La torre sul pollaio

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Tre atti e due quadri

di VITTORIO CALVINO

PUBBLICATA SU IL DRAMMA N. 81 DEL 16 MARZO1949 25° ANNO

LE  PERSONE

(per ordine di entrata in scena)

LA VEDOVA BARAN

LA SIGNORA FULVI A

LA PORTINAIA

ALFREDO  GOSS

ANNA

LUCIA

ANDREA ROSSI

IL MEDICO L'INGEGNERE

MARIO

GUIDO

IL SIGNORE

UN USCIERE

IL PRESIDE

IL POSSIDENTE

ATTO PRIMO

PRIMO   QUADRO

L'androne di una casa popolare in un sobborgo d'una città di provincia. L'ambiente è squallido, tetro. Pomeriggio d'un giorno d'autunno. A sinistra è l'in­gresso della portineria, un piccolo bugigattolo la cui porta a vetri è sormontata dalla scritta «Portineria». Nel fondo dell'androne si vede l'inizio delle scale.

(Di fianco alla porta della portineria c'è una panca di legno sulla quale, all'inizio della scena, sono sedute due donne, la vedova Baran e la signora Fulvia. Le due donne siedono in silenzio, ma con l'aria vigile e tesa di chi attenda il vendicarsi di un fatto molto importante. Entrambi guardano con impazienza verso il fondo).

Fulvia (una donnetta magra e mite, vestita mode­stamente di scuro. Dopo un momento) — Eh, quanto tempo ci impiega!

La vedova Baran (grassa, autoritaria, veste di nero, con uno scialle nero di seta, pieno di pretese. Sulla cinquantina) — Sono cinque piani, sa... Mica uno: cinque.

Fulvia — Eh, lo so. Ma ho lasciato il negozio incustodito.  Se viene  qualcuno...

La vedova Baran (seccamente) — Se viene qual­cuno chiamerà. E poi, non le interessa sapere?

Fulvia (con avidità) — Non mi interessa? E me lo chiede? Non vedo l'ora di sapere! Che ne pensa lei?

La vedova Baran (sentenziosa) — L'ultimatum farà effetto.

Fulvia — Come dice? Che cosa?

La vedova Baran (seccata) — L'ultimatum. Ho detto ultimatum. Farà effetto perché è irrevocabile. O quell'uomo cede o saranno presi dei provvedimenti.

Fulvia — E chi li prenderà?

La vedova Baran — L'Amministrazione. Non è ammesso tenere un pazzo in una casa, con tutte le conseguenze che possono derivarne per gli altri inqui­lini. L'Amministrazione deve provvedere.

Fulvia (con un brivido) — Io penso che succe­deranno cose grosse...

La vedova Baran — Perché?

Fulvia — Se «lui» si ribellerà.

La vedova Baran — Non si ribellerà.

Fulvia — Ho sentito storie di pazzi che si sono barricati in casa. Hanno dovuto sfondare la porta per prenderli.

La vedova Baran (con sopportazione) — Oh, non siamo a questo punto... «Lui» è un pazzo, senza dubbio, ma è tranquillo. Credo che sia affetto da mania religiosa.

Fulvia — Come?

La vedova Baran — Mania religiosa. (Seccata) Ma bisogna sempre dire le cose due volte? Non le capisce alla prima?

Fulvia (umile) — È perché lei parla difficile. Ultimatum... mania religiosa... sono termini che una merciaia come me non adopera tutti i giorni... Lei, invece...

La vedova Baran (lisciandosi lo scialle, conte­gnosa) — Mio marito buon'anima era professore alle scuole serali... Quello che so lo devo a lui... Pace all'anima sua.

Fulvia (con rispetto) — Certo, lei è la sola in grado di spiegare. È stato un bene che abbia preso l'iniziativa. Un bene per tutti noi. E anche per la famiglia di «lui»... (Giungendo le mani) Poveretti! La moglie, i bambini... Perché non dicono nulla, non si oppongono?

La vedova Baran — È quello che mi domando. Ho  cercato  di  capire,  ma inutilmente.

Fulvia — Forse hanno paura... Anche se sono tranquilli i matti fanno paura...

La vedova Baran — Tra poco sapremo. Domani dovrà finire tutto. E io ricomincerò a vivere tran­quilla. Ah, sì. Con quella maledetta torre che minaccia di crollare sul mio pollaio... Già due mattoni sono caduti sul mio terrazzo e per poco non mi è morto il gallo.

Fulvia — Con quello che costa un gallo oggigiorno!

La vedova Baran (comprimendo i battiti del suo cuore) — Comincio ad aver paura. È così preso nella sua idea fissa che è capace di tutto... Sa che non parla mai? È terribile.

Fulvia (che guarda verso il fondo, è la prima ad avvistare la portinaia che arriva dalle scale) — Oh, eccola! Finalmente!

La Portinaia (entra in scena dal fondo. È una donnetta scialba sulla sessantina. Viene avanti zop­picando un po').

Lavedova Baran (si alea di scatto e le muove incontro) — E allora? Allora?

La Portinaia (conscia della sua importanza, non parla ma va a sedersi).

La vedova Baran (la segue, irritata e delusa) — Ebbene?

La Portinaia (sgarbata) — Permetterete che mi sieda, no? Cinque piani sono cinque piani. E poi ho la sciatica. (Siede e si frega una gamba).

Fulvia (premurosa) — Ma certo! (Alla Baran) Ha ragione, no? (Alla portinaia) Racconti bene, per filo e per segno come se noi fossimo state li...

La vedova Baran — Ha la risposta?

La Portinaia (con sussiego, mostra una busta) — È qui.

La vedova Baran — Ah, meno male. (Soddisfatta) Ha ceduto.

Fulvia — Crede?

La vedova Baran (siede, accomodandosi bene la gonna) — Certo. Altrimenti non avrebbe risposto, come le altre volte.

Fulvia (alla portinaia, gentile) — Ebbene?

La Portinaia — Ecco, ecco! Dunque, ho suonato il campanello. Mi hanno fatto aspettare un poco. Poi finalmente la porta s'è aperta, con molta cau­tela e si è affacciata lei, la moglie...

Fulvia — Che faccia aveva?

La vedova Baran (irritata) — Sst! Sst! Lasci parlare!  (Alla portinaia) Che faccia aveva?

La Portinaia — Così. Non saprei. Un po' pallida. Mi ha detto che stava riposando.

Fulvia — È la paura che la rode dentro...

La vedova Baran — Sst! Sst! Allora?

La Portinaia — Allora le ho detto che, da parte della Amministrazione dello stabile, dovevo perso­nalmente consegnare una lettera a suo marito e ottenere subito, personalmente, una risposta.

La vedova Baran — Bene! E lei?

La Portinaia  —  Ha sospirato. Poi mi ha pregato di sedermi e aspettare un momento. E mi ha lasciata in anticamera.

Fulvia — Allora lui non lo ha visto?

La Portinaia — Oh, sì. È venuto personalmente a darmi la risposta. Del resto non me ne sarei andata senza averlo visto di persona. Questi erano gli ordini.

La vedova Baran (approva) — Bene.

Fulvia — E che faccia aveva?

La Portinaia — Mah, non saprei. Tranquilla. Mi ha consegnato la busta e mi ha detto «Ecco la risposta».

Fulvia — E poi?

La Portinaia — Niente. Mi ha detto «Buonasera».

La vedova Baran (a Fulvia) — Che le dicevo? Non parla. Lo so benissimo. Sono settimane ormai che non lo sento più.

Fulvia — Prima lo sentiva?

La vedova Baran — Ah, certo. Attraverso le pareti si sente tutto. (Alla portinaia) E questa ri­sposta, allora?

La Portinaia — La porterò all'Amministratore.

La vedova Baran (insinuante) — Non sarebbe il caso di dargli un'occhiatina?

La Portinaia — Ma la busta è chiusa.

Fulvia (delusa) — Chiusa!...

La vedova Baran — Oh, ma basta aprirla. E poi si mette in una busta nuova. (Decisa) Dia a me. (Prende la busta dalle mani della portinaia, la apre tranquillamente, ne estrae un foglietto, lo spiega, lo legge. Ha un moto di sorpresa) Oh!

Fulvia (con evidente curiosità) — Che dice? Che dice?

La vedova Baran (legge) — «Spettabile Ammi­nistrazione, mi duole di non poter accogliere il vostro invito, ma affari molto più importanti delle vostre questioni me lo impediscono. Distinti saluti».

Fulvia (con stupore) — Oh! Questo significa allora...

La vedova Baran — Che respinge l'ultimatum! (Si alza).

La Portinaia — Se è così, domani ne vedremo delle belle! Ah, certo! (Si alza).

La vedova Baran (acre) — Delle belle, eh?! Ma mi faccia il piacere! Come se non sapessi che ci vogliono mesi di pratiche per cacciar via un inquilino! Dei mesi! E intanto che cosa succederà?

La Portinaia (irritata)   —  Ora lo  vedremo...   E sarà la volta  buona per far nascere uno scandalo...

Goss   (è  il  piccolo  famelico  direttore  del  giornale locale «L'Opinione».   Un ficcanaso che va sempre in cerca di storie per il suo giornale.  Egli entra sulla battuta della portinaia) — Uno scandalo? Dove?

La Portinaia — E lei chi è? Che vuole?

Goss  (con un inchino)  — Oh,  amabile signora... Io sono Alfredo Goss, direttore de «L'Opinione»... Mi sono permesso di disturbare per chiedere un'in­formazione... Ecco tutto. Sono entrato per doman­dare se una delle gentili signore conosce per caso la signora Bertini, quella che ha avuto due gemelli... Abita qui, non è vero?

La Portinaia (con malgarbo) — Ma sì, abita al terzo piano... Perché? Cosa vuole da lei?

Goss — Oh, nulla di particolare... Sono un gior­nalista che va in cerca di notizie. Capite? Non suc­cede mai nulla di eccezionale nella nostra piccola città... E anche un parto gemellare è, sotto un certo aspetto, un avvenimento... Voglio dire, in mancanza d'altro... Ma entrando qui ho sentito parlare di scan­dali... E se veramente ci fosse un bello scandalo non nascondo che mi farebbe piacere... Da un punto di vista professionale, s'intende...

La Portinaia (con malgarbo) — Macché scandalo! Abbiamo a che fare con un matto, ecco!

Goss — Un matto? Oh! Ma questo è ancora meglio... Un matto ha detto? E dove si trova?

La vedova Baran — Al quinto piano!

Goss — Oh! E si tratta di un matto pericoloso! Non ha ancora avvertito la polizia?

Fulvia — Non è abbastanza pericoloso, finora..

Goss — Ma può diventarlo...

La vedova Baran (trionfante) — Vedete! Ho ragione io... Può diventarlo.

Goss — Senza dubbio, gentile signora... La follia non ha confini precisi. Il matto che oggi è tranquillo domani darà fuoco alla casa...

Fulvia (spaventata) — Oh Dio!

Goss (dandosi importanza) — Senza dubbio. Occorre prevenire. Sorvegliare.

La vedova Baran (contenta di trovare un alleato nel giornalista) — L'ho detto fin dal primo momento Ho preso l'iniziativa di mettere sull'avviso l'Amministrazione dello stabile...

Goss  Saggia iniziativa, signora. A chi ho l'onore di parlare?

La vedova Baran (con sussiego) — Sono la ve-dova Baran. Vedova del professor Erminio Baran insegnante alle Scuole Serali.

Goss (si inchina) — Oh! Il tanto apprezzato e stimato professor Baran! Ma certo!

La vedova Baran — Lo conosceva!

Goss — No. Ma lo immagino. E sono onorato di salutare la sua vedova. (Si inchina) Mi metto inte­ramente a vostra disposizione. Se non erro, il case mi ha condotto qui in un momento un po' delicato.., Sento parlare di un matto che desta preoccupazioni... È forse un parente di lor signore!

Le Donne (insieme con ribrezzo) — Oh, no!

Goss — Tanto meglio. Questo ci consente una maggior libertà di giudizio, se così posso dire. E in che consiste la follia di questo individuo!

La vedova Baran — Se glielo dico non crederà.

Goss — Conosco abbastanza il mondo e la vita per non sorprendermi più di nulla.

La vedova Baran (con un tono un po' misterioso) — Ecco: c'è un uomo, in questa casa, che si è messo a edificare una torre sulla terrazza... la terrazza del suo appartamento, si intende... Lavora da solo a costruire questa torre che assomiglia a un fumaiolo, mettendo insieme calce e mattoni in una strana maniera...

Goss — Ma è un capomastro! Un muratore!

La vedova Baran  No! È un impiegato, un contabile alle Vetrerie Riunite...

Goss (un po' deluso) — Non mi sembra un fatto allarmante.  Costruire una torre,  in fondo,  è  cosa lecita...

La vedova Baran — Già! Ma lei non sa perché la costruisce. Quest'uomo, un certo ragionier Andrea Rossi, s'è  messo a edificare la torre perché vuole arrivare a incontrarsi con Dio...

Goss (sorpreso) — Come dice! Incontrarsi con chi!

La vedova Baran — Con Dio.

Goss — Ma è assurdo!

La vedova Baran — Cosa le dicevo! Pare assurdo anche a lei!

Goss — Credo che lo sarebbe per chiunque. Un progetto simile può venire in mente solo a uno squilibrato.

La vedova Baran (trionfante) — Non è squilibrato, è matto. E io, come sua vicina di casa, ho il dovere di mettere sull'avviso gli altri inquilini.

Goss — È suo vicino!

La vedova Baran — Purtroppo. Vivo in continua palpitazione.

Fulvia — Per poco non le ha ammazzato il gallo...

Goss — Che cosa!                                         

La vedova Baran — Un gallo, un gallo. Stia a sentire. Tutto è cominciato dal giorno in cui que­st'uomo, trasportando i suoi maledetti mattoni, ne ha fatti cadere un paio sul mio pollaio... Io ho un pollaio nella mia terrazza. Bene: per poco non mi uccide il gallo.

Goss — Ma sa che è un fatto grave, questo!

Fulvia — Eh, con quello che costano i galli oggi-giorno...

Goss — Ma no, ma no: lasci stare. Questo è il meno. È l'altra faccenda che mi interessa. Non capisce che razza di notizia sensazionale sta per venire fuori! Se è vero quello che lei mi ha raccontato...

La vedova Baran (risentita) — Vero! Osa met­tere in dubbio le mie parole!

Fulvia — Ne parliamo da diversi giorni... Io sono la merciaia che ha il negozio qui sull'angolo... se la interessa...

Goss (distratto) — Oh, certo. (Si volge alla vedova Baran) Non vorrei averla offesa, gentile signora, ma può comprendere la mia emozione...

La vedova Baran — Capisco, capisco...

Goss — Il mio senso professionale si è destato di colpo, se così posso dire. (Febbrile) Mi dica, mi dica... come ha saputo che il suo vicino vuole giun­gere a incontrarsi con... con... sì, insomma, costruire una torre sopra una terrazza non significa niente.

La vedova Baran — Naturale! Io, sulle prime, quando ho notato che trafficava con calce e mattoni, ho pensato che volesse costruire anche lui un piccolo pollaio come il mio...

La Portinaia — L'Amministrazione lo permette.

La vedova Baran — Ma sì, ma sì. Poi, osser­vando bene attraverso la lamiera...

Goss — Quale lamiera!

La Portinaia — Le terrazze sono separate da una lamiera...  Questo per evitare i furti di biancheria.

Goss — Ma non si può vedere attraverso le lamiere.

La vedova Baran (schiva) — Ho fatto un piccolo buco... Un buchino.

Goss — Capisco... La curiosità è femmina...

La vedova Baran — Oh, sa, una povera vedova sola non ha molte distrazioni...

Fulvia — In una città come questa, poi...

Goss (impaziente) — Andiamo avanti, amabili signore... Osservando attraverso il buco che cosa ha notato!

La vedova Baran — Che il ragionier Rossi non costruiva un pollaio ma un fumaiolo... 0 almeno qualcosa che somigliava a un grosso fumaiolo... E non capivo cos'era. Per quanto mi sforzassi non capivo. Ora, quando una cosa non è chiara è sempre sospetta...

Goss (infervorato) — Ben detto... Permette che prenda appunti!... (Estrae un taccuino e una matita e comincia a scrivere) Quando una cosa non è chiara è sempre sospetta... Bene. E poi? Voglio dire, la spiegazione dell'enigma come è giunta?

La vedova Baran (placida) — Attraverso la parete.

Goss (stupito) — Un altro buco?

La vedova Baran — Oh, no! Non è necessario... Le pareti di queste case moderne, sa, sono così sot­tili che perfino i sospiri si sentono da una stanza all'altra...

Goss — E lei ha sentito...

La vedova Baran — Una notte, marito e moglie parlavano...

Goss — Ah! quest'uomo ha una moglie?

Fulvia — Una moglie e tre figli.

Goss — Oh! (Prende appunti) Tre figli.

La Portinaia — Una figlia di diciannove anni, un ragazzo di quattordici, un bambino di sette anni...

Goss (prendendo appunti) — E la famiglia lo lascia fare?

Fulvia (in tono misterioso) — Hanno tutti paura di lui!

Goss — Oh! (Prende appunti) Vivono nel terrore... Li costringe a lavorare?

La vedova Baran — No, no. Veramente io ho visto soltanto lui, al lavoro.

Goss — Ah! straordinario. Ma il motivo dunque? Il motivo? Che dicevano fra loro marito e moglie?

La vedova Baran — Ecco, avrei dato non so cosa per udire bene. Ma c'era la radio del vicino accesa... E per quanto mi sforzassi non sono riuscita che ad afferrare poche parole... Sentivo che discuteva con la moglie... Parlava a scatti, concitato... A un certo punto udii questa frase: «Non si può più andare avanti così...». Ma ritenendo che si trattasse del solito discorso sull'aumento del costo della vita, non prestai molta attenzione... E poi sentii che parlava dei figli... e finalmente - c'era la radio, capite? -finalmente sentii queste parole : «Un giorno arriverò a incontrarmi con Dio. Quando la torre sarà più alta; allora salirò fino in cima, e mi incontrerò con Lui...».

Goss (scrive, affannato) — Come? Come? Un mo­mento... «sarà più alta, allora...».

La vedova Baran — «Allora salirò fino in cima e mi incontrerò con lui...».

Goss  (scrive) — ... «con Lui».  È  chiaro,  E  poi?

La vedova Baran — Nient'altro. Il resto mi è sfuggito. E da allora non ho più udito niente.

Goss — Peccato! Veramente peccato...

La vedova Baran — Lo dice a me! Sapesse quante ore sono rimasta con l'orecchio incollato alla parete... E non per bassa curiosità.

Goss — Lo credo. C'è una curiosità bassa, ma c'è anche una curiosità alta, voglio dire, elevata, che è propria delle anime nobili...

La vedova Baran (lusingata) — Troppo gentile...

Goss — Ancora una cosa, un piccolo particolare... Ha detto che quest'uomo lavora da solo?

La vedova Baran — Proprio così. Da solo tra­sporta i mattoni e la calce sulla terrazza che sovrasta il suo appartamento, da solo lavora... Ha cominciato diciotto giorni or sono, proprio all'inizio delle vacanze annuali... In qualità di contabile anziano alle Vetrerie ha diritto a venti giorni di vacanza...-

Goss — In questo caso il ragionier Rossi non avrà il tempo di terminare la sua torre... Tra due giorni dovrà tornare in ufficio...

La vedova Baran — Ma lei crede davvero che una simile torre possa essere mai terminata?

La Portinaia — Il padrone di casa si opporrà...

Goss (sorride) — Oh, no. Anche se il padrone di casa lo permettesse, non arriverebbe mai...

La vedova Baran (ride cordialmente con un certo sollievo) — Ah, meno male. Le dirò sinceramente che cominciavo a dubitare che lei avesse preso sul serio questa faccenda...

Goss — Sul serio? Mia gentile signora, un bravo giornalista non prende mai nulla sul serio... Questo è un fatto di cronaca, interessante (infervorato) che può diventare sensazionale... tutto dipende dall'abi­lità di chi lo presenta al lettore... Mi spiego? Destare l'interesse del lettore; ecco quello che conta! E in una città come la nostra, dove anche un parto gemel­lare è un avvenimento, ebbene un matto che vuole scalare il Cielo è veramente quello che occorre per suscitare la curiosità del pubblico. Ah! Non lo avrei mai creduto. Ma domani, domani «L'Opinione» uscirà con un titolo su sei colonne... «Giungerà il ragionier Rossi a incontrarsi con Dio?». E poi: «Un modesto contabile vuole dare la scalata al Cielo...». Chiedo scusa, amabili signore, ma devo correre in tipografia prima che sia tardi... Bacio le mani... Bacio le mani... (Corre via facendo grandi gesti di saluto. Le tre donne, in piedi, lo guardano uscire, interdette).

SECONDO   QUADRO

L'interno della casa del ragionier Andrea Bossi. Il tinello, una modesta ma decorosa stanza in cui la famiglia vive. Due porte, una a sinistra, in alto, che conduce all'ingresso, un'altra a destra che mette nel resto dell'appartamento. In centro una finestra-balcone aperta, con le tende bianche lunghe fino a terra. In un angolo della stanza - in alto a destra - scala a chioc­ciola, in ferro, che conduce alla terrazza. La stanza è ammobiliata semplicemente: un tavolo, alcune sedie, una vecchia poltrona, un divanetto, ecc. Per terra, in primo piano, un mucchio di mattoni.

(Quando si accende la luce sono in scena la signora Anna, moglie del ragionier Rossi, e sua figlia Lucia. La signora Anna è una donna che da poco ha oltrepas­sato la quarantina, ma dimostra qualche anno di più. Le cure della casa, il continuo lavoro, l'hanno ridotta così. E tuttavia spesso un dolce sorriso illumina il suo viso sfiorito. La ragazza, Lucia, ha diciannove anni: è bellina, impetuosa, con qualche pretesa di eleganza, sebbene i suoi mezzi non le consentano quello che vor­rebbe. Anna seduta nella grande vecchia poltrona era intenta a rammendare. Un mucchio di roba da aggiu­stare è presso di lei. Ma ora non lavora; il suo volto è preoccupato, i suoi occhi sono fissi nel vuoto. Questo perché sua figlia, in piedi presso di lei, ha appena terminato di leggerle l'articolo che «L'Opinione» ha pubblicato. La ragazza, infatti ha il giornale in mano).

Lucia (con ira, veemente) — Ora capisco perché quando sono scesa, la portinaia, la merciaia, la frut-tivendola, tutti, tutti mi guardavano in uno strano modo! Sono la figlia, capisci, la figlia del piccolo contabile che vuol dare la scalata al Cielo! (Quasi con il pianto nella voce) È una cosa ignobile quello che hanno fatto! Io non avrò più il coraggio di uscire di casa...

Anna (con calma tristezza) — Ma no, cara, no... Non angustiarti a questo  modo...

Lucia (c. s.) — Mamma! Ma tu non capisci la gravità di questo fatto! Ci coprono di ridicolo, te ne rendi conto? Fra poche ore questa piccola città pettegola non parlerà che di noi!

Anna  (con un sospiro) — Sì,  cara.  Me ne rendo conto.  (Riprende a cucire, rassegnata).

Lucia (cercando di scuotere, sua madre) — E tu stai lì, così, non trovi nulla da dire, non cerchi di rare qualcosa?

Anna (a fatica) — Ma cara piccina mia... Io cerco di pensare... Ecco: cerco di pensare. Ma il mio cervello è tanto stanco. E poi devo terminare d'imbastire il vestito nuovo di Mario... Fra pochi giorni dovrà pre­notarsi agli esami... Che cosa vorresti fare tu?

Lucia — Bisogna denunziare quella donna. Inse­gnarle a tenere la lingua a posto! È lei che ha parlato, che ha raccontato tutto al direttore del giornale... Non è possibile che la legge consenta...

Anna (improvvisamente la interrompe) — Sst! Sst! Il babbo sta scendendo. Non dire nulla, eh? Non dire nulla.

Lucia — Ma il babbo deve sapere! Bisogna che sappia!

Anna — No, no: te ne prego. Anzi, dammi il giornale. (Prende il giornale dalle mani della figliola, lo piega, lo nasconde nella poltrona) E non parlare. Non parlare, te ne prego. Sarebbe un colpo troppo grave per lui.

Lucia (tenta di protestare) — Ma io penso invece...

Anna (implorante) — No, no. Eccolo...

(Dalla scaletta a chiocciola discende lentamente il ragionier Andrea Rossi. È un mite e tranquillo uomo sui quarantacinque anni, con i capelli più grigi che neri, un po' trasan­dato nell'insieme, tipico campione dell'essere mansueto e indifeso che forma il gregge umano. Andrea Rossi è in maniche di camicia, e indossa uno strano grem­biule da giardiniere. Sulla testa ha un vecchissimo cap­pello di paglia. Egli appare contento e soddisfatto. Quando è sceso nella stanza fa un piccolo saluto alla moglie poi si dirige verso il mucchio di mattoni e ne raccoglie un po' per portarli su).

Andrea — Il lavoro procede molto bene oggi... Sono contento. (A Lucia) E tu non vuoi venire su un momento a vedere la mia torre?

Lucia — No.

Andrea — Come credi, come credi. (Alla moglie) Sai, mamma, mi sono accorto che oggi c'è molta gente che mi guarda lavorare... Tutte le finestre delle case vicine sono piene di gente. È strano, no? Sembra che la torre li interessi molto... (a Lucia) Quando ne avrai tempo e voglia, vieni su anche tu... È bello sai? Si vedono tutte le montagne lontane. E più si sale, più si allarga il cerchio dell'orizzonte. Ho sco­perto perfino delle montagne che prima non avevo mai visto. Mentre le guardavo, così limpide e chiare... pensavo che sembrano dipinte a pastello... come quella cartolina che ci mandò lo zio Augusto... Te la ricordi?

Lucia (appare distratta, chiusa, e ostile) — No.

Andrea — Era molto bella. Peccato che Guido l'abbia strappata. (Continua a mettere insieme i mat­toni. Alla moglie) Mamma, credi che tu potrai venire su a vedere?

Anna — Sì, caro, se ti fa piacere. Ma più tardi. Ora ho tanto da fare.

Andrea (avviandosi verso la scala) — Stasera lavo­rerò finché ci sarà un raggio di luce... Voglio andare avanti più che posso...

Anna — Non ti stancherai troppo? Sei sempre al lavoro senza un attimo di sosta... E queste dovreb­bero essere le tue vacanze...

Andrea (con un sorriso) — Non ho mai avuto vacanze così belle... (Sale la scaletta portando i mattoni finché scompare in alto).

Lucia (di scatto) — Hai sentito. Tutta la gente gremisce le finestre per guardarlo e ridere, ridere di lui! (Corre alla finestra, guarda fuori) Ecco, vedi? Centinaia di persone! E hanno perfino i cannocchiali... Che vergogna! Che vergogna! (Si getta a sedere sul divanetto con la faccia tra le mani e grida, quasi pian­gendo) Non posso sopportare, tutto questo! Non posso sopportarlo!

Anna (addolorata, stupita, si alza e va a sedere accanto alla figliola, l'accarezza) — Suvvia, cara... Non mi sembra il caso di addolorarsi tanto... Se la gente ha piacere di guardare, ebbene, si accomodi. Non c'è nulla di male...

Lucia (scattando) — Nulla di male, tu dici? Ma non ti rendi conto che stiamo per diventare lo zim­bello di tutta la città? Non capisci che non oserò più presentarmi davanti a Roberto?

Anna — Oh, cara! Se Roberto ti ama non farà caso a queste sciocchezze...

Lucia — Ma ci sono i suoi parenti! Loro non per­deranno l'occasione per ridere alle mie spalle e diver­tirsi a nostre spese! Sono già tanto maligni e altezzosi con tutta la loro maledetta boria! (Si alza, dura, decisa) Senti mamma: tu devi parlare al babbo. Devi dirgli le cose come stanno. Finché tutto restava tra noi era anche ammissibile che egli si dedicasse alla sua torre... Perché vorrai ammettere lealmente che questa idea del babbo non ha alcun fondamento logico, vero? Tu e io sappiamo molto bene che è assurda. Non è così?

Anna (umile, affettuosa) — Figliolina mia, ti capisco benissimo... Ma che cosa vuoi che ti dica? Il babbo non da noia a nessuno ed è tanto contento... Perché dovrei indurlo a rinunziare? Ha sempre avuto così poche gioie il poveretto... E in quanto al giudicare se la sua idea è logica oppure no... ebbene, perché dovremmo affermare che le cose che sfuggono alla nostra  comprensione  immediata  non  hanno  senso?

Lucia — Allora tu credi veramente che lui?... (Non osa proseguire).

Anna (c. s.) — Ma no, ma no... Non lo credo. Ma egli appare tanto convinto che proprio non ho cuore di dissuaderlo... È così felice! Non hai notato com'è mutato da quando s'è dedicato alla sua torre? Sembra un altro uomo. È sereno, tranquillo... (Si alza) Lasciamolo fare, dunque, e sopportiamo la curiosità della gente. Tanto, prima o poi, tutto finirà. Il babbo si stancherà oppure la gente si interesserà d'altro... Credi a me, cara... Tutto si risolverà prima di quel che tu non creda... E ora vai a prendere le patate e comincia a sbucciarle... I ragazzi torneranno affamati come sempre... Io continuo il mio lavoro, intanto... Guido deve avere le sue calze rammendate per andare a scuola domattina...

Lucia (non appare convinta. Sta per dire qualcosa, poi ci ripensa ed esce).

Anna (ritorna alla sua poltrona e riprende il lavoro interrotto. Ma subito si interrompe, prende il giornale nascosto, lo spiega, lo rilegge con attenzione e tristezza).

Andrea (dall'alto) — Mamma!

Anna (piega il giornale di scatto, ma mentre sta mettendolo via suo marito scende) — Sì caro... Eccomi...

Andrea (agitato) — Mamma! È accaduta una cosa stranissima!

Anna (si è alzata) — Che cosa, mio Dio...

Andrea (sorpreso e agitato) — Sono venuti a farmi la fotografia!

Anna — Come? Chi è venuto?

Andrea — Un tale, dalla terrazza della vedova Baran... Si è arrampicato con una scaletta... Io non mi ero accorto della sua presenza perché gli voltavo le spalle... Allora lui mi ha chiamato... «Ehi!». Mi ha gridato. Mi sono voltato e lui ha scattato l'obbiet-tivo con un lampo, così... Poi si è dileguato. Cosa pensi che sia?

Anna — Mah!? Non saprei...

Andrea — Per quale ragione mi ha fotografato? Non riesco a capire. Ho cercato di chiamarlo, di trat­tenerlo... Ma è fuggito in gran fretta... Proprio non capisco. Credi che ci sia una ragione?

Anna — Non so...

Andrea — Forse è a causa del pollaio... La vedova Baran deve aver paura che qualche mattone mi sfugga ancora com'è accaduto i primi giorni... (Diver­tito) Povera donna, come si è arrabbiata! Ma non deve temere: ora sto molto attento... Senti... Io penso che tu dovresti andare un momento dalla nostra vicina per chiederle se è a conoscenza che un tale si è introdotto nel suo terrazzo per fotografarmi... Forse non lo sa. Ma sii gentile con lei, mi raccomando. Non vorrei urtarla. In fondo è una brava donna... (Si avvia verso la scala) Io continuo, eh? Poi vieni su a riferirmi... (Sale).

Anna (rimane interdetta a guardare il marito che sale e scompare).

Lucia (entra precipitosamente) — Mamma! C'è un signore che vuol vedere il babbo...

Il Medico — Permesso? Permesso? (Entra immediatamente, spingendo da parte Lucia che esce chiu­dendo la porta. Il medico è un piccolo signore, corret­tamente vestito, dai gesti rapidi e nervosi) Buona sera, buona sera... È questa l'abitazione del... del... (Con­sulta un pezzetto di carta che ha in mano) del ragionier Andrea Rossi, impiegato alle Vetrerie Riunite, vero? Benissimo, benissimo... C'è il ragioniere?

Anna (sulla difensiva) — In questo momento... veramente... Io sono sua moglie... se posso sostituirlo...

Il Medico — Ah, sua moglie... Sua moglie... Bene, benissimo... Io sono il medico ispettore della Cassa Mutua Malattie tra gli Impiegati dell'Industria... e sono qui allo scopo di... di... (Cerca invano le parole, poi cambia tono) Ecco, signora, le parlerò con molta franchezza. Ho avuto dal vice presidente delle Vetrerie Riunite, presso le quali suo marito è impiegato, il preciso incarico di compiere una visita, qui, in casa di suo marito, per assicurarmi delle sue perfette condizioni di... di... diciamo, di salute.

Anna — Ma mio marito non è malato...

Il Medico — Non voglio dire questo, signora... si tratta solamente di una misura precauzionale... Mi permetto di dirle che talvolta gli stessi malati non si rendono conto di esserlo... E nemmeno i fami­liari avvertono lo stato di... di... diremo così...

Anna (in tono che non ammette replica) — Dottore!

Il Medico — Signora non si offenda, per carità. Nessuna intenzione da parte mia di mancare di rispetto a lei, né a suo marito che ritengo una degnissima persona pur non avendo il piacere di conoscerlo... Tuttavia io ho avuto un incarico tassativo, io ho una funzione ben definita alle dipendenze della Cassa Mutua Malattie tra gli addetti alle Industrie, quale Ispettore Sanitario... e lei vorrà convenire meco che il sospetto che è nato nella mente dei dirigenti le Vetrerie Riunite sul conto di suo marito è, diremo così, pienamente giustificato...

Anna — Sospetto? Ma di che sospetto parla?

Il Medico (sbrigativo) — Beh, signora. Parliamo senza tante perifrasi. È meglio. (Estrae dalla tasca un giornale: è «L'Opinione») Lei ha certamente letto «L'Opinione» vero? C'è una storia che riguarda suo marito... Immagino che sia al corrente...

Anna (con improvvisa energia) — Dottore!

Il Medico — Signora mia, inutile far tanti com­plimenti. Mi auguro che suo marito sia sano come un pesce, ma desidero visitarlo...

Anna(c. s.) — Quello che lei dice è offensivo, per mio marito, e per tutti noi... La prego di non insistere!

Il Medico (irritato) — Come? Come? Signora! Ma lei si rende conto della mia funzione? Impedendo a me di esplicare il mio mandato, lei viene a compiere un atto di arbitrio che può avere le più gravi - ho detto le più gravi - conseguenze! La prego di chia­mare suo marito.

Anna — No.

Il Medico (con ira crescente) — Ha detto di no?

Anna — Ho detto di no. Non farò questo affronto a mio marito.

Il Medico — Ah, bene! Benissimo. Ne prendo atto. (Avviandosi verso la porta, irritato e ironico) Ne prendo atto, signora. Farò il mio rapporto a chi di dovere... Un uomo che costruisce una torre per incontrarsi con Dio, eh? Ma non si rende conto che è un'esplosione di follia? A chi può venire in mente un progetto simile se non a un malato? Eh? Incon­trarsi con Dio! E, di grazia, a quale altezza lo incon­trerà?

Anna (sopraffatta) — Esca! Esca immediatamente!

Il Medico (sulla porta) — Oh, me ne vado, non dubiti. Ma ci vedremo presto! E questa volta sarà lei a chiamarmi... perché occorre un mio visto per internare un malato in casa di salute... (Uscendo) Stia bene, stia bene, signora... (È uscito).

Anna (è rimasta immobile, come impietrita. Si passa lentamente una mano sul viso).

Lucia (entra, spaventata) — Mamma! Chi era quel signore? Se n'è andato come una furia sbattendo la porta... Cosa voleva?

Anna (si riscuote a fatica) — Niente, cara, niente... Pretendeva di parlare col babbo... (Con un pallido sorriso) Ma io non ho voluto, non ho voluto distur­barlo...  Povero  babbo...

Lucia — Che vogliono da lui?

Anna (sospira) — Oh, non so. Darei qualunque cosa purché lo lasciassero in pace... Non possono lasciare in pace la gente a questo mondo?

Andrea (scende le scale e viene in scena, imbaraz­zato) — Mamma... guardami un po'... C'è qualcosa di ridicolo in me?

Anna — Perché, caro?

Andrea — Forse questo vecchio cappello? (si leva il cappellaccio di paglia e lo guarda con aria dubbiosa) Certo è un po' fuori moda. (A Lucia) È ridicolo, vero?

Lucia (con una smorfia) — Beh, sì: io non lo met­terei...

Andrea (candido) — La gente ride.

Anna — Quale gente?

Andrea — Quella che sta affacciata alle finestre per vedermi lavorare. Mi indicano a dito e ridono.

Anna — Oh!

Andrea — Certamente è per il cappello... É molto brutto, lo so. Ma per lavorare è l'ideale. (Getta il cappello sul divano) Posso farne a meno. Ora non c'è più sole. (Fa una carezza a Lucia che lo guarda) La gente ride di nulla... Non hai mai notato? In fondo gli uomini sono come dei bambini...

La Portinaia (entra) — Permesso? Permesso? Scusino... ma ho trovato la porta aperta... e sono entrata... (Getta intorno un'occhiata indagatrice).

Anna (a Lucia) — Vai subito a chiudere, cara...

La Portinaia (che parla in tono un po' sostenuto con aria dì leggera superiorità) — Lasci, lasci... Ho chiuso io. Sono salita per accompagnare l'ingegnere dell'ufficio tecnico comunale che deve parlare con lei... (si è rivolta ad Andrea) con lei personalmente... Per­mette? (Si fa sulla porta e chiama) Ingegnere? Si accomodi, si accomodi...

L'Ingegnere (è un uomo di mezza età, un po' rustico, con un eterno sigaro spento in bocca. Entra) — Buona sera.

La Portinaia — Ecco, questo è l'ingegnere del comune. Il ragionier Rossi.

L'Ingegnere  (sostenuto)  — Piacere.

Andrea — Piacere. Permette? Mia moglie. Mia figlia. (Saluti a, soggetto) In che cosa possa servirla?

L'Ingegnere — Mi risulta che lei ha iniziato sulla sua terrazza la costruzione di un... di un... Andrea (gentile) — Di una torre.

L'Ingegnere — Ah?! Una torre. Addirittura una torre.

Andrea — Sì. Non è proprio una vera torre, voglio dire, ma le assomiglia molto.

L'Ingegnere (freddo) — Bene. Devo compiere un sopraluogo e chiederle anzitutto se ha espletato le formalità previste dalla legge e dai regolamenti comunali...

Anna (che si è seduta e ha ripreso a cucire, allarmata) — Ci sono formalità?

L'Ingegnere — Ma certo, signora. Suo marito deve esserne al corrente.

Andrea (imbarazzato) — Veramente no.

L'Ingegnere (sorpreso) — No?! Allora, se ho ben capito, lei costruisce così, senza aver ottenuto alcun permesso né espletata alcuna pratica...

La Portinaia — Eh, già! Mi sembrava...

L'Ingegnere (la interrompe) — Lasci, lasci... Parlo io. (Ad Andrea) Lei avrà certo un progetto della sua costruzione...

Andrea (umile) — No.

L'Ingegnere (sopraffatto) —- No?! Nemmeno un progetto?

Anna (accorre in soccorso) — Ma sì, caro... Certo che hai un progetto! Me lo hai fatto vedere una volta e ne abbiamo discusso un pomeriggio intero... Non ricordi?

Andrea (illuminandosi) — Ah, sì! È vero! Hai ragione!

Anna — Dev'essere... dev'essere... qui, nella mia cestina da lavoro. (Fruga un momento) Un foglietto che abbiamo strappato da un quaderno di Mario... Lo ricordo benissimo... Eccolo! (Ha trovato il «pro­getto», ovvero un misero foglietto da quaderno di scuola elementare) Tieni.

Andrea (trionfante, si affretta a prendere il foglietto, lo porge con un sorriso all'ingegnere) — Eccolo. Mi sembrava bene che ci dovesse essere...

L'Ingegnere (prende il foglietto con la punta delle dita come fosse una cosa immonda, con disprezzo) — Questo sarebbe...?

Andrea (tranquillo, sicuro di sé) — Il progetto. Fatto da me.

L'Ingegnere (sbuffa) — Caro signore, in che mondo crede di vivere, lei?

Andrea — Perché?

L'Ingegnere (irritato) — Ma perché lei è assolu­tamente fuori della realtà! Questo, per sua norma e regola, non è un progetto. È uno scarabocchio.

La Portinaia  (ride).

Lucia (irritata, alla portinaia) — Faccia a meno di ridere lei!

La Portinaia — Perché? Io rido se c'è da ridere.

Lucia — Ma non qui.

Andrea — Sst! Sst (A Lucia) Non interrompere, cara... Noi parliamo d'affari... (All'ingegnere con gen­tilezza) Allora non le sembra abbastanza chiaro?

L'Ingegnere (che sta perdendo la pazienza) — Chiaro? Ma io intendo un progetto tecnico, un piano preciso elaborato da un architetto, corredato da piante e disegni... Che diavolo dice! E poi, a parte questo, dove sono i permessi? Ha i permessi in regola lei? Ha svolto la pratica presso la Commissione di Edilizia?

Andrea (balbetta) — Commissione?

L'Ingegnere (dall'alto del suo sdegno represso) — Qualsiasi privato o ente, anche statale, che intende compiere nuove costruzioni o modificare costruzioni già esistenti, deve sottostare a particolari norme e regolamenti che riflettono le pratiche e i permessi precedenti la costruzione delle opere; che riflettono le prescrizioni concernenti l'esecuzione delle opere stesse; le norme interessanti la solidità dei fabbricati e le cautele di sicurezza pubblica, l'altezza delle case, la sistemazione degli spazi privati... (estenuato, sbuf­fante), oh, insomma, ci siamo capiti mi pare, no?

Andrea (che ha lanciato sguardi disperati a sua moglie, ora fissa l'ingegnere come un coniglio affasci­nato dal serpente e tace).

L'Ingegnere (impaziente) — Allora?

Andrea (annientato) — Allora?

L'Ingegnere — Bisogna buttare giù tutto. Demolire.

La Portinaia (con maligno compiacimento) — L'avevo detto fin dal primo giorno, io.

Lucia — Vuoi tacere sì o no?

La Portinaia (acida) — Eh, quante arie! E il permesso al padrone di casa l'avete chiesto?

L'Ingegnere — Silenzio! Silenzio! (Ad Andrea) Se non vuole demolire può anche pagare la multa...

La Portinaia (ride) — E i soldi?

Andrea (sperduto) — La multa... È molto forte?

L'Ingegnere (burbero) — Non so. Non è affar mio. Venga domani al Comune per parlare con l'ingegnere capo. Riceve dalle dieci a mezzogiorno. Oh, inten­diamoci: intanto la costruzione deve essere tassati­vamente interrotta.  Capito?

Andrea (annuisce con un cenno del capo, rattristato).

La Portinaia (all'ingegnere) — Bisogna anche sapere che il padrone di casa ha minacciato di sfrat­tarlo...

L'Ingegnere (con malgarbo) — Non mi riguarda. Buonasera. (Si avvia verso la porta ed esce).

La Portinaia — Buona sera. (Esce a sua volta, sostenuta, seguendo l'ingegnere).

Andrea (dopo un istante di silenzio, a sua moglie, con timidezza) — Hai sentito? Quante complicazioni... Non lo avrei mai immaginato... (Si aggira sperduto nella stanza) Ora comincio a capire perché c'è la crisi degli alloggi... Soltanto al pensiero delle pratiche e dei permessi, uno si scoraggia e non costruisce... Già. (Sorride pallidamente alla figliola che lo osserva) Sembra che gli uomini si divertano a complicare le cose, non ti pare? Se non sono abbastanza complicate non vanno bene... Ma io non mi scoraggio, oh no. A proposito, se non sbaglio, Roberto studia archi­tettura,   vero ?

Lucia (allarmata) — Sì.

Andrea (illuminandosi) — Ah, bene. Bene. È un bravo figliolo, Roberto. Perché non lo inviti a venire un momento su da noi stasera dopo cena? Forse non gli dispiacerà vederti, eh? E poi io potrei chiedergli

un parere... Già. Un parere sul mio progetto... Sarei lieto  di studiarlo con  lui...                                   

Lucia (esterrefatta) — Ma babbo!

Andrea — Perché?

Lucia — Non è possibile! Non chiederò mai una cosa simile a Roberto.

Andrea (guarda sua moglie interrogativamente) — Perché, mamma?

Anna (pronta) — Forse Roberto ha molto da fare in questo momento... Sai... gli esami... tanto da studiare...

Andrea — Oh! Mi dispiace proprio... (A Lucia) Ma se tu lo pregassi... solo per un consiglio, voglio dire... Non credo che negherebbe a te questa gen­tilezza...

Lucia (dura) — Ma è impossibile, babbo. Non voglio che Roberto rida di te.

Andrea — Ridere... di me? (Si odono dall'esterno rumori e voci di persone).

Anna (si alza, allarmata) — Che succede? Lucia! (Le due donne si dirigono verso la porta, quando entra come un bolide Mario, il ragazzo).

Mario (ha quindici anni. È un ragazzo solido, con i pantaloni corti. Ha una maglietta da giocatore di calcio e porta sottobraccio un pallone. È allegro, diver­tito) — Babbo! Tutta la mia squadra vuole vedere la torre! Tutti vogliono vedere te! (Getta per aria il pallone e lo riafferra) L'uomo del giorno!

Anna (in tono di rimprovero) — Mario!

Mario (incosciente) — Sono qui fuori che aspet­tano! Hanno tutti letto il giornale e ardono dall'im­pazienza di conoscerti...

Andrea (sorpreso) — II giornale?

Anna (spingendo via il ragazzo) — Ma non è niente... Una sciocchezza... (A Mario) Vai, vai a giocare con i tuoi amici...

Mario (resistendo) — Ma lasciami, mamma! Non capisci che se non gli mostro il babbo credono dav­vero che sia matto? (Un silenzio terribile).

Andrea (a Mario) — Che hai detto?! Ripeti!

Mario (spaventato) — Babbo... io credevo che tu lo sapessi... che tu avessi letto il giornale...

Anna (a Lucia) — Vai e manda via quei ragazzi... presto!

Lucia (esce).

Anna (cercando di distrarre Andrea) — Senti, babbo, adesso ti spiego, ascoltami...

Andrea — No, lasciami... (A Mario) Dov'è questo giornale?

Mario (timido) — Qui. (Tira fuori il giornale dalla tasca dei pantaloni, lo porge a suo padre) Eccolo. In prima pagina.

Andrea (apparentemente calmo ma in realtà ferito e offeso siede nella vecchia poltrona, inforca gli occhiali e, spiegato il giornale, comincia a leggere. Alle sue spalle, muta angosciata, sta Anna. Mario si tiene un po' in disparte imbarazzato. Dopo un lungo momento di penoso silenzio, Andrea lascia cadere per terra il giornale e resta immobile con lo sguardo fisso nel vuoto).

Anna — Andrea...

Andrea (fa appena un cenno con la mano per dire che è inutile parlare. In questo momento la porta si apre e, invano trattenuto da Lucia, entra Guido).

Guido (è un bambino grazioso di sette anni, vivace, intelligente. Indossa il grembiule da scuola, con un colletto bianco e una grande cravatta azzurra a fiocco. A tracolla porta la cartella. Entrando si precipita allegramente da suo padre) — Eccomi babbo! Sono tornato! Mi dai un bacio? Oggi ho preso otto nel componimento...

Andrea (vincendosi, sorride al bambino, lo stringe a sé, lo accarezza) — Bravo, caro...

Guido — Sei stanco, babbo?

Andrea — Sì, caro. Un poco.

Guido — Oh, allora quando ho fatto i compiti ti aiuto io... Mi fai lavorare con te, vero? La facciamo grande la torre noi due...

Andrea (accarezza il suo bambino, poi dice con un sorriso triste) — Non la facciamo più la torre...

Guido — No, babbo?

Andrea (piano) — No, caro... Non si può... Non vogliono... (E si prende il volto tra le mani) Lasciatemi solo...

Anna (prende il bambino per mano e fa cenno agli altri due, Lucia e Mario, d'uscire) — Vieni... venite... Il babbo vuole restare solo...

(Escono tutti. Solo Andrea rimane, seduto, triste, nella stanza che si va facendo buia. Ormai è sera. Improvvisamente accade qualcosa. Una luce bianchissima illumina dall'esterno la finestra e nello stesso tempo le tende si muovono, fluttuano, sospinte da uno strano vento. Ma Andrea non se ne accorge. E Dio entra. Egli entra attraverso la finestra, come per magia. La luce si spegne. Dio ha l'apparenza d'un vecchio signore molto fine, molto distinto. Ha i capelli bianchi, è alto, magro, col volto glabro. Veste di nero, ha un bastone col pomo d'avorio, è di modi affabili, cortesi, e pure senza ombra di fami-liarità. Entrando, il Signore, si avvicina alla poltrona e osserva un momento l'uomo seduto. Poi parla con voce calda e dolce).

Il Signore — Avevi bisogno di me, Andrea Rossi?

Andrea (Alza la testa. Non lo riconosce. È un po' seccato, anzi, dalla presenza di questo estraneo) — Scusitanto, ma... mia moglie sa che volevo restare solo...

Il Signore (sorride appena. E ripete) — Avevi bisognodi me, Andrea Bossi?

Andrea (Capisce. È stupefatto, sconvolto, annientato. Si alza di scatto, balbetta) — Signore... Com'è possibile! È proprio vero?

Il Signore (amabile) — Sono io, certo.

Andrea — Oh, scusi, scusi tanto se mi presento in queste condizioni...  Dovrei almeno  mettermi la giacca...

Il Signore — Non importa, caro. Non è per la tua giacca che io sono qui, ma per te. Se mi è stato riferito esattamente, tu volevi incontrarti con me.

Andrea (sperduto) — Sì, sì, certo... Ma non avrei mai osato pensare che ciò potesse realizzarsi... così...

Il Signore — Perché, Andrea Rossi? Quello che tu immaginavi era tanto diverso?

Andrea  (esitante, intimidito) — Posso...  parlare, Signore?

Il Signore — Certo.  Sono qui per questo. Per ascoltarti.

Andrea — Ecco... Anzitutto io non m'aspettavo di vederti... così... Almeno m'ero fatta un'idea di­versa guardando le fotografie della Cappella Sistina... Sai, il giudizio  di   Michelangelo...

Il Signore (sorride, divertito) — Ah, capisco. Ma se ti fossi apparso con tutta la mia barba forse ti saresti  spaventato.

Andrea — Eh, sì. Forse sì.

Il Signore — E poi c'è ancora qualcosa che vor­resti chiarire!

Andrea — Sì. Io non immaginavo che tu saresti mai venuto qui. Sulla terra, voglio dire.

Il Signore — Non accade sovente, infatti. Ma è avvenuto. Al tempo dei Patriarchi, per esempio, gli uomini avevano maggiore dimestichezza con me e mi vedevano spesso. Io parlavo loro ed essi mi par­lavano. C'era tra loro e me un legame che col tempo si è affievolito, e non per colpa mia. Io, devi saperlo, non vado che da chi mi chiama. Ma se qualcuno ha bisogno di me, non mi chiama invano. (Una pausa) E tu, Andrea Rossi, che volevi costruire una torre per giungere fino a me, che cosa hai da chiedere?

Andrea (intimidito, umile) — Signore... vera­mente... ora che sei qui, mi sembra proprio che si trattasse di cose senza importanza... Non avrei voluto disturbarti per tanto poco...

Il Signore — Credi veramente che sia così? Ne sei proprio sicuro?

Andrea — Ecco, signore... Posso dire tutto?

Il Signore — Ma certo! Anzi, sediamoci. Parle­remo meglio. (Siede sul divano) Siedi.

Andrea — Oh, no! Non oserò mai! Piuttosto penso che dovrei inginocchiarmi. Chiedo scusa se non l'ho fatto subito.

Il Signore (sorride) — Ma no, caro. L'umiltà non è un atteggiamento esteriore... In ginocchio o in piedi, tu sei sempre un bravo figliolo col quale mi fa piacere d'intrattenermi. Dimmi, dunque. Cosa c'è che non va?

Andrea — Signore, poiché me ne dài il permesso, ti dirò che sono stanco di questa vita.

Il Signore — Oh!  E come mai?

Andrea — Le cose non vanno molto bene quaggiù. C'è troppa cattiveria, troppa violenza, troppa malizia, troppo egoismo, troppa disonestà...

Il Signore (con leggero rimprovero) — Ah! Ah! Mi sembra che tu stia giudicando il tuo prossimo, Andrea Rossi...  Questo è grave.

Andrea — Oh, no, Signore! Non giudico, io rife­risco soltanto. Perché c'è molta confusione, troppa confusione dentro di me. In una parola, io non riesco più a capire in che maniera devo comportarmi...

Il Signore — Vivere è diventato dunque tanto difficile  quaggiù?

Andrea (prendendo coraggio) — Eh, sì, Signore. Purtroppo. Uno si alza la mattina e non sa come fare per arrivare fino a sera senza essere calpestato, a meno che non voglia a sua volta calpestare qual­cuno... Ecco, è difficile vivere da persona per bene su questa terra. Quanto ci hanno insegnato da ra­gazzi sembra una favola sciocca a paragone di quello che accade nella realtà. È difficile guadagnare il proprio pane senza essere sfruttati, è difficile crearsi un piccolo posto senza essere sopraffatti, è difficile educare i propri figlioli, renderli adatti alla vita, senza farne dei disonesti o degli ipocriti... Per conto mio, dopo tanti anni di lavoro, mi ritrovo con una grande amarezza dentro. Ero partito pensando di poter edificare qualcosa di solido e di duraturo e invece non c'è niente. Sono alla mercé del caso, del capriccio; di uno, dell'ambizione di un altro... L'avvenire non mi appartiene: come può avere un avvenire un uomo come me che conosce ormai l'amara esperienza di troppe speranze deluse? No, no, Signore: non si può fare affidamento sugli uomini. Sono troppo cattivi. Ed è perciò che sono stanco. Stanco di cam­minare a questo modo. Non ho più fiducia. Mi sembra di essermi smarrito in un labirinto dal quale non uscirò mai... Mi capisci!

Il Signore (accenna di sì, gravemente, col capo).

Andrea (con patetico coraggio) — Insomma, Signore, scusa se te lo dico, ma quaggiù qualcuno ha cancellato i confini tra il bene e il male, ed è proprio difficile orientarsi. Per questo volevo incontrarmi con te, Signore. Perché non so proprio come fare ad andare avanti senza... senza diventare cattivo a mia volta... E se questo accade, come va a finire?

Il Signore — Già? (Riflette un istante) Capisco. Mi rendo conto che tu sei sincero. Ed è proprio questo che mi rattrista. Non immaginavo mai che un uomo potesse aver paura di vivere in mezzo agli altri uomini. Intendiamoci: non mi sono mai fatto molte illusioni sugli uomini, ma, insomma, le cose finora procedevano discretamente. Però il tuo grido d'allarme mi preoccupa. Sì, certo. (Riflette) Ti dirò: da un po' di tempo non ero più venuto sulla terra. Un po' per il gran daffare che c'è nell'Universo... Ammi­nistrare l'Universo non è tanto semplice.

Andrea — Oh, lo immagino, Signore! Devi avere un lavoro!

Il Signore — Oh, sì! Altro che riposare la dome­nica! E ciò non mi ha permesso di seguire con atten­zione le vicende della Terra. I casi normali sono sbrigati dai miei collaboratori e io del resto non ho mai ricevuto appelli particolarmente urgenti, salvo il tuo... Sì, sì, tanto che una volta mi sono detto perfino : «ma guarda come se la cavano bene gli uomini senza di me!». (Altro tono) L'avessi immagi­nato! Bene: il tuo caso mi induce a esaminare la situazione un po' da vicino. (8i alza) Ho deciso: vado a vedere.

Andrea (allarmato) — Signore, mi lasci già? E non mi dici nulla!

Il Signore (rassicurandolo) — Oh, no! Vado sol­tanto a fare un rapido giro d'ispezione... Voglio dare un'occhiata al cuore degli uomini... (Si ode bussare alla porta, e la voce di Anna che chiama).

Voce di Anna  (dall'esterno) — Babbo!  Andrea!

Il Signore (presto) — È tua moglie che vuol dirti che è l'ora di andare a tavola...

Voce di Anna (c. s.) — È l'ora di andare a tavola!

Il  Signore   (presto)  —  Sta tranquillo.  Tornerò. Aspettami con  calma e fiducia. Riprenderemo il discorso. E vedrai che non ti abbandonerò... Andrea (fa per inginocchiarsi) — Signore  mio...

Il Signore (sorridendo, benevolo, lo trattiene, dall'inginocchiarsi) — Su, su, caro. Mi ringrazierai dopo, semmai... E adesso, arrivederci, Andrea Rossi... (Esce dalla finestra, così come era entrato, mentre la bianca luce si accende e il vento agita le tende).

Andrea (in piedi, sconvolto, spaventato, felice, fissa la finestra a bocca aperta).

Anna (entra quando le tende si muovano ancora) — Oh! Non senti che comincia a far fresco? Vedi, si è levato il vento... (Va a chiudere la finestra, poi torna presso il marito).

Andrea (non si è mosso. Dice, piano) — Non era il vento...

Anna (non ha capito. È affettuosa, premurosa) —. Senti Andrea... Abbiamo un po' parlato della situazione con i ragazzi... Loro vogliono dirti qualcosa... Siediti qui, nella poltrona e ascoltali... (Accompagna Andrea e lo fa sedere) Così. (Chiama) Ragazzi! (Lucia, Mario e Guido entrano. Hanno Varia compunta, seria e grave).

Lucia (si rischiara la voce) — Babbo... Oggi ti è stato dato un dolore ingiusto... tu sei buono e non lo meriti... E per quanto noi non si condivida le tue... le tue speranze — tu vedi che siamo leali —  per quanto il tuo sogno ci sembri un po' assurdo, e scusaci se te lo diciamo, tuttavia abbiamo deciso di aiutarti perché ti vogliamo bene. Io andrò a chia­mare Roberto, subito dopo cena, e Dio sa quanto mi costi affrontare i commenti ironici dei suoi fami­liari... Mario rinunzierà a giocare al pallone per aiutarti a portare su i mattoni... Guido è piccolo ma anche lui farà qualcosa... E la mamma...

Anna — Io veglierò su di te. Nessuno entrerà in casa fino a quando la torre non sarà finita...

Andrea (sorpreso, commosso, guarda i suoi che gli si stringono intorno. Sorride) — Miei cari, cari, caris­simi... Siete infinitamente buoni con me. Ma io voglio, dirvi una cosa: non costruirò più la torre...

Lucia — Oh babbo! Vuoi proprio rinunziare?

Mario (con entusiasmo) — Forza babbo! Se per­metti faccio venire la mia squadra a darci una mano!

Andrea (scuote la testa e sorride) — No, no: non è più necessario. Io costruivo la torre per innalzarmi al di sopra del mondo, per raggiungere un ambiente puro e incontrarmi con Dio... ma Dio, in persona, è sceso sulla terra ed è venuto da me.

(Un silenzio. Istintivamente tutti si ritraggono da Andrea, spaven­tati. Lo guardano con apprensione).

Anna — Andrea! Ma che cosa stai dicendo?

Andrea (si alza, semplice, sorridente) — La verità, cara. Il Signore è stato qui, poco fa. Ho parlato con lui.

Lucia (con improvviso terribile sospetto, grida) — Mamma! (I tre figli si stringono alla madre, spaventati, lontani da lui).

Andrea (per nulla scosso, sempre sorridente, fa un passo verso di loro. Ma i quattro si allontanano rifu­giandosi dietro il divano. Egli li guarda, deluso) — Oh, perché non volete credermi? Vi dico la verità. Ho parlato con lui. Anzi, è stato seduto lì (indica) per tutto il tempo...

Anna (spaventata) — Andrea! Andrea! Tu non stai bene! Vai a gettarti sul letto, per piacere, vai!...

Andrea (Sorride. Guarda i suoi e sorridendo si avvia verso la porta. Essi lo fissano con terrore. Ma mentre per uscire, il piccolo Guido si stacca dalla madre e corre verso Andrea, trepidante).

Guido — Babbo! Babbo! A me mi racconti com'era?

Andrea (accarezza il bambino, tenero) — Sì, caro... Sì, vieni. (Lo prende per mano ed esce, mentre gli altri guardano spaventati).

ATTO SECONDO

In casa del ragionier Andrea Rossi, un pomeriggio, tre  giorni  dopo.  La  stanza  è  insolitamente  pulita  e ordinata. Ogni cosa è al suo posto e tutto brilla d'una inconsueta lucentezza.  Un mazzo di fiori è in un vaso sulla tavola e il sole che entra dalla finestra  non fa che aumentare il senso di festosa solennità che è nell'aria.

(All'inizio dell'azione, il ragionier Andrea Rossi è in scena e passeggia gravemente in lungo e in largo, con  le mani incrociate dietro la schiena. Il ragionier Rossi è vestito a festa: indossa cioè il suo abito migliore, l'abito scuro della domenica, col colletto duro, le scarpe nere lucide, una spettacolosa cravatta. È lustro e pulito come tutto quello che lo circonda. Dopo un momento,da destra, entra Anna, la moglie. Essa contrasta nettamente col marito: sul suo povero abituccio da casa ha un grembiale da cucina. Ha le maniche rimboccate,e, entrando, si asciuga le mani, le povere mani che lavorano tanto. Essa guarda il marito con amorevole pena. Senza essere inquieta con lui, tuttavia essa è un po' preoccupata per il contegno inspiegabile di quest'uomo, suo marito. Si rivolge a lui col tono che adoprerebbe una madre che sopporta le bizze d'un bam­bino  capriccioso).

Anna — Sono già le due e mezza, babbo...

Andrea  (interrompe appena  il  suo  andirivieni e controlla  con  calma  l'ora  estraendo  dal taschino  del fiotto un grosso vecchio orologio) — Le due e trentasette... È vero. (Sospira) L'attesa è interminabile.

Anna — Ma... non vai in ufficio nemmeno questo pomeriggio?

Andrea — Eh, no. Non posso. (Si asciuga il sudore) Fa caldo,  oggi, eh?

Anna (gli si avvicina, cercando di convincerlo) — Andrea, perché non vuoi andare in ufficio? Cosa pen­seranno di te? Avresti dovuto riprendere servizio giàda ieri mattina...

Andrea (con calma, come se fosse la cosa più naturale del mondo) — Ma te l'ho spiegato... Il Signore miha detto che sarebbe ritornato e io lo aspetto...

Anna (scoraggiata) — Sì, caro, sì... Ma non potresti intanto andare in ufficio?

Andrea — E se Lui viene mentre io non ci sono?

Anna — Andrea... ma tu credi davvero che...

Andrea — Naturalmente, cara. Me lo ha promesso. Pensi che io possa dubitare della parola del Signore! (Riprende a camminare, si asciuga il sudore e si fa vento col fazzoletto) Soltanto si fa attendere un po'...

Anna — Levati almeno la giacca. Stai scoppiando. Questo vestito di lana va bene per l'inverno...

Andrea — Non vorrai mica che lo riceva in maniche di camicia, vero? Sarebbe inopportuno.

Anna — Andrea caro, ascoltami... Abbi pazienza se, una volta ancora, ti dirò cose che potranno ferirti...

Andrea (bonario, con sopportazione) — Sì, cara, lo so, lo so. Tu vuoi dirmi che non hai creduto una sola parola di quanto ti ho detto, che io sono vittima di una allucinazione, che il mio contegno, da tre giorni, è assolutamente inesplicabile... Tutto questo lo  so. Ma so anche, d'altra parte, che non c'è nulla di più vero di quanto ti ho riferito. Tutto è accaduto come te l'ho descritto, né più, né meno. E se ora sono qui e attendo con ansia il Suo arrivo è proprio perché so con certezza che Egli verrà.

Anna (crolla il capo) — Non si tratta di questo. Tu sei padrone di credere quel che più ti conviene, di immaginare le cose che più ti fanno piacere, ma devi anche  misurare le conseguenze dei tuoi atti.

Andrea — Ho forse mancato ai miei doveri?

Anna — Finora no. Ma adesso cominci a preoc­cuparmi. Che accadrà di noi se tu non andrai al lavoro? Credi forse che ti daranno ugualmente lo stipendio alla fine del mese?

Andrea (infastidito) — Ma sì, ma sì... Non ti rendi conto che in questo momento io sono impegnato in qualcosa di molto più importante di tutte le Vetrerie Riunite di questo mondo? (Si riprende, tenero, affettuoso) Abbi pazienza, cara... Non temere nulla per te, per noi... Se Dio si occupa benevolmente di me, vuoi che non pensi anche che io devo avere il mio stipendio?  In qualche modo provvederà. Ti pare?

Anna — N... no. Temo che queste cose siano troppo piccole per il Signore. Insomma, io credo che tu esageri un poco. E almeno levati la giacca. Stai sudando come se fossi nel forno.

Andrea — Non posso. Quello che mi fa sudare non è tanto il vestito quanto il terribile odore di naftalina che ne sprigiona.

Anna (lo guarda con commiserazione, come se fosse davvero ammattito e sospira) — Non preoccuparti anche di questo, caro. Iddio saprà bene che i vestiti di lana devono essere tenuti al riparo dalle tarme. (Si ode dall'esterno il suono del campanello) Oh, ecco qualcuno... Speriamo che non siano cattive nuove!... (Esce da sinistra, preoccupata).

Andrea (si asciuga il sudore. Per un istante è ten­tato di levarsi la giacca, e infatti comincia a sfilarsela, ma poi ci ripensa e, presto, la riabbottona con cura e riprende a camminare).

Anna (Rientra da sinistra. Ha una lettera in mano ed è più che mai preoccupata) — C'è una lettera urgente dalle Vetrerie Riunite. L'ha portata su la portinaia... Vuoi aprirla?

Andrea — Aprila pure tu...

Anna (legge la lettera) — «Egregio Signor Ragionier Andrea Rossi. Città. Non avendo Ella ripreso servizio regolarmente allo scadere del Suo periodo di ferie, Le comunichiamo che siamo costretti a considerarla dimissionario, a meno che Ella non sia ammalato. In questo caso però Ella è tenuto a presentare al più presto un regolare certificato medico che com­provi la sua malattia. Distinti saluti. Il Direttore Generale». (Un silenzio) Hai sentito Andrea?

Andrea (per nulla scosso) — Eh, sì. Ho sentito. Articolo 15 del contratto di lavoro. Niente da dire. Anna (implorante) — Andrea caro... tu devi cor­rere immediatamente in ufficio... Capisci? Altrimenti sei considerato dimissionario.

Andrea (disperato) — Ma ti ho già detto che non posso muovermi!

Anna (quasi all'estremo della pazienza) — Ma come posso farti capire che questa tua ostinazione non ha senso? Vuoi o non vuoi andare in ufficio?

Andrea — Lasciami aspettare almeno fino a domani mattina!

Anna — No! Devi andare subito. Oppure... oppure io andrò a chiamare il medico. Se non vai in ufficio sei malato. Ecco: sei malato. Convincerò il medico a rilasciarti il certificato...

Andrea — Ma io sto benissimo!

Anna — No!  Quando il medico verrà gli dirai che ti senti male.   Hai dei dolori qui,  alla milza, nello stomaco. Quando sono dolori interni i medici non capiscono niente. E allora ti rilascerà il certificato.

Andrea (piagnucolando) — Non vuoi proprio farne a meno, cara? Adesso non è il momento più adatto... Se il Signore viene...

Anna (scattando) — Tanto meglio! Se il Signore viene saremo in tre a vederlo! (Con furia e dispera­zione) Io non ne posso più, ecco! Tu vuoi mandare in rovina la tua casa, vuoi ridurre tutti noi alla disperazione. Almeno, poi, tu cercassi di renderti utile, ma no! Tutto il peso della casa è soltanto sulle mie povere spalle! Io non faccio che sgobbare e lavo­rare e per giunta devo anche badare a te e alle tue idee, adesso!... Non ne posso più.

Andrea (umile, servizievole) — Anna... Non arrab­biarti... Tu sai che ti voglio bene... Cosa posso fare per farmi perdonare?

Anna — Sbucciare le patate.

Andrea (un po' scandalizzato) — Oh, ma le patate...

Anna — Non puoi fare nemmeno questo, vero? Dovevo   aspettarmelo.   (Sta   per   piangere)   Dovevo aspettarmelo... (Piange).

Andrea — Ma no, cara... Ascolta... Sbuccerò le patate... Come vuoi tu...

Anna (esce da sinistra, poi torna subito dopo con un recipiente pieno di patate, un piatto e un coltello, sostenuta) — Ecco. E sarà bene che tu ti metta il grembiale per non sporcarti il vestito... (Si leva il grembiale e lo fa indossare al marito, che, poveretto, è triste come un cane bagnato) Così. E ora vado a chia­mare il medico. Siamo intesi? Dolori interni. Cerca di ricordartene.

Andrea (remissivo) — Sì. (Siede nella grande pol­trona con il piatto delle patate sulle ginocchia e guarda la moglie timidamente) Anna?

Anna (ruvida) — Cosa c'è?

Andrea — Non sei in collera con me?

Anna — Ma no, ma no. Soltanto... è terribile che ti sia venuto in mente di voler parlare con il Signore. Se avessi immaginato quello che sarebbe successo... (Se ne va crollando il capo, esce).

Andrea (si mette gli occhiali e comincia malinco­nicamente a sbucciare le patate mentre si asciuga il sudore. Dopo un momento, preceduta da una luce abba­gliante e dal vento che agita le tende, entra il Signore. Questa volta il Signore ha un'espressione severa e cor-rucciata. Sembra che non sia affatto contento di quello che ha visto nel suo giro d'ispezione sulla terra).

Il Signore (si ferma, accanto ad Andrea e lo guarda. Andrea sbuccia le patate, assorto) — Eccomi, Andrea Rossi.

Andrea (vede il Signore e sobbalza spaventato e vergognoso. Cerca di nascondere le patate) — Oh, Signore!

Il Signore — Che fai? Perché vuoi nascondere le patate? Sono un eccellente frutto della terra...

Andrea (confuso) — Sì, Signore. (Si alza e così, col grembiale, è veramente buffo, balbetta, sperduto) Mi ero preparato per riceverti degnamente, Signore. Ma mia moglie ha voluto... Non capiscono proprio nulla le donne... Non era il momento di sbucciar patate, questo...

Il Signore (con un gesto per tagliar corto) — Lascia stare. C'è ben altro che le patate ora. Devo parlarti.

Andrea (si raddrizza, come un soldato sull'attenti) — Eccomi, Signore.

Il Signore (dopo un momento, con gravita) — Quello che ho visto nel mio breve giro sulla terra mi ha convinto che tu hai ragione, Andrea Rossi. Gli uomini non sono più quelli di una volta.

Andrea — Purtroppo, Signore.

Il Signore — Anzi, non hanno proprio più nulla in comune con gli uomini che io ho immaginato dovessero popolare questo mondo. In origine la mia idea era diversa. Intendiamoci, ho avuto ben presto dei dispiaceri a causa d'un certo Caino, ma non avrei mai immaginato che, coll'andare del tempo, gli uomini peggiorassero a tal punto. Hai proprio ragione tu, Andrea Rossi.

Andrea (emozionato) — Oh, Signore! Sono com­mosso d'aver avuto ragione.

Il Signore — Sì, è così. (Cammina nella stanza, prende un fiore, ne aspira il profumo, voltando le spalle ad Andrea).

Andrea (rapidamente ne approfitta per togliersi il grembiale che nasconde sotto la poltrona).

Il Signore (senza voltarsi) — Perché ti sei tolto il grembiale, Andrea Rossi?

Andrea (sorpreso e confuso non risponde).

Il Signore (si volta e viene verso Andrea) — Su, su: non fare quella faccia. Dicevo dunque che le cose quaggiù non camminano a dovere. Io non sono affatto contento. Anzi, sono molto scontento. Gli uomini hanno abusato della mia pazienza.

Andrea (sempre umile, ma confidenziale) — Hai ragione,  Signore.  E,  se posso dire il mio parere... (Si riprende) Posso?

Il Signore — Senza dubbio.

Andrea — Ecco, Signore. Tu li hai abituati male perdonandoli sempre. Sicuri come sono d'essere per­donati, perché tu sei paziente, gli uomini se ne appro­fittano.  Io  stesso,   Signore,  ho  sovente trasgredito alla tua legge, me ne rendo conto. E quando ciò mi capitava, io udivo una voce dentro di me che diceva: «Oh, tanto Dio è buono. Basta pentirsi, chiedere perdono e tutto è cancellato».

Il Signore — Anche tu, Andrea Rossi?

Andrea — Sì, Signore. Mi dispiace molto. E tut­tavia io non ne ho profittato, ma c'è chi pensa che il pentimento a ripetizione è un sistema comodo per non avere rimorsi...

Il Signore (severo) — Credi forse che io conti­nuerò in eterno a essere così paziente? Lo credi? Ho visto quaggiù troppe cose che mi hanno rattri­stato e offeso, per non trarne ammaestramento. E ti dico una cosa sola: adesso basta!

Andrea (lo guarda con spavento).

Il Signore (sempre più severo) — Ho deciso di farla finita!

Andrea (tremante) — Signore... cosa intendi per «farla finita?».

Il Signore — Non sono abbastanza chiare le mie parole? Ricordati che c'è già stato un precedente nella storia dell'umanità. Speravo proprio di non dover ricorrere a questo mezzo estremo, ma non vedo altra soluzione. Gli uomini avranno quello che si meritano.

Andrea (si fa piccolo piccolo. Con un filo di voce) —  Hai proprio  deciso?

Il Signore — Sì. Ho deciso. Vorrei che gli uomini sapessero che anche la pazienza di Dio ha un limite.

Andrea (c. s.) — Questo significa... che li ster­minerai  tutti?

Il Signore — Non chiedere troppe cose, Andrea Rossi. Io ti considero con benevolenza ma non posso ammettere che un uomo indaghi i miei propositi. Ho un progetto e lo metterò in pratica. Aspetta e vedrai.

Andrea (sperduto) — Sì, Signore. Come vuoi tu.

Il Signore — Così mi piace. Ascoltami bene: tu non ti muoverai di qui. Resterai qui in attesa. A te non succederà nulla. Mi intendi?

Andrea — Sì, Signore. Non mi muoverò.

Il Signore — Bene. Non ti muoverai. E adesso lasciami andare. Non ho più tempo da perdere. (Esce rapidamente dalla finestra che si illumina mentre le tende si muovono agitate dal vento).

Andrea (annientato, guarda con gli occhi sbarrati e si asciuga il sudore. Poi cade a sedere nella poltrona, sbalordito).

Anna (Entra da sinistra precedendo il medico. È tutta affannata e preoccupata) — Venga, venga, dot­tore... Da questa parte... si accomodi...

Il Medico (entra, sostenuto, recando la valigetta dei ferri, e si guarda in giro. Anche lui ha caldo e si asciuga il sudore) — Ah, eccolo qui... E perché non è a letto il malato?

Anna — Sa... ci sta poco volentieri a letto...

Il Medico (osserva Andrea che, ancora sotto l'ef­fetto della rivelazione terribile, non s'è mosso) — Beh? Come mai siamo vestiti a festa?

Anna — Oh, dottore! Non è vestito a festa... Gli ho fatto indossare un abito pesante, l'unico che pos­siede, perché aveva freddo...

Il Medico (brontola) — Freddo? Fa un caldo da scoppiare! Io sudo, lui suda, lei suda...

Anna (annuisce, con un mite sorriso) — Sudare fa bene, non è vero dottore?

Il Medico (mentre estrae dalla borsa lo stetoscopio) — Non sempre. (Ad Andrea) Dunque abbiamo smesso di costruire torri, eh? (Andrea non reagisce) Beh, non parla?

Anna — Sta molto male... (Ad Andrea) Come ti senti, caro?

Andrea (guarda sua moglie, imbambolato) — Eh?

Anna — Ti senti male, vero?

Il Medico (ruvido) — Il malato lo interrogo io. (Ad Andrea) Si levi la giacca, presto... E si alzi.

Andrea (si leva la giacca macchinalmente, esegue).

Il Medico (comincia ad auscultarlo) — Tossisca... Dica: trentatré...

(Intanto l'aria si è fatta oscura. Il sole è scomparso. Improvvisamente si ode un for­midabile rombo  di  tuono).

Anna (sobbalzando) — Che paura! Ma che succede?

Il Medico (guarda verso la finestra) — C'è un grosso temporale in vista... Con questo caldo!... Sen­tirà tra poco... (Ad Andrea) Su, su: dica trentatré.

Andrea (ribellandosi) — Macché trentatré! Non si rende conto di quello che sta per succedere? (Altro tuono) Sente?

Il Medico — Ma mi faccia il piacere! Per un tem­porale si emoziona tanto?

Andrea — Le dico che non è un temporale! (Ad Anna, angosciato) Dove sono i figlioli? Bisogna che vengano subito a casa. Sta per accadere una cosa terribile!

Il Medico (spazientito) — Ma vuole lasciarsi visi­tare sì o no?

Anna — Lasciati visitare, caro. Altrimenti come farà il dottore a rilasciarti il certificato?

Andrea — Ma il certificato non serve più a niente ormai! È troppo tardi! Vai a cercare i ragazzi, corri! Corri!

Il Medico (a Anna) — Senta signora, o suo marito si lascia visitare per bene o io me ne vado!

Anna (implorante) — Te ne prego, caro... Tu sei tanto paziente e ragionevole...

Il Medico — Metta il termometro, su! (Gli ficca il termometro in bocca)  Sieda!

Andrea (Obbedisce. Siede, col termometro in bocca e un'espressione di spavento).

Il Medico — Adesso accavalli le gambe. Così. (Dà un colpo sul ginocchio di Andrea col taglio della mano. La gamba sobbalza) Ah, ecco! (Ripete).

(La scena è sempre più buia. Sembra notte. Tuono lontano. Un lampo livido rompe le tenebre).

Anna — Che lampi! Dev'essere proprio un grosso temporale...  (Accende la luce).

Andrea (fa dei cenni disperati perché Anna si avvicini).

Il Medico — Vuole stare fermo sì o no? Accavalli l'altra gamba...

Andrea (Esegue, rassegnato ma non domo. E con­tinua a far gesti a Anna mentre il medico lo studia, lo esamina).

Anna — Ma cos'hai caro! Non puoi stare un po' tranquillo?

Il Medico (non capisce niente) — Ma che razza di malattia può avere?

Anna — Dottore? Non sarà mica grave, no?

Il Medico — Non vede com'è eccitato? Non è normale. Ha delle reazioni sproporzionate. Vediamo il termometro. (Prende il termometro dalla bocca di Andrea).

Andrea (balza in piedi) — Vogliamo smettere questa storia? Io sto benissimo. E non posso più star fermo.

Anna — Ma cosa dici, Andrea? Se stavi molto male poco fa... (Al medico) Dottore, le assicuro che sta male...

Il Medico — Oh, me ne accorgo. Non ha febbre, ma il suo stato è preoccupante. Deve mettergli subito del ghiaccio sulla testa.  Ha del ghiaccio in casa?

Anna — No.

Il Medico — Compresse di acqua fredda, allora. Presto! (Ad Andrea) E lei sieda! Domani la farò ricoverare.

Andrea — Ricoverare? Domani? (Ride isterica­mente) Domani!  (Siede ridendo)  Domani!

Anna (esce da destra, di corsa).

(Un lampo e un tuono fortissimo).

Andrea (al medico, cupo) — Sente? Comincia la fine.

Il Medico (lo guarda con apprensione) — Stia calmo, stia calmo...

Andrea — Sì, sì. Pensi all'anima sua, piuttosto. È il momento.

Anna (rientra, preoccupata, con una pezzuola ba­gnata e la mette sulla fronte di Andrea) — Così, dottore?

Il Medico — Va bene. Ma occorre ben altro. Venga, subito con me, andiamo in farmacia... Le darò tutte le prescrizioni. (Chiude la valigetta).

Anna — Sì, dottore, sì...

Andrea (ad Anna) — Non andare, Anna! Resta qui! Resta qui!

Il Medico — Su, signora, spicciamoci!..

Andrea — Anna! Devo dirti una cosa! Ma a te sola! Ascolta!

Anna — Dopo... me la dirai dopo...

Andrea (si alza, getta via la pezzuola) — I bambini! Bisogna mettere in salvo i bambini!

Il Medico (ad Andrea, calmandolo) — Non ci pensi, adesso... Stia calmo... Si sieda, si sieda... (Ad Anna) Venga, signora... (Mentre esce con Anna) Povera signora!   (Escono insieme).

Andrea (è inquieto, preoccupato. Si alza, si mette a camminare come un leone in gabbia. E un nuovo colpo di tuono lo fa sussultare. Geme) — Dio mio! Almeno i figlioli, no? Almeno i figlioli... (Siede, si prende la testa tra le mani, angosciato, oppresso).

Guido (entra da sinistra, indossa una mantellina impermeabile) — Babbo?

Andrea — Oh! Guido! Sei qui? Vieni! Vieni! (Lo stringe a sé, lo abbraccia freneticamente) Caro! Caro il mio bambino!...

Guido — Babbo, posso tornare a giocare per strada?

Andrea — ... A giocare per strada?! Ma non vedi che tempo fa? Tuoni, lampi, pioggia... E sai che cos'è  questo?   Il  principio  della  fine...  la  fine  del

mondo... Hai capito? Del mondo. Ah, tu sei troppo piccolo per capire che cosa terribile è questa... La collera di Dio... Il castigo di Dio... È spaventoso.

Guido — Dio, che ha parlato con te, babbo?

Andrea (febbrile) — Sì, sì, caro. Sai, Dio è tor-nato oggi da me. E  mi ha detto che vuol punire gli uomini cattivi... tutti gli uomini...

Guido — Li fa morire?

Andrea (quasi spaventato) — Sì. (Dopo un istante si alza) Guido, devi correre a cercare Lucia e Mario... Sei capace di cercarli per farli venire a casa? Lucia è da Roberto e Mario a scuola... Vuoi andare subito a chiamarli?

Guido —   Sì, babbo.

Andrea — Bisogna far presto, però. Anche la mamma verrà, e così staremo tutti insieme qui... riuniti, al sicuro...

Guido — Noi non siamo cattivi, vero?

Andrea (perplesso) — No. Cioè, non credo.

Guido — Anche lo zio Enrico non è cattivo, vero? A Natale mi ha regalato una scatola di soldatini...

Andrea (guarda suo figlio con sorpresa) — Come hai fatto a indovinare che pensavo allo zio Enrico! (Si china sul bambino) Bisognerebbe avvertire anche lui...  Mi capisci?

Guido (annuisce) — E la zia Evelina?

Andrea (sospira) — Eh! La zia Evelina... Certo non si può lasciarla così... (Angustiato) Bisogna avver­tire anche lei... Povera donna!... E il mio amico Giannelli, lo conosci? Quello che viene sempre a pescare con me sul fiume...

Guido — Oh, sì! Devo avvertire anche lui?

Andrea — Io direi di sì. (Combattuto) Non ti pare?

Guido — E il figlio del droghiere, quello che ha il grosso cane bianco che si chiama Tom... È bravo, sai ? Mi ha promesso di farmi un aquilone... E poi mi ha dato un fischietto... (Tira fuori un fischietto dalla tasca e lo prova, poi lo porge ad Andrea) Prova anche tu, babbo...

Andrea (sempre più angustiato) — No, figliolo, no... Lasciami pensare... Come si fa? Come si fa? (Improvvisamente) Senti, Guido... Sei capace di cor­rere, presto presto, con le tue piccole gambette? Perché devi correre in fretta, prima che venga il peggio,  capisci?

Guido — Sì,  babbo...

Andrea — Bravo caro! Sei proprio un bravo figliolo. Io non posso muovermi, sai? Ho l'ordine di non muoverni. Ma tu puoi... Tu devi correre... E devi avvertire lo zio Enrico, la zia Evelina, il signor Giannelli, il signor Augusto, il figlio del dro­ghiere...

Guido — Anche il cane Tom?

Andrea — Certo, anche il cane Tom... E poi la signora Annamaria, il fruttivendolo Giuseppe, la moglie del farmacista, il postino... E a tutti dirai che la fine del mondo è vicina... Hai capito? Che vengano tutti qui, da me... Ma presto! Presto! Hai capito?

Guido — Sì babbo. E posso dirlo anche alla mia maestra?

Andrea — Sicuro. Anche alla tua maestra... Ma adesso vai, corri... (Bombo di tuono) Non hai paura?

Guido — No, babbo.

Andrea (lo stringe forte forte) — Allora, vai, mio caro... Vai... (Mentre il bambino sta per uscire lo richiama, dice, in fretta): Aspetta... senti... Passando vicino alla posta guarda se c'è il signor Filippo... e avverti anche lui. È tanto un brav'uomo, poveretto... Ma corri, corri...

Guido (esce).

Andrea (rimasto solo, sperduto e spaurito, sussulta a un lampo accecante seguito da un rombo di tuono. Raccoglie il recipiente delle patate e, tremebondo, si accinge a ricominciare il lavoro interrotto, sedendosi nella grande poltrona. Ma il suo pensiero è lontano, ed egli rimane con gli occhi fissi nel vuoto, finché non è sorpreso dall'ingresso della portinaia seguita dalla vedova Baran).

La Portinaia (entra con fare sostenuto) — Ragio­niere!

Andrea (sussulta. Poi si alza) — Eh? Che c'è? Ma come mai è entrata lei?

La Portinaia — Il suo bambino, che è sceso adesso, ha lasciato la porta aperta. C'è qui la signora Baran che desidera parlarle.

La vedova Baran (abbozza appena un cenno di saluto con la testa) — Appunto.

Andrea (cortese, quanto glielo consente il suo stato di inquietudine) — Prego, prego... Si accomodi... In che cosa posso essere utile?

La Portinaia — È  a cagione della sua torre...

La vedova Baran — Mi lasci parlare, prego. Non ho bisogno di intermediari. (Ad Andrea) Ragioniere, sono qui per farle presente che reclamo il pagamento dei danni provocati dalla sua torre. Poco fa, a causa del vento, una fila di mattoni è crollata danneggiando gravemente il mio pollaio.

Andrea — Oh, mi dispiace!

La vedova Baran (acre) — Il suo dispiacere non mi fa né caldo né freddo. C'è di peggio, ragioniere. Il mio gallo è scomparso. Un danno irreparabile le dico. Si tratta d'un gallo di razza pregiata, un gallo che non ne esisteva uno in tutta la città.

La Portinaia — Era l'amore di tutte le galline.

La vedova Baran — Era il mio orgoglio! È scomparso. (Lampo e rombo di tuono. I tre sussultano spaventati. Lugubre) Non c'è più! Forse sarà sepolto sotto le macerie! Morto! Ha capito? Morto! Ed io ritengo lei responsabile della morte di quel povero animale!

Andrea — Io, responsabile? Ma si rende conto di quello che dice? Cosa vuole che sia la morte di un gallo!

La vedova Baran (offesa, vibrante, lo interrompe) — Ah, sì? Non le sembra niente, eh? Un gallo come quello! Robusto, forte, intelligente e bello, con una coda così! Deve risarcirmi i danni, capisce?

Andrea (risentito) — Signora, non voglio dimi­nuire il valore del suo gallo, ma le dico che non me ne importa nulla. In questo momento c'è ben altro da pensare! Succede ben altro! Che cos'è un gallo morto di fronte al flagello che fra breve si abbatterà sul mondo? Perché lei non lo sa, ma qui sta per scatenarsi un uragano tale che non solo del suo gallo ma di lei stessa e della sua rispettabile memoria non resterà alcuna traccia.

La vedova Baran (strozzata dall'emozione) — Che dice? Che dice? (Alla portinaia) Ha sentito? Minaccia di farmi fare la fine del gallo!

Andrea (ispirato) — Non io, ma qualcuno più forte di me! (Rombo di tuono e scroscio di pioggia) Sente? Ecco avvicinarsi la fine. Perché questo è il principio della fine! (Incalzante) Non c'è tempo da perdere, capite? Che farete ora? Dove andrete? (Le due donne lo guardano, spaventate) Sentite? Sentite? La collera di Dio è sugli uomini!

La vedova Baran (prendendo la portinaia per un braccio fa per trascinarla verso l'uscita) — Andiamo! Andiamo via!

Andrea (con slancio, trattenendole col gesto) — No! Non andate ! Se uscite di qui siete perdute. Non andate!  Restate qui... Vi offro la salvezza!

La vedova Baran (con vigoroso sdegno) — Vade retro Satana! (Esce, trascinando la portinaia sbigottita).

Andrea (resta ancora un attimo col braccio levato come per fermare le due donne. Poi crolla il capo deluso. Nel ritornare verso il proscenio, si trova di fronte a Dio. Il Signore, infatti, è entrato, come sempre dalla finestra, nell'istante in cui le due donne erano appena uscite. Ed ora è lì severo e terribile, che affronta Andrea Rossi).

Il Signore (irritato) — Cosa hai fatto, Andrea Rossi? Come ti sei permesso di intralciare i piani del tuo  Signore?

Andrea (annichilito balbetta) — Ma... Signore... che ho fatto?

Il Signore (terribile) — Non te ne rendi conto, sciagurato? Chi ti ha detto di metterti a strillare come una gazza per avvertire i tuoi simili delle mie intenzioni?

Andrea (c. s.) — Signore, io pensavo...

Il Signore (lo interrompe) — Tu pensavi! Tu pen­savi! Ma è possibile che voialtri uomini dobbiate sempre «pensare» a qualcosa? Ma dimmi un po', Andrea Rossi, cosa credi che sarebbe successo se anche Noè avesse «pensato» con la sua testa? Per fortuna quel brav'uomo, docile e fidente, mise in atto le mie istruzioni senza discutere e senza pensare. Fece le cose a modo, con zelo e con impegno, e tutto andò benissimo. Dopo quaranta giorni io potevo considerare con soddisfazione il lavoro compiuto. Mentre invece no. Questa volta mi sono imbattuto in un tipo che «pensa». È il colmo. Ma vuoi dirmi almeno a che pensavi?

Andrea (umiliato) — Signore, ti chiedo perdono. Già che ci sei, annienta anche me e fammi fare le fine degli altri... Me lo merito.

Il Signore (seccato) — Non dire stupidaggini. Io comincio a non capire che cosa volete da me voialtri uomini. Tu, per esempio; mi cerchi, mi chiami, co­struisci una torre per incontrarti con me, e tutto questo per dirmi che le cose del mondo vanno male per la cattiveria degli uomini, io decido di fare piazza pulita, salvando te, beninteso, che sei meno peggio degli altri, e tu, nossignore, quand'è il momento ti metti a strillare dando l'allarme...

Andrea (c. s.) — Signore, abbi pazienza... Io non ho   strillato...    Ho   soltanto   avvertito    qualche amico...

Il Signore — E ti pare niente? Che razza di amici hai avvertito! Il fruttivendolo: un omaccio che ogni tanto mi insulta...

Andrea — Ma è una brava persona, in fondo. Se qualche volta bestemmia è perché gli affari vanno male... E tuttavia il fruttivendolo, a conoscerlo bene ha un cuore d'oro. Non è una sola volta che ha dato frutta e verdura a credito a mia moglie. E poi, al momento di pagare... lui faceva finta di non ricordarsene  più.

Il Signore — Beh, passi per il fruttivendolo... Ma quell'Augusto...

Andrea — Eravamo ragazzi insieme... Tanti bei ricordi in comune...

Il Signore (severo) — Ma lui beve e picchia sua moglie!

Andrea — Oh, Signore?! Dovresti conoscere sua moglie.

Il Signore — E Filippo, quello che sta vicino alla posta? Anche lui hai avvertito, vero? Eppure so che eravate nemici...

Andrea — Sì, Signore. A causa di differenti opi­nioni politiche.

Il Signore — E allora? Volevi salvarlo per ripren­dere a discutere e leticare in un altro mondo? Andrea (allarga le braccia e non risponde).

Il Signore — Su, avanti! Perché hai avvertito anche lui?

Andrea (piano) — Perché mi faceva pena imma­ginare che sarebbe morto. Non è cattivo, a pensarci bene. Soltanto ostinato, ma non cattivo...

Il Signore — Ma insomma, i cattivi, i malvagi dai quali volevi essere liberato, chi sono, si può sapere?

Andrea (guarda il Signore come un bambino colto in fallo e non risponde).

Il Signore — Rispondi!

Andrea (piano) — Ora non lo so più,  Signore.

Il Signore — Come?

Andrea — È così, Signore. Poco fa, quando si è udito nell'aria il primo rombo di tuono, il cuore mi si è riempito di spavento e di angoscia. Mi sem­brava impossibile pensare che tutti quelli che io conosco fossero condannati... Rivedevo i loro volti, uno per uno... Morirà, mi dicevo. Morirà. Morirà il direttore generale delle vetrerie, il droghiere, il po­stino, l'uomo delle fogne, il presidente della banca, il dottore, il fruttivendolo, il mio amico Augusto, tutti, tutti moriranno. Anche quelli che non conosco. Anche quelli che non ho visto mai... Tutti, tutti. E il mio cuore era pieno di angoscia... Dimenticavo tutto, dispetti, litigi, ingiustizie, sopraffazioni, mali­gnità, cattiverie... tutto. Pensavo soltanto a questo: morirà. E mi veniva una malinconia addosso, una pena senza nome... Perché pensavo che, in fondo, non sono cattivi... Un poco, forse. Ma potevo io giudicarli e condannarli?

Il Signore — Se è per questo non preoccuparti. Sono io che giudico e condanno. (Siede sul divano) Io soltanto.

Andrea -— Sì, Signore, sì. Ma io parlavo per me. Perché sovente anch'io ho giudicato e condannato. Una volta, per esempio... Abitavo in un'altra casa, e una notte mi svegliai a causa d'un rumore che continuava a ripetersi senza sosta. Era il mio vicino del piano di sopra a far rumore... Camminava avanti e indietro e i suoi passi suonavano pesanti sull'im­piantito. Bum, bum, bum... Bum, bum, bum... Una cosa insopportabile. Non riuscivo a riaddormentarmi. Bum, bum, bum... Quei passi: un'ossessione. Guardai l'orologio: erano le due di notte. Allora mi venne una rabbia, una rabbia cieca. Io dovevo andare al lavoro la mattina e desideravo riposare, avevo il diritto di riposare. E lui, bum, bum, bum, senza sosta, senza riguardo per nessuno. Non potendo fare altro, cominciai a maledirlo, a mandargli degli acci­denti. «Domattina andrò su, pensavo, e gli romperò la faccia». Allora ero giovane e potevo farlo. L'in­domani mattina salii al piano di sopra. Allora sol­tanto seppi che il bambino del mio vicino era morto all'alba. E durante tutta la notte il padre se l'era passeggiato tenendolo stretto tra le braccia, quel piccino bruciato dalla febbre, come per impedirgli di andarsene, come per dargli ancora vita e vigore... (Un silenzio) Mi è dispiaciuto tanto, Signore. Oggi mi sono tornati alla mente quei passi nella notte... Che ne sappiamo noi, Signore? La nostra interpre-tazione dei fatti, sovente è sbagliata. Bisognerebbe conoscere tutto, proprio tutto, per poter giudicare. E ancora, non basterebbe nemmeno...

Il Signore (crolla il capo) — Già.

Andrea (timidamente) — Signore...

Il Signore (è assorbito nei suoi pensieri, non reagisce).

Andrea (c. s.) — Signore...

Il Signore — Che c'è?

Andrea — Vorrei rivolgerti una preghiera.

Il Signore — Lo so. Vorresti chiedermi di per­donarli ancora una volta.

Andrea — Sì, Signore.

Il Signore — Il male è che io non posso tornare sulle mie decisioni.

Andrea — Oh, Signore! Ma tu non devi rendere conto a nessuno! È così semplice per te. Non hai nessuno al di sopra.

Il Signore (sorride) — Lo vuoi proprio?

Andrea — Sì, Signore.

Il Signore (si alza) — E in avvenire non dovrai pentirti di questo che ora mi chiedi?

Andrea — Spero di no, Signore.

Il Signore (mette una mano sulla spalla di Andrea) — Sono contento di te, Andrea Rossi. Mi fa piacere che tu sia giunto alle mie stesse conclusioni.

Andrea (sorpreso) — Anche tu, Signore, avevi deciso di perdonare?

Il Signore (con un sorriso) — Oh, certo. E non da oggi soltanto. E quando tu mi hai chiesto aiuto contro la cattiveria degli uomini, ho voluto che tu stesso ti rendessi conto, «pensando» come tu dici, del perché io perdono. Ci sei arrivato da solo. Questo mi fa piacere.

Andrea (c. s.)— Oh, Signore... ma allora tu?

Il Signore (continua a sorridere, benevolo) — Io li conosco meglio di te, Andrea Rossi. Non li vedo soltanto dall'alto del mio regno, no. Talvolta scendo in mezzo a loro, li guardo da vicino, li osservo, li ascolto... Sì, sì, non nego che essi mi diano dei dispia­ceri, e anche con una certa frequenza, specialmente oggigiorno... Ma in compenso, quanti fedeli e devoti e silenziosi amici ho io nel mondo! Non lo immagini nemmeno, Andrea Rossi. Certo, se tu ti fermi uni­camente a guardare il male, ti parrà di vederlo dilagare e trionfare in ogni luogo. Ma volgiti a osser­vare il bene e fai attenzione, lo vedrai moltiplicarsi ovunque in mille forme, sotto mille aspetti, con una forza e un vigore incredibili... È una folla sterminata di gente che compie il proprio dovere senza chiedere nulla in cambio, che cammina guardando avanti con speranza, che offre senza pretendere niente, gente che serve, gente che aiuta, gente che ha coraggio e fiducia, oppure soltanto che ha pazienza e tolle­ranza... Questi sono gli uomini come li vedo io, l'in­terminabile colonna che cammina e cammina attra­verso i secoli sostenuta dalla certezza che un giorno raggiungerà la mèta promessa... Sì, sì: tu hai detto bene; i passi dell'uomo nella notte... Qualche volta vien fatto di irritarsi con troppa facilità. Ma che ne sapete voi uomini per giudicare e condannare? (Un silenzio. Il Signore continua a sorridere, assorto).

Andrea (umile) — Mi hai dato una bella lezione, Signore. Sono veramente desolato di averti disturbato per così poco. Ma tu che sai tutto perché ti sei mosso per me! Non lo meritavo davvero.

Il Signore (sorride) — Oh, adesso non cominciare a giudicare te stesso dopo aver giudicato gli altri. Anche tu sei migliore di quello che credi. Anzi, Andrea Rossi, ti voglio considerare come uno dei miei molti amici...

Andrea (incredulo) — Dici davvero, Signore?

Il Signore — Certo. Ci terremo a contatto, noi due. Di tanto in tanto verrò a trovarti e discorreremo insieme.

Andrea (emozionato, commosso) — Ne sono felice, Signore. Felice e onorato. Puoi contare su di me, te lo prometto. Sarò sempre un tuo amico fedele. Ah, come mi farebbe piacere presentarti mia moglie e i miei figli!...

Il Signore (bonario) — Un'altra volta, un'altra volta... L'occasione non mancherà. (Si avvia verso la  finestra).

Andrea — Signore! Signore! Perdona la mia curio­sità... Vorrei sapere una cosa...

Il Signore (paziente) — Dimmi, Andrea Rossi...

Andrea —  Ma...  i lampi,  i  tuoni...  la pioggia torrenziale...

Il Signore (sorride) — Come sei sciocco, caro uomo! Un semplice temporale... La terra aveva bisogno d'acqua... E poi era proprio quello che occor­reva per un'anima candida come la tua... (Fa un cenno di saluto con. la meno ed esce dalla finestra, cir­confuso in un bianco chiarore. Le tende si agitano, fluttuano, mosse dal vento).

Andrea (rapito, commosso, guarda estatico la fine­stra. Poi, pieno di gioia, comincia a muoversi nella stanga. Vorrebbe fare qualcosa. Finalmente vede il reci­piente delle patate. Indossa presto il grembiale e si mette a sedere in poltrona sbucciando patate. E comincia a cantare una specie di inno gioioso. Mentre egli canta, la porta dell'ingresso si spalanca e sua moglie, Anna, appare sulla soglia, sconvolta, irritata. Questa volta Anna ha veramente perduto la pazienza. Andrea si volta, verso di lei, contento) — Anna! Vieni! Vieni! Ti dirò una cosa meravigliosa!

Anna (irritata, viene avanti) — Senti: una sola cosa voglio sapere da te. Se hai la testa a posto sì o no. Perché oggi ne hai fatta una grossa e non te la perdono...

Andrea — Non capisco, scusa...

Anna (cambiando tono, implorante) — Ma babbo caro, come ti è saltato in mente di mettere in giro certe voci? Tutta la città è in subbuglio per causa tua! Hai mandato Guido a dire che il temporale era la fine del mondo... Sai chi mi ha riferito questo? Il fruttivendolo. L'avessi sentito! Era fuori della grazia di Dio. Mi ha detto che agli uccelli del malau­gurio tuoi pari non farà più credito nemmeno per un soldo...

Andrea (sorpreso, offeso) — Ha detto questo il fruttivendolo? Proprio lui?

Anna — Sì, lui. Non solo, ma siccome io ho ten­tato di rimediare dicendo che era uno scherzo, mi ha gridato che tu, scherzi del genere, puoi farli con i tuoi amici e non con lui che non ti ha mai dato confidenza...

Andrea (annientato) — Ah... Ma guarda un po'... il fruttivendolo...

Anna — Dov'è Guido? Non potevi tenerlo a casa quel povero bambino invece di mandarlo fuori sotto la pioggia?

Andrea — Ma io pensavo... (Ancora risentito) Dimmi un po', piuttosto, il fruttivendolo ha vera­mente detto...

Anna — Lascia stare, lascia stare. In fondo ha ragione. E io mi domando che bisogno avevi di pro­palare simili notizie...

Andrea (sicuro di sé) — Oh, se anche tu avessi parlato con Dio, come è accaduto a me... Sono sicuro che non avresti agito in modo diverso.

Anna (si tappa le orecchie, disperata) — Smettila con questa storia o me ne vado da casa e non ritorno più. (Decisa, prende un pacchetto dalla tasca) E senti, queste sono le medicine che ha ordinato il medico per te. Mi fai il santo piacere di cominciare la cura stasera stessa. Ci sono iniezioni e cartine da prendere prima dei pasti.

Andrea — Ma io sto benissimo! Non sono stato mai tanto bene come ora!

Anna (spazientita) — Ah, no, caro mio! Questo non devi dirmelo. Ho speso un patrimonio per le medicine, dunque, adesso ti curi. Malato o no, ti curi.

Andrea (malinconicamente apre il pacco delle medi­cine) — Non so perché sei tanto nervosa, oggi...

(Sulla porta appare Lucia. Ha l'aspetto di chi abbia subito onta e dolore. Bimane appoggiata allo stipite, col cappello in mano. È chiaro che ha pianto).

Anna (nota la presenza di Lucia e va verso di lei premurosa) — Bambina mia! Cos'hai? Che ti è suc­cesso? Vieni...

Lucia   (senza  parlare,   si  lascia  condurre  fino  al divano. Lì si siede di schianto  e comincia a pian­gere).

Andrea (sorpreso, si alza e si avvicina).

Anna (consolando Lucia) — Via, bambina cara... Non piangere... Cos'hai? Che ti hanno fatto? Guar­dami...

Andrea (si china sulla figliola) — Lucia... Non vuoi dirlo a me che cos'hai? Al tuo babbo che ti vuol bene?

Lucia (si raddrizza di scatto ed esplode contro suo padre) — Vattene via! È proprio per colpa tua che è successo tutto! (Ricomincia a piangere).

Andrea (mortificato) — Oh!

Anna (insistendo) — Dimmi, su... Parla,   cara...

Lucia (tra i singhiozzi) — Tutto è finito con Roberto... Abbiamo leticato e ci siamo lasciati... (Piange).

Anna — Oh! Ma raccontami... C'è una ragione, no?

Lucia (soffiandosi il naso) — Puoi immaginarla... Già l'altro giorno c'è stata una discussione tra lui e me a causa di quel maledetto articolo sul giornale... Roberto, naturalmente, era istigato dalla sua fa­miglia... Tu sai come sono... Gente difficile, piena di prosopopea... Ma io ero riuscita a superare il momento scabroso, ad appianare tutto... E oggi, anzi, mi ave­vano invitato al tè con tutti i parenti... C'era una zia molto vecchia, molto ricca, venuta apposta dalla campagna per conoscermi... Quando improvvisamente arriva Guido, tutto bagnato, per dirmi che il babbo mi vuole subito a casa, perché Dio lo ha avvertito che la fine del mondo era cominciata, e tutti i cattivi sarebbero morti ad eccezione di noi... Puoi immagi­narti i commenti, le risate... Ma erano risate di scherno, di compatimento... Non solo, ma la vecchia zia ricca si è offesa terribilmente perché Guido l'ha considerata tra i cattivi destinati a morire... E questa è stata la cagione di tutto... (Piange).

Anna — Oh! (Si volge a guardare Andrea che, in disparte, mortificato, si gratta la testa).

Andrea — Sono sinceramente addolorato... Ma quando vi avrò spiegato...

Lucia (lo interrompe con furia) — Non voglio sen­tire niente! Ne ho abbastanza io della mia famiglia! Me ne vado! (Si alza e fa per uscire).

Mario (Entra. Ha la cartella dei libri di scuola. Dice con aria funerea) — Addio esami. Sono stato sospeso a tempo indeterminato da tutte le scuole della città.

Lucia (violenta) — Dimmi un po', Guido è venuto per caso a dirti che la fine del mondo era cominciata?

Mario — Eh, sì. È arrivato proprio quando ero a metà del compito in classe di francese... Non so come è riuscito a infilarsi nell'aula. Te lo immagini quello che è successo, dopo? (Animandosi al ricordo) La fine del mondo! Tutti i ragazzi ridevano, salta­vano, gridavano... E chi c'è andato di mezzo sono stato io. Il preside mi ha mandato fuori dalla scuola, dicendomi di non presentarmi più.

Andrea (annuisce tristemente. Poi si riprende) — È molto spiacevole... Sentite, miei cari... No, non andar via Lucia. Lasciami parlare...

Lucia — Ma hanno  suonato  alla porta!   (Esce).

Andrea (ad Anna) — Bisogna che vi spieghi tutto...

Anna (risentita) — Non ti basta quello che è accaduto? Vuoi anche aggiungere delle spiegazioni!

Andrea — È indispensabile. (Ostinato) All'origine di tutto c'è Dio.

Anna  (esplode) — Basta!

Lucia (rientra, allarmata, seguita dalla portinaia e dalla signora Fulvia. Le due donne hanno l'aspetto agitato e compunto insieme) — Mamma?

Anna — Cosa c'è?

Lucia — Guido è stato...

Anna (con un grido) — Guido!

La Portinaia (premurosa) — Non si allarmi, signora... È cosa da poco... La signora Fulvia...

Fulvia (intervenendo) — È a casa mia, sì...

Anna — Ma cosa è successo, ditemi, presto!

Fulvia (calmandola) — Niente, niente... roba da ragazzi... Gli hanno tirato un sasso in testa... Ha una ferita qui... (Si tocca la fronte) Ma non è niente di grave...

Anna —  Oh!

Mario (pronto a rintuzzare l'offesa fatta al fratellino) — Chi è stato! Dove?

Fulvia — Dei ragazzi... Mentre attraversavo la piazza della Stazione, ho visto il bambino alle prese con un gruppo di ragazzi... Dapprima pensavo che giocassero... Poi mi sono accorta che lo schernivano, lo  dileggiavano... Lui si difendeva a pugni e calci, e gridava: «Sì, il mio babbo lo sa. Glielo ha detto Dio in persona!». Volevo intervenire ma non ho fatto a tempo. Un ragazzo gli ha tirato una sassata che l'ha colpito alla testa... Allora sono arrivata io con il  mio ombrello, ma quelli sono scappati... Ho rac­colto il vostro bambino e l'ho portato a casa mia...

Mario (furente) — Mascalzoni! Adesso vado io a cercarli!

Anna — No, sta buono tu... (A Fulvia) Signora, la ringrazio... vengo con lei... subito...

Andrea (fa un timido tentativo) — Vengo anch'io...

Anna (brusca) — No. Tu resta qui. (Si volge a Lucia) Andiamo, Lucia... (Escono in gruppo, Anna, Fulvia, la portinaia e Lucia).

Andrea (è disfatto. In un angolo, non osa nemmeno aprire bocca).

Mario (in ginocchio accanto a un mobile, cerca qualcosa) — Mascalzoni! Farabutti! Glielo farò vedere io! Ma dove si sarà cacciato? Ah! Eccolo! (Si rialza trionfante. Da sotto il mobile ha tratto un grosso bastone e lo agita minacciosamente) Ora sentiranno com'è pesante... Se ne ricorderanno per un pezzo...

Andrea (guarda suo figlio, lo ferma) — Che cosa vuoi fare?

Mario (come un galletto) — Vado a spianare le costole a quei figli di... a quei ragazzi che hanno ferito Guido...

Andrea — Tu non lo farai!

Mario — E perché no?

Andrea (con triste dolcezza trattenendo Mario) — No, no, caro figliolo... A che giova la vendetta? Per quanto possa sembrarti difficile, bisogna perdonare. Se Dio perdona perché non dovremmo farlo noi? Dammi il bastone.

Mario (ostinato) — No, babbo. Una lezione ci vuole. Lasciami andare.

Andrea (con fermezza) — Dammi il bastone.

Mario (irritato, consegna il bastone a suo padre e grida) — Va bene. Ci prenderanno per dei vigliacchi! È questo che vuoi, tu? È questo? (Esce irritato e addolorato dalla porta di destra).

Andrea (col bastone in mano, mortificato, tenta di richiamare il figlio) — Ascolta Mario... Non arrab­biarti... Forse tu non puoi ancora capire... (Si accosta alla porta chiusa) Mi ascolti? E più difficile perdonare che punire... È molto più difficile... sai che faremo noi due? Andremo a cercare quei ragazzi... Lasciami soltanto cambiare le scarpe perché queste mi sono un po' strette... Poi usciremo insieme... Mi ascolti? Troveremo quei ragazzi e diremo loro che non do­vranno più ripetere un gesto tanto malvagio... E li perdoneremo... (Depone il bastone sul tavolo mentre continua a parlare, e sedendo nella poltrona comincia a slacciarsi le scarpe) Il nostro perdono avrà su di loro una efficacia maggiore di qualsiasi punizione... Perché la vendetta inasprisce e rende cattivi, mentre il perdono placa e consola... (Mario si affaccia cau­tamente alla porta, con gesti furtivi si introduce nella stanza, si impossessa del bastone e, nascondendolo dietro alla schiena, indietreggia lentamente fino a raggiungere la porta di sinistra. Andrea continua a parlare) Voi figli non credete mai alle parole dei vostri genitori... e tuttavia io ti assicuro che questa volta anche tu apprezzerai la bellezza di un gesto che darà pace al tuo cuore...  Mi ascolti, figlio mio?

Mario — Sì, babbo. Sono d'accordo con te.

Andrea   (senza  voltarsi)  —  Mi  fa  piacere,   caro.

Mario (in tono deciso) — Anche io li perdonerò, come tu vuoi. Ma «dopo». (Esce rapidamente).

Andrea (sorpreso, si volta) — Che vuoi dire? (Il figlio non è più nella stanza, il bastone è scomparso. Andrea intuisce, si alza di scatto. Ormai s'è sfilata la scarpa e non può uscire. Tenta di richiamare il figlio) Mario! Ascolta! Mario! Aspetta! Mario! (Ma il figlio è ormai lontano e Andrea, impotente, angosciato, av­vilito,   ripete,  piano)  Mario...


ATTO TERZO

PRIMO   QUADRO

La redazione del giornale «L'Opinione». È una stanzetta modesta nella quale, in fondo, si apre un arco su cui è scritto «Tipografia». Tutto l'arredamento consiste in due tavolini di cui uno più grande, ingombri di carte, libri e giornali, e in quattro poltroncine sgan­gherate.

(Il direttore, Goss, tutto indaffarato, siede a un tavo­lino correggendo delle bozze con evidente nervosismo. Dopo un momento, da destra entra l'usciere, un uomo anziano e dimesso che si trascina stancamente. Egli si avvicina al tavolo di Goss).

L'Usciere — Sì... signor di... direttore...

Goss (impaziente, senza alzare la testa) — Ebbene? Le altre bozze? Pronte?

L'Usciere — Sì... signor di... direttore...

Goss (alza la testa, nervoso, irritato) — Su! Su! Che c'è?

L'Usciere (accenna verso l'esterno) — Qu... qual­cuno... che vuole pa... parlare con lei.

Goss (scattando) — Basta! Tutto il paese vuole parlare con me! Devo lavorare, io! Digli che se ne vada e portami le bozze della pagina due. Muoviti.

L'Usciere — Ha... ha detto che... che... deve par­lare...

Goss (urlando) — No! Ti ho già detto che non voglio vedere più nessuno! Capito? (Si rimette a scrivere).

La vedova Baran (entra da destra con molto sus­siego) — È permesso?

L'Usciere (allarga le braccia. A Goss) — Eccola. È qui.

Goss (furioso) — Chi?

La vedova Baran — Io, caro direttore...

Goss (cambiando improvvisamente atteggiamento e fingendosi gradevolmente sorpreso) — Oh! Signora gen-tilissima! Bacio le mani! (Si alza e muove incontro alla Baran) Lieto di vederla...

La vedova Baran (con leggero rimprovero) — Sì, però mi fa fare anticamera...

Goss — Oh, chiedo scusa... Ma è tutta colpa di questa marmotta che non mi ha detto chi voleva parlare con me... Si accomodi... (All'usciere) E tu vai a prendermi le altre bozze, corri...

L'Usciere (esce dall'arco che conduce alla tipografia).

La vedova Baran (siede con molto sussiego davanti al tavolo).

Goss (agitato) — Deve avere pazienza, sa? Io, questa mattina non ho un attimo di pace... Dopo quello che è successo ieri sera... Tutti vengono qui al giornale per sapere, per commentare, per chiedere, per sentire... E io, naturalmente, li mando via. Capirà, se anticipo le notizie chi mi compra più il giornale?

La vedova Baran — Giustissimo. (Con interesse) E ci ha messo anche quello che le ho raccontato io, nel giornale?

Goss — Certo! Parola per parola. È il pezzo forte, se così posso dire...

L'Usciere (rientra dalla tipografia portando dei fogli che posa sul tavolo di Goss) — Le bo... le bo... le bo...

Goss — Ho capito. Lo bozze. Va bene. Vai a preparare le spedizioni.

L'Usciere (esce, sempre col suo passo strascicato, e se ne torna in tipografia).

Goss — Ecco le bozze... Fresche fresche, come il pane appena sfornato... Ah, signora vedova Baran, non è forse vero che gli uomini hanno ugualmente bisogno ogni mattina di pane fresco e del loro gior­nale appena uscito? L'alimento del corpo e quello dello spirito, se così posso dire...

La vedova Baran (impaziente) — Mi faccia vedere, mi faccia vedere...

Goss (spiegando un foglio di bozze) — Ecco: ho dedicato tre colonne al fatto... Manca il titolo che è in composizione... Ma è un titolone: «La fine del mondo nella fantasia di un matto». E poi, sotto­titolo: «La vedova Baran protagonista di una pau­rosa avventura...».

La vedova Baran (storce il naso) — Il termine avventura mi piace poco... Non vorrei che si potesse dire che sono una donna che ha avuto delle avventure... Goss (come se ciò fosse inammissibile) — Oh, no! Questo no! Ma se vuole lo cambiamo... Ecco, met­tiamo: «La vedova Baran protagonista di un pau­roso episodio». Va meglio?

La vedova Baran (con sussiego) — Sì. Ha riferito tutto quello che le ho detto io ieri sera?

Goss — Stia a sentire. (Legge) : «A questo punto la vedova Baran si trovò di fronte a un uomo dai tratti sconvolti, lo sguardo che nulla più aveva di umano, il quale, con voce terribile si mise a gridare: «Un flagello spaventoso sta per scatenarsi sul mondo e lei, signora, farà la fine miseranda del suo gallo!». Quindi l'uomo, che ormai non si dominava più, si lanciò sulla povera vedova per tentare di strango­larla. Una lotta disperata si svolse allora...».

La vedova Baran (stupita, interrompe) — Un momento! Ma io non le ho mica detto questo!

Goss (amabile) — D'accordo, d'accordo... Sono io che mi sono permesso di dare alla storia una pennel­lata di colore per renderla più attraente... Sa, co­nosco, il gusto dei miei lettori... Essi amano il brivido.

La vedova Baran — Ma temo che lei ne abbia messo un po' troppo...

Goss (con sicurezza) — Lasci fare a me: conosco il mio mestiere. O si è giornalisti o non lo si è... Ah, signora vedova Baran, quale superbo argomento mi è capitato! Non me lo lascerò sfuggire. Ora inizierò una inchiesta... Chiederò l'opinione dei cittadini più eminenti...  Sottoporrò il caso  alle  autorità...

La signora Baran — Giusto! Il sindaco dovrà occuparsene d'urgenza. Quest'uomo che, nella sua follia, afferma di vedere Dio, è un pericolo per tutta la città.

Goss (colpito) — Magnifico! Ben detto! Permette che ne prenda nota subito? (Corre al tavolo e scrive): «Quest'uomo, che, nella sua follìa, afferma di vedere Dio...».

La vedova Baran — ... è un pericolo per tutta la città!

Goss (rapito) — Meraviglioso! Non si poteva dire meglio... Ah, certo! Ieri, con quella storia della fine del   mondo   ha   messo   in   subbuglio   mezza  città...

Il Preside (Entra. È un signore alto, magro, con gli occhiali, e una zazzera grigia. Indossa un soprabito troppo piccolo per lui. Tuttavia un'aria molto autore­vole e dignitosa. Porta dei libri sottobraccio e altri libri e carte gonfiano le tasche del suo soprabito) — Si può? Buon giorno, mio caro Goss...

Goss (con molto ossequio, corre incontro al preside) — Signor preside! Quale onore! Si accomodi, si acco­modi... Mi permetta di presentarle la signora Baran, vedova del professor Baran... Lei certo lo ha cono­sciuto...

Il Preside (salutando con sufficienza) — Piacere, signora... Baran, ha detto? Già. Baran. Non ricordo.

Goss (sdilinquendosi, alla signora Baran) — Il nostro illustre signor preside...

La signora Baran — Piacere. Mio marito inse­gnava... molti anni fa...

Il Preside  (distratto) — Ah, sì? E ora che fa?

La vedova Baran (sorpresa) — È morto.

Goss (costernato) — È morto. Certo. Una così degna persona! (Spiega rapidamente alla Baran) Il signor preside  è pieno di pensieri...

La vedova Baran (risentita) — Capisco. Non afferra subito...

Il Preside (come emergendo dai suoi pensieri) — Ah, dunque è così? Già. Mi dispiace. (Cambia tono) Ho portato la poesia per l'edizione di domenica, mio caro Goss...

Goss (scodinzolante) — Pregusto già il piacere, signor preside... (Alla Baran) Lei legge le poesie che io  pubblico sempre sull'edizione domenicale?  Sono opera del nostro signor preside...

Il Preside (schernendosi) — Oh, per carità! Col­tivo le Muse, signora, per non morire nella palude dell'insegnamento. Eh, sì! Ciascuno cerca di evadere some può.

Goss — Ma no! Ma no! Sono opere di grande valore, di  indiscutibile valore...

Il Preside — Grazie, mio caro Goss... Lei ferisce la mia naturale modestia... E tuttavia, sì. Amo la poesia e ne sono servo devoto. (A Goss, con calore) Vuole ascoltare questa? (Senza perdere tempo, spiega un foglio e comincia a declamare): Oh spiriti inquieti dalle deserte caviglie! Sulle foreste distrutte gemono i fiori purpurei delle notti insaziate...

La vedova Baran (fissa il preside sbalordita).

Goss  (rapito) — Meraviglioso!

Il Preside — Ma non è finito!

Goss — Lo credo, lo credo bene. Ma mi permetto li dirle che occorre subito passarla al compositore...

Il Preside — Il compositore? Ah, certo. Andrò o stesso, anzi. Devo raccomandare a questo onest'uomo di porre maggiore attenzione. Con permesso. (Esce dall'arco).

Goss (guarda la Baran e sbuffa in modo eloquente).

La vedova Baran — E lei perché gliele pubblica le poesie? Già se fossero poesie! Ma non si capisce mai cosa voglia dire!

Goss — Perché? Perché? (Confidenzialmente) È il preside di mio figlio. Spero che lo promuova all'esame. Sa, mio figlio è debole in latino, in fisica e in geografia...

La vedova Baran — Capisco. (Sospira) Eh, si fanno dei sacrifici per i figli! (Improvvisamente) Ma, aproposito! Allora se questo è il preside deve sapere quello che è accaduto nella scuola, ieri! Quando il figliolo di quel matto ha dato l'annunzio della fine del mondo!... Ma sì, certo! Non se lo lasci sfuggire! È un testimone importante!

Goss (sollecito) — Il preside! Certo! L'opinione del preside... La metterò in prima pagina. Oltretutto ciò lo solleticherà molto e io spero che mio figlio possa trarne un beneficio nel suo esame di storia...

La signora Baran — Di geografia, no?

Goss — Anche di storia, purtroppo. Credo che l'unica materia in cui possa cavarsela da solo è la ginnastica.

(Da destra entra un uomo che ha tutto l'aspetto d'un possidente di campagna, robusto e bene in carne, con una grossa catena d'oro che gli attraversa il panciotto. È un tipo cordialone ed espansivo).

Il Possidente — È permesso? Buon giorno... (Si  frega  le  mani)   Eccomi qua. Arrivo a tempo?

Goss (un po' seccato) — Scusi, lei desidera?

Il Possidente — Mettere un avviso sul giornale. Mi hanno detto di venire qui...

Goss — Ma io sono occupato, non vede?

Il Possidente — Capisco. Ma anch'io non ne ho molto di tempo. Sono di passaggio qui in città. Abito in campagna. Vorrei mettere un avviso... prima di ritornare al mio bestiame.

Goss (rassegnato, prende un foglio dal suo tavolo) — Ecco il modulo. Non deve fare altro che riempirlo. Sieda pure qui. (Accompagna il possidente al piccolo tavolo a destra).

Il Possidente — Grazie, grazie. Molto gentile. (Alla signora Baran) Chiedo scusa alla gentile signora, ma gli affari sono affari. (Siede, ed esamina il modulo con attenzione).

Goss (torna presso la Baran) — È sempre così. Io devo fare tutto per il giornale. Si può dire il gior­nale sono io.

Il Possidente — Scusi tanto... Potrei avere una penna?

Goss (seccato) — Ecco la penna... (Va a portarla al possidente) Vuole altro?

Il Possidente — Eh, sì. Un consiglio, se è pos­sibile. Sa, per la forma dell'avviso. Io non ho molta dimestichezza con le parole... Il senso è questo: disponendo di un certo capitale, vorrei investirlo in maniera redditizia.

Goss — Mi pare chiaro. Non c'è nulla da aggiungere.

Il Possidente (con molta applicazione, comincia a scrivere compitando) — Possidente... disponendo...

Il Preside (rientra) — Ecco fatto. Ora è chiaro che dovrà scrupolosamente rispettare il testo origi­nale. (Getta un'occhiata scrutatrice verso il possidente che gli rivolge un leggero saluto. Il preside, interdetto,

lo saluta) Bene, ora me ne vado. La scuola mi attende. Goss (emozionato) — Un minuto, un minuto ancora, caro signor preside...

Il Preside — Vuol conoscere il resto della poesia?

Goss — No, no, dopo. Ora deve dirmi subito la sua opinione sugli incresciosi incidenti di ieri... Pare che anche nel suo istituto si sia avuta un'eco delle follia di quell'uomo che ha annunziato la fine del mondo...

Il Preside (perplesso) — La fine del mondo?

Goss — Mio figlio mi ha detto che lei ha espulso il  figlio del ragionier Rossi, l'uomo che pretende di aver parlato con Dio...

Il Preside — Ah, già. Sicuro. Infatti ho espulso l'allievo che ha provocato del disordine durante la lezione... Oh, un chiasso intollerabile per me che ho l'ufficio accanto. Le dirò che ero appunto intento a meditare i versi che ho scritto... (Declama) «Sulle foreste distrutte, gemono i fiori purpurei delle notti insaziate». Bella immagine, vero? Plastica, Efficace.

(Getta ancora un'occhiata indagatrice verso il possi­dente. Si riprende) Ah, già. Sicuro. Ho dovuto espel­lere la causa di tanto baccano. (Improvvisamente) E che c'entra la fine del mondo?

La vedova Baran (delusa) — Come? Lei non sa? Ma tutta la città non parla che di questo!

Il Preside (con dignitosa superiorità) — Un poeta ascolta soltanto le sue voci interiori, signora... (A Goss) Credo di aver letto qualcosa sul giornale... L'uomo che costruiva la torre, no?

Goss — Infatti. Un certo ragioniere Andrea Rossi.

Il Preside — Ebbene?

Goss — Lo stesso uomo afferma di aver parlato con Dio in carne e ossa. Anzi: io desideravo chiedere alle persone più autorevoli della città, e quindi anche a lei, signor preside, un parere su questo fatto. (Insi­nuante) Lo pubblicherei in prima pagina...

Il Preside (lusingato) — Ah! Oh, intendiamoci non sono un tipo che va in cerca di facile popolarità. Un parere? Ma lei vuole il mio parere di preside o di poeta?

Goss — L'uno e l'altro, direi...

Il Preside (si rischiara la voce) — Ehm! Già. Sicuro. (Getta ancora una occhiata verso il possidente. Poi, in tono magniloquente) Dio... Dio... Che ne sap­piamo noi? Bisogna confessare, con Cicerone, la nostra ignoranza sulla natura della divinità.

Il Possidente (alza la testa interessato per seguire i discorsi).

La vedova Baran (al preside, spazientita) — Ma lei, in sostanza, che cosa ne pensa?  Un uomo può davvero pretendere di parlare con Dio? Non le sembra assurdo ?

Il Possidente — E perché, poi?

Tutti (si voltano sorpresi e scandalizzati verso il possidente).

Il Possidente (si alza) — Scusino tanto. (Si siede).

Goss (si avvicina al possidente) — Insomma, questo avviso ?

Il Possidente (conciliante) — È quasi finito.

La vedova Baran (al preside) — Non ha risposto alla mia domanda, signor preside.

Il Preside (evasivo) — Eh! Eh! (Dopo un momento) Ecco, nella mia qualità di preside di un istituto sco­lastico, dato che rappresento in fondo la cultura, cioè il sapere... (Si ferma e, con fare un po' autoritario si rivolge al possidente come se interpellasse un allievo) Lei cosa ha detto? Che non è un assurdo? Ma conosce forse l'esatto significato del termine?

Il Possidente (si alza, mortificato) — No, signore.

Il Preside (severo) — Ah, ecco. Ecco. (Lo fulmina con un gesto) Sieda.

Il Possidente (confuso, siede e si immerge nel suo avviso).

Il Preside (alla Baran) — Ricapitoliamo. Un tale (come se parlasse d'un essere trascurabile) un certo Rossi, un uomo, insomma, asserisce d'aver ricevuto una visita di Dio...

Goss  (sogghigna) — Eh!  Eh!

Il Possidente  (interessato, si alza e si avvicina ai tre).

Il Preside (volta ostentatamente le spalle al possidente, continuando a parlare) — E ciò sarebbe acca­duto in questi giorni, nella nostra città...

Il Possidente (molto interessato) — Davvero? E qualcuno lo ha visto?

La vedova Baran (seccata) — Ma cosa vuoi vedere! Non pretenderà mica che Dio si possa vedere!

Il Possidente (conciliante) — Scusi tanto. Io mi informo. Non si sa mai.

Il Preside (altezzoso) — Mi faccia il piacere!

Il Possidente (risentito) — Lei non crederà mica di umiliarmi perché non ho fatto degli studi! Tenga presente, per sua regola, che ci sono delle cose che io so e che lei non sa!

Il Preside — Questa poi! E che cosa, di grazia, signor presuntuoso?

Il Possidente — Sa mungere una vacca, lei?

La vedova Baran  (ride).

Il Preside (offeso) — Me ne vado. Non posso tollerare d'essere insultato.

Goss (trattenendo il preside) — La prego, la prego signor preside... (Al possidente, con rabbia) Ma in­somma, questo avviso? È pronto o no?

Il Possidente (al preside, senza badare a Goss) — Scusi tanto. Non intendevo offenderla. Soltanto ci tenevo a dimostrarle che uno, per sapiente che sia, non sa mai tutto. Appunto per questo io rivolgo delle domande: lo faccio per conoscere quello che non so.

Goss (al preside) — Vede? Vede? È un movente apprezzabile... Il signore, in fondo, s'interessa per istruirsi... E poi è un argomento di palpitante attua­lità, se così posso dire... E il suo giudizio, appunto, avrebbe un valore definitivo, sarebbe un giudizio chiarificatore...

Il Preside (rabbonito, ma sempre altezzoso) — Bene. Bene. Ma che non m'interrompa mentre parlo. (Alla Baran) E come mai lei è con tanta esattezza al cor­rente dei fatti? Conosce per caso questo signor Rossi?

La vedova Baran — Ma è il mio vicino di casa! Abita nell'appartamento accanto!

Goss (insinuante) — E le pareti sono tanto sottili...

La vedova Baran (innocente) — Si sente tutto, si conosce tutto...

Il Preside — Ah, ma questo è molto importante! Mi dica, signora, lei ha per caso notato o avuto sen­tore di fatti soprannaturali che si siano verificati nelle sue immediate vicinanze?

La vedova Baran (stupita, perplessa) — Fatti soprannaturali?

Il Possidente (candido, intempestivo) — Una volta a me nacque un vitello con due teste...

Il Preside  (lo fulmina con un'occhiata).

Goss (tirando la falda dell'abito del possidente, gli fa cenno di tacere. Alla Baran) — Cerchi di ricordare, signora. A lei non fa difetto lo spirito d'osservazione.

La vedova Baran — Oh, no! Ma fatti sopranna­turali, mi pare, nessuno...

Il Preside — Eh, questo è importante. Già. Perché le autorità religiose ammettono anche la possibilità che Dio si manifesti ai mortali, ma sempre nelle dovute forme. Voglio dire, in modo soprannaturale o  con   accompagnamento   di  fatti  soprannaturali...

Il Possidente   (accondiscendente,   volenteroso)  — Sicuro. Come quando parlò con Mosè. (Incurante della occhiata del preside) La terra, dicono i libri, tremò. Goss (con leggera ironia) — Ma son cose d'altri tempi, mio caro signore. Cose del passato.

Il Possidente (seccato) — Perché, adesso, se­condo lei?...

Il Preside (con superiorità) — Lasci stare, lasci stare. Crede davvero che Dio si prenda la pena di manifestarsi a un piccolo ometto qualunque, quando la terra è piena di spiriti nobili, scienziati e filosofi, religiosi e poeti?

La vedova Baran  (annuisce vivamente) — Eh!

Il Preside (continua) — Un contabile! Ma che cos'è un contabile dopo tutto?

Il Possidente (ostinato) — Non ci vedo niente di strano. Se non è un malvivente, un contabile è un uomo per bene come tutti gli altri. E poi, mi permetta, lei dovrebbe saperlo meglio di me che Giovanna d'Arco era una povera pastorella. Eppure! Sa, io ho letto la vita di Giovanna d'Arco e ho visto anche il film.

Il Preside — E con questo?

Il Possidente (vivace) — E con questo bisogna dire che Dio preferisce la gente semplice e ignorante a quella che sa troppe cose! Vuole che le dica come la penso io? Io... io non so niente, però, prima di giudicare, andrei a informarmi. (Accalorandosi) Ma ci pensa, lei, cosa vorrebbe dire se Dio fosse real­mente sceso sulla terra mentre noi stiamo qui, come dei cretini, a discutere?

La vedova Baran (con un sorriso di commisera­zione) — Lei, lei va troppo al cinematografo, caro signore!

Il Possidente (vivace) — E lei ci va troppo poco! Il cinema stimola l'intelligenza, se lo vuoi sapere.

La vedova Baran (insorge) — Come si permette di trattarmi così!

Goss (interviene) — Via, via... Non è il caso di riscaldarsi...

La vedova Baran (irritata) — Ha detto che siamo dei cretini! Non ha sentito?

Fulvia e la Portinaia (Entrano da destra. Le due donne appaiono eccitate, ansanti, apportatrici di grosse notizie) — Signora Baran! Signora! (Si fermano subito, confuse) Oh, scusino tanto...

Goss (con una presentazione circolare) — Ecco due nuove testimoni... La portinaia della casa, e una vicina... la signora Fulvia.

La Portinaia (con sussiego) — Abbiamo le ultime notizie. (Alla Baran) Sa cosa c'è di nuovo? La moglie e i figli lo hanno lasciato.

La vedova Baran — Come?

Fulvia — Sicuro. Se ne sono andati!

Il Preside (a Goss) — Che dicono?

Goss — Sembra che i familiari lo abbiano abban­donato.

Il Preside — E la ragione?

La Portinaia (al preside) — Eh, mica si può vivere con un matto, caro signore!

Il Possidente (alla portinaia) — È proprio matto? Ma lei ne è sicura?

La Portinaia (con superiorità) — Non le bastano

le prove? Io, se fosse mio marito, lo avrei già fatto rinchiudere.

Il Possidente (crolla il capo) — Anche Cristoforo Colombo...

Goss (piccato) — E che c'entra Cristoforo Colombo? L'ha visto al cinema?

Il Possidente — Sicuro! Ci vado tutte le dome­niche.

Il Preside (con ironica commiserazione) — E su Cristoforo Colombo che cosa ha imparato?

Il Possidente (insensibile all'ironia) — Che quando parlò di scoprire l'America lo presero per matto... (Prende il cappello, deciso) Io sa che faccio? Vado ad informarmi.  Arrivederci.   (Si avvia).

Goss (sbalordito) — Ehi! Un momento! Non doveva mettere un avviso, lei? E cosa fa?

Il Possidente (misterioso) — Aspetto. Prima voglio sapere.

Goss — Ma il giornale sta per andare in macchina...

Il Possidente (con fare circospetto) — Metta il caso che il fatto di cui abbiamo parlato finora sia vero... Perché, dovete ammetterlo, miracoli ne possono accadere anche oggi giorno... (Al preside) Con tutto il rispetto lei potrebbe negarlo? (A Goss) Oppure lei? (7 due interpellati si stringono nelle spalle).

Fulvia (scossa) — Però mi pare che non abbia torto.

Il Possidente (soddisfatto, a Fulvia) — Anche lei è del mio parere?

Fulvia (quasi scusandosi, alla signora Baran) — Io, veramente, comincio quasi a pensare...

La vedova Baran (bruscamente) — Ma pensi sol­tanto a vendere aghi e bottoni, lei!

Fulvia (reagisce con energia) — Perché? Solo lei può giudicare? Per conto mio più ci penso e più mi dico che qualcosa di vero ci può anche essere. E se c'è qualcosa di vero...

Il Preside (cattedratico) — In ogni caso occor­rono delle prove.

Il Possidente — Naturale. Lei ha ragione, pro­fessore. Ma se le prove ci sono, prove, - voglio dire -convincenti, eh? Noi siamo i primi testimoni di un avvenimento che... di un avvenimento che farà par­lare il mondo. Che dico: non si parlerà che di questo. Tutto il resto passerà in seconda linea. E vi rendete conto di quel che vorrà dire?

Fulvia (sbigottita) — Per il mondo?

Il Possidente (trionfante) — Per noi! Noi, qui. I primi!

Il Preside (colpito) — Eh! Però!

Il Possidente (facendo schioccare le dita sotto il naso del preside) — Eh? Afferrato l'idea? I primi sono sempre primi, qualunque cosa accada.

La vedova Baran (agrodolce) — E che significa essere i primi, secondo lei?

Il Possidente (con sicurezza) — Occupare i posti migliori. In treno come nella vita. Non so se mi spiego. E in questa faccenda, eh? A parte la gloria, diciamo così, la celebrità, c'è tutto il resto... (pieno di sottintesi)  ... gli sviluppi...

Goss (ammirato, al preside) — Perbacco! Ma non ragiona affatto male il nostro amico!

Il Preside — Eh! Lo sto a sentire ammirato! (Batte  la  mano  sulla  spalla  del possidente)   Scarpe grosse cervello fino: una logica che non fa una grinza. Complimenti.

Il Possidente (orgoglioso) — Io le cose non le ragiono tanto... Vado a lume di naso e raramente sbaglio.

Fulvia — Si capisce! Non si può negare quello che non si conosce, soprattutto se ha un'importanza così grande...

La vedova Baran (quasi risentita) — E che non lo  abbiamo capito subito? Non ho mai detto niente in contrario, io... Semmai qualche altro...

Il Preside (sollecito) — Un momento! Io non ho negato nulla. Ci tengo a precisare, anzi, che di fronte a un fatto così importante, sono stato molto cauto nell'esprimere un giudizio... (A Goss) Non è vero, amico mio?

Goss (ossequioso) — Certo, signor preside. Noi che abbiamo immediatamente intuito la portata univer­sale di questo avvenimento...

(Da questo momento il dialogo si fa più serrato, più concitato. E tutti parlano, vogliono dire la loro, cercando di sopraffarsi, alzando il  tono, con voce eccitata).

La Portinaia (a Fulvia) — Se l'immagina la gente che verrà a visitare la casa?

Fulvia — Altroché. Lei non avrà più un attimo di pace. Su e giù per le scale. (Al possidente) Perché verranno  visitatori  da  ogni  parte  del  mondo,   no?

Il Possidente — Naturale. Pellegrini. Appena si sparge la voce arrivano.

Il Preside (a Goss) — La casa sarà dichiarata monumento nazionale...

La Portinaia — Milioni di visitatori. Mi daranno la mancia. Sarà il momento che mi comprerò una pelliccia...

Fulvia — E dove dormirà questa gente? Non c'è posto in paese...

Il Possidente — Infatti. Ci ho già pensato.

Il Preside (al possidente) — A che cosa?

Il Possidente (facendo schioccare le dita) — Alberghi.

Il Preside (sorpreso, al possidente) — Come? Come? Pensa già agli alberghi?

Il Possidente — Eh, signore caro... quando si hanno quattro soldi da investire...

Fulvia — Se ci mette un po' di capitali ho un negozio avviatissimo...

La vedova Baran — Un momento! Un momento!

Goss (sopraffacendo la Baran tira a sé il possidente) — Senta... senta... Il terreno vicino alla casa è in vendita...

Il Possidente — Ha fatto bene a dirmelo: subito dopo corro a informarmi...

Il Preside (in tono ammirato, a Goss) — Formi­dabile! Proprio un tipo formidabile questo qui... Ha già intuito tutti gli sviluppi della faccenda...

Goss — Eh, caro professore! Non c'è tempo da perdere... Sviluppi colossali, impensati! Bisogna avere il senso degli affari! Essere i primi, ecco!

La Portinaia (tira a sé il possidente) — Mio cugino è un ottimo cuoco... L'albergo avrà un ristorante, no?

Fulvia — Un momento! Non cominciamo ad acca­parrare i posti. Se è per questo, mio fratello conosce il francese, l'inglese e lo spagnolo...

La vedova Baran (intervenendo) — Io voglio dire una cosa...

Il Preside (alzando la voce) — Calma! Calma, signori! Non perdiamo di vista il primo atto da com­piere per dare il giusto rilievo a questo importante avvenimento: le prove!

Fulvia — Sono sicura che le avremo!

La vedova Baran (al -preside) — Vi guiderò io dal ragionier Bossi... Lo conosco benissimo. Come vicini di casa siamo ottimi amici...

Fulvia (cercando di sopraffare la Baran) — Sua moglie si è sempre servita nel mio negozio...

La Portinaia — Io ho visto crescere i suoi bam­bini...

Il Possidente — Andiamo, allora... Andiamo subito...

La vedova Baran (al preside) — Io voglio dire una cosa...

Goss (tirando il preside dalla sua) — Sa che faccio? Non esito neppure un istante, butto per aria il gior­nale, ricompongo tutto da .capo, esco con una edi­zione straordinaria che farà tremare il mondo! Titolo in corpo sessanta: «Dio è sceso nella nostra città». Eh? Che ne dice?

La vedova Baran (si rivolge a Goss) — Senta, io voglio dire una cosa...

Il Preside (tira a sé Goss) — Ascolti! Le preparo subito una poesia per l'occasione. Sento che sarà una cosa eccezionale... (Ispirato, comincia a declamare) «Toccata dal fuoco divino, trema la casa di ce­mento...».

Il Possidente — Andiamo, andiamo. Altro che poesie! (Si avvia. Il preside e Goss lo seguono).

Goss (al preside, uscendo) — Intanto raddoppierò la tiratura... E credo che potrò compensarle un po' meglio   la   sua collaborazione...

Il Preside (schermendosi, ma soddisfatto) — Oh... Intendiamoci...  accetto... ma tuttavia...

Fulvia (mentre esce con la portinaia si volge alla Baran che, indispettita, offesa, è rimasta indietro) — Venga, venga, signora...

La vedova Baran (aggiustandosi il coppellino, con sussiego) — Oh, certo. Ma volevo dire una cosa e non mi hanno lasciato parlare... Non dimentichiamo che sono stata io la prima ad accorgermi di tutto... Il merito, dunque, è mio! (Esce pomposamente scortata dalle due donne).

SECONDO   QUADRO

La casa di Andrea Bossi, come al secondo atto. Questa volta, però, l'ambiente non è più in perfetto ordine e qualcosa, ansi, denota una certa trascuratezza. Vi è una scopa, ad esempio, appoggiata al tavolo pro­prio nel bel mezzo della scena e sul tavolo alcuni piatti, una tazza e la cuccuma del caffè. Inoltre, sempre sul tavolo, c'è un fornelletto a spirito sul quale è posato il padellino per friggere le uova.

(Andrea Rossi, che indossa una vecchia giacca da casa, è senza cravatta, e calza un paio dì vecchie pan­tofole. Seduto al tavolo, sta terminando malinconica­mente di fare colazione. Il suo atteggiamento è triste e sconsolato. Egli mangia svogliatamente, a testa china, rassegnato. Dopo un momento, del tutto inattesa da Andrea, entra Anna. Indossa un soprabito, reca una grossa sporta di quelle che le massaie usano per la spesa. Anna è ansimante come se avesse corso, ed ha un aspetto sconvolto, impaurito. La sua paura è quella della cerva inseguita dai cacciatori. Entrando, essa si appoggia allo stipite della porta come per riposarsi e comprimere i battiti del suo cuore).

Andrea (si volta di scatto, sorpreso, guardando sua moglie) — Anna! (Si alza, si avvicina alla moglie; la guarda un momento in silenzio, un po' timoroso. PBoi le dice) Sapevo che saresti tornata...

Anna (con un gesto di sconforto) — Oh, taci! Taci!... (Va a sedere nella vecchia poltrona e si nasconde il volto tra le mani) Che cosa terribile...

Andrea (sorpreso, timoroso, si avvicina a sua moglie) — Che succede, Anna?

Anna (riluttante) — Oh, non parlare per carità... È stata una tortura arrivare fin qui... Camminare per la strada ed essere segnata a dito... Sentire le risa di scherno della gente... (Con un brivido) Che orrore!

Andrea — E chi rideva?

Anna — Chi? Tutti. Tutti. Non c'è persona che non sappia ormai che io sono tua moglie, la moglie dell'uomo che pretende di aver parlato con Dio...

Andrea (con un certo risentimento) — Perché? Porse non è vero? Non capisco cosa trovino da ridere... È una cosa seria.

Anna (insofferente) — Basta! Non ricominciare, per carità! Con questa storia ci hai reso la vita impos­sibile. Io non posso quasi più mostrarmi in giro... I ragazzi stanno tappati in casa per evitare di incon­trare i loro amici... E io non so nemmeno come potrò resistere da mia sorella perché suo marito cerca di convincermi a farti ricoverare in una casa di salute...

Andrea  (sorpreso)  — Io?  Ma se sto benissimo!

Anna (si alza di scatto) — Ah, senti! Su questo punto non c'è più da discutere, vero! Il medico verrà più tardi e io spero che stavolta riuscirai a farti rilasciare il famoso certificato... Hai preso le medicine?

Andrea  (umile)  — Sì.  Ma unicamente per fare piacere a te... Sono cattive...

Anna — Bene.  Lo  dirai al medico.  E  gli dirai anche che, per il momento,   i   dolori  continuano...

Andrea (candido) — Quali dolori?

Anna (scattando) — Ma i tuoi dolori, no? Sei pieno di dolori... Vuoi o non vuoi che ti rilasci il certificato? Cerca dunque di comportarti abilmente quando verrà... Se ti lasci sfuggire quest'ultima occasione è veramente finita.

Andrea (smarrito, umiliato) — Non si può pro­prio evitare questa finzione?

Anna (perentoria) — Fai come ti pare. Per conto mio vado via immediatamente. Così sarai libero di decidere.

Andrea (colpito) — Vai via?

Anna — Sì. Devo prendere alcune cose per i bam­bini e per me... (Comincia a frugare nella cestina da lavoro) Le calze da rammendare, una maglia, un paio di camicie... I bambini hanno bisogno di cambiarsi...

Andrea (triste) — E te ne andrai di nuovo?

Anna — Sì.

Andrea (implorante) — Anna! Io non posso vivere senza di te...

Anna — Senti, caro... Per quanto mi sia difficile, ho deciso di non tornare sulle mie decisioni fino a quando tu non sarai più ragionevole... La prospet­tiva di vivere con te mi spaventa...

Andrea (sorpreso, addolorato) — Io ti faccio paura?

Anna — No, non tu. Ma tutto quello che tu dici e fai... Forse non ti rendi conto che hai suscitato un'infinità di chiacchiere e pettegolezzi... Tutto il paese non parla che di te... E la gente non è certo benevola nel commentare queste tue stranezze...

Andrea (con calore) — Senti. Senti. Bisogna met­tere tutto in chiaro... Devo parlare con questa gente e spiegare. Non voglio che mi credano matto o blasfemo.

Anna (irrigidita) — Allora tu insisti?

Andrea (con candore) — Ma si tratta di salva­guardare la mia dignità... Quando la gente saprà non riderà più... Mi basterà parlare per riacquistare il rispetto della gente...

Anna (scoraggiata) — Andrea, te ne prego! Ritorna in te. Sii quello che ho conosciuto e amato. L'uomo semplice, mite, onesto, al quale ho legato la mia esi­stenza... Che cosa è accaduto, dunque, perché la nostra vita debba venire sconvolta, la nostra pace distrutta, l'avvenire dei nostri figli minacciato?

Andrea (annientato) — E cosa dovrei fare, secondo te?  Dovrei rinnegare tutto?

Anna (incoraggiante, paziente) — Non si tratta di rinnegare. È un sogno. Tu hai sognato. Porse non te ne rendi conto ma è così. L'esaurimento nervoso ha predisposto il tuo spirito a questo sogno strano... Credi a me. Io mi rendo conto di molte cose, e ti conosco, ti conosco tanto bene. Sei un uomo pieno di qualità, un ottimo padre, un marito sollecito e affettuoso. Ma questo non significa nulla all'infuori che meriti il bene che ti vogliamo e il rispetto che ti circonda... che ti circondava, anzi, perché ora è un po' scosso... Ma tu lo riconquisterai presto.

Andrea (con un sorriso amaro) — Sì, certo. Il rispetto della gente vale tanto?

Anna (con molto senso pratico) — Se si vive nel mondo, sì. Riflettici un momento, caro. Noi abbiamo una dignità da salvaguardare oltre a uno stipendio da difendere... Il tuo stipendio... E i fornitori non ci fanno credito se offendiamo le loro opinioni... Le opinioni dei fornitori hanno una grande importanza per gente come noi che non arriva mai alla fine del mese senza pena... Sta a te, dunque, decidere del tuo, del nostro avvenire... Non ti chiedo l'impossibile, in fondo. Hai abbastanza buon senso per capire... (Raccoglie i piatti, ecc. dalla tavola e fa per uscire da destra).

Andrea (angosciato) — Anna! È proprio così?

Anna (sulla porta, si volta. Sorridente ma ferma) — È proprio così, caro. Io vado al mercato tutte le mattine per fare la spesa... So benissimo che il Signore Iddio esiste, ma il prezzo delle patate aumenta ogni giorno, e i denari escono dal mio portamonete e non da quello degli angeli...

Andrea (c. s.)— Allora te ne vai?

Anna (c. s.) — Oh, no. Non vado via subito. Metto un po' d'ordine, poi raccolgo quello che mi è neces­sario, per i bambini e per me... Hai tutto il tempo per riflettere, caro... Basta una tua promessa e resterò. (Dall'esterno, il campanello) Vuoi andare ad aprire, caro? Dev'essere il lattaio... (Via).

Andrea (lentamente va ad aprire, uscendo da sini­stra. Dopo un momento, si odono voci confuse e poi, uno dopo l'altro, entrano la vedova Baran, il preside, Goss, la signora Fulvia e il possidente, seguiti da Andrea il quale appare un po' sorpreso e mortificato. I nuovi venuti si guardano in giro con evidente curiosità) — Prego. Prego... Chiedo scusa della mia tenuta ma non aspettavo visite...

Il Preside (dopo essersi guardato attorno, in tono di superiore benevolenza) — Siamo noi che chiediamo scusa... Noi che siamo venuti a importunarla mentre lei forse era immerso in meditazione e preghiera... Ma la gentile signora Baran qui presente ci ha assi­curato...

La vedova Baran (tutta dolcezza e amabilità) — Io mi sono permessa di guidare questi signori... Dati i nostri buoni rapporti di buon vicinato...

Andrea (soggiogato) — Si accomodino, prego... Non rimangano in piedi... Qui sul divano... Le sedie... (Imbarazzato leva di mezzo la scopa) Oh, scusino... Scusino tanto...

La vedova Baran (prende la scopa dalle mani di Andrea) — Dia a me... Non è arnese da uomini questo... (Va a posare la scopa in un angolo).

Il Possidente (siede nel bel mezzo del divano e continua a guardare in giro).

Andrea (al preside) — Ma la prego... (Porge una sedia).

Il Preside — Grazie, non si disturbi... (Porge la sedia a Goss) A lei... (Siedono).

La vedova Baran (ad Andrea, amichevole) — Se ha bisogno di qualcosa disponga di me... Senza com­plimenti. Un uomo solo, si capisce...

Andrea (interdetto) — Ma chi le ha detto...

La vedova Baran — Che lei è solo? Oh, ma si sa tutto, in città...

Il Preside — Abbiamo saputo grandi cose! Grandi cose!

La vedova Baran — Oh, che stordita! Devo fare le presentazioni... Questo è il nostro signor preside...

Andrea (impacciato) — Onoratissimo... (Con ap­prensione) Ma... si tratta forse di mio figlio? È stato espulso, ieri...

Il Preside (benevolo) — Per carità! Non ne par­liamo nemmeno. Suo figlio può tornare a scuola quando crede...

Andrea — Oh, grazie! Grazie! Ma allora...

La vedova Baran (continuando le presentazioni) — Il signor Goss, direttore del giornale «L'Opinione»...

Goss(si  inchina)  —  Fortunatissimo...

Andrea — Piacere... Sieda... Sieda pure...

La vedova Baran (indicando il possidente) — Il signor... Il signor...

Il Possidente (balza in piedi) — Matteo Federico Monticelli... Servo suo.

Andrea — Comodo... Comodo...

Fulvia (precedendo la Baran) — Noi ci conosciamo già, ragioniere... Lieta di rivederla...

Andrea — Grazie. Ma a che cosa debbo...

La vedova Baran — Lo scopo della nostra visita? Non lo immagina nemmeno, ragionier Rossi?

Il Preside (con sussiego) — Un momento. Non parliamo per indovinelli... (Si alza) Ragionier Rossi, in base a voci che noi abbiamo raccolto, voci che hanno commosso l'opinione pubblica, noi siamo qui animati dal desiderio, dal bisogno di sapere, di conoscere...

Fulvia (rapida) — Se è vero che ha visto Dio!

Il Preside (getta un'occhiata a Fulvia) — Non così brutalmente! (Ad Andrea) Scusi.

Il Possidente — Sì, insomma, lei capisce...

Goss (dandosi importanza) — Sono io che ho dato la notizia della torre...

Andrea (sorpreso, incerto, guarda ora l'uno ora l'altro) — Ma io non so, veramente...

La vedova Baran (incoraggiante) — Via, ragio­niere! Lei può parlare con piena libertà. Noi siamo ansiosi di sapere tutto.

Andrea (con un filo di speranza) — Ansiosi?

Il Preside — Ma certo! Un avvenimento di tale portata non può che scuoterci e accendere in noi l'ansia di sapere...

Il Possidente — È venuto qui dentro?

Fulvia — Da che parte è entrato?

Goss — Come è nata l'idea della torre? È quello che vorrei sapere...

Andrea — Ma loro... loro desiderano veramente...

Il Possidente — Certo! Vogliamo che ci racconti tutto. Saremo i primi a sapere!

Andrea (è quasi felice e tuttavia incredulo ancora) — Ma... non è uno scherzo, vero?

La vedova Baran — Oh! Le pare? Crede che il signor preside sia tipo da scherzare?

Il Preside — Può parlare, ragionier Rossi. Ab­biamo piena fiducia in lei, sappiamo che lei è per­sona seria, stimata, apprezzata, onorata... ci dica dunque tutto...

Andrea (lasciandosi andare con candore) — È una grande gioia per me, poterne parlare... So che non avrei potuto tenere dentro di me quello che è acca­duto...

Fulvia — Ah! Allora è accaduto veramente!

La vedova Baran — Sst! Sst! Non interrompa!

Andrea (a Goss) — È proprio l'idea della torre che ha dato origine a tutto, che ha provocato questo fatto straordinario... (Andrea parla con calma e dol­cezza) La torre che ho voluto costruire per innal­zarmi al di sopra del mondo...

Il Possidente (pratico) — Non è mica facile costruire una torre!

Il Preside (zittisce il possidente) — Sst! Sst!

Andrea — La mia idea era questa, che dovevo incontrarmi con Dio per parlargli... Nei tempi pas­sati, i profeti, i santi, gli eremiti, coloro che volevano incontrarsi con Dio, per isolarsi dal mondo salivano sulle montagne più alte... Ma noi non abbiamo montagne nei dintorni. Nemmeno una piccola collina... Niente. E poi non potevo andarmene su una mon­tagna a lasciare la casa, il lavoro...

La vedova Baran — Giusto. Quando uno ha famiglia...

Andrea — Così è nata in me l'idea di costruire la torre. Pensavo: «Ci impiegherò un anno, due anni... che importa?». In qualità di contabile alle Vetrerie, che sono associate alla fabbrica di laterizi, potevo avere mattoni di scarto a prezzi di favore... (Con un sorriso mite) Altrimenti sarebbe costata troppo...

Fulvia (annuisce) — Eh, già. Lo dicevamo anche noi...

Andrea — Così ho cominciato...

Goss — Ma la sua famiglia... Sua moglie? I suoi figli?

Andrea — Oh, sono tanto buoni, tutti. Noi ci vogliamo bene.

Il Possidente — Ce la mostrerà la torre, vero!

Andrea — Certo. Quando vogliono.

Il Possidente — Vediamola subito. Le dispiace?

La vedova Baran — Dopo. Dopo. Lasci parlare. È troppo interessante per interrompere. (Ad Andrea) Continui, per favore. Ci dica subito come ha visto... (non osa pronunziare il nome) insomma, ci dica come è avvenuto l'incontro.

Andrea — Ecco. Io ero qui, in questa stanza. Solo, stavo seduto lì, in quella poltrona. (Tutti guar­dano la poltrona) Improvvisamente, senza che me ne fossi accorto, ho sentito la sua voce. Una voce calda e dolce. Una voce profonda. Non so nemmeno de­scriverla...

Goss — Ma lei, prima lo ha sentito e poi lo ha visto ?

La vedova Baran (stizzita) — Sst! Ssst!

Goss — Mi lasci parlare! È importante stabilire dei dati precisi, no?

Il Preside — Va bene, va bene. Ma ora sentiamo prima il ragionier Rossi. Poi ciascuno, a turno, rivol­gerà delle domande.

Il Possidente (alza la mano) — Io, se permette, vorrei rivolgere immediatamente una domanda che mi sta qui. (Ad Andrea) Dove si è seduto?

Andrea (stupito) — Come sa lei che si è seduto?

Fulvia — Eh, il suo bambino l'ha raccontato a tutti!

Il Possidente — Allora si è seduto, no? E dove?

Andrea  (con semplicità indica il divano)  — Lì.

Il Possidente (si alza di scatto) — Qui?

Andrea — Sì. Dov'era seduto lei.

Il Possidente (osserva il divano) — Ma... è sicuro?

Andrea — Sì.

Tutti (si avvicinano al divano e lo osservano).

Goss (al preside) — Sembra impossibile vero?

Il Preside (si china per guardare il divano, poi, a Goss) — È un comunissimo divano con le molle.

Goss (si inginocchia accanto al divano).

La vedova Baran (a Goss) Ma che fa? Si ingi­nocchia?

Goss (in ginocchio) — Voglio esaminare le molle, no? (Guarda sotto il divano, tutti lo osservano).

Andrea (impacciato) — Forse c'è un po' di pol­vere...

Goss (si rialza spolverandosi le mani)— Infatti. Ma non c'è nulla di anormale.

Il Preside (a Goss) — Che ne pensa?

Goss (un po' diffidente) — Mah! Non mi pronuncio. Le prove. Voglio quelle. (Parlottano tra loro).

Il Possidente (ad Andrea) — Senta, se volesse cambiare questo divano con uno nuovo...

Andrea — Cambiarlo1?

Il Possidente — Dico, nel caso. Io potrei farle un'offerta.

Andrea — Ma io non ho intenzione di venderlo...

Il Possidente — Oh, se ne può parlare...

La vedova Baran (si intromette rapidamente) — Cosa c'è? Cosa c'è?

Andrea (candido) — Mi chiedeva di vendergli il divano...

Goss (irritato, al possidente) — Che significa? Il divano deve restare qui. Ci mancherebbe altro...

Il Preside — Certo. La gente che verrà qui dovrà trovare tutto al suo posto... Come quando è avvenuto il fatto. (Al possidente, con rimprovero) Non comin­ciamo a imbrogliare le carte...

Il Possidente (irritato) — Come si permette, lei?!

La vedova Baran (al possidente) — Ma se è lei che sta manovrando sott'acqua... Il nostro accordo, allora, non vale più?

Il Possidente — Con i capitali miei faccio quello che voglio!

Andrea (guarda ora l'uno ora l'altro sbalordito e perplesso. E di ciò si accorge Goss che interviene a calmare gli altri).

Goss — Sst! Sst! Signori miei! Che c'entra tutto questo? I nostri accordi riguardano... (con intenzione) un'altra cosa! Di cui parleremo poi, in seguito, fra noi, se così posso dire...

Il Preside (ha capito l'allusione e tenta di rimediare. Tossicchiando, si rivolge ad Andrea, lo prende sotto­braccio con un'autorevole benevolenza) — Perdoni, perdoni, caro amico... Noi l'abbiamo interrotto per una questione così, così futile... Dicevamo?

Il Possidente (ad Andrea) — Ma sì, ma sì... Continui, per favore... Aveva cominciato tanto bene...

Fulvia — Eravamo al punto in cui ha sentito la voce...

Andrea (riprendendo, con un mite sorriso) — Sì. Ero soprapensiero in quel momento. Perciò ho udito la voce prima di vederlo... Non mi sono accorto della sua presenza se non quando mi sono voltato...

(La porta di destra si apre, sulla soglia appare Anna. Ha in mano una grossa valigia. Si ferma un momento a guardare, poi, con voce stanca)

Anna — Andrea.

Andrea (si volta e ammutolisce, sgomento, compren­dendo che la moglie se ne va).

Anna (viene avanti) — Addio, caro.

Andrea — No, no. Aspetta un momento... Stavo spiegando a questi signori... Sono venuti per sapere... (Tace, imbarazzato).

Anna (senza curarsi dei presenti) — Continua pure, io vado.

Il Possidente (tossicchia) — Potremmo dare un'oc­chiata alla torre, intanto...

Andrea  (sollevato)  —  Oh,  sì...  sì.  Se credono...

Da questa parte... (Mostra la scaletta) Si sale... (Invita col gesto il preside e gli altri) Se vogliono accomodarsi...

Il Preside (con sussiego) Certo... certo... È sempre un elemento interessante... (Agli altri) Vogliamo andare? (Comincia a salire le scale, seguito dal pos­sidente e da Goss).

Fulvia (fa un cenno di saluto ad Anna) — Signora...

Anna (risponde freddamente con un cenno del capo).

Fulvia (offesa, alla Baran) — Com'è sostenuta... (Le due donne salgono. Un silenzio. Anna, immobile, fissa il marito).

Andrea (si avvicina alla moglie) — Anna! Non vorrai andare via proprio ora! Non capisci cosa è accaduto? Il preside, uno di quei signori è il preside, e poi il direttore del giornale, e quegli altri, sono venuti qui a chiedere, a pregare che io racconti loro tutto...

Anna  (gelida) — A che scopo?

Andrea — Perché sono animati dal desiderio di sapere, di conoscere... Lo ha detto il preside... È gente seria, gente per bene... Loro non ridono...

Anna — Oh, forse non ora, ma dopo...

Andrea (perplesso) — Perché dovrebbero ridere dopo?

Anna — Quando ti chiederanno di dimostrare con delle prove che il tuo racconto è vero.

Andrea — Ma la mia parola dovrà bastare, perché io dico la verità!

Anna (con un sorriso amaro) — Allora va bene. Se tu ne sei convinto, va bene. Parla pure. Racconta. Temo che avrai molte delusioni. E molte amarezze. Non ho mai saputo di un santo o di un profeta che non sia finito squartato o bruciato...

Andrea — Perché dici questo?

Anna — Perché lo penso. So quello che ti aspetta. La gente non ama coloro che sognano. E siccome io non posso seguirti sulla strada dei sogni, me ne vado. Ho il dovere di pensare ai figlioli, alla loro educa­zione, al loro avvenire... Ci sono dei problemi imme­diati, molto gravi... A tutto questo provvedere da sola, con le mie forze. Forse in un'altra città sarà più facile...

Andrea (angosciato) — No! Anna! No! Aspetta... Ascoltami... Io non voglio perdervi... Non voglio rinunciare a voi...

Anna — Oramai ho deciso, mi sembra... Loro ti aspettano lassù. Perché non vai a raggiungerli?

Andrea — E tu non vuoi unirti a me nel dare questo annunzio così grande?

Anna (scuote il capo) — No.

Andrea (esita un momento, poi con sforzo dice) — Allora vado.

Anna (commossa) — Addio.

Andrea (dolente) — Addio. (A testa bassa si avvi­cina alla scaletta e comincia a salire. Sale lentamente con passo pesante finché scompare).

Anna (ha seguito con gli occhi il marito e ora, triste e commossa, si avvia verso sinistra con la valigia. Si ode dall'esterno il campanello. Anna esce da sinistra, e, poco dopo, rientra, senza la valigia, precedendo la portinaia e il medico).

La Portinaia (eccitata) — Ah, signora! Mi scusi! Mi scusi! Sono ancora qui, vero?

Anna (gelida) — Sì, sulla terrazza...

La Portinaia — Meno male! Io ho dovuto trat­tenermi giù... C'è molta gente... Maledetti curiosi! E intanto è arrivato il dottore...

Anna — Buon giorno, dottore...

Il Medico (brusco) — Hm! C'è aria di confusione in questa casa, eh? Come sta? Come sta il malato? Meglio? Peggio?

Anna (sommessa) — Non so. Bisogna che lo chieda a lui... È il solo che può dirlo...

La Portinaia (interrompe, sempre eccitata) — Posso andare sulla terrazza, vero? Sono impaziente di sen­tire, anch'io... Ah, signora! Un fatto come questo! Non si sa che conseguenze può avere... Ne parleranno tutti... E poi verrà gente... Ci sarà movimento, com­mercio, traffico e un sacco di quattrini... (Si riprende) Oh, scusi... Vado su... vado su... (Sale le scale per andare in terrazza).

Il Medico (sbalordito) — Cosa diceva questa qui?

Anna — Non so. Parlava di commercio, di quat­trini... (Con un sorriso mite) Credo che difficilmente ne troveranno in casa nostra...

Il Medico (brusco) — Hm! A me queste faccende non interessano... Dov'è suo marito? Entro mezzo­giorno devo esporre il mio referto alla Direzione. Comincerò col notare, cara signora, che il malato è irreperibile...

Anna — Oh, è soltanto sulla terrazza...

Il Medico  (sorpreso, con ironia) — Ah!  Sempre con la sua torre? Allora è proprio migliorato...

Anna — Non lo so.

Il Medico — Come non lo sa? Se non lo sa lei! Me lo chiami, me lo chiami.

Anna (si avvia verso la scaletta. Ma ora dalla sca­letta scendono gli altri. Prima a scendere è la Baran, che appare irritata e sostenuta. Anche gli altri, che scendono via via, appaiono irritati, offesi, delusi).

Fulvia (acida, alla portinaia) — Bella figura!

La vedova Baran (con disprezzo) — S'è riman­giato tutto!

La Portinaia (inviperita) — Io mi domando perché lo ha fatto...

Goss — Eh, si capisce... Si è sentito mancare il terreno sotto i piedi e ha battuto in ritirata...

Il Preside  — Devo  dire  che  me l'aspettavo... (Vede il medico) Buon giorno dottore! Anche lei qui?

Il Medico — Oh, professore! A quanto pare c'è una grande riunione...

Il Preside — Per carità! Mi trovo qui perché mi hanno trascinato...

La vedova Baran (acida) — Ah, sentitelo! Tra­scinato. Per sua norma e regola io abito in questa stessa casa, nell'appartaménto accanto, ecco tutto. Semmai, chi ci ha trascinati è il signore... (Allude al possidente che ora è in scena. Anche Andrea Bossi scende: piccolo, umile, triste, egli guarda sua moglie che è ai piedi della scala e crolla il capo).

Anna (con semplicità) — C'è il medico, Andrea.

Andrea (vede il dottore e lo saluta intimorito) — Sì, dottore... Eccomi...

Il Medico — A quanto pare stiamo meglio, eh? Diamo ricevimenti... Venga, venga... Non mi faccia perdere altro tempo...

Anna (indicando la porta di destra) — Da questa parte dottore... (Il dottore esce da destra, seguito da Andrea e da Anna che chiude la porta).

La vedova Baran (agli altri che hanno seguito la scena senza parlare) — Beh?! Cosa facciamo qui? Io me ne vado.

Il Preside — Da quale parte si esce in questa maledetta casa?

La Portinaia (sollecita) — Da questa parte... (Si avvia).

Il Possidente — Un momento! Io non ci vedo chiaro in questa storia... Niente affatto. (Gli altri si fermano).

La vedova Baran — Che cosa non è chiaro?

Il Possidente (con fare circospetto) — Per conto mio, il nostro uomo ha cambiato un po' troppo rapidamente...

Goss (sogghigna) — Eh, si capisce!

Il Possidente — Eh, no! Quando ha cominciato a raccontare era sincero. Sincero e convinto... Io queste cose le sento a naso... Non è forse così?

Il Preside — A dire il vero anch'io ho avuto la stessa impressione... Un cambiamento troppo repen­tino... E poi, avete notato il suo imbarazzo quando è venuto su in terrazza?

Fulvia — Crede che abbia mentito di proposito?

Il Possidente — Eh, eh! Proprio così. Di pro­posito. Ho una mezza idea...

La vedova Baran — Cioè?

Il Possidente — La moglie, che non è  una stupida, deve avergli imposto di tacere. La ragione non è  chiara,  ma è  questa.

Il Preside — Bravo! Bravo! La moglie lo ha costretto...

Il Possidente — Eh, ma non ce la fanno mica, quei due! Sapete cosa vi dico? Che se gli offriamo di mettersi in società con noi lui ci darà le prove...

La Portinaia (riluttante) — Ma allora quanti saremo in società? Se ci sarà qualcosa da spartire avanzeranno le briciole...

Il Possidente (ottimista) — Eh, via! Si vede che lei non ha ancora capito cosa può saltar fuori da un fatto del genere... Del resto, o prendere o lasciare... Se vogliamo le prove non c'è altro mezzo...

La vedova Baran — Va bene. Ma il divano non si tocca, eh? Patrimonio della società.

Il Possidente  — D'accordo.   Sst!   Sst!  Eccolo.

Andrea (entra da destra. Mansueto e triste, si sta abbottonando la giacca. Tutti lo fissano ed egli guarda quella  gente  miserevolmente  imbarazzato  e   tenta   un pallido sorriso) — Chiedo scusa...

Il Possidente (gioviale) — Oh, per carità!... Siamo noi che chiediamo scusa... Ma ci siamo trat­tenuti proprio per... per avere il piacere di discorrere con lei... (Tutti fanno grandi cenni di assenso col capo) Io  ho una mezza proposta da farle...

La vedova Baran (soave) — Ma lei, ragioniere, non sta molto bene... È pallido... Si sieda, si sieda...

Andrea — Grazie. (Fa per sedersi sul divano, ma il  possidente lo ferma in tempo).

Il Possidente — No, non lì, non lì... Se non le dispiace... Qui. (Lo accompagna in poltrona e lo fa sedere)  Così.

Il Preside (benevolo) — Un disturbo passeggero, immagino...

Andrea (con un mite sorriso) — Oh, no...

Fulvia — Si tratta di una cosa grave?Quanto mi dispiace!

(Da destra il medico, che attraversa ra­pidamente la scena nel fondo ed esce, rispondendo con un cenno del capo ai brevi saluti a soggetto dei presenti. Dopo un momento)

La Portinaia — Ma il medico, il medico che ha detto?

Andrea (rassegnato) — Il medico dice che ci vorrà un po' di tempo... È una forma acuta di nevrastenia... Le manifestazioni morbose sono molto chiare... I fenomeni...

Goss (sollecito) — Quali, quali fenomeni!

Andrea (sconsolato, fissando il vuoto avanti a sé) — Quando uno vede delle cose che altri non vedono... allora è malato...

(Tutti, che erano chini su Andrea, alzano il capo e si guardano con improvviso sospetto).

Il Preside — Che cosa dice? Ma lei, però, ha visto ! Ha «veramente» visto.

Andrea (scuote il capo) — No. Non ho mai visto niente... Mi sono illuso d'aver visto... Il medico mi ha spiegato bene di che si tratta...

Il Preside (indignato) — Oh! Questo poi! Capite? Abbiamo perduto il nostro tempo per un visionario! (Al possidente) Solo un sempliciotto come lei poteva cascarci!

Il Possidente — Sentitelo! Perché, lei porta la sua scienza come una corazza, vero? Però era pronto a scrivere la poesia!

Il Preside — E lei non voleva forse mettere su un albergo? (Ironico) Costruire un albergo sulla vi­sione di un malato! Speculazione, ecco! Sporca speculazione!

Il Possidente — Guardi come parla! (Si lancia contro il preside, minaccioso).

Goss (interviene) — Signori, prego! Calma.

Il Preside (fremente) — Io me ne vado. (A Goss) E se posso darle un consiglio, signor Goss, faccia che il suo giornale non si occupi più di questa ridicola storia!  (Esce, rigido, sostenuto).

Goss (mentre esce, al possidente) — E lei che cosa fa adesso?

Il Possidente — Oh, se permette vengo con lei per mettere quell'avviso sul giornale... Un buon affare spero di combinarlo ugualmente... (Escono assieme).

La vedova Baran (alla signora Fulvia) — Andiamo, andiamo... (Le due donne escono in fretta).

La Portinaia (fa per uscire, poi torna indietro si china su Andrea che è rimasto seduto, immobile, insensibile e dice con cattiveria) — E lei, ragioniere, mi faccia il piacere di provvedere entro domani a sgombrare quei mattoni che sono giù in cortile... Altrimenti glieli butto in mezzo alla strada... (Esce, sostenuta).

Andrea (è triste, angosciato. Sesta seduto, come se    cercasse   Dio,    con   lo   sguardo   volto   in   alto. Le sue labbra pronunziano parole che, dapprima non si odono e che poi diventano distinte) — Dove sei? Dove sei, Signore? Perché non vieni da me, ora? Ah, capisco. Sei in collera con me. Sei in col­lera perché ti ho rinnegato... Sono stato vile... Ti aspettavi ben altro da me, vero? E invece, vedi? Non c'è nulla da fare.... Mi è mancato il coraggio... Mi sono arreso. Ma tu sai come vanno le cose quaggiù... tu lo vedi... Da ieri sera tutto è andato a rotoli... Mia figlia ha rotto il fidanzamento... Il mio ragazzo non potrà dare gli esami... Il piccolo ha ricevuto una sassata in fronte... Io perdo l'impiego, la famiglia, tutto quello che avevo... Non so proprio come fare... Vedi bene che è difficile essere tuoi amici... (Una pausa. Poi, con improvvisa speranza supplichevole) Ma se tu vuoi, Signore, se vuoi darmi una nuova prova della tua pazienza, vieni ancora a trovarmi... Ci vedremo di nascosto, però... qualche volta, di tanto in tanto... (Col pianto nella voce) Lo sapremo noi due soli... Tu e io... (È scivolato in ginocchio, affranto).

Anna (entra da destra. È senza soprabito. Guarda suo marito, sorpresa) — Andrea!

Andrea (Si riscuote goffamente. Per darsi un con­tegno tasta il pavimento con le mani, sorride).

Anna (gli si avvicina, lo guarda) — Ma che fai, Andrea?

Andrea (sorridendo, imbarazzato) — Cerco... cerco gli occhiali...

Anna (ride) — Ma eccoli qui sul tavolino! (Gli porge gli occhiali).

Andrea — Ah, sono qui... (Si rialza) Grazie... Grazie, cara...

Anna (sorride, contenta) — Il medico mi ha dato il certificato, finalmente... Sei stato proprio ragione­vole, caro... (Con un sospiro di sollievo lo stringe a sé teneramente) Per fortuna! E magari ti daranno anche qualche giorno di riposo per curarti... Non poteva andar meglio...

Andrea — Sì, cara, sì... (Sospira) Non poteva andar meglio... (Con amarezza) Approfitterò di questi giorni, prima di tornare al lavoro, per demolire la torre... È pericolosa per il pollaio della nostra vicina...

F I N E

Questa commedia ha vinto il «Premio Sanremo» 1948.

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