione. To sto a guardare: e sono il più colpevole. Io sono convinto che nella sua essenza, quello, e non altro, è cristianesimo; quello, dico, di Eugenio e di Marina: non la religione dell'equilibrio, del buon senso e dei problemi sociali; ma la religione dei folli, del rinnegamento del mon­do, della conquista solitaria di Dio. Penso che mai nessuno potrebbe saper del Vangelo, se non si sapesse per altre fonti, che al tempo di Cristo esisteva quella che a noi sembra un'intollerabile piaga sociale, la schiavitù: tanto Cristo l'ha ignorata. Penso che tra le infinite divine contraddizioni delle sue parole, un solo insegnamento è costante e inesorabi­le: rinuncia al mondo e a te stesso per amore di Dio, se vuoi la vita eterna. E, tuttavia, se la vita del cristianesimo dev'essere come vie­ne insegnato, la marcia diritta di un pellegri­no che tende al fine ultimo senza fermarsi alle infinite stazioni che trova lungo il cam­mino, e anzi senza nemmeno posarvi lo sguar­do, io debbo confessare che mi piace, pur sen­tendone la vanità, attardarmi in ogni osteria, guardare curiosamente ogni passante e ogni casa, nozze, morti, liti e adulteri, inoltrarmi per ogni viottolo traverso di cui non vedo la fine, sostare sdraiato sotto le grandi piante, nella divina ora del pomeriggio o nei lunghi, dolcissimi, accoranti tramonti estivi. Quanto spirito cristiano, d'amore per il prossimo e nel prossimo, di Dio, io metto in tutto que­sto, non so e non distinguo; perché guardo con sacro e attonito rispetto a tutto ciò che esiste, giusto e ingiusto, delitto e santità, nel continuo alternarsi e riproporsi di ogni uma­no atteggiamento secondo umane leggi immu­tabili. E, così, mi aggiro intorno alla casa di Cristo; sosto sulla porta senza avere il corag­gio e la forza di entrarvi, e la storia di santa Marina mi suona come una nuova condanna, e mi fa tremare; perché essa non è, veramente e fino alla fine, altro che quella che è. (Al Prete e all'Ingegnere) Non piegherà, adesso, nel senso che voi nel vostro intimo sperate a vostra giustificazione; non ammette, fino alla fine, una interpretazione diversa e meno dura.

Il Benedettino               -  Molte cose sarebbero ancora da dire; molte e importanti; ma è prudente, prima di altre parole, conoscere come è vis­suta, cacciata dal suo convento, santa Marina, e come è morta, e meditare in noi stessi l'in­segnamento. (Riprende a leggere) « Uscita santa Marina, si gettò sulla porta del mona­stero, e giaceva sulla terra in penitenza, afflig­gendosi come se suo fosse stato il peccato, e chiedeva per carità ai monaci che entravano un boccone di pane. E non abbandonò il mo­nastero e ciò fece per tre anni. La figlia del locandiere intanto partorì un figlio maschio; e lo allattò ».

SCENA QUINTA

Una campanella prende a suonare mentre si illumina la scena. Marina, che ha l'apparen­za di un mendicante vestito di stracci, da un lato della scena; è accovacciata a terra, sotto un rudimentale riparo, e al suono della cam­pana si alza, come se il richiamo fosse rivolto a lei. Così, ritta, appare estremamente maci­lenta e misera.

Nell'altra parte della scena, dove si figura l'interno del Convento, i monaci, con l'Abate, entrano alla spicciolata raccogliendosi in se­micerchio, come fossero nel coro, per la pre­ghiera del vespero. La campana cessa di suonare. I monaci, in piedi, prendono a recitare som­messamente le preghiere, guidati dall’Abate. Marina, in piedi, recita la medesima preghie­ra, come sentisse o vedesse ciò che accade all'interno; ma poiché in realtà non vede e non sente, e recita per abitudine a memoria, ci sono tra le sue parole e quelle dette in coro dai monaci delle lievi differenze di tempo. Le stesse differenze nelle genuflessioni e nelle prostrazioni.

 

Marina                           -

Lauda, anima mea,

[Dominum; laudabo Dominum

[in vita mea; psallam Deo meo

[quandiu ero.

Nolite confidere in principibus, in

[homine per quem non est

[salus.

Cum exierit spiritus

[eius, revertetur in terram

[suam; tunc peribunt omnia concilia eius.

Beatus cuius adiutor est Deus Jacob,

[cuius spes in Domino.

[Deo suo.

Dominus solvit

[ capti vos Dominus aperit oculos caecorum. Regnabit

[Dominus in aeternum, Deus tuus, Sion, in

[generationem et generationem.

 L'Abate.

Lauda, anima mea,

[Dominum; laudabo Dominum

[in vita mea; psallam Deo meo

[quandiu ero.

I Monaci.

Nolite confidere in

principibus, in

[homine per quem non est

[salus.

L'Abate.

Cum exierit spiritus

[eius, revertetur in terram

[suam; tunc peribunt omnia concilia eius.

I Monaci.

Beatus cuius adiutor

est Deus Jacob,

[cuius spes in Domino

[Deo suo.

L'Abate.

Dominus solvit

[capti vos Dominus diligit

[iustos. Regnabit

[Dominus in aeternum, Deus tuus, Sion, in

[generationem et generationem.

 

 (Terminata la preghiera, i monaci si piegano profondamente su se stessi, rimanendo qual­che istante in adorazione, in un profondo si­lenzio. Marina fa lo stesso. Poi i monaci si sollevano, si segnano ed escono. Marina rima­ne prostrata più a lungo. Infine si raddrizza lentamente, si segna; prende dal giaciglio una vecchia scodella, e va a sedersi a terra accan­to alla porta del convento, in attesa dei resti. Rimane seduta in atteggiamento di abituale e serena pazienza, tutta assorta in altri pen­sieri. Sta scendendo la sera. Entra il Locan­diere; tiene per mano un bambino di circa tre anni, che a stento cammina. Si sofferma a po­chi passi da Marina, guardandola per qualche istante in silenzio).

Il Locandiere                 - (a voce sommessa, greve). Ma­rino, sei tu, là?

Marina                           -  Sì. (Pausa. Il Locandiere lentamente volge lo sguardo intorno, lo ferma sul rico­vero di Marina, simile a una tana).

Il Locandiere                 - Là dentro stai?

Marina                           -  Sì. (Breve pausa). Il Locandiere. L'avevo sentito, ma non pote­vo crederlo. (Breve silenzio. Il Locandiere si accorge che lo sguardo di Marina si è ferma­to sul bambino) Sì, è il tuo. (Breve silenzio. Il Locandiere si avvicina ancora di qualche passo) Te l'ho portato perché mia figlia si spo­sa. L'ha allattato, lo abbiamo allevato, ma adesso per noi deve sparire. Non dobbiamo sapere se è vivo o morto; come se non fosse mai esistito. (Butta a terra un fagottello) Questa è la sua roba. Ci ho messo anche un po' di denaro. (Breve silenzio. Marina, smarrita, tutta in preda a un profondo turbamento, guarda in silenzio ora il Locandiere ora il bambino. Il Locandiere si volge di nuovo, lentamente, intorno, considerando il ricovero e gli stracci di Marina.  A voce bassa, in tono tra lo stupore e l'estremo aggressivo sprezzo) Tu proprio contavi di non doverci pensare mai. Trovavi più comodo fare il mendicante; lavorare per mantenerlo toccava a noi. (Breve silenzio) Cosa fai qui? Sei giovane; potevi metterti a lavorare, potevi vivere come un cri­stiano. No. Te ne stai qui a marcire sotto la pioggia e a mangiare i rifiuti. (Più aggressivo) Perché non vai a lavorare come tutti i cri­stiani?

Marina                           - (sommessamente, con la buona vo­lontà di spiegare). Ma io non ho bisogno di niente.

Il Locandiere                 - (la guarda un momento in si­lenzio; poi, con collera contenuta e sdegnosa, spinge bruscamente il bimbo verso di lei). Va', va' da quello straccione, che è tuo pa­dre. (// bambino, spaventato, si aggrappa alle gambe di lui. Il Locandiere riprende rivolto a Marina, più aggressivo) Chi fa il contadino, chi fa l'operaio, chi studia; tutti si industria­no, tutti lavorano, chi per una cosa chi per l'altra; quelli che non sanno fare altro, toh!, si arruolano soldati. Le persone come te, a cosa servono? Perché vivi? Il mulo che tira il carro è più utile di te; è più utile il cane che fa la guardia. (Di nuovo spinge il bambino verso Marina, dicendo con altro tono) Pen­saci tu. Se non puoi mantenerlo, fanne quello che vuoi, non mi riguarda, il bambino è tuo.

Marina                           - (sommessamente, con costernato stu­pore). Cosa hai fatto! L'hai tolto alla madre!

Il Locandiere                 - (cercando di distaccare da sé il bambino, che gli si aggrappa). Prendilo in braccio, e tienilo, se no non si distacca. Mi corre dietro. (Al bambino, con durezza) Vai!... Vai, ti dico! (// bambino, spaventato, si mette a piangere).

Marina                           - (con forza). Non trattarlo così! Ha paura!

Il Locandiere                 - (spingendo il bambino pian­gente verso di lei, con durezza). Resta qui, hai capito? Se non ubbidisci, guarda! (Alza la mano minacciosamente, poi a Marina) Credi che lo abbia portato via di nascosto? Ero anche capace di farlo, se fosse stato ne­cessario, ma mia figlia le cose le capisce da sé. È un bastardo, prendilo, e trattienilo.

Marina                           - (ha avuto un sussulto di sgomento; tocca la testa del bimbo, che si ritrae spa­ventato, mormorando). È sua madre che non lo vuole più!... Così piccolo!... (Poi, sommes­samente, alzando gli occhi sul Locandiere) Non credi che lo starà già cercando? Diven­terà matta!... Riportaglielo. Se il suo sposo non lo vuole, è meglio che non si sposi. È dif­ficile che questo il Signore glielo perdoni.

Il Locandiere                   - (di nuovo alzando la voce e la mano verso il bimbo, che cerca di aggrap­parsi a lui e di seguirlo). Guarda, se non ub­bidisci!... Resta lì! (// bimbo piange forte. Marina gli si inginocchia d'impeto accanto, come per proteggerlo).

Marina                           -  No!...

Il Locandiere                 - (a mezza voce, con greve ama­rezza). E tu tienilo; basta. Ha avuto la for­tuna di trovare ancora un marito, va a star bene, va a mangiare e a dormire da signora, bisogna che se lo paghi. Chi la manteneva lei e il suo bastardo, quando io morivo? Chi si occupava di lei? Tu, che l'hai rovinata? Non si può avere tutto insieme. A questo mondo non ti danno niente per niente, la vita non l'ho inventata io. (Sta per uscire, si sofferma) Ah!... È battezzato, siamo cristiani. Si chiama Luca. (Esce).

Marina                           - (rimane sola col bambino che piange. Appare estremamente turbata: una commo­zione ansiosa e insieme sempre più gioiosa. Quasi non osa toccarlo, in principio. Non sa che fare per calmarlo. Gli accarezza il capo, timidamente; gli mormora alcune pa­role confuse; finisce per prenderlo in brac­cio e dondolarlo un poco. Lo porta sul suo giaciglio, ve lo siede. Fruga ansiosamente tra gli stracci, come per cercarvi qualcosa da dar­gli, ma non trova niente. Allora si inginoc­chia davanti, contemplandolo e mormoran­dogli di nuovo frasi indistinte. Ora è quasi buio. Il Monaco cuciniere esce sulla porta del convento con una pentola, cercando Ma­rina al suo solito posto sulla soglia. Non la vede, e per richiamare l'attenzione di lei bat­te col mestolo sulla pentola. Marina si riscuo­te. Prende la scodella, si alza in fretta dicen­do a mezza voce al bambino). Aspettami. Ti porto da mangiare. (Si avvicina rapidamente al Monaco cuciniere; questi le riempie la ciotola e le porge un pezzo di pane. È at­tratto dal pianto del bambino che piange dai ricovero di Marina.  Essa frettolosamente ri­torna verso il bambino, dicendo al monaco) Grazie. (// Monaco la osserva e ascolta; poi si avvicina al ricovero di lei). Il Monaco cuciniere. Chi è che piange? (Si china e guarda; vede Marina che, inginoc­chiata, cerca di far mangiare il bambino, il cui pianto si affievolisce. Sorpreso) Dove l'hai trovato?

Marina                           - (con trepidazione gioiosa e insieme quasi vergognandosi). L'ha portato qua il locandiere.

Il Monaco cuciniere      - (dopo un istante, col­pito, guardando Marina). È tuo figlio?

Marina                           -  Non lo vogliono più. Me l'ha lascia­to. Non ha nessuno. (Con tremore gioioso) È mio. (Un silenzio).

Il Monaco cuciniere      - (guarda colpito il bam­bino che mangia e Marina che lo imbocca). Ma cosa vuoi farne? Dove lo terrai?

Marina                           - (quasi con stupore). Con me, qui. Si sta benissimo.

Il Monaco cuciniere      - Tu sei pazzo. È pic­colo. Presto verrà l'inverno, ti morirà di fred­do e di stenti.

Marina                           - (con gioiosa e ridente sicurezza). Oh, c'è ancora quasi un mese!... (Una pausa. Ora il bambino non piange più. Marina lo co­rica sul giaciglio, lo copre alla meglio, si to­glie la mantella che ha addosso e la mette addosso a lui, contemplandolo, poi solleva lo sguardo verso il Monaco e ripete, som­messa, trepidante, come per convincersene) È mio. (Breve silenzio. Più commossa) Mi sembra di essere di nuovo con mio padre.

Il Monaco cuciniere      - (scuotendo il capo, turbato, e tornando verso il convento). Non potrai tenerlo così. Morirete tutti e due. (Fa per rientrare).

Marina                           - (si alza, lo raggiunge). Senti!... (Più basso, turbatissima) Di' ai fratelli che pre­ghino molto per sua madre. (Quasi esitando a dirlo) È lei che non lo vuole più. (// Mona­co entra in convento. Marina torna in fretta verso il giaciglio, e vi si siede delicatamente, contemplando il bimbo. La scena si oscura).

Il Benedettino               - (leggendo). « Ciò appreso, i monaci, toccati da pietà, si recarono dall'Aba­te e lo pregarono di accogliere Marino nel monastero, dicendo: Padre Abate, abbi mi­sericordia e dai ricetto a frate Marino. Ecco, egli da tre anni giace in penitenza sulla porta del monastero e ora deve provvedere al suo bambino. Assumilo in penitenza, così come ci ha ordinato Nostro Signore Gesù Cristo. E l'Abate, quasi da loro costretto, ordinò che fosse fatto entrare e lo chiamò presso di sé».

SCENA SESTA

Si illumina la scena.

L'Abate, in piedi, rigido, guarda silenziosa­mente Marina che entra con il bambino per mano; e subito si inginocchia. Marina appare estremamente commossa, di una commozione intima, contenuta, che rende i suoi pallidi trat­ti ancora più stirati e miseri. C'è un breve silenzio.

L'Abate scruta quel volto silenziosamente, poi, a voce bassa e con forza contenuta, dice:

L’Abate                         - Perché sei rimasto qui fuori, tre anni? (Marina, in silenzio, leva gli occhi su di lui, smarrita, e torna ad abbassarli. L'Aba­te duramente, turbato) Alzati. (Marina si al­za) Il tuo dovere era di provvedere al tuo bambino e a sua madre. Tu non ti sei più oc­cupato di loro. Perché? (Marina non rispon­de; i suoi tratti si alterano ancora di più. Con forza maggiore) Rispondi. Credevi che ti avrei riassunto nell'ordine?

Marina                           - (subito, con voce sommessa e spon­tanea). Oh, no! Come sarebbe possibile? (Quasi esitando, sommessamente) Potevo con­tinuare a pregare come quando ero in con­vento.

L’Abate                         - (quasi con violenza). Non rispondere così, sii sincero! (Sì contiene, riprende) Tu sai bene che le preghiere non valgono niente se sono contraddette dall'azione. Tu cono­scevi il tuo dovere. Era un altro. La tua pe­nitenza era un'altra. Ecco, adesso quella don­na ripudia questo innocente, perché prende marito e tu non puoi provvedere a lui. Il tuo peccato è peggiore di prima. (Marina tace; lacrime silenziose le rigano le guance. Breve silenzio. L'Abate, turbatissimo, scruta ed esa­mina il volto di lei. Con amarezza) Se tu fossi privo d'intelligenza, potrei pensare che non sai quello che fai. Ma l'intelligenza non ti manca, lo so, perché ti ho allevato e guidato negli studi. La tua volontà e la tua coscienza non sono estranee ai tuoi atti. Ecco, quasi non ti reggi in piedi; la tua giovinezza è rovinata. Per tre anni sei rimasto là fuori, con la fame e il freddo, senza poter sperare né nel per­dono di Dio, né nel nostro. Perché lo hai fatto?

Marina                           - (quasi con un sorriso spontaneo). Ma io non ho mica sofferto tanto.

L’Abate                         - (con trasporto, dopo un attimo di silenzio). Non sfuggire; non evitare di rispon­dermi. Perché lo hai fatto?

Marina                           - (sommessa, umile, quasi esitante). Te l'ho detto, padre. Perché potevo conti­nuare a pregare.

L’Abate                         - E tu, per pregare, hai vissuto tre anni sulla nuda terra?

Marina                           - (quasi giustificandosi, sommessamen­te, esitante). Cosa potevo fare di meglio? Cerco di pregare come pregate voi da quan­do mio padre mi ha portato qui, perché non c'è niente di più importante. Io so che è vero. Non sono niente; non succede niente di quel­lo che immaginiamo, tutto è diverso da quello che sembra. Qualunque cosa è buona.

L’Abate                         - (la colpisce con uno schiaffo, ed esclama con voce rotta e soffocata dall'emo­zione e dallo sdegno). Ipocrita, ipocrita, ipo­crita! Cosa vuoi farmi credere di te? Che sei santo? (La commozione gli toglie la parola, tace un istante, come per dominarsi; poi con voce più bassa, soffocata, riprende) Tu hai accettato i Sacramenti in peccato mor­tale, senza confessare la tua colpa; hai po­tuto vivere così, ingannando Dio e i tuoi fratelli; e adesso ti vanti di una fede che sol­tanto un santo potrebbe avere. Avanti, dim­mi, di dove ti è nata? Quando?

Marina                           - (con improvviso scatto di dolore esa­sperato, ma quasi a se stessa, sommessamen­te, con gli occhi pieni di lacrime). Adesso basta, restare qui. Fammi morire.

L’Abate                         - (estremamente commosso, amaro). Ecco, alla mia età io sono costretto a trat­tare in questo modo uno di quelli che mi era­no stati affidati. Te, che ho visto bambino e che tuo padre mi ha lasciato. (Piange) Nelle notti d'inverno, dovevo pensarti steso a terra, senza letto e senza riparo, e quando voglio avvicinarmi alla tua anima non trovo che turbamento, contraddizione, sdegno, dolore. No, tu non sei quello che vuoi apparire. (Di nuovo violento, ma sempre tra le lacrime) Per te, l'esistenza del monaco era soltanto un mo­do di sfuggire le fatiche e le responsabilità della vita. Tu speravi che ci commovessimo per la tua perseverante finta pietà e ti ripren­dessimo con noi. Ma questo non sarà mai; mai nessuno, in questo monastero, ha fatto quello che hai fatto tu.

Marina                           - (piangendo si piega, gli afferra le ma­ni, gliele bacia ripetutamente con trasporto d'amore pietoso). Perdonami, padre. Forse era meglio per te e per i fratelli se io non fossi mai venuto qui. Vi avrei risparmiato tanto dolore. Perché ti affliggi per me? Qualunque cosa si soffra, è sempre poco per la nostra miseria, lo sai. Non ti affannare; tutto quello che è successo, non so perché sia successo, ma è stata volontà di Dio. Se puoi, perdo­nami, come sono. (Più sommessa, quasi sup­plichevole) Dio è dentro ciascuno di noi.

L’Abate                         - (ancora piangendo, amaro). Oh, io vorrei poter vedere dentro di te, nel tuo ani­mo, e trovare qualcosa di diverso dalla ma­lizia e dall'egoismo; ma non lo credo. Tu non sarai mai più monaco. Ti acconsento di ri­manere sotto il nostro tetto per pietà di que­sto innocente, che non muoia di fame e di freddo. Resterai qui come inserviente, por­terai l'acqua, spazzerai, sgombrerai le im­mondizie.

Marina                           - (piangendo di gioia e baciandogli le mani, con voce soffocata e rotta). Grazie, pa­dre. Grazie, padre.

L’Abate                         - Va', e lasciami il bambino. Tu non dovrai più occupartene. A educarlo provve­deremo noi. (Prende per mano il bambino, togliendolo a Marina).

Marina                           - (piangendo di gioia e mandando baci con la mano all'Abate e ai monaci). Grazie, padre. Grazie, padre! (La scena si oscura).

Il Benedettino               - (leggendo). « Ma dopo po­chi giorni successe che, sfinita dalle lunghe tribolazioni, Marina si addormentò nel Signo­re... Andarono i fratelli e lo annunciarono all'Abate, dicendo: Marino è morto».

SCENA SETTIMA

S'illumina una parte della scena. Il padre Abate sta lavorando la terra con gli altri mo­naci. Hanno tutti le maniche rimboccate, qualcuno tiene un grembiule legato sulla to­naca. Il Monaco cuciniere è entrato e si in­china davanti all'Abate.

Il Monaco cuciniere      - Padre Abate. Marino è morto. .

L’Abate                         - (con voce sommessa, improvvisamente turbata). Marino è morto? (Gli altri monaci sospendono il lavoro e ascoltano; qualcuno si avvicina adagio).

Il Monaco cuciniere      - L'ho trovato morto poco fa; adesso.

L’Abate                         - (sommessamente, sbigottito, turba­to). Marino è morto. (Brevissimo silenzio) E come?

Il Monaco cuciniere      - Ieri sera è venuto in cucina per spazzare e portar via i rifiuti; dopo non l'ho più veduto. Questa mattina non mi ha portato l'acqua, ma io ho creduto che tu gli avessi dato un altro incarico, e non ci ho pensato più. Non è venuto nemmeno alla re­fezione; volevo chiedere a frate Clemente se l'aveva visto, ma poi, di nuovo, mi è passato di mente. Era in convento da pochi giorni, una morte terribile. Non ha avuto i Sacra­menti, nessuno gli è stato vicino nella sua ultima ora; e il suo corpo è rimasto una not­te e un giorno tra i rifiuti. (Una pausa) Vi ri­cordate com'era docile, pio, candido, sempre lieto? Prima? (Breve silenzio) Era o sembra­va? (Brevissimo silenzio) Lo stesso candore, la stessa anima lieta e pia dimostrava anche quando viveva già in peccato mortale e noi lo ignoravamo. (Lentamente si volge verso gli altri monaci, turbato, quasi smarrito) Voi che cosa pensavate di lui? (Nessuna risposta) Che fosse un ipocrita pieno di malizia? O un de­bole che conosceva il bene, e lo desiderava, ma non aveva la forza di raggiungerlo? (Bre­vissimo silenzio: più turbato, più commosso) O un povero peccatore, sinceramente penti­to? (Più sommesso, con intimo timore) Qualcuno di voi mi ha rimproverato di essere stato troppo severo con lui. Lo pensate?

Primo Monaco               - (quasi esitante, con un lieve sorriso triste). Credo che nemmeno tra di noi fossimo d'accordo sul suo conto.

Secondo Monaco          - (più reciso). No, non era­vamo d'accordo. Molti ti approvano.

Primo Monaco               - Sarà difficile, anche in avvenire, mettersi d'accordo su di lui, o essere certi di averlo giudicato bene o male. Quello che ha fatto era troppo in contraddizione col suo modo di comportarsi. Ciascuno lo giudi­cava diversamente (con il solito sorriso triste) e forse i più severi erano i più giovani. Io ho ringraziato sovente il cielo che non spettas­se a me decidere di lui; perché davvero la so­la cosa che si può dire è che il suo peccato è stato grande, ma che ha sofferto molto. Que­sto lo sappiamo con certezza. Di tutto il re­sto, cosa possiamo pensare? Anche se i suoi peccati sono stati infiniti, non possiamo sa­pere quello che Dio ha operato nel suo cuore. Forse è meglio non dire altro e non pensare altro, perché tanto questo fatto di Marino ci ha divisi.

 L’Abate                        - Dunque, è morto ieri sera, là sotto?

Il Monaco cuciniere      - È certo, padre Abate, perché non ha nemmeno scaricato il sacco che portava; ci è cascato sopra, ed è rima­sto fi. (Breve silenzio).

L’Abate                         - (sommesso). Ma com'era, quando l'hai visto l'ultima volta? Ha parlato? Cosa ha detto?

Il Monaco cuciniere      - Niente. Ha spazzato, s'è caricato il sacco, non ha detto niente. (Breve silenzio) Quasi non parlava, lo sai. (Breve silenzio) Forse, a pensarci adesso, era più pallido e più stanco. (Pausa).

L’Abate                         - (sommesso e turbato). Questa è  pagina 48 - 49

L’Abate                         - (sommesso, amaro). Sì, ci è stato detto di giudicare; ma c'è sempre qualcuno, finché siamo su questo mondo, che deve ac­cettare il peso e le conseguenze del giudi­care. (Brevissimo silenzio) Devo dirvi che nessuno, come lui, mi ha dato tanta afflizio­ne e tanti dubbi. Il pensiero di Marino, del suo animo, del suo peccato e della sua dura penitenza, è stato il tormento più grave della mia vita. Forse perché l'ho conosciuto bam­bino. L'ho cresciuto, e avevo riposto in lui molte speranze e molto affetto. Suo padre era un uomo giusto, e me lo aveva affidato. Sovente mi sono accusato io stesso di essere stato troppo severo con lui; ma ho sempre respinto questa tenerezza umana perché tutto mi costringeva a condannarlo. Tutto. E ciò malgrado, c'era ancora qualcosa in lui - e non so cosa - c'era qualcosa che mi rimpro­verava e mi accusava. (Lunga pausa) Pensare che bene o male siamo già puniti o premiati da Dio su questa terra, non si deve; e non sempre si può interpretare come segno di con­danna o di premio la disgrazia o la fortuna. Ma questa morte è veramente troppo piena di maledizione per non essere voluta da Dio come segno della sua condanna. Io m'ero commosso per lui, e lo avevo accolto in con­vento, e dopo tre giorni soltanto la morte lo ha colpito nel modo più infame. Veramente dunque era un indegno. Di suo padre e di quelli che vivono santamente si può dire, quando la morte viene: «Egli ha raggiunto il grado di perfezione ». Di lui dobbiamo di­re: «È morto». Perché è veramente morto. (Breve silenzio. Quasi duramente) Lavatelo, e poi seppellitelo fuori del convento. (Si sen­te la voce del terzo Monaco che grida).

Voce del terzo Monaco - Padre Abate! Pa­dre Abate! (Entrano il terzo e il quarto Mo­naco, stravolti, piangenti).

Terzo Monaco               - Padre Abate! Accorri! Quarto Monaco. Cosa abbiamo fatto! Dio mio, cosa abbiamo fatto! Venite!

Terzo Monaco               - Fratelli, cosa abbiamo fatto! Venite! Venite! Marino era una donna!

L’Abate                         - (con un grido). Cosa dici? Quarto Monaco. Marino era una donna! Dio mio, Dio mio! (L'Abate, che è rimasto immo­bile, come fulminato, getta un forte grido e si precipita coi monaci verso l'altra parte del­la scena che ora viene illuminata. Su una ba­rella rozza, coperta da un lenzuolo bianco, giace il corpo di Marina. L'Abate e i monaci la raggiungono impetuosamente. L'Abate si arresta un attimo, come in preda al terrore, poi con gesto brusco toglie il lenzuolo. Ap­pare, esile, bianco, incorporeo, il corpo ver­ginale di Marina. Il profondo silenzio è rotto da improvvisi, soffocati singhiozzi- I monaci, a uno a uno, cadono in ginocchio piangen­do; alcuni si prostrano col capo a terra. L'A­bate, in piedi, immobile, come una statua, contempla il volto di Marina.  Intorno a lui i singhiozzi si fanno più alti. L'Abate cade in ginocchio; si prostra col capo a terra. La sua voce è irriconoscibile, quasi mormora).

L’Abate                         - Santa, santa, santa, abbi pietà di me. Santa, santa, santa, non accusarmi in cospetto di Dio. Perché io non ho conosciu­to il tuo segreto e ti ho tormentata senza colpa. Santa, gloriosa, vergine santa, in nome di Gesù Cristo, ti scongiuro, abbi pietà di noi. (La scena si oscura).

Il Benedettino               - (leggendo). « Nello stesso giorno quella fanciulla che l'aveva accusata, mentre celebrava le nozze, fu invasa dal de­monio ».

SCENA OTTAVA

La scena viene illuminata. Si sente suonare una musica di danza e le voci e i passi cadenzati dei ballerini. La Figlia del Locandiere, nei multicolori e ricchi abiti da sposa, corona di fiori sui ca­pelli, entra quasi subito impetuosamente se­guita da un giovane aitante, entrambi in atto di nascondersi.

L'Amante                      - (sottovoce, tra la collera e la paura, guardandosi alle spalle). Che vuoi?

 La Figlia del Locandiere     - (con voce lenta, grave, roca). Un momento solo, vieni. (L'A­mante getta un'altra occhiata alle spalle e le si avvicina in fretta; essa lo abbraccia con violenza).

L'Amante                      - (spaurito, cercando di sciogliersi). Sei impazzita.

La Figlia del Locandiere      - Dammi un bacio.

L'Amante                      - (c.s.). Lo sposo è di là!... (La ra­gazza lo stringe e lo bacia con furia; egli la bacia e subito cerca di sciogliersi) Vai, adesso, vai.

La Figlia del Locandiere      - (gli prende le mani, se le stringe ai fianchi). Toccami tutta prima che mi tocchi lui. Se non mi baci, mi metto a gridare.

L'Amante                      - (senza capire, spaurito). Cosa vuoi fare?

La Figlia del Locandiere      - Mi metto a gri­dare, e dico tutto. Anche del bambino. (Gli prende una mano, se la preme sulla bocca) La tua pelle sa di giovane, la sua ha odore di vecchio... (Lascia la mano di lui; quasi barcolla, portandosi le mani al collo).

L'Amante                      - (ridacchiando, malcerto, e insie­me baldanzoso). Va', bevi un po' di vino, sta' allegra. Adesso siamo a posto per sempre.

La Figlia del Locandiere      - (con le mani strette al collo). Vorrei bere, ma non posso. Da ieri sera ho la gola chiusa. Sto male.

L'Amante                      - (sorridendo, sottovoce). Ti fa tan­ta avversione andare a letto con lui?

La Figlia del Locandiere      - Non me ne im­porta niente. Sono curiosa, anzi. Domani sera starò con te e ti racconterò tutto.

L'Amante                      - (con spavento, rude). Senti? Ti cercano! Torna là!

La Figlia del Locandiere      - Vorrei diventare di nuovo bambina. Ma cosa servirebbe? Mi divertivo già coi ragazzi. (Con una risata amara e torbida) Non sono nata per fare la monaca.

L'Amante                      - (sommesso, rude, ansioso). Tu vuoi farci scoprire! Va', presto.

La Figlia del Locandiere      - (ridendo). I bei ragazzi non hanno denaro. Bisogna essere furbi in questo mondo. (Lo afferra, mentre egli vuole andarsene) Vieni qua. Questa not­te avevo il fuoco addosso; ho pensato a te tutta la notte. (Cerca di abbracciarlo di nuovo, ma egli la respinge con violenza).

L’Amante                      -  Basta, adesso!...

La Figlia del Locandiere      - (rauca, stravol­ta). Penso a te, penso sempre a te: ho il fuoco addosso.

L’Amante                      -  Oh, mi hai stancato!...

La Figlia del Locandiere      - (con un breve riso sommesso, disperato). Sei dentro la mia bocca, e il mio ventre. (D'improvviso bar­colla, getta un grido roco). L'Amante            - (la sostiene spaventato). Ma cosa hai? Cosa dici? Su! Su! (La schiaffeggia per farla riprendere) Ti cercano!... Vengono qui! Su, per Cristo!... (La Figlia del Locandiere si risolleva, si guarda attorno selvaggiamente) Vuoi rovinare tutto all'ultimo momento? Hai dato via il bambino, per non farci scoprire, e t'agiti tanto per andare a letto col tuo sposo! Va', cammina!

La Figlia del Locandiere      - (cupa, selvaggia). Oh, il bambino! Fosse bastato ucciderlo per averti, lo avrei ucciso! (La musica e le voci sono prossime. L'Amante fugge. Uomini e donne vestiti a festa entrano collo sposo, un uomo anziano, corpulento, e circondano la ragazza).

Voci                              - Dove sei? Cosa fai qui? Perché non balli? Su balla! Balla!... Avanti gli sposi!

La Figlia del Locandiere      - (cupa, roca, gli occhi a terra). Non ne ho voglia!

Le Ragazze                   - (cercano di spingerla e ballare). Balla, su! Balla col tuo sposo! Perché non balli?

 La Figlia del Locandiere     - (violenta, selvag­gia, roca). Non mi seccate! Non ne ho voglia! (C'è un momento di silenzio, stupito. La musica continua insistente).

Lo Sposo                       - Non vuoi ballare con me? (La Fi­glia del Locandiere rompe d'improvviso in una risata stridula e si butta a ballare con violenza. Intorno si levano di nuovo voci ed esclamazioni festose. Lo Sposo balla pesante­mente con lei. Ma essa a un tratto si arresta, ansante, stravolta; si porta di nuovo le mani al collo, volgendo attorno due occhi spiritati) Sei stanca? (Senza rispondere, essa riprende a ballare; balla con violenza disordinata, tan­to che gli altri se ne avvedono e si fermano a poco a poco, stupiti, osservandola. Essa continua a ballare, con atti sempre più folli. Si strappa la corona e la butta). Fermati! Cos'hai? (Essa non risponde, getta un grido terribile e cade a terra. Tutti, con alte escla­mazioni, accorrono intorno. La musica ces­sa. Dietro gli altri, pallido e atterrito, c'è

L’Amante                      -  La ragazza viene sollevata e depo­sta su un sedile. Tiene gli occhi sbarrati, mu­gola bestialmente parole indistinte. Lo Sposo, spaurito) Aiuto! Sta male!

La Figlia del Locandiere      - (d'un tratto, con voce spaventosa e nuova grida). Frate Ma­rino è morto! Lasciami stare, Marina!... Perché mi chiami? Non ho niente da fare, con te!... (Si solleva, cammina verso l'Aman­te, che indietreggia; grida) Il figlio è suo! (Sputa sul volto dell'Amante) Lasciami stare Marina!... Che cosa c'è tra me e te?... Perché mi chiami?... Dove... Dove mi chiami? Non voglio venire con te, lasciami stare!... (Fugge, gridando e strappandosi le vesti di dosso. In­torno cercano di fermarla. Essa si divincola e si libera con forza inumana, mordendo, sputando e gridando; e nel fuggire seguita a denudarsi. La scena si oscura).

SECONDO INTERVENTO CORALE

Viene illuminato il coro.

Il Benedettino               - (leggendo). « E nel settimo giorno da che Marina riposava nel Signore, venne quella indemoniata al sepolcro di lei, e ivi fu liberata dal demonio, ed essa si con­vertì e fu salva ».

L'Ingegnere                   - (con forza). Abbia la gloria del paradiso. Marina; e le sia concesso di far mi­racoli. Fra i moltissimi santi della Chiesa, altri ci sono che sento vicino al mio spirito, ma santa Marina è lontana da me; per cui anzi ora che ne conosco tutta la sua storia, provo nell'animo - lo confesso - qualcosa di simile all'avversione. Io ho sempre condan­nato, dentro di me, come istituzioni sorpas­sate, e irragionevoli, i conventi di clausura. Ecco, ora sono convinto di aver ragione. No. veramente, la Chiesa dovrebbe sopprimere questa parte di sé ch'è fuori del tempo e che la fa apparire ai profani come qualcosa di lontano e di assurdo; sopprimere questi luo­ghi di inutili genuflessioni, forme di fanati­smo egoistico che offendono il senso di uma­nità, quando il mondo è pieno di gente che soffre. No, veramente, veramente c'è qual­cosa dentro di noi che si ribella, secoli di ragione e di indagine, rispetto per la vita umana e l'intelletto, qualcosa si ribella den­tro di noi a un simile travisamento della na­tura umana.

Il Prete secolare             - (con commozione conte­nuta). Noi che viviamo e operiamo nel mon­do, insegnando, organizzando, scrivendo, pra­ticando, avendo cura d'anime e di corpi dal mattino alla sera, tanto che ne restiamo sfi­niti e malati, sovente - è vero - ci lasciamo sopraffare dalle cure terrene, dalle lotte, dalle rivalità. Trascinati dall'assillo della nostra at­tività, sovente ci sembra che in essa stia la parte più importante del nostro ministero. La vita di santa Marina ci ricorda il valore della preghiera e del sacrificio, ed è giusto richiamo. Mi ha commosso, e colpito; la nostra solitudine, nella vita secolare, è grande. (Con forza, allo Scrittore) Ma non sia interpretata questa vicenda come una condanna di tutto quanto è stato fatto, e viene fatto, nel mon­do, per realizzare una civiltà cristiana. Molti di noi, i più, oggi lavorano per cento strade diverse, a questa impresa; e la preghiera di coloro che sono rimasti nei chiostri ci sor­regge. Oggi il cristianesimo, uscito appunto dai chiostri, agisce nella vita sociale, nella professione, nell'arte; e tutti i mezzi della scienza moderna sono messi al servizio di questa lotta per una società cristiana. Nego che, oggi, Marina sarebbe elevata dalla Chiesa agli altari. Diversa è la nostra ricerca di Dio.

Lo Scrittore                   -  Forse, ereticamente, io non so bene distinguere dai pagani i cristiani che vi­vono nel mondo senza essere del mondo. È scritto: « Chi amerà suo padre e sua madre e la sua vita più di me, non è degno di me »; e la catena degli affetti e degli interessi umani non ha soluzione di continuità. Ma voi, stan­do nel mondo, siete veramente divenuti parte del mondo. Mi perdoni, padre, e mi lasci par­lare. Dalle necessità di contatti con gli altri uomini siete scivolati da secoli nel mito paga­no e anticristiano di una società temporale cristiana. (All'Ingegnere) Che cosa ha da fare, mi scusi, la società temporale col cristianesi­mo? Più cibo, più macchine, più agi, questa è in definitiva la società temporale per cui vi adoperate, pur esigendo che si frequentino i Sacramenti e le funzioni religiose. Credete di avvicinarvi allo spirito moderno prendendo in prestito i ritrovati della tecnica e della sociologia, ma il mondo non può suggerirvi altro che idee di potenza e di dominio. (Al Prete) I più avanzati di voi fanno di Cristo un agitatore sociale; e così, mentre condan­nano la violenza di cui il cristianesimo si è servito nei secoli passati - le Crociate, l'Inqui­sizione, le guerre di religione giungono ine­vitabilmente agli stessi risultati, poiché oggi già si affaccia nella loro dottrina la giusti­ficazione della violenza quando è rivolta a correggere le ingiustizie sociali.

Il Prete secolare             - E quali mezzi abbiamo nel mondo moderno, meccanizzato, rapido, tutto pagano, per avvicinare ancora gli uo­mini, se non usando gli stessi sistemi di cui dispongono i nostri nemici? Quale influenza può ancora esercitare su quelli che vivono nel mondo la contemplazione claustrale? Noi ab­biamo riconquistato masse imponenti; milioni di fedeli si confessano e si comunicano, mi­lioni di lavoratori aderiscono alle nostre or­ganizzazioni. Noi abbiamo il dovere e il di­ritto di interferire nella vita della società. Perché rinnegare tutto questo?

L’Ingegnere                  -  Dica, allora, apertamente, che non si sente cattolico; e nemmeno cristiano.

Il Prete secolare             - Appunto. Dica, allora, apertamente che secondo lei il cristianesimo ha esaurito la sua funzione nel mondo mo­derno. Ma se ancora sussiste, proprio in que­sto sussiste: imitando Cristo che è andato verso il mondo, a contatto con gli uomini; e ha identificato il prossimo con Dio.

Lo Scrittore                   -  Nel mondo, Cristo è andato soltanto per separarne gli eletti. « Io non pre­go per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato », ha detto un'ultima volta prima di morire. Togliere gli eletti dal mondo, diffon­dere quella buona novella che può dare a cia­scuno il mezzo dì identificarsi con Dio. Ma guai quando questa strada di perfezione indi­viduale viene interpretata come messaggio so­ciale. Società temporale e cristianesimo sono due termini che si contraddicono senza mise­ricordia, fin da quando l'ingenuità degli apo­stoli ha tentato di creare una società cristiana con leggi cristiane, comunistiche, fallendo mi­seramente la prova. Ogni volta che i vostri sforzi per una società cristiana vi hanno dato il potere, ne sono nati gli Stati più anticri­stiani della storia. È tragica questa vostra illusione, quando Cristo ha costantemente af­fermato: « Il mio regno non è di questo mon­do ». Sì, davvero, noi siamo il mondo per cui Cristo si è perfino rifiutato di pregare; e per noi è legittima la domanda: « Chi si salverà? ».

 

Il Benedettino               -  Ma non è una domanda senza risposta. Cristo stesso ha risposto: « Ciò che agli uomini è impossibile, è possibile a Dio ». Carità, carità! Sì, il cristianesimo è la religione dei santi, la strada della santità; ma ciascuno la percorre con le forze e i mezzi che Dio gli ha dato. Resta, l'esempio di santa Marina, come segno di interna contraddizio­ne per ciascuno di noi, poiché sicuramente quella, e non altra, è la legge: il turbamento continuo delle coscienze; il dissidio fra padre e figlio, fra marito e moglie; non la quiete, ma la lotta, nell'interno di ciascuno, e tra uomo e uomo, fino alla fine del mondo, verso la perfezione cristiana, in unione mistica con Cristo e coi santi. In questo senso il cristiano non è solo; ma in questo unico senso; e la sua scoperta di Dio non ha dunque nulla a che fare con la società temporale. Ma non spaventiamoci, e non spaventiamo le infinite legioni dei nostri fratelli; siamo dei poveretti carichi di bisogni, di miserie, di affanni; gli angeli che hanno annunciato la nascita di Cristo cantavano: « Pace in terra agli uomini di buona volontà». Lo spirito dì Dio soffia dove vuole e la grazia non ha leggi umane. Ecco, la storia di santa Marina è finita. Dice ancora il testo: «Udendo di quel miracolo, dai luoghi e dai monasteri vicini, prese le croci e i ceri, vennero benedicendo Dio con inni e cantici, ed entrati nell'oratorio in cui riposava il corpo di Marina, benedissero Dio. Ed ivi, il santo corpo dì quella vergine fece molti prodigi, per grazia di Cristo e gloria del nome suo ». (Mentre il Benedettino ha ripreso a leggere, la scena si è di nuovo illu­minata; monaci e laici avanzano cantando salmi verso la tomba di Marina; fra i laici, cammina a piedi scalzi, vestita di sacco e coi capelli sciolti, la Figlia del Locandiere. An­che i personaggi del coro si levano in piedi) È scritto infine che le spoglie di santa Marina vennero trasferite a Venezia, su una grande galea, verso il 1200, ed ivi, accolte con trion­fo di popolo, furono sepolte nella chiesa che prese il suo nome. A lode di Dio, Padre, Fi­glio e Spirito Santo. (Sulla scena e nel coro, tutti si segnano, rispondendo).

Tutti                              -Amen.

FINE