L’Alcade di Zalamea

Stampa questo copione

L’Alcade di Zalamea

Commedia in tre giornate di  P. CALDERON DE LA BARCA

TRADUZIONE DALLO SPAGNOLO

RIDUZIONE E ADATTAMENTO SCENICO DI RAFFAELLO MELANI

PERSONAGGI

FILIPPO II, Re di Spagna

PIETRO CRESPO, ricco campagnolo e poi Alcàde

JUAN, figlio di Crespo

ISABELLA, figlia di Crespo

INES

LA CHISPA

DON LOPE DI FIGUERROA, vec­chio generale

DON ALVARO DI ATAIDE,capitano

REBOLLEDO

SERGENTE

DON MENDO

NUNO

CANCELLIERE

Seguito del Re - Soldati – Contadini

Nota - Qualora non si disponga di un pal­coscenico girevole, o non si abbia la possibi­lità di rapidi mutamenti, l'azione della com­media, anziché nei diversi quadri indicati per ciascuna delle tre giornate, potrà svolgersi:

Per la prima giornata, in un'unica scena, così configurata e disposta:

La strada di Zalamca passa attraverso le Case di Pietro Crespo da un arco, che si apre a sinistra in primo piano, posto, alquan­to in obliquo, tra il proscenio e un primo fab­bricato con cui ja angolo, e sbocca nella cam­pagna verso il Villaggio per un altro grande arco, aperto nel fondo, un poco a destra, tra detto primo fabbricalo e un altro corpo di casamento situato più a man dritta. Di que­sto casamento è visibile un lato di prospetto, cioè, parallelo al proscenio; e, perpendicolare al proscenio, un altro lato su cui è la porta della consueta residenza di Pietro Crespo. Su questo stesso lato, ma più indietro, una finestra con inferriata curva. I due corpi di fabbrica sono congiunti mediante un piano di stanze costruite sopra i detti archi, di cui formano come il coronamento. Attraverso gli archi si vedono campi e colline; da quello del fondo appare il Villaggio di Zalamca.

Le stanze di Isabella son poste al piano su­periore del primo fabbricato, con due porte-finestre che danno su una terrazza sorretta da un portico, rivolta un poco verso il pro­scenio. Appoggiata al lato destro del portico.

una scala sale alla terrazza e, attraverso un ballatoio, immette per una porta nel corpo del fabbricato. Da questa porta entra Rebolledo. poi il Capitano. Isabella e Ines escono dalle loro stanze sulla terrazza, su cui irromperà Rebolledo e, dietro a lui, il Capitano. Juan  e Crespo entrano, e rimangono giù. Al primo risentirsi di Juan il Capitano scende e, subito dopo, anche gli altri; per modo che, con l'en­trata di Don Lope, l'azione di questa prima giornata si conclude nella strada.

Per la seconda giornata, i tre quadri sono necessari, e rimarranno immutati.

Per la terza giornata, i quadri l e II po­tranno raccogliersi in un'unica scena che rappresenti una Foresta nella quale da un lato, a sinistra, scenda, o monti verso il prò-scento una strada. Su questa strada avverrà l'incontro del Cancelliere cori Pietro Cre­spo e Isabella.

Il quadro III e IV, potranno esser ridotti ad uno solo, adottando una scena che rappre­senti un luogo presso il villaggio di Zalamca. A destra e alquanto indietro, un lato poste­riore delle Case di Pietro Crespo, con parti rozze e irregolari, finestre, porte, scale. Nel fondo la campagna. A sinistra, un vecchio edificio, con stanza terrena visibile e con da­vanti una tettoia su pilastri, chiusa ad altez­za d'uomo, sul lato perpendicolare al pro­scenio e su quello posteriore da un impalcato. Il lato anteriore e aperto per lasciare vedere, come in sezione, l'interno sotto la tettoia e, da questa, per una grande porta rustica, la stanza in cui si è rifugiato il Capitano.

La scena del V quadro - Piazza Pubblica - rimarrà immutata.

PRIMA GIORNATA

Una via che conduce a Zalamea.

SCENA I

Rebolledo, la Chispa e una Compagnia di Soldati.

Rebolledo            - Giuraddio! A chi mai è venuta in testa Pidea di sballottarci così da un capo all'altro senza darci neppure il tempo di fare una bevuta.

Tutti                     - Amen!

Rebolledo            - Tramenarci così come zingari! Una bandiera arrotolata, e un triste tamburo ci fanno marciare.

I" soldato             - Non ricominciare, Rebolledo.

Rebolledo            - Maledetto tamburo! Non ci ha dato tregua fin qui. L'ho nel cervello.

II" soldato           - Via, dimentichiamo la fatica, giacché siamo quasi arrivati a Zalamca.

 Rebolledo           - Sì, sì... ma io sono morto, e poi, se anche mi basterà il fiato d'arrivare fin là, lo sai tu se ci si potrà fermare? Già mi par di sentirli questi alcadi. Tutto, tutto quello di cui abbisogna daremo alla com­pagnia... ma a una condizione però... che se ne vada. Impossibile! Impossibile! dirà il Commissario... scnonchc, non appena gli Alcadi allentino un po' la borsa... lo vuoi vedere il Commissario girare il tacco, e gridarci: Ordine di non fermarsi, signori soldati. March! Si prosegue! E noi dietro, come tante pecore! Vi assicuro però che se non ci si ferma a Zalamea, il signor Commissario marcerà senza di me. Non ci metto molto a fare il matto, e non è la prima volta in vita mia.

111° soldato        - E non sarà la prima volta che un fatto come codesto sarà costato la vita a un povero soldato.

1° soldato            - Se si pensa, poi, che il nostro co­mandante è Don Lope di Figuerroa.

111° soldato        - Un uomo famoso per il suo valore.

P soldato             - Sì, ma anche una pelle per Cri­sto, che non la perdonerebbe neppure a suo padre.

IIP soldato          - E non ci mette nulla a mandare all'altro mondo un cristiano senza scritte né processo.

Rebolledo            - Sia come ti pare. Voi mi avete inteso. Quel che ho detto, lo farò.

IP soldato            - È questo un parlare da soldato?

Rebolledo            - È un parlare... Ma non è tanto per me, vedete, che parlo, di me poco m'importa, quanto per questa ragazzotta che mi segue.

Chispa                 - Perché volete prendervi pensiero di me, Rebolledo? Voi lo sapete, io ci ho tanto di setole sul cuore! O che credete che sia venuta con la truppa solo per servirla? E non anche per l'onore di dividerne le fatiche e gli stenti? Se avessi voluto goder­mi la vita comoda, non avrei lasciata la casa del signor Assessore, piena d'ogni ben di Dio e dove, specialmente durante il mese che resta in carica, piovono regali da ogni parte, e ci si tiene corte bandita. Invece ho preferito venir con voi; a marciare e a patire con Rebolledo. E mi ci sono risolta senza storie. Ora perché vuoi dar­tene pensiero, Rebolledo?

Rebolledo            - Chispa! Chispa! Sei la perla delle donne.

P soldato             - Viva la Chispa! Viva!

Tutti                     - Viva!

Rebolledo            - Viva! Ma ora, per sollevarci un po' dalia fatica della marcia, lei ci deve cantare una bella canzone.

P soldato             - Bene. Viva!

Chispa                 - Se non volete altro, le mie nacchere vi rispondono. La mìa passione è cantare. O non c'è chi piange per nulla? Io di un nulla, invece, canto!

Tutti                     - Brava!

Rebolledo            - Un momento! Non da sola, pe­rò. Io canterò con te, e i nostri camerati giudicheranno chi di noi due canta meglio.

P soldato             - Bene! Approvato! (Rebolledo e la Chispa cantano).

Chispa                 - Io son titiri titiritina Fior della jocaracandina.

Rebolledo            - Io son titiritaina Fior della jacaracandaina.

Chispa                 - Che vada alla guerra l'alfèrc, S'imbarchi, per via, il capitan.

Rebolledo            - Ne ammazzi di Mori chi vuole, che a me non han fatto del mal.

Chispa                 - Vada e venga la pala al forno, ed a me, mai non manchi del pan.

Rebolledo            - Voi, su ostessa, ammazzatemi che la pecora, ahimè, mi fa mal. [un pollo;

 P soldato            - Brava la Chispa! Bravo Rebol­ledo! Con questa canzone si andava così ben d'accordo, che quasi mi rincresce di vedere spuntare il campanile di Zalamea.

Rbolledo              - Come?! Quella e Zalamea?!

Chispa                 - Il campanile è quello!

Rebolledo            - Alt! Camerati! Aspettiamo qui il sergente con gli ordini per sentire se si deve entrare in Zalamea marciando in­quadrati.

P soldato             - P. già qui, guarda. Ma anche il capitano non stara molto.

SCENA II

Il Capitano, il Sergente e detti.

Capitano              - Una buona notizia, ragazzi. Ci fermiamo a Zalamea fino a che non ar­rivi Don Lope con la gente che fu lasciata a Liercna. C'è ordine di riunire tutte le compagnie, e di non ripartire per Guade-lupa se non quando tutto il reggimento sia radunato. Potremo così riposarci per qual­che giorno.

Rebolledo            - Questa è veramente una buona notizia. Viva il nostro capitano!

Tutti                     - Viva!

Capitano              - Gli alloggiamenti son pronti. Il Commissario distribuirà i biglietti. Anda­te pure, ragazzi. (i soldati escono can­tando).

SCENA III

Capitano              - Sergente, hai il mio biglietto d'alloggio?

Sergente              - Sì, capitano.

Capitano              - Dove sono alloggiato?

Sergente              - Nella casa di un ricco campagno­lo, il più ricco del paese, e fiero più di un Infante di Castiglia.

Capitano              - Villano ricco! Presunzione e bo­ria! È sempre così.

Sergente              - La casa migliore del paese, dico­no; ma in verità, io l'ho scelta per voi, signor capitano, solo perché c'è una bella ragazza, la più Mia di Zalamea.

Capitano              - In parola! Chi è?

Sergente              - Credo sua figlia.

Capitano              - Per bella e orgogliosa che sia, che sarà, se non una villanotta. Chissà che mani e che piedi!

Sergente              - Codesto poi... non si può tlirc...

Capitano              - Perché no? Via, sciocco!

Sergente              - Ad ogni modo per chi non ha malinconie per il capo, e vuole divertirsi, nulla di meglio di una bella villanotta, sempliciotta, che, se gli parli non sa nean­che risponderti?...

Capitano              - È un genere codesto che non mi ha mai attirato, neppure, così... per passatempo. Una donna se non è garbata e messa con gusto, per me non è una donna.

Sergente              - Una donna, è sempre una donna, signor capitano. Almeno per me. Voglia­mo andare? Vuol dire che me la vedrò io con la bella!

Capitano              - No, aspetta! Vieni qua... che ru­more è questo?

 Sergente             - È un uomo che scende da un ronzino alla svolta della strada. Che tipo! Sembra Don Chisciotte del signor Michele Cervantes.

Capitano              - Ha un aspetto nobile, però!

Sergente              - È tempo di andare, signor capi­tano. Andiamo...

Capitano              - Va! va! Portami prima a casa il bagaglio e, quando là è tutto pronto, vie­ni ad avvertirmi.

SCENA IV

All'entrata di Zalamea. La casa di Pietro Crespo a destra. Don Mendo, nobiluccio ridicolo, e Nuno.

Mendo                 - Come sta il mio cavallo?

Nuno                   - Si regge male in gambe.

Mendo                 - Hai detto al mio valletto di pas­seggiarlo un po'?

Nuno                   - Passeggiarlo? Dategli un po' di ave­na, piuttosto.

Mendo                 - Eppure non c'è cosa che più riposi un cavallo.

Nuno                   - Io son per l'avena.

Mendo                 - Nuno, che ore sono?

Nuno                   - Le tre passate, e non si parla anco­ra di...

Mendo                 - Nuno, hai fame? Ohibò, quanto a me... I miei guanti... e uno stuzzicadenti!

Nuno                   - Non la date ad intendere a nessuno. Codesto stuzzicadenti è falso!

Mendo                 - Come! Se qualcuno si ardisce di pensare che stamani a colazione non ho mangiato un fagiano, qui, o dove più gli piaccia, gli sosterrò che mente per la gola!

Nuno                   - Sarebbe meglio sostenere un po' me, che vi servo.

Mendo                 - Sciocchezze. Ma dimmi un po' Nu­no. È vero che sono arrivate delle truppe in paese?

Nuno                   - Sì, signore.

Mendo                 - Poveri villani. Con questa sorta di ospiti; la va male a costoro. E benedetta l'anima di mio padre che mi lasciò un tì­tolo di nobiltà e un'arme campita d'oro e azzurro, in virtù della quale tutta la mia stirpe è esente in perpetuo da simili pre­stazioni...

Nuno                   - Un po' d'oro in contanti vi avrebbe fatto più comodo.

Mendo                 - E nondimeno, no, io non debbo poi essere tanto riconoscente a mio padre di avermi generato nobile, perché d'altronde non avrei tollerato che altri che un genti­luomo, mi generasse nel ventre di mia madre.

Nuno                   - Questo, poi, è un po' difficile a ca­pirsi.

Mendo                 - Perché? Non sai tu che chi nasce è la sostanza degli alimenti di cui si sono nutriti i suoi padri. È l'alimento che si converte in carne e sangue. Se mio padre avesse mangiato delle cipolle, avvertito che io fossi dall'odore, gli avrei detto: piano, signor mio! Io non voglio essere il risulta­to di simili porcherie!

Nuno                   - Sicuro. Non c'è dubbio.

Mendo                 - Di che cosa?

Nuno                   - Non c'è dubbio. La fame assottiglia il cervello.

Mendo                 - Stolto! Ho fame io?

Nuno                   - Lasciamo andare! (sbadigliando).

Mendo                 - Nuno siamo vicini alla casa di Isa­bella.

Nuno                   - Eccoci al punto. Ma perché, scusate­mi! Dal momento che ne siete tanto inna­morato, perché non la chiedete in isposa? In questo modo ciò sarebbe compenso tra voi due. Voi avreste da desinare, e lui dei nipotini gentiluomini.

Mendo                 - Mai, no! Credi che il vile denaro potrebbe abbassarmi fino al punto da accettare per suocero un plebeo?

Nuno                   - Un plebeo, mi pare che sia un suo­cero più comodo degli altri. In fatto di ge­neri gli altri sono un pò* più difficili. Ma allora se non la volete sposare, perché vi sdilinquite tanto con lei.

Mendo                 - Sposarla! C'è bisogno di sposarla? Non ci sono conventi in Ispagna in cui la si può mettere, quando io ne sia stanco. Piuttosto, guarda un po' se si vede.

Nuno                   - Si vede o non si vede... Non vorrei che mi vedesse Pietro Crespo!

Mendo                 - Nulla può farti, essendo tu mio ser­vo. Su, via, ubbidisci. Fa ciò che ti comanda il tuo padrone.

Nuno                   - E sia... (va cautamente verso la casa) Allegro. Don Mendo! Si avvicina all'infer­riata con sua cugina Ines.

Mendo                 - Si avvicina? Dì; piuttosto, che sor­ge, come un sole coronato di diamanti, ancorché presso all'ora in cui il sole tra­monta.

SCENA V

Ines                      - Affacciati, Isabella. Vieni a vedere l'arrivo dei soldati.

Isabella                - Non mi far salire alla finestra. C'è qualcuno costì nella strada che mi dà tan­ta noia.

Ines                      - Che ostinato questo Hidalgo di volerti corteggiare in tal modo!

Isabella                - Non son nata fortunata, Ines.

Ines                      - Hai torto però a dispiacertene tanto.

Isabella                - Che dovrei fare?

Ines                      - Riderne e divertirti.

Isabella                - Bel divertimento! Mi ripugna!

Mendo                 - (avvicinandosi alla finestra) Ecco, fino a questo momento, parola di genti­luomo - inviolabile!- avrei giurato che non era ancor giorno. E, infatti, ora sol­tanto le vostre aurore nuovamente lo an­nunziano.

Isabella                - Signor Mendo. Ve l'ho già detto più volte. Voi perdete il tempo. Le vostre continue effusioni d'amore sono inutili con me.

Mendo                 - Se le donne sapessero quanto la collera, il rigore e lo sdegno le fa più belle, non vorrebbero avere altro ornamento. Siete splendida, Isabella, sull'onor mio! Ingiuriatemi, dunque, ingiuriatemi an­cora...

Isabella                - Ebbene, poiché con voi le parole non servono, passiamo ai fatti. (Si ritira dalla finestra) Vieni, Ines. Sbattigli la finestra in faccia.

Ines                      - Signor cavaliere errante che entrate in lizza come un avventuriero, senza cartello, né insegna, l'amore provveda ai casi vostri. Addio! (Chiude violentemen­te la finestra).

 Mendo                - Alle bellezze come loro, tutto è concesso.

Nuno                   - Chi nasce povero nasce disperato.

SCENA VI

Pietro Crespo e detti, poi Juan.

Crespo                 - Eccolo qua! Ma che io non debba uscire una volta di casa senza incontrare questo nobilastro a misurar la strada co­me UO fantasma.

Nuno                   - Pietro Crespo!

Mendo                 - Mettiamoci da parte. Questo vil­lano è una birba.

Crespo                 - Che m'abbia a veder sempre que­sto spettro alla porta con le sue piume e i suoi guanti?!

Nuno                   - Ed ecco Juanito, il suo figliuolo.

Crespo                 - Ah, figliuolo!

Juan                     - Padre mio!

Mendo                 - (a Nuno) Su, del contegno, non dare a divedere di essere imbarazzato, Nuno! (Esce col servo).

Crespo                 - È caparbio l'amico. Una volta o l'altra, però, mi sente.

Juan                     - Pazienza... aiutami! Di dove vieni, padre?

Crespo                 - Dall'aia del podere. Sono stato a veder trebbiare. I mucchi dei covoni, sembrano da lontano monti d'oro! Oro dì zecca, saggiato chicco per chicco dalle stelle. E tu che hai fatto figliuolo?

Juan                     - Io? Ho da dirtelo? Ho giuocato due partite alla pelota e le ho perdute tutte e due.

Crespo                 - Poco male, se hai pagato.

Juan                     - Questo è il male! Non ho pagato, perché non avevo denaro, e son venuto a chiedertene.

Crespo                 - Sta bene. Sentimi, figliuolo. Due cose, soprattutto, tu non devi mai fare: la prima e quella di non promettere mai più di quello che puoi mantenere, la se­conda, di non giocare mai più di quello che puoi mettere sul giuoco, perché, se il denaro ti manca e non puoi far fronte alla perdita, ne va della tua reputazione.

Juan                     - Consiglio degno di te, padre, e per provarti che ne fo conto vo’ ricambiartelo! Non dar mai consigli a chi ti do­manda dei quattrini!

Crespo                 - Ho capito. Mica male il giovanotto!

SCENA VII

Sergente              - (entrando col bagaglio del Capita­no) E’ questa la casa di Pietro Crespo?

Crespo                 - Sì, che cosa desiderate? Crespo son io!

Sergente              - Porto la roba di Don Alvaro di Ataide, il capitano della Compagnia che si ferma qui a Zalamca.

Crespo                 - Ho inteso. Non c'è bisogno di dir­mi altro. La mia casa e tutto quello che ho è al servizio del Re, nella persona dei suoi ufficiali. Lasciate pure il bagaglio, mentre noi andiamo a preparare le stanze. Dite al signor capitano che può venire quando vuole, e disporre liberamente di noi.

Sergente              - Sarà qui fra poco. (Esce).

Juan                     - Ma perché, babbo, ricco come sei, ti rassegni ancora a subire l'obbligo dell'al­loggio militare, in casa tua?

Crespo                 - Come sottrarvisi?

Juan                     - Vedi di procurarti un brevetto di no­biltà.

Crespo                 - Tu credi che con questo? C'è for­se qualcuno qui che non sappia che son nato contadino? No, figliuolo. Non vo­glio onori posticci. I miei vecchi erano contadini, i miei figliuoli lo saranno co­me me. Chiama tua sorella.

Juan                     - È qui.

SCENA VIII

Isabella                - Padre.

Crespo                 - Figlia mia. Il Re, nostro signore, che il Cielo lo conservi mille anni, si reca a Lisbona per ricevere la corona come so­vrano legittimo del Portogallo; e le trup­pe sono in marcia per prender parte alla parata dell'incoronazione... Il glorioso vecchio « Tcrcio » passa in Castiglia al comando di Don Lopc di Figueroa, il Marte della Spagna. Oggi debbon venire in casa nostra dei soldati, ed e bene che tu non ti faccia vedere. Ritirati, dunque, su in quelle stanze, dove prima stavo io.

Isabella                - Proprio questo venivo a chiederti, padre. So che restando qui, mi toccherebbe sentire dei discorsi poco convenienti. Io e mia cugina, staremo in quest'altro quartiere dove nessuno ci vedrà, nem­meno il sole.

Crespo                 - Va dunque, e che Dio ti benedica. Tu, Juanito, rimani qui a ricevere gli ospiti, mentre io vo' in paese a far delle provviste, perché voglio trattarli come si deve.

Isabella                - Andiamo, Ines.

Ines                      - Andiamo. (Escono).

SCENA IX

Il Capitano, il Sergente e Juan.

Sergente              - Ecco la casa Capitano.

Capitano              - Il bagaglio è a posto?

Sergente              - Signorsì. (Piano al Capitano) Ora a vedere dov'è la bella (Esce).

Juan                     - Ben venuto in questa casa, signor capitano. Siamo lieti cii aver per ospite un così nobile cavaliere. Com'è elegante e fiero! Oh potessi anch'io vestire la divisa!

Capitano              - Sono felice d'incontrarvi.

Juan                     - Vogliate scusarci se il quartiere non è troppo elegante. Mio padre vorrebbe che fosse un Alcazar oggi questa casa, per potervi ricevere degnamente. Esso è uscito a far delle provviste, perché vuol trattarvi come si addice a un vostro pari. Permettete, vado a vedere se le vostre stanze sono in ordine.

Capitano              - Molto grato di questa gentile accoglienza.

SCENA X

Il Capitano ed il Sergente.

Capitano              - (al Sergente che ritorna) Ebbe­ne, l'hai veduta?

Sergente              - Vivaddio; No! Ho girato totte le stanze dal salotto alla cucina, ma lei non l'ho vista.

Capitano              - Il vecchio l'ha messa al sicuro.

Sergente              - Infatti, la serva mi ha detto che il padrone l'ha fatta passare in quest'altro quartiere con l'ordine di non scender qui. Il vecchio non si fida!

Capitano              - Diffidente e maligno come tutti i villani. Probabilmente, se l'avessi davanti, questa sua figliuola, non mi fareb­be nessun effetto. Ma proprio perché la tiene nascosta, mi vien una voglia matta di vederla. Come fare?

Sergente              - Come fare? Che pretesto tro-trovare per salir su, da quella parte?

Capitano              - Eppure, è un capriccio che bi­sogna mi levi. Un espediente ci vuole... Quale?

Sergente              - Quale? Sia come sia, anche se avventato. Farà più effetto.

Capitano              - Un'idea! Stai a sentire.

Sergente              - Dite.

Capitano              - Ecco, tu devi far le viste di... Ma no, aspetta, c'è qui un soldato che è più svelto di te. Per ciò che ho pensa­to, questo qui va a meraviglia.

SCENA XI

Rebolledo, la Chispa e detti.

Rebollhdo            - Ne voglio parlare al capitano. Vediamo se una volta tanto ho fortuna.

Chispa                 - Fa di parlargli con bel garbo, non come sempre da quello stravagante e sven­tato che sei.

Rebollkdo            - Prestami la tua saggezza.

Chispa                 - Non ti sarebbe inutile, poca o mol­la che sia.

Capitano              - Che c'è Rcbolledo?

Rebolledo            - Via, tu resta qui, mentre io parlo con lui. (Si avanza verso il Capi­tano) Capitano, vengo a chiedervi una grazia.

Capitano              - Sentiamo! Che cosa si può fare per il nostro Rebolledo, a cui voglio tan­to bene, perché è un bravo ragazzo pieno di coraggio e di brio.

Sergente              - Sì, è un buon soldato.

Capitano              - Dunque, parla, di che si tratta?

Rebolledo            - Signor capitano, ho perduto tutto il mio denaro, tutto quello che ho, tutto quello che avevo, e tutto quello che avrò! Povero in canna, dunque, al presente, al passato, al futuro! Ora io vi supplico, che per questi pochi giorni di tappa che si fa qui...

Capitano              - Avanti!

Rebolledo            - Il signor tenente mi permetta di tener per la compagnia il giochino del­le biglie. Ho molti debiti, ma sono un galantuomo.

Capitano              - Sta bene, Rebolledo; farò dire al tenente che te lo permetta.

Rebolledo            - (correndo allegramente ad ab­bracciare la Chispa) Il capitano accon­sente!

Chispa                 - Al gioco del « bolichéro », viva!

Rebolledo            - Grazie, capitano, vo' subito a dirglielo...

Capitano              - Un momento: senti.

Rebolledo            - Dite!

.Capitano             - Vorrei potermi fidare di te per una certa cosa che ho pensato.

 Rebollkdo           - Son qua. Più presto me lo dite, e più presto sarà fatto, capitano!

Capitano              - Ecco, io vorrei salire su, in quel quartiere per vedere se c'è una persona che mi si vuole tenere nascosta.

Rebollkdo            - Bene. E perché non salite?

Capitano              - Perché mi ci vorrebbe un motivo plausibile. Ma si può far così. Senti, tu alzerai la voce. Io farò vista di andare in collera con te, sguainerò la spada, e tu fuggirai impaurito per quella scala; e, per salvarti, entrerai su in quella stan­za dov'è quella persona.

Rebollkdo            - Niente altro? So quanto basta.

Chispa                 - Il capitano parla in confidenza con Rebolledo. L'affare è fatto.

Rebolledo            - Ah, sì, capitano. È così che mi rispondete? Vivaddio! Dei ladri, dei conigli, delle talpe lo hanno avuto; e ora, perché lo chiedo io, lo chiede un galan­tuomo, mi si nega!

Chispa                 - Ricomincia a fare il pazzo!

Capitano              - Che modo è questo? A me osa­te parlare con questo tono?

Rebollkdo            - Che tono! che tono!... Ho ra­gione, e parlo come parlo.

Capitano              - Che ragione? Fate silenzio! E ringrazia Dio, se lascerò passare impunita un'insolenza simile.

Rebolledo            - Voi siete il capitano e debbo tacere. Ma per Dio, se avessi la mia ben­gala lo vedreste.

Capitano              - (mettendo mano alla spada) La tua « bengala »! Che dici! Che faresti?

Chispa                 - (accorrendo) Per carità calmatevi signore! Lo vedo morto! Lo vedo morto!

Rebolledo            - Allora mi parlereste, vi giuro, in altra maniera!

Capitano              - Basta, per Dio! Vo' finire que­sto insolente (muovendo verso di luì).

Rebolledo            - Io fuggo, sì, fuggo; ma solo [>er rispetto ilei grado.

Capitano              - Tu non mi scapperai marrano. Dovunque tu fugga, io ti raggiungerò. (Lo insegue).

Chispa                 - Ha finito di farne delle sue per sempre! Disgraziato!

Sergente              - Signor capitano! Signor capitano!

Chispa                 - Per carità, signore, ascoltatemi.

Capitano              - Via di mezzo! (Con la spada in pugno rincorre Rebolledo su per la sca­la laterale di sinistra. Sopraggiunge Juan anch'esso armato di spada, poi, Pietro Crespo).

Sergente              - Signor capitano! Signor capitano!

Chispa                 - Disgraziato! Addio il biliardino!

SCENA XII

Juan, Crespo, la Chispa.

Juan                     - Gente accorrete! Olà tutti qui! (ac­corre la gente di casa e alcuni campagnoli).

Crespo                 - (entrando) Che succede?

Juan                     - Che c'è?

Chispa                 - Il capitano ha sguainato la spada contro un soldato e l'ha inseguito per quella scala.

Crespo                 - Disdetta!

Chispa                 - Corretegli dietro voi. Impedite che lo uccida!

 Juan                    - È inutile. Si son volute tenere na­scoste... ed ecco qua...

SCENA XIII

Stanza al primo piano, nel quartiere di Isabella.

(Rebolledo fuggendo s'incontra con Isabel­la e Ines. Entrano poi, il Capitano e il Sergente).

Rebollkdo            - (entrando) Aiuto!

Isabella                - Chi siete voi? Chi vi fa fuggire?

Rebolledo            - Dove nascondermi?

Ines                      - Come ardite di venire quassù?

Isabella                - (a Rebolledo) Chi v'insegue? (ilCapitano seguito dal Sergente entra­no da sinistra).

Capitano              - Io! Voglio ammazzare questo insolente.

Isabella                - Calmatevi, signor capitano, se non per altro perche quest'uomo si è rifugiato da me. Gli uomini del vostro ran­go sanno rispettare le donne. Ad un gen­tiluomo, quale voi siete, ciò deve bastare.

Capitano              - È giusto. Costui infatti ha tro­vato il solo rifugio che poteva sottrarlo alla mia collera. Alla vostra bellezza, si­gnora, egli deve la vita.

Isabella                - Noi siamo molto onorate della vostra cortesia, capitano; ma di grazia, perdonate a questo povero soldato, e non vogliate che al debito contratto verso voi, non si debba corrispondere più che con la nostra riconoscenza.

Capitano              - Pari alla vostra bellezza, signo­ra, è il vostro spirito. Bellezza e discre­zione si congiungono in voi mirabilmente.

SCENA XIV

Crespo e Juan con le spade in pugno.

Crespo                 - Cavaliere! Come va questa cosa? lo credevo di trovarvi qui sul punto di uccidere un uomo, e vi sorprendo invece...

Juan                     - Ah, per Dio!

Crespo                 - A far dei complimenti a una ra­gazza. Non c'è dubbio. La vostra nobil­tà è magnanima. La collera vi passa presto.

Capitano              - Un gentiluomo non può man­care ai suoi doveri, e per rispetto di que­sta gentile damigella, ho dovuto frenare il mio risentimento.

Crespo                 - È mia figlia, signore. Una modesta campagnola, non una damigella.

Juan                     - Giuro al cielo che questo non è stato se non un pretesto per venir quassù. Un tale inganno mi umilia e non lo subirò. Signor capitano, voi avreste dovuto ap­prezzare meglio la buona volontà di mio padre nel servirvi, e non fargli un simile affronto.

Crespo                 - Ehi! Chi vi ha chiamato voi, giovinotto? Di che affronto parlate? Se quel soldato gli mancò di rispetto, il signor capitano era in dovere di raggiungerlo per rimetterlo a posto. Ora mia figlia fa gran conto, signore, del favore che le avete fat­to perdonando a costui, ed io, altrettan­to del riguardo che avete avuto per lei.

Capitano              - Nessun altro motivo, infatti, mi avrebbe spinto. (A Juan) Ma, comunque, voi misurate le vostre parole!

Juan                     - Non mi si dà ad intendere? Ho visto bene!

Crespo                 - Come osi affermare?

Capitano              - Cioè! Come sarebbe? Osereste smentirmi? Ringraziate Dio che c'è vo­stro padre presente, giovinetto, che in caso diverso saprei come trattarvi.

Crespo                 - Piano, signor capitano. Questi è mio figlio, ed io soltanto posso trattarlo come meglio credo.

Juan                     - Tutto infatti, potrei sopportare da mio padre, ma non da altri.

Capitano              - Che sapreste fare?

Juan                     - Difendere il mio onore, a costo della vita.

Capitano              - Che impudenza! L'onore! L'ono­re di un villano!...

Juan                     - Vale quanto il vostro! E ricordatevi che non ci sarebbero dei gentiluomini al mondo se non ci fossero degli onorati lavoratori.

Capitano              - Ah, per Dio, voi stancate la mia pazienza. (Juan e il Capitano sguainano la spada).

Chispa                 - Santo cielo!

Crespo                 - Fermi, son qui io.

Rebolledo            - Olà! Le cose si mettono male.

Chispa                 - Qua, soldati, soldati.

Rebolledo            - Occhio alla penna! Ce Don Lope!

SCENA XV

Don Lope in ricco costume e bengala. Soldati. Un tamburo e detti.

Don Lope            - Che succede? Appena arrivo, la prima cosa che incontro è una lite.

Capitano              - Don Lope arriva in un brutto momento.

Crespo                 - (tra sé) Teneva testa a tutti il gio­vanotto!

Don Lope            - Insomma, di che si tratta? Che è avvenuto? Giuraddio, parlate, o vi fo scaraventar via tutti quanti siete, uomini, donne e servitori. Dunque, non basta che mi sia trascinato fin quassù con questa gamba maledetta, vada al diavolo anche essa, e non riesca a sapere che cosa è av­venuto?

Crespo                 - (dopo un silenzio) Niente signor generale.

 Don Lope           - Come niente? Parlate, e ditemi la verità. Presto!

Capitano              - Generale, in questa casa dove ho avuto alloggio, un soldato...

Don Lope            - Avanti.

Capitano              - Un soldato ha osato mancarmi di rispetto, tanto che do dovuto sguaina­re la spada. Io ho dovuto inseguirlo fin qui, dove ho trovato queste due campagnole, e questi due, il padre, non so be­ne... e il fratello che si sono risentiti e...

Don Lope            - Sta bene! Arrivo a punto. Cia­scuno avrà il fatto suo. Chi è questo sol­dato che ha costretto il suo capitano a sfoderare la spada?

Rebolledo            - Sta a vedere che la pago io per tutti.

Isabella                - Questo, signor generale, entrò qui per primo.

Don Lope            - Due tratti di corda!

Rebolledo            - Due... di che cosa, signore!

Don Lope            - Di corda!

Rebolledo            - Signor generale, non li merito.

Chispa                 - Questa volta me lo storpiano.

Capitano              - Rebolledo, taci. Penserò io a salvarti.

Rebolledo            - Tacere! Ah no! Che, se non parlo, mi legano con le braccia dietro la schiena come un malfattore. Non tacerò. Fu il capitano, signor generale, che mi comandò di fingere un alterco per avere la scusa di entrare in queste stanze.

Capitano              - Rebolledo!

Rebolledo            - È vero, signor generale!

Ciiispa                 - P, vero!

Don Lope            - Fate silenzio! (Pausa).

Crespo                 - Come vedete, generale, avevamo ragione.

Don Lope            - Torto, avevate, torto! Avete rischiato di mettere in subbuglio tutto il villaggio. Tamburo, all'ordine! Che tutti i soldati rientrino all'accampamento e che nessuno lasci la propria compagnia, pena la morte! E voi, capitano, perché non ab­biate a spartir più nulla con costui, cer­catevi un altro alloggio. Questo lo pren­do per me, e lo terrò fino a tanto che non dovremo partire per la Guadelupa, dove il re è già arrivato.

Capitano              - Obbedisco, generale. (Escono il Capitano, il Sergente, la Chispa e Rebolledo. Rullo di tamburo).

Don Lope            - Tutti via!

Crespo                 - (a Isabella e Ines) Voi ritiratevi.

SCENA XVI

Crespo e Don Lope.

Crespo                 - Signor generale, vi ringrazio. Voi mi avete salvato la vita ponendo fine a questo disgraziato incidente.

Don Lope            - Salvato!... Che cosa? Che in­tendete dire?

Crespo                 - La vita, dico; perche so quello che mi sarebbe toccato levando di mezzo costui.

Don Lope            - Torre di mezzo? Vivaddio! Costui... è un capitano, lo sapete?

Crespo                 - Fosse pure un generale, lo avrei ammazzato lo stesso, se mi avesse offeso.

Don Lope            - Come? Se qualcuno si azzar­dasse a toccare un pelo del cappotto a uno dei miei soldati, vivaddio!, lo farei impiccare.

Crespo                 - E io, vivaddio!, se qualcuno si arrischiasse di toccarmi comunque nel­l'onore lo impiccherei da me.

Don Lope            - Come sarebbe? Nella vostra condizione voi siete obbligato a soppor­tare certi inconvenienti. Ricordatelo.

Crespo                 - Obbligato a pagare, se occorre, con tutto il mio avere. Ma col mio onore no! Noi dobbiamo al re tutto quello che ab­biamo, la vita anche. Ma l'onore è l'ani­ma nostra, signor generale, e l'anima è di Dio soltanto.

Don Lope            - Vivaddio!...

Crespo                 - Eh!

Don Lope            - Credo che abbiate ragione.

Crespo                 - Meno male. Io ho sempre avuto ragione.

Don Lope            - Ora sono stanco, e questa gam­ba che m'ha dato il diavolo ha bisogno di riposo.

Crespo                 - Ebbene, poiché il diavolo ha dato anche a me una camera e un letto, ve li posso offrire.

Don Lope            - Un letto, naturalmente, rifatto alla maledetta.

Crespo                 - Appunto.

Don Lope            - Ebbene, voglio andare a disfar­lo, perché vivaddio, sono stanco.

Crespo                 - Venite dunque a riposarvi. Vi­vaddio!...

Don Lope            - È testardo il villano. Bestem­mia come me!

Crespo                 - Bizzarro, il nostro Don Lope! Non andremo d'accordo.

FINE DELLA PRIMA GIORNATA

 

SECONDA GIORNATA

La strada e la casa di Pietro Crespo.

SCENA I

Don Mendo e Nuno.

Don Mendo         - Chi te l'ha detto?

Nuno                   - Ginevra, la garzona.

Don Mendo         - Ma come? Dopo quella lite il capitano si sarebbe messo a corteggiare Isabella!

Nuno                   - E in che modo. È sempre lì. Non accende più il fuoco in casa sua, fa come noi. Non si scosta un momento da quella porta e ad ogni poco fa recapitare a Isa-bella dei fogliettini, che le porta un po­vero diavolo di soldato suo attendente.

Don Mendo         - Taci! Queste parole sono per me un veleno troppo forte. Non posso berlo così tutto d'un sorso.

Nuno                   - Specialmente a stomaco vuoto.

Don Mendo         - Nuno, parliamo un po' seria­mente.

Nuno                   - O che scherzo io?

Don Mendo         - E lei, di', che gli risponde?

Nuno                   - Quello che risponde a voi. Quella ragazza è una dea celeste. Non l'arriva il fumo di questo mondo.

Don Mendo         - (dandogli un pugno sul viso) Dio ti schianti!

Nuno                   - Ohi! E a voi mandi il mal di denti! Me ne avete fiaccati due. Ma poco male. Son così inutili al vostro servizio... Guar­date, c'è il capitano.

Don Mendo         - Giuro che, se non fosse per rispetto a Isabella, con un colpo lo leverei dal mondo.

Nuno                   - Pensa a campare.

SCENA II

Il Capitano, il Sergente, Rebolledo; Don Mendo e Nuno in disparte.

Don Mendo         - Starò qui a sentire. Nuno, accostati.

Capitano              - Che amore, che amore. È fuoco, è rabbia, è pazzia quella che provo.

Rebolledo            - Volesse il cielo che non aveste mai incontrato questa bella ragazza, se vi deve costar tante pene.

Capitano              - Che ti ha detto la serva?

Rebolledo            - Le solite cose, che sapete. (Escono).

Don Mendo         - Farò come ho detto, e poiché la notte già stende l'oscuro suo velo pren­derò tosto il partito prima che la pruden­za mi abbia risolto al partito migliore. Nuno, vienmi a dare le mie armi.

Nuno                   - Che armi? Io non so d'altre armi, tranne quelle di terracotta che avete sull'uscio di casa.

Don Mendo         - Ma pur, nella mia armeria, si troverà qualcosa di adatto a questa im­presa.

Nuno                   - Don Mendo! Che non ci senta il capitano! Andiamo.

SCENA III

Il Capitano, il Sergente e Rebolledo.

Capitano              - Che superbia! Neanche una pa­rola s'è degnata di rispondermi.

Sergente              - Di uomini come voi, credete a me, codeste donne non ne voglion sapere. Se le corteggiasse un pari loro, allora sa­rebbe un altro affare. E si addolcirebbe­ro, Ma un par vostro! D'altronde, voi non avete neanche ragione di lamentarvi!

Capitano              - Come?

Sergente              - Eh sì! Non si parte domani?

Capitano              - Ebbene?

Sergente              - E vorreste che in un giorno una donna, così di punto in bianco vi cascas­se fra le braccia?

Capitano              - In un giorno? Ma in un giorno il sole nasce e tramonta, un regno cade, un palazzo rovina, il mare s'infuria e si calma, un uomo nasce e muore! E l'amo­re che io provo, non potrebbe fare in un giorno la mia felicità?

Sergente              - Tante smanie per averla veduta una volta?

Capitano              - Una scintilla basta a provocare un incendio.

Sergente              - Non dicevate che una villanotta non avrebbe mai potuto essere bella agli occhi vostri?

Capitano              - Quest'idea, appunto, mi ha ricreduto! Credevo di aver a che fare con una villana, ed ho incontrato invece un essere divino. Ah, Rebolledo, che darei per vederla ancora una volta!

Rebolledo            - Sentite, c'è nella nostra coni pagnia un soldato... Sapete, la Chispa! Quella che tiene il gioco con me? Sa cantare costei un jacara come poche! Eb­bene portiamola stanotte a fare una sere­nata sotto la finestra della vostra bella. Potrete così vederla e, forse, le potrete anche parlare.

Capitano              - Ma Don Lope abita lì. Se si sveglia?

Rebolledo            - Don Lope non dorme, con quella gamba che lo tormenta? E in ogni caso, se ci sente, darà la colpa a noi, non a voi! Voi resterete confuso fra i cantori, travestito... No?

Capitano              - C'è rischio; ma sia come sia. Stanotte riunitevi, e trovatevi là, non fate però capire che io ne sono a parte! Ah, Isabella, Isabella, a che mi costringi! (Escono).

SCENA IV

La Chispa e Rebolledo.

Chispa                 - Tò, pigliati questo!

Rebolledo            - Che c'è, Chispa? Che hai fatto?

Chispa                 - C'è là un marrano di soldato che voleva barare, io gli ho assestato una bel­la piattonata sul grugno ed ora è a farsi medicare. Vieni, al corpo di guardia ti voglio rendere i conti.

 Rebolledo           - Chispa, vien qua, tu mi sem­bri in vena stamani.

Chispa                 - Perché? C'è da cantare? Ho le mie nacchere qua. Che si canta?

Rebolledo            - Stanotte, Chispa! E una can­zone in gamba!

Chispa                 - Chispa, la « bolichcra »! Farà par­lare di sé. Andiamo.

Rebolledo            - Brava!

Chispa                 - Andiamo. (Escono cantando a pas­so dì danza).

SCENA V

Stanza a pianterreno della casa di Crespo, con una scala che mette nel giardino. Da un lato una finestra. Don Lope e Crespo.

Crespo                 - (di dentro) Mettete qui la tavola per Don Lope, c'è più fresco. Vi farà più buon prò la cena, signor generale. Siamo d'agosto. Il solo refrigerio è la notte.

Don Lope            - Qui, infatti, ci si sta d'incanto.

Crespo                 - fi questo un angolo del giardino che ho dato a mia figlia perché ci si di­verta. Sedetevi, signor generale. Sentite che dolce concerto fa l'alitare della brez­za, fra le foglie di questa pergola e di questi alberi, col mormorio di questa fon­tana? Chitarra d'argento e di perla, i cui ciottolini splendono nell'acqua come tasti d'oro tra lucide corde! Perdonate, Don Lope, se non posso ora procurarvi altra musica che questa che v'offre la stes­sa natura, e senza il complemento del canto. Il cinguettìo degli uccelli è cessato al tramonto, e non è in mio potere farli cantare per voi! Sedetevi, dunque, e dimenticate per un poco il dolore della vo­stra gamba.

Don Lope            - È impossibile. Dio m'assista!

Crespo                 - Amen!

Don Lope            - Eh!

Crespo                 - Così sia.

Don Lope            - Pazienza. Sedete anche voi, Crespo.

Crespo                 - Poiché lo permettete, mi seggo. So bene che avreste potuto fare a meno di dirmelo.

Don Lope            - Sedetevi. Ma sapete, piuttosto, che cosa vi debbo dire, Crespo?

Crespo                 - Che cosa?

Don Lope            - Che ieri sera la collera vi aveva fatto perdere le staffe.

Crespo                 - No, generale. Io non perdo mai le staffe.

Don Lope            - Come no? Ieri sera, senza che io vi dicessi niente, vi siete seduto liberamente, e sulla migliore seggiola.

Crespo                 - Già, ma proprio perché non mi in­vitaste a farlo. Stasera, invece, che me lo avete detto, sarei rimasto in piedi. Solo con chi è cortese, cortesi.

Don Lope            - Ieri eravate tutto mossacele e spergiuri. Stasera al contrario siete pieno di delicatezza e di discrezione.

Crespo                 - Signor generale, io tratto sempre col tono e nel modo che si usa con me. Ieri mi parlaste sgarbatamente, e io vi ri­sposi a dovere. Bestemmiare con chi be­stemmia e pregare con chi prega: è la mia regola! So conformarmi all'indole delle persone; e a tal punto, vedete, ar­riva la mia simpatia, che stanotte, per esempio, non ho potuto chiudere occhio, pensando alla vostra gamba malata; co­sicché stamani, incerto se fosse la sinistra o la destra, mi dolevano tutte e due! Ora, di grazia, ditemi qual è delle due che vi fa male? Ch'io lo sappia; e me ne dolga una sola.

Don Lope            - La mia gamba!... E gli acciac­chi! Perché non dovrei lamentarmene? Trcnt'anni di guerra in Fiandra, nell'in­verno all'acqua e al ghiaccio, nell'estate sotto la sferza del sole, senza mai un mo­mento di requie, e poi questa gamba ma­ledetta.

Crespo                 - Dio vi dia la pazienza di soppor­tarla.

Don Lope            - Bella grazia da chiedergli.

Crespo                 - E allora, non ve la dia.

Don Lope            - Non la voglio. Che il diavolo se la pigli, e me con lei.

Crespo                 - Giusto! E se il diavolo non lo fa, vuol dire che non sa far nulla di buono.

Don Lope            - Gesù! Mille volte, Gesù!

Crespo                 - Gesù! Sia con voi e con me!

Don Lope            - Cristo! Io ne crepo.

Crespo                 - Cristo! Come mi dispiace!

SCENA VI

Juan, Don Lope e Crespo.

Juan                     - Signor generale, la tavola e pronta.

Don Lope            - Perché non mi servono i mici soldati?

Crespo                 - Sono stato io a dir loro di non ve­nire e di non occuparsi del vostro servi­zio in casa mia. Spero, grazie a Dio, che non avrete a lamentarvi.

Don Lope            - Ebbene, dal momento che non mi devono servire i mici soldati, fatemi il piacere di far venire vostra figlia. Che ceni con me.

Crespo                 - Juan, vai a dirle che venga.

Don Lope            - Spero che questo mio stato vi tolga ogni sospetto.

Crespo                 - Foste pure quale io mi augurerei di tutto cuore, nessun sospetto con voi, Generale! Mi fate un torto solamente a pensarlo. Se ho detto a mia figlia di non scendere, è perché non dovesse sentire dei discorsi fuori posto. Ma, se tutti i soldati fossero come voi, Don Lope, sarci stato io il primo a dirle di venir qui a servirvi.

Don Lope            - (tra sé) È a modo il campagnolo!

SCENA VII

Juan, Isabella, Ines, Don Lope e Crespo.

Isabella                - Padre mio, che desiderate.

Crespo                 - Don Lope vuole onorarti, ed è lui che ti chiama.

Isabella                - Serva vostra.

Don Lope            - No, anzi, son io, che desidero servirvi. (Da sé) Che bella ragazza! E che modestia! Vi prego di cenar con me.

Isabella                - Signor generale, sarà meglio che io, e mia cugina Ines, vi serviamo la cena.

Don Lope            - Sedetevi.

Crespo                 - Siediti. Fa quello che ti ordina Don Lope.

Isabella                - Tutto il merito sta nell'obbedien­za. (Le due giovani si siedono. Dalla strada giungono degli accordi dì chitarra).

Don Lope            - E questo che cos'è?

Crespo                 - Soldati che passano suonando e cantando.

Don Lope            - Già, e vero. Questi spassi son pur necessari a chi deve sopportare le fatiche della Milizia, e bisogna concederli.

Juan                     - Ma pure, la vita militare è bella!

Don Lope            - Ah sì! Credete? Vi piacereb­be giovinotto?

Juan                     - Sì, se potessi contare sulla protezio­ni di V. E.

SCENA VIII

Soldati, Rebolledo e detti.

Rebolledo            - (di dentro) Qui si ha da can­tare.

Soldato                - Sì, una canzone per la vaga Isa­bella.

Rebolledo            - E perché si svegli tira una pie­tra sulla sua finestra.

(Canzone):

il fior del rosmarino, cara Isabella, è tutto azzurro; e domattina sarà di miei.

(Viene scagliata una pietra contro i vetri).

Don Lope            - (da sé) Fino alla musica traseat, ma questa di tirare i sassi alla finestra della stanza dove io sto, è una vera im­pertinenza! Facciamo vista di nulla per riguardo a Crespo ed alla sua figliuola.

Crespo                 - Che volete son giovani... (Se non ci fosse Don Lope, lo vedrebbero).

Juan                     - (da sé) Se arrivo a prender la targa che è in camera di Don Lope! Aspettate... (Si avvia per uscire a destra).

Crespo                 - Dove vai, ragazzo?

Juan                     - A prender la cena per il generale.

Crespo                 - La porteranno i servitori. Sta qui.

(Canzone):Più non dormire svegliati, cara Isabella più non dormire.

Isabella                - (da sé) Che ho fatto io, per do­vermi ritrovare a questo?

Don Lope            - Questo non si può tollerare. È un'azione indegna. (Tira un calcio alla tavola e la rovescia).

Crespo                 - È vero! È una vera insolenza! (Ti­ra un calcio alla seggiola che ha vicino).

Don Lope            - (da sé) (Non perdiamo la cal­ma). Ma sapete che è davvero un'infa­mia... questa gamba che mi fa soffrir tanto.

Crespo                 - E me? Lo stesso!

Don Lope            - Ah! Credevo che fosse per al­tro. Nel vedervi sferrare un calcio alla seggiola.

Crespo                 - Voi avete rovesciata la tavola e io... non avendo altro a portata... (Da sé) Dissimuliamo, c'è di mezzo l'onore!

Don Lope            - (tra sé) Se fossi là nella strada. Sta bene! Quello che ho mangiato mi basta, non voglio più nulla. Ritiratevi.

Crespo                 - Come desiderate.

Don Lope            - Arrivederci, Isabella.

Isabella                - Che Dio vi conservi, signore.

Don Lope            - (da sé) La mia camera e vicina alla porta di strada e ci ho visto appesa una targa.

Crespo                 - C'è un'uscita dalla corte e posseg­go anch'io una spada...

Don Lope            - Buona notte.

Crespo                 - Buona notte! (Da sé) Chiuderò l'uscio di fuori perché i miei figliuoli non escano.

Don Lope            - Aspetterò che tutti dormano. (esce).

Isabella                - L'uno non riesce a dissimulare all'altro il suo malumore.

Ines                      - Cercano di ingannarsi a vicenda.

Crespo                 - Ola, giovinetto! (a Juan che s'è mosso nuovamente verso destra).

Juan                     - Che? Padre mio?

Crespo                 - Là c'è la vostra camera, andate.

SCENA IX

La strada davanti alla casa di Crespo.

Il Capitano, il Sergente, la Chispa e Re­bolledo con chitarra. Soldati.

Rebolledo            - Fermi! Questo è il punto mi­gliore. Attenti! Ciascuno al suo posto.

Chispa                 - Musica, dunque.

Rkbolledo            - Sì.

Chispa                 - Bene. Questo è affar mio.

Capitano              - Neppure socchiudere la finestra! Ah questa villanotta!

Sergente              - Eppure ci debbono aver sentito.

Chispa                 - Aspettiamo.

Sergente              - Speriamo in Dio!

Rebolledo            - Chi arriva!

SCENA X

Don Mendo e Nuno

Don Mendo         - (a Nuno) Vedi tu che c'è?

Nuno                   - Non lo vedo, ma lo sento.

Don Mendo         - Chi potrebbe sopportare una tale insolenza?

Nuno                   - Io!

Don Mendo         - Aprirà la finestra, Isabella?

Nuno                   - Chi lo sa?

Don Mendo         - No, marrano!

Nuno                   - Non l'aprirà!

Don Mendo         - Ah, gelosia, pena orrenda! Ben saprei cacciar tutti di qui a piatto­nate. Ma dissimuliamo lo sdegno, e ve­diamo se Isabella si presta a questo amo­reggi a mento.

Nuno                   - Allora perche non ci mettiamo a sedere?

Don Mendo         - Giusto! Così non mi ricono­sceranno.

 Kebolledo           - Quell'uomo s'è messo a sedere. Sembra un fantasma errante in espiazione dei suoi peccati... e impugna una targa. (A Chispa) Chispa, canta!

Chispa                 - Son qua.

Rebolledo            - Andiamo dunque! Via, un jacara nuova e bella, che sgorghi sangue!

SCENA XI

Don Lope e Crespo entrano nello stesso tempo uno da una parte e uno dall altra. Tutti e due son coperti dalle loro targhe.

Chispa                 - (canta) C'era un certo Sampaio fior dell'Andalusia, riccioluto famoso il più spavaldo e illustre, che un giorno si recò dalla bella Gridona.

Rebolledo            - Non c'è da chiedere « quan­do ». La canzone dice che fosse di lunedì.

Chispa:

Andò dalla Gridona tra la sera e la notte e la trovò col Garlo in casa della sbornia. Il Garlo che ognor fu un fulmine, un baleno che schianti a ciel sereno, cavò la spada e lì ta! ta! di punta e taglio tutti e due li colpì.

Crespo                 - (entra ed aggredisce la brigata dei cantori) E fu proprio così!

Don Lope            - (facendo altrettanto) E così passò il fatto. (Don Lope e Crespo met­tono in fuga a colpi di spada, l'uno da una parte, l'altro dall'altra, quelli della brigata con Don Mendo e Nuno. Don Lope rientra dopo averli inseguiti).

Don Lope            - Fuggiti!

Crespo                 - (rientra anch'esso).

Don Lope            - Oh! ma ce n'e ancora uno.

Crespo                 - (sempre coperto dalla targa, vedendo Don Lope dietro lo scudo) Questo re­siste!

Don Lope            - Avrà le sue anche lui.

Crespo                 - Con questa... se non volta il tacco...

Don Lope            - Presto!... Sparire anche voi...

Crespo                 - Via di qui, se hai gambe buone!

Don Lope            - Vivaddio! Si batte mica male!

Crespo                 - Questo ha fegato... Vivaddio!

SCENA XII

Juan giunge anch'esso con la spada sguainata

Juan                     - Grazie al cielo! È qui! Padre, sono con te.

Don Lope            - È Pietro Crespo!

Crespo                 - Son io, sì. Ah! è Don Lope?

Don Lope            - Sì, Don Lope. Ma come va quest'affare? Non diceste che non sare­ste uscito di casa?

Crespo                 - Generale, scusatemi, ho fatto co­me voi.

Don Lope            - Ma io ero l'offeso.

Crespo                 - Ebbene, che volete, m'è garbato di venirvi a far un po' di compagnia.

SCENA XIII

Il Capitano, Soldati e detti.

Soldati                 - (di dentro) Su tutti! Avanti! Fac­ciamo piazza pulita di questi villani!

Capitano              - (di dentro) Attenti, su! (Entra­no col Capitano i Soldati).

Don Lope            - Dove andate? Fermatevi! Che cos'è questo scompiglio?

Capitano              - Signor Generale, i soldati can­tavano in questa strada senza dar noia a nessuno. È nata una disputa, ed io sono accorso per calmarli.

Don Lope            - Bene! Voi siete molto pruden­te, Capitano. Ma poiché il villaggio è ormai irritato contro i soldati, bisogna evitare che accada il peggio. Tra poco è giorno. La compagnia partirà in matti­nata da Zalamca; e che un simile disor­dine non abbia più a ripetersi, perché, vivaddio! Un'altra volta rimetterò io le cose a posto, e a colpi di spada!

Capitano              - Sarà fatto, generale. Ah, mia rustica bellezza! Tu mi costerai la vita!

Crespo                 - (tra sé) Bizzarro, questo Don Lope. Andremo molto d'accordo.

Don Lope            - Voi venite con me! E che nes­suno vi trovi mai solo.

SCENA XIV

Don Mendo e Nuno ferito.

Don Mendo         - Ferita grave, codesta!

Nuno                   - Così! ma più di quello che avrei desiderato.

Don Mendo         - Mai in vita mia sono stato così infelice.

Nuno                   - Nemmeno io.

Don Mendo         - Colpirti sul capo!

Nuno                   - Sì, infatti... Qua (toccandosi la nuca). (Rullio di tamburo) Mi pizzica!

Don Mendo         - (impaurito) E questo che cos'è?

Nuno                   - È la compagnia che parte...

Don Mendo         - (ringagliardito) Oh fortuna! Il Capitano si leva di mezzo.

Nuno                   - Parte nella giornata... Ahi! Ohi! Ahi!

SCENA XV

Il Capitano e il Sergente da un Iato. Don Mendo e Nuno dall'altro.

Capitano              - Sergente, prima del tramonto in marcia; ma verso sera vieni a raggiungermi nel bosco... ti aspetto.

Sergente              - Sì, sì! C'è il solito fantasma.

Don Mendo e Nuno    - Cerchiamo di passare inosservati dissimulando il nostro gran­de dolore.

Nuno                   - Farò come potrò.

Don Mendo e Nuno    - (escono prima con mal dissimulata circospezione, poi, fuggendo).

SCENA XVI

Il Capitano ed il Sergente

Capitano              - Io tornerò in paese. Son d'accor­do con una delle sue donne di casa. Con qualche regaluccio me la son fatta amica. Vedrò se le potrò parlare, a questa Isa­bella crudele.

Sergente              - Ma se tornate, capitano, non ar­rischiatevi solo. Questi villani sono lina brutta razza.

Capitano              - Sta tranquillo. Ci sarà più d'uno con me.

Sergente              - Come voi comandate. Ma se Don Lope torna e vi vede qui?

Capitano              - Nulla da temere! Non rinun­cerò per questo. Poi so che Don Lope partirà anch'esso per Guadclupa dove deve riunirsi con le truppe al Tercio. Ci sarà anche il Re che già è in cammino.

Sergente              - Ho i vostri ordini, capitano. Contate su di me.

Capitano              - Ricordati che questa e per me una questione di vita o di morte.

SCENA XVII

Rebolledo, la Chispa, il Capitano ed il Sergente.

Rebolledo            - Una buona notizia, Capitano.

Capitano              - Quale?

Rebolledo            - Un nemico di meno.

Capitano              - Chi, dunque!

Rebolledo            - Il fratello della vaga Isabella: il giovanotto! Don Lope l'ha chiesto al vecchio, se lo porta con sé alla guerra. Se l'aveste visto in divisa! Tutto sgar­giante e spavaldo! Sebbene sotto ci si veda sempre il contadino; ina tant'è... Ora non c'è rimasto che il vecchio a dar noia.

Capitano              - Meglio così, e speriamo che la serva mantenga la promessa di farmi parlare con la ragazza.

Rebolledo            - Se ve l'ha detto...

Capitano              - Sarò qui sull'imbrunire. Ora bi­sogna che raggiunga la compagnia. Tu col sergente mi accompagni. (Esce).

Rebolledo            - Siamo pochi, in verità. Se an­che ne venissero altri due, altri quattro, e diciamo 'pure, altri sei.

Chispa                 - (entrando) E me! Mi lasci sola, se tu torni indietro? Caro Rebolledo, pensa a quel soldato che ho mandato all'infer­meria.

Rebolledo            - Vai al diavolo. Non so che farmene di te.

Chispa                 - Come a dire?

Rebolledo            - Be', vieni qua. Te la senti di venir con me? Hai del coraggio?

Chispa                 - Ne ho da vendere. Piuttosto... co­sì... come sono... Mi ci vorrebbe un bel vestito da soldato.

Rebolledo            - C'è quello, sai?, del palafrenie­re che se n'è andato giorni or sono.

Chispa                 - Viva! Lo piglio io. (Suono di tamburo).

Rebolledo            - Vieni, dunque. La bandiera è in marcia.

Chispa                 - Marciarti, marciami (Escono mar­ciando) Però c'è poco da fidarsi di te, Rebolledo. La canzone ha ragione: « Amore di soldà non dura un'ora ».

SCENA XVIII

La casa di Crespo. Don Lope, Crespo e Juan.

Don Lope            - Di molte cose vi debbo essere riconoscente, Crespo, ma specialmente Hi avermi dato questo caro figliolo. So quanto vi costa lasciarmelo.

Crespo                 - Ve l'ho dato, perche abbiate uno di più che vi serva con tutta fedeltà.

Don Lope            - Lo terrò come amico. Il suo coraggio e la sua passione per la vita mi­litare mi son piaciuti!

Juan                     - Quanto a me, signor generale, farò del mio meglio per meritare di rimanere ai vostri ordini.

Crespo                 - E perdonategli, se in principio non farà troppo bene. La carretta, la pala e la forca sono stati i soli libri che noi ab­biamo potuto studiare. Egli non ha avuto modo di imparare né le eleganze della corte, ne il fare disinvolto dei cittadini.

Don Lope            - Ora sarà bene andare. Il sole non brucia più tanto.

Juan                     - Vo a vedere della vostra lettiga.

SCENA XIX

Isabella, Ines e detti.

Isabella                - Come? Signor generale, partire­ste così, senza neppure lasciarvi salutare da noi che desideriamo tanto di conser­vare la vostra benevolenza.

Don Lope            - No, Isabella, io non sarci par­tito senza baciarvi la mano né senza chie­dervi di perdonare la libertà che mi pren­do. (Trae dal corpetto un anello) Perché non è già la ricompensa che fa i! merito, ma è il merito che la giustifica. Questa croce, sebbene di diamanti, è una povera cosa in confronto. Vi prego di portarla per mio ricordo.

Isabella                - Che dire, signore? Mi dispiace che voi vogliate ricompensare con un do­no così magnifico la nostra accoglienza, mentre noi, piuttosto, restiamo in debito dell'onore che vi siete degnato di con­cederci.

Don Lope            - Non è un compenso, Isabella, ma un segno della mia amicizia.

Isabella                - Quando è così. A questo titolo .soltanto la ricevo, e raccomando alla vostra benevolenza mio fratello che ha avu­to la grande fortuna di entrare al vostro servizio.

Don Lope            - State tranquilla per lui. Viene con me.

SCENA XX

Juan                     - La lettiga è pronta.

Don Lope            - Addio.

Crespo                 - Che il cielo vi conservi.

Don Lope            - Addio, ottimo Crespo.

Crespo                 - Addio, nobil signor Lope.

Don Lope            - Chi l'avrebbe detto il primo giorno che noi saremmo diventati così buoni amici, e per sempre?

Crespo                 - lo, Don Lope se avessi saputo pri­ma chi eravate.

 Don Lope           - E chi, dunque?

Crespo                 - Un pazzo simpatico.

(Don Lope esce protestando bonariamen­te burbero).

Crespo                 - Mentre Don Lope si prepara a partire, ascolta, figliuolo, ciò che voglio dirti in presenza di tua sorella e di tua cugina. Tu sei nato, grazie a Dio, da gente onesta e senza macchia, ma campa­gnola! La prima di queste due cose te la dico perché non ti umili fino al punto di diffidare di te stesso, e di rinunciare ad ogni onesta aspirazione d'innalzarti sul­la tua condizione presente; l'altra, per­ché tu, dando in un eccesso contrario, non debba incorrere nel biasimo o nel disprezzo della gente a causa di una stol­ta vanagloria. Fra questi due estremi ser­bati modesto e regolati con prudenza. Dovrai passar sopra a molte cose, che un orgoglio smodato difficilmente soppor­ta, sebbene non le possa cambiare. Quan­ti, infatti hanno potuto a questo mondo farsi perdonare i loro difetti solo per vir­tù della modestia e quanti altri, invece, per molti lati stimabili, si son fatti odia­re per colpa dell'orgoglio. Sii, soprattutto, cortese, liberale ed affabile, che il farsi di cappello e il denaro ci possano procura­re molti amici. Non dir mai male delle donne, neppure delle più umili; che tutte son degne di considerazione. Noi si na­sce da loro! E non ti battere |»er cose che non meritano. Con questi consigli e col danaro, che ti ho dato per il viaggio e per farti fare, arrivando, un paio di vestiti, confidato soprattutto alla prote­zione di Don Lope e accompagnato dalla mia benedizione, io spero di vederti un giorno in posizione migliore. Va, Juan, sento che sto per commuovermi.

Juan                     - Padre, finché vivrò le vostre parole mi resteranno impresse nel cuore. Datemi la mano a baciare! E voi sorella mia, ab­bracciatemi. Don Lope sta per partire. Debbo raggiungerlo.

Isabella                - Come vorrei trattenerti fra le mie braccia!

Juan                     - (a Ines) Addio, cugina.

Ines                      - Non so che dirti. Ma i mici occhi li dicano assai più delle parole. Addio, Juan.

Crespo                 - Va, va, più che ti vedo e più sen­to il dispiacere che tu ci lasci. Se non avessi dato la parola...

Juan                     - Dio vi conservi tutti.

Crespo                 - Dio ti accompagni, figliuolo. (Via Juan).

SCENA XXI

Crespo, Isabella e Ines

Isabella                - Che crudeltà, padre.

Crespo                 - (tra sé) Ora che non l'ho più da­vanti, mi sento meno commosso. D'altra parte a restar qui con me che avrebbe fatto? Che sarebbe divenuto? Un essere qualunque, un uomo da nulla. Be', vada a servire il Re.

Isabella                - Partire, e di notte; sono inquieta per lui.

Crespo                 - Anzi, d'estate, viaggiar di notte è più un piacere che un disagio.

Isabella                - Venite in casa, padre mio.

 Ines                     - Ora che non ci sono più i soldati, restiamo a goderci un po' il fresco, qui sulla porta. Anche i vicini non staranno molto ad uscire.

Crespo                 - Sì, neanch'io ho voglia di rientrare in casa. Di qui mi par di veder biancheg­giare la strada che ha preso il mio Juan, e di vederlo camminare. Ines, portami qui fuori una seggiola.

Ines                      - Eccovene una.

Isabella                - Dicono che oggi c'è stata l'ele­zione dell'Alcade.

Crespo                 - Infatti, siamo in agosto, e, come al solito, l'elezione si fa di questi giorni.

SCENA XXII

Isabella, Ines e Crespo stanno seduti da­vanti alla porta di casa.

Il Capitano, il Ser­gente, la Chispa arrivano dalla parte op­posta.

Capitano              - (ai suoi soldati) Avanti, senza far rumore. Tu, Rcbolledo, avverti la ser­va che son qui.

Rebolledo            - No! Ma... c'è gente sulla porta.

Sergente              - Al riflesso della luna riconosco Isabella.

Capitano              - P, lei! Il cuore me lo dice. Arri­viamo in buon punto. Se andremo risoluti il colpo è fatto.

Sergente              - Volete ascoltare un consiglio, capitano?

Capitano              - Taci.

Sergente              - Non parlo; fate quel che vo­lete.

Capitano              - Io mi avvicino e porto via Isa­bella. Voi sguainate la spada e impedite che quelli di casa mi seguano.

Sergente              - Siamo ai vostri ordini.

Capitano              - Ricordatevi che il punto dove dobbiamo ritrovarci è qui vicino, nel bosco a destra della strada.

Rebolledo            - Chispa!

Chispa                 - Dimmi!

Rebolledo            - Reggici i mantelli.

Chispa                 - Sì, meglio è regger la roba a chi s'affoga.

Capitano              - Io sarò il primo, attenti!

Crespo                 - Figliuole, un po' di fresco s'è pre­so. Entriamo in casa. (Entra in casa per primo, seguito da Ines e da Isabella).

Capitano              - Questo è il momento. A noi! (Rapisce Isabella e fugge. I soldati trattengono Ines).

Isabella                - Ah, traditori! Signore, che fate?

Capitano              - È amore, furore, delirio!

Isabella                - (dentro) Infame! O padre mio!

Crespo                 - (uscendo di casa) Miserabili!

Ines                      - Povera me. Dio ci aiuti! (Si rifugia in casa).

Crespo                 - Vigliacchi! Perché non ho una spada... Traditori! Ribaldi!

Rebolledo            - Dentro! Se non volete rimet­terci anche la vita. (Rebolledo con gli altri lo trattiene).

Crespo                 - E che m'importa la vita se mi si toglie il mio onore? Avessi una spa­da... Ma così disarmato, come inseguir­li? E se entro in casa essi fuggono. Che fare?

Ines                      - (ritorna con una spada) Ecco una spada!

Crespo                 - A buon punto. Per il mio onore! Riavrò mia figlia, a costo della vita! (Combatte).

Sergente              - Non t'agitare! Siamo in più d'uno, vedi.

Crespo                 - (cade) Anche la terra mi manca.

Rebolledo            - Ammazzatelo!

Sergente              - No, meglio legarlo ad un albe­ro, là nel bosco, perché non metta in al­larme tutto il villaggio.

Isabella                - (di dentro) Padre! Padre mio!

Crespo                 - Figlia!

Rebolledo            - Su, via, dunque. (Lo legano e Io portano via).

SCENA XXIII

Isabella e Crespo (dentro) e poi Juan.

Crespo                 - Figlia! Figlia! Solo i mici sospiri possono raggiungerti!

Isabella                - Padre! Oh, me infelice! Padre.

Crespo                 - E io? Figliuola!

Juan                     - Gemito di morte! All'entrar del paese il mio cavallo è caduto e mentre io ero ancora steso per terra, s'è rialza­to fuggendo nel folto della boscaglia. Ancora stordito del colpo, sento questi lamenti... non riconosco le voci perché soffocate... ma certo due sventurati chie­dono soccorso.

Isabella                - (dentro) Padre!

Crespo                 - (dentro) Figlia!

Juan                     - Qua una donna, là un uomo! Cor­riamo prima da lei... Mio padre ha det­to: trarre la spada per una buona cau­sa e difender la donna! L'occasione è questa. Obbedisco.

FINE DELLA SECONDA GIORNATA

 

 

TERZA GIORNATA

Nella caverna di un monte.

SCENA I

Isabella

Isabella                - (in lacrime) Non sorga la bella luce del giorno a rischiarare il mondo. In quest'ombra che copre la mia igno­minia, ho mcn vergogna dello stato in cui mi hanno ridotta. E voi, fuggitive stelle, su nell'azzurra distesa del cielo, non date luogo all'aurora, che col suo rugiadoso sorriso cancella il vostro lume-sì caro. Ma se bisogna alfine che l'au­rora apparisca, non lasci ora vedere che le sue lacrime! E tu, sole, trattienti an­cora dentro le fredde spume del mare; fa che per questa volta la schiva notte protragga ancora il suo trepido impero. Piega ai mici lamenti la tua divinità perché si dica che anche tu concedi vo­lontario le tue grazie, e non costretto da un ordine immutabile. Perché vuoi tu levarti a vedere questa mia sciagura? Il misfatto più esecrando, la violenza più orrenda che il cielo abbia mai per­messo in onta agli uomini? Ma tu non mi ascolti, crudele, e, mentre io ti scon­giuro di rallentare il tuo corso, ecco già vedo inesorabile la tua faccia staccarsi dalla cima del monte. Oh, infelice che io sono! In tante pene, in tante ansie, colpita da così empia fortuna, anche tu sembri congiurare contro di me con i mici carnefici. Che fare? Dove rifugiar­mi? Se ritorno da mio padre che vergo­gna! Che dolore per lui! Di cui tutta la gioia, tutta la felicità fu di specchiarsi nel puro cristallo dell'onore di sua figlia, ora così turpemente oltraggiata. Se per rispetto o timore io non vi andrò, forse non si dirà ch'io stessa consentii a questa infamia? e, ceca, imprudente, dovrò subi­re nella mia innocenza la funesta incre­dulità della malizia. Oh come mi pento d'essermi sottratta all'ira eli mio fratello! Non sarebbe stato assai meglio che nel­l'eccesso della sua collera mi avesse dato la morte, quando si accorse del mio sta­to? Vo' chiamarlo perché torni, e con più ceco furore mi liberi dalla vita. Ma che voce panni confusamente intendere nell'eco che la ripete e dice...

SCENA II

Crespo e Isabella

Crespo                 - (nell'oscurità) Uccidimi, non esser pietoso nella tua ferocia, che non è pietà lasciar vivo un disperato.

Isabella                - Che voce e questa? Così soffo­cata, stento a riconoscerla.

Crespo                 - (come sopra) Datemi la morte se avete pietà di me!

Isabella                - Un altro che invoca la morte... Un altro per cui la vita è un supplizio. ( i primi albori rivelano Pietro Crespo legato ad un albero) Ma che vedo?

 Crespo                - Se spinto da pietà qualcuno osi penetrare in questo bosco, venga a dar­mi la morte. Ahimè! che scorgono i miei occhi?

Isabella                - Le mani dietro la schiena? Lega­to a un albero, chi vedo?

Crespo                 - Misericordia! Ah, questa voce che geme!

Isabella                - Dio! Mio padre!

Crespo                 - È mia figlia!

Isabella                - Padre, Signore...

Crespo                 - Figlia, figlia mia, vieni, e slegami!

Isabella                - Ahimé! Non oso. Se io ti sciolgo, padre, come ardirò narrarti? Libero che tu sia da queste funi, ma senza più il tuo onore, mi ucciderai, di certo. Lasci, dun­que, che prima io ti racconti la mia scia­gura.

Crespo                 - Taci, figlia, vi sono sventure che si sanno prima di apprenderle.

Isabella                - No, bisogna che tu sappia la mia disgrazia, anche se l'infamia che è fatta al tuo onore ti spingerà ad uccidermi pri­ma di ascoltarmi fino alla fine. Non più tardi di ieri sera io vivevo sicura nella pace tranquilla che i tuoi capelli bianchi ispiravano ai mici giovani anni, quando quei vili - che purtroppo contro di te meraria impudenza non ha difesa la pu­dicizia - mi rapirono. Quel capitano, quell'indegno ospite, che fin dal suo pri­mo entrare in casa nostra l'empì di so­spetti, di contese e di scandalo, mi prese a forza mentre i suoi soldati gli facevano spalla. E questo bosco fu riparo al suo delitto, che sempre le selve son rifugio ai misfatti. Lasciata qui, fuori di me, due volte potei riavermi e due volte udii la tua voce che ancor mi seguiva, a poco a poco affievolirsi e morire. Le tue parole, che prima giungevano a me col vento di­stinte, non erano ormai più ai mici orec­chi che un suono confuso e lontano, una voce senz'eco. Come quando uno squillo di tromba si allontana e cessa, lascia ancora nello spazio qualche sentore di sé che lo ricorda. L'infame quando s'accorse di non essere più inseguito e che io ero ormai senza difesa, egli con parole bugiarde ahimé! pietà di me! cercò di discolpare il suo amore. Ma come, da un istan­te all'altro, dopo la più atroce offesa osò tentare le dimostrazioni della tenerezza e dell'affetta? Maledetto, maledetto! Chi crede di poter conquistare un cuore con la violenza, e non sa che la vittoria del­l'amore è solo nel consentimento di colei che si ama! Che possederne la beltà sen­za l'anima, è possederla morta, carezzare un cadavere! In quanti modi non lo pre­gai e scongiurai, ora umile, o altera. Tut­to fu inutile. Orgoglioso, crudele, rozzo, temerario, impudente, nulla valse a pie­garlo. E se l'atto può dire quello che la voce non osa, dalla vergogna mi copro il viso, mi torco dallo sdegno le mani, mi batto dalla collera il petto. Padre com­prendimi! La mia bocca non può dire dì più. E mentre io mandavo inutili la­menti al vento, non già per chiedere il soccorso del cielo, ma per implorarne la giustizia, e mi movevo affannosamente per il bosco guidata solo dai primi albori del giorno, sento fra gli alberi rumore e vedo mio fratello. Dio! Dio! Quando mai un disgraziato non vide piombargli ad­dosso sciagura su sciagura? Juan prima ch'io parli si accorge del mio disonore. L'onta ha gli occhi di lince! Sguaina la spada, quella spada che tu gli clonasti al suo partire da Zalamea, e si avventa sul capitano, lo ferisce. Questi cade. Quanto a me vedendo precipitar le cose di scia­gura in sciagura, cieca, sgomenta, stor­dita, corro, barcollo, fuggo senza più sa­pere dove rifugiarmi, su per il monte, giù per la pianura, tra le rocce e i diru­pi? Ed eccomi ai tuoi piedi, padre. Prima che tu mi uccida, ho voluto narrarti tut­te le mie pene. E ora che tu sai, impugna pure, senza pietà, contro ili me la spada. Non risparmiare la mia vita. Ecco, per questo con le mie mani ti sciolgo da que­ste funi, ti porgo il collo perché tu mi leghi con queste.

Crespo                 - Alzati, Isabella, non restare in gi­nocchio. Senza questi dolori che ci met­tono a dura prova, la vita sarebbe sterile per l'anima nostra, e non avrebbe alcun pregio la gioia. Andiamo a casa, figlia; quel ragazzo è in pericolo. Bisogna non por tempo in mezzo, sapere che è stato di lui, e salvarlo.

Isabella                - Dio, questa calma accusa una grande prudenza, o una tremenda dissimulazione?

SCENA III

Strada verso il villaggio. Crespo e Isabella

Crespo                 - Vieni, figliuola, e vivaddio, se la necessità di aver soccorso per la sua ferita, ha fatto tornare il capitano in paese, meglio sarebbe per lui morirne, e non aspettare che io l'arrivi... giacché non avrò pace finché non sia spirato di mia mano. Andiamo a casa nostra, figliuola.

SCENA IV

Il Cancelliere, Crespo e Isabella

Cancelliere           - Signor Pietro Crespo, il Con­siglio di Zalamea vi ha nominato Alcade, e, purtroppo, già dal vostro insedia­mento avrete da trattare due affari assai importanti. Il primo è la venuta del Re a Zalamea, che arriverà oggi o domani; l'altro è che in paese hanno clandestina­mente portato quel capitano che ieri era qui con la sua compagnia, fi stato ferito, e non vuol dire da chi. Ma se si riesce a scoprire il feritore, sarà certo un processo grave.

 

 

 Crespo                - Sia ringraziato Dio! Mentre sto pensando alla mia vendetta, ecco la giustizia mi conferisce il potere di riscattare il mio onore. Mi renderò colpevole nel punire un delitto, se l'autorità di cui ora sono investito mi è data appunto per re­primerlo. Converrà riflettere; e con cal­ma. Cancelliere, sono molto grato del­l'onore che mi si e voluto concedere.

Cancelliere           - Venite dunque in consiglio a prendere possesso dell'ufficio. Potrete cominciar subito l'inchiesta.

Crespo                 - Vengo, Tu, vai a casa, Isabella.

Isabella                - Dio abbia compassione di me. Non volete padre, che vi accompagni?

Crespo                 - Tuo padre è Alcade. Saprà farti giustizia!

SCENA V

Una stanza dove alloggia il Capitano ferito. Il Capitano ferito e il Sergente.

Capitano              - È una ferita da nulla. Perché mi avete portato qui?

Sergente              - Perché si credeva fosse grave, e per non mettervi al rischio di morir dissanguato.

Capitano              - Ma ora che sono medicato e fa­sciato, andiamo! Sarebbe un grave er­rore restar qui. Andiamo prima che si sparga la voce della nostra presenza in paese. Gli altri dove sono? Di là?

Sergente              - Sì, capitano.

Capitano              - Presto prendiamo il largo, che se questi villani vengono a sapere che sono qui c'è il caso di dover venire di nuovo alle mani.

SCENA VI

Rebolledo, il Capitano e il Sergente.

Rebolledo            - (entrando) Capitano, la giu­stizia !

Capitano              - Che dici? Sono un militare. La giustizia civile non può procedere contro di me.

Rebolledo            - Eppure è qui.

Capitano              - Tanto meglio; staremo a vedere! Non ho nulla da temere da questa gen­te. Il giudice di pace dovrà necessaria­mente rimandarmi al Tribunale milita­re; e, pertanto, nonostante il caso peno­so, io debbo esser del tutto esente dalla procedura ordinaria.

Rebolledo            - Crespo avrà sporto querela contro di voi.

Capitano              - Può darsi.

SCENA VII

Crespo, il Cancelliere, Contadini e detti.

Crespo                 - (di dentro) Fate guardia alle porte. Che nessuno si muova, e se qualcuno osa forzare la consegna, tirate!

Capitano              - Che insolenza è questa? Come vi permettete?... (Vedendo Crespo con in mano il bastone di Alcade, seguito dal­le guardie e da un gruppo di paesani) Che! Voi? Come?

Crespo                 - Perché no?! La giustizia, ha for­se, bisogno di permesso?

Capitano              - Alcade! .Se pure è vero... La vostra giustizia non ha nulla a che fare con me.

Crespo                 - Non vi alterate. Con vostra licen­za, vengo qui solo per una cosa. Ma bisogna che restiamo soli noi due.

SCENA VIII

Crespo e il Capitano

Crespo                 - Come Alcadc sono venuto qui per obbligarvi in nome della giustizia ad ascoltarmi. Ma, ecco, poso qui il segno della mia autorità e non voglio esser di­nanzi a voi più che un uomo che vuol parlarvi delle sue sciagure (posa il basto­ne di Alcade). E poiché siam soli parlia­moci con tutta franchezza ad evitare che i nostri affanni, repressi a forza nel cuo­re, non prorompano con troppa violenza. Capitano, sono un uomo dabbene. Il Con­siglio e il Capitolo mi stimano, posseggo beni a sufficienza per essere ritenuto il più ricco di tutto il territorio. Mìa figlia, posso dirlo, è stata educata nell'intimità della mia casa con i migliori principi, sot­to la guida di una madre esemplare. Dio l'abbia in gloria! Che mia figlia sia bella, capitano, bastano dichiararlo i vostri me­desimi eccessi, e le lacrime che essa mi costa. Ma non versiamo tutto l'amaro che c'è in fondo al cuore. E necessario da parte nostra far qualcosa e procurare il meglio. Il mio affanno, voi lo vedete, è ben grande, e tacere non posso. D'altra parte, costretto a esigere una riparazione dell'oltraggio subito in modo cosi palese, vedo, purtroppo, che neppur la vendetta è un rimedio. Così, dopo avere doloro­samente pensato a questo e a quello, un rimedio soltanto mi è parso convenire tanto a voi quanto a me. Ecco, capitano, prendetevi tutto quello che posseggo, senza lasciar nulla a me né a mìo figlio. Se non avremo altro mezzo di procurar­ci un tozzo di pane, andremo a chiedere l'elemosina. Se vorrete bollarci col mar­chio degli schiavi, fatelo, vendeteci e ag­giungete il prezzo alla dote che vi offro. Ma rendeteci l'onore! L'onore che ci avete tolto! È mio, mio soltanto, anche se ve lo domando con tanta umiltà come se fosse qualcosa di vostro. Pensate che io potrei riprendermelo con queste mie mani, e mi contento, invece, di riaverlo ora da voi. Guardate, io ve lo chiedo in ginoc­chio e le lacrime mi scendono sulla bar­ba bianca.

Capitano              - Tu stanchi davvero la mia pa­zienza, noiosissimo vecchio, e ringraziate Dio, tu e il tuo figliuolo, che se non vi tolgo di mezzo, è soltanto per non esser crudele con la leggiadra Isabella. Comun­que volete risolvere la questione con la spada son qui. E non vi temo. Se volete seguire, invece, la via della giustizia, ri­cordatevi che la vostra non ha alcuna giurisdizione su di me.

Crespo                 - Le mie lacrime, dunque, non vi commuovono?

Capitano              - A pianto di donna, di bambino o di vecchio non badarci.

Crespo                 - Questa mia angoscia non merita, allora, nessuna consolazione?

Capitano              - Ti lascio vivere. Non basta?

 Crespo                - Pensate ch'io sono ai vostri piedi e che imploro gridando il mio onore!

Capitano              - Che seccatura!

Crespo                 - Io sono oggi l'Alcade di Zalamea!

Capitano              - E con ciò? Voi non potete nulla su di me. Il Consiglio di guerra avocherà a sé la mia causa.

Crespo                 - È questa la vostra ultima parola?

Capitano              - Sì.

Crespo                 - Non c'è dunque rimedio?

Capitano              - Tacere. Nulla di meglio.

Crespo                 - Nessun altro.

Capitano              - No!

Crespo                 - Sta bene! Giuro che me la pagherete (riprende il bastone di Alcade) Ola. (En­trano due guardie).

Una guardia         - (di dentro) Signor Alcade, comanda?

Capitano              - Che tentano di fare quei villani?

Crespo                 - Arrestate il Capitano. (Le guardie si accingono ad eseguire l'ordine).

Capitano              - Questo è un affronto. Un uffi­ciale quale io sono... al servizio del Re! Impossibile.

Crespo                 - Vedremo. Voi non uscirete di qui che prigioniero o morto.

Capitano              - Vi ricordo che sono un capitano e vivo!

Crespo                 - Ed io son, forse, un Alcade de­funto? Datevi prigioniero all'istante!

Capitano              - Mi arrendo alla violenza. Il Re avrà il mio ricorso.

Crespo                 - Ed il mio anche. Per fortuna Sua Maestà non e lontana. Ci ascolterà entrambi. Consegnate la spada.

Capitano              - È disonorevole per un...

Crespo                 - Siete prigioniero.

Capitano              - Trattate con più rispetto.

Crespo                 - Questo è un altro discorso. (Alle guardie) Conducetelo rispettosamente al carcere e, sempre col dovuto rispetto, met­tetegli i ferri ai piedi e la catena al collo. Guardate poi, che non parli con nessuno dei suoi soldati. Anzi, chiudete in cella anche quei tre perché presto sarà neces­sario raccoglierne le deposizioni, e, que­sto sia detto fra noi, se trovo panno alla forbice, vi giuro che vi farò impiccare tutti quanti.

Capitano              - Quando il potere è in mano a un contadino... (Le guardie conducono via il Capitano e i soldati).

SCENA IX

Rebolledo, la Chispa, il Cancelliere, Crespo

Cancelliere           - Questo palafreniere e questo soldato sono i soli che mi sia riuscito trar­re in arresto, perché l'altro si è dato alla fuga.

Crespo                 - Questa (accennando alla Chispa tra­vestita da soldato) è quella birba che canta. Con un giro di corda intorno al collo non gorgheggerà più in vita sua.

Chispa                 - È forse un delitto cantare?

Crespo                 - Tutt'altro; è una gran bella virtù. Ma io ci ho un certo strumento su cui canterai anche meglio. Su, dunque, parlate.

Rebolledo            - Che debbo dire?

Crespo                 - Come passò il fatto?

 Rebolledo           - Che fatto?

Crespo                 - Quello d'ier notte.

Rebolledo            - Tua figlia lo sa meglio di me.

Crespo                 - Ah, cane!... Al carcere!

Rebolledo            - Chispa, bisogna cantare...

Crespo                 - Meglio per voi.

Chispa                 - E canteremo (canta) « Mi voglion mettere alla tortura ».

Rebolledo            - (canta) « E a me che voglion fare? ».

Crespo                 - Disgraziati! La prendete in scherzo?

Rebolledo            - Dobbiamo cantare? Ci prepa­riamo la gola. (Escono).

Crespo                 - Via!

SCENA X

Stanza in casa di Crespo; Juan

Juan                     - Da quando ferii quel traditore e fui costretto a fuggire per non essere sopraf­fatto dai suoi complici, ho corso su per il monte per tutta la foresta, ma non ho potuto trovare mia sorella, su cui vendi­care il mio onore. Torno a Zalamea in questa casa per raccontar tutto a mio padre. Egli mi consiglierà su ciò che si può fare.

SCENA XI

Entrano Isabella e Ines piangendo.

Ines                      - Cessa di piangere Isabella. Viver così non è viver, è morire.

Isabella                - Posso io ancora amare la vita?

Juan                     - (da parte, senza vedere le ragazze) -Dirò tutto a mio padre. (Le vede) Isabella! È qui. Che aspetto. (Trae la spada).

Ines                      - Juan, cugino!

Isabella                - Che vuoi fare fratello?

Juan                     - Punirti.

Isabella                - Ascoltami.

Juan                     - Vivaddio! Tu morirai.

SCENA XII

Crespo, contadini e detti.

Crespo                 - Che c'è? Che è questo? Tu non sai quello che fai. Come hai osato tor­nar qui?

Juan                     - Come! Padre!

Crespo                 - Presentarti a me, dopo il delitto commesso! Ferire un capitano al servizio del Re!

Juan                     - Padre, fu per difendere l'onore di questa casa e il tuo.

Crespo                 - Vedremo. Conducetelo in carcere.

Juan                     - In questo modo tratti tuo figlio?

Crespo                 - Farei altrettanto con mio padre. (Salvarlo, senza che nessuno possa accusarmi di parzialità come giudice!). Via! (Le guardie conducono fuori Juan). Isa­bella, vieni qua. Firma questo foglio. È la tua denunzia.

Isabella                - Padre! Render pubblica l'offesa! Ma dal momento che non vuoi vendicarla, fa almeno che rimanga celata.

Crespo                 - So quel che io fo. Porta qui il mio bastone di Alcade. È l'emblema della giu­stizia. Non ha voluto ceder alla dolcezza, cederà al rigore.

SCENA XIII

Don Lope soldati e detti

Si sentono le sonagliere dell'attacco con cui arriva Don Lope.

Don Lope            - Ferma.

Crespo                 - Chi c'è? Chi si ferma qui a ca­sa mia?

Don Lope            - Son io, Pietro Crespo. A metà strada son tornato indietro perché qui mi han detto che mi aspetta un brutto affare. Non ho voluto scendere altrove. Qui so di poter contare sulla vostra amicizia.

Crespo                 - Benvenuto. Voi mi onorate sempre.

Don Lope            - Dov'è vostro figlio? Non s'è più visto.

Crespo                 - Ne saprete la ragione. Ma che co­sa vi conduce qui? Mi sembrate molto agitato.

Don Lope            - L'affronto più grave, l'insolenza più temeraria. A metà del viaggio un soldato è venuto ad avvertirmi... vi confesso che la collera mi soffoca.

Crespo                 - Avanti.

Don Lope            - Che un miserabile Alcade ha fatto arrestare il Capitano Alvaro, e son corso, nonostante questa maledetta gamba, Cristo! Lo farò impalare!

Crespo                 - Potevate risparmiacelo, Don Lope. Codesto Alcade non vi lascerà fare tanto facilmente.

Don Lope            - Si vedrà!

Crespo                 - Vedremo. Sapete perché fu arrestato il capitano?

Don Lope            - Qualunque ne sia il motivo, sa­prò far saltare delle teste se è necessario.

Crespo                 - Sapete che cosa sia un Alcade nel suo villaggio?

Don Lope            - Che sarà mai, se non un villano!

Crespo                 - Comunque, se a codesto villano viene in testa di farlo strangolare il vostro capitano, nessuno potrà impedirglielo.

Don Lope            - Ditemi dove si trova, e lo ve­drete.

Crespo                 - Assai più vicino che non credete.

Don Lope            - Su dunque, chi è?

Crespo                 - Io!

Don Lope            - Voi?

Crespo                 - Io, Don Lope.

Don Lope            - Vivaddio, lo pensavo.

Crespo                 - Vivaddio! È proprio così.

Don Lope            - Quel che è detto è detto.

Crespo                 - Quello che è fatto è fatto Don Lope!

Don Lope            - Io son qui per chiederne il rila­scio e punire l'abuso.

Crespo                 - Non lo consegnerò.

Don Lope            - Si tratta di un ufficiale... Sol­tanto io posso giudicarlo.

Crespo                 - Sapete voi che mi portò via la fi­gliuola? che oltraggiò l'onore della mia casa ?

Don Lope            - Soltanto io son giudice... Di­menticate le prerogative del mio comando?

 Crespo                - Che io l'ho supplicato in ginocchio di riparare in buona pace, e mi ha vilmente umiliato e respinto?

Don Lope            - Voi usurpate su di lui una giu­risdizione che non vi compete.

Crespo                 - E costui... che ha fatto lui su di me? Pensate, Don Lope.

Don Lope            - Riparerà. Lo saprò costringere. Ne rispondo io. Vi sarà resa giustizia.

Crespo                 - Non ho mai chiesto ad altri ciò che posso fare da me.

Don Lope            - Fatemi consegnare il capitano.

Crespo                 - Impossibile. Il processo avrà il suo corso.

Don Lope            - Che corso? Quale processo?

Crespo                 - Questo fascicolo, vedete, a cui vo* infilzando via via che le raccolgo, le de­posizioni dei testimoni.

Don Lope            - Avrò il capitano. Vo' al carcere.

Crespo                 - Andate pure. Badate, però, che ho dato ordine di tirare contro chiunque vi si accosti.

Don Lope            - Le pallottole non mi hanno mai fatto paura (bisogna evitare il peggio) (ai suoi soldati) Voi, portate alle compagnie l'ordine di rientrare subito a Zalamea. Battaglioni serrati, tamburo battente, tor­ce accese.

Uno dei sergenti  - Sono state già avvertite e son qui, generale.

Don Lope            - Tanto meglio. A noi due Pietro Crespo (esce tamburo).

Crespo                 - Come volete. E allora quello che doveva essere fatto fra poco sia fatto subito.

SCENA XIV

La piazza pubblica    - Il palazzo dell'Alcade e il carcere   - Rullano i tamburi.

Don Lope, il Cancelliere, soldati e Crespo

Don Lope            - (dentro la scena) Il Capitano è là (ai soldati) Se non ve lo consegnano, appiccate il fuoco alle carceri e se fanno resistenza, fuoco a tutto il paese! (tamburo)

Cancelliere           - (uscendo dal palazzo dell'Alcade) Brucino anche tutto, ormai il Capi­tano... se lo sognano!

Soldati                 - (di dentro) Muoiano questi villani! (tamburo).

Crespo                 - (entrando) Staremo a vedere Don Lope.

Don Lope            - (dentro) Vengono in molti. Rompete le porte, abbattete i muri.

SCENA XV

Entrano i Soldati e Don Lope da un lato, dall'altro il Re con seguito, Campagnoli.

Il Re                    - Che avviene? Che cosa è questo tu­multo, mentre io arrivo?

Don Lope            - Sire... l'inaudita temerarietà di un villano. Che la Maestà Vostra tardasse ancora un momento, avrebbe trovato tutto il paese un falò.

Il Re                    - Perché? Come?

Don Lope            - Sire, un Alcade ha osato fare arrestare uno dei miei capitani.

Il Re                    - Quale Alcade? Chi?

Crespo                 - lo, Sire.

Il Re                    - La ragione?

 Crespo                - In questo incartamento ci sono le prove di un delitto passibile di morte. Una fanciulla è stata rapita e oltraggiata, e il rapitore si è rifiutato sdegnosamente di riparare con le nozze all'oltraggio, non ostante che il padre di lei si sia umiliato fino a supplicarlo in ginocchio.

Don Lope            - Questo Alcade, Sire, è il padre della ragazza.

Crespo                 - Che vuol dire? Se un estraneo fosse venuti a chiedermi giustizia per un tal misfatto, avrei forse potuto negargliela? No, certo. E allora, perché non avrei do­vuto fare per la mia figliuola quello elic­erà pure in obbligo di fare per chiunque altro? Ho ordinato l'arresto di mio figlio, non dovevo ricevere la querela della mia figliuola?... Si esamini il processo e si veda se io l'ho condotto con parzialità o con mala fede, se ho alterato le prove, se ho subornati i testimoni. Quando risulti, son pronto a pagare con la mia testa.

Il Re                    - (dopo aver scorso il processo) La sentenza è giusta. Tu non hai per altro il potere di farla eseguire. Questo spetta ad un altro tribunale. Consegna, dunque, il prigioniero.

Crespo                 - Mi sarebbe difficile, Sire. Qui c'è un solo tribunale e questo eseguisce da sé le proprie sentenze. Così... la cosa è fatta.

Il Re                    - Che dici?

Crespo                 - Se la Vostra Maestà non può cre­dere, guardi! Questo è il capitano. (Si apre nel palazzo la porta del carcere e appare ut una sedia il capitano strozzato col tòr­tolo, alla spalliera).

 Il Re                   - Come hai osato?

Crespo                 - Maestà, Voi l'avete detto. La sen­tenza e giusta. Nessun male, dunque, a eseguirla.

II. Re                   - 11 tribunale militare non avrebbe potuto farlo ugualmente.

Crespo                 - Certo, e allo stesso modo. E allora? Tant'è! La giustizia reale è un corpo con moke braccia. Che inconveniente c'è dun­que se questo braccio ha dato effetto a ciò che un altro avrebbe dovuto inevitabil­mente eseguire? Dal momento che tutto si riconosce conforme alla ragione, alla leg­ge e alla giustizia? Si tratta se mai, di un piccolo vizio di forma. Ma quello che importa è stato osservato.

Il Re                    - Sia pure. Nondimeno, perché essendo un ufficiale, non lo hai fatto decapitare?

Crespo                 - Qui ila noi, Sire, i nostri gentiluo­mini si portano così bene che il nostro esecutore di giustizia non ha potuto fare sin ora alcuna esperienza su di loro. Co­munque questa è un diritto che spetta sol­tanto al defunto. Appena lo reclamerà gli sarà resa giustizia. In attesa, nessuno può invocarlo per lui.

Il Re                    - Quel che è fatto è fatto, Don Lope. La pena di morte è stata giustamente pro­nunziata e, accertato l'essenziale, un vizio di procedura non lo infirma. Qui non resti alcun soldato. Ordinate la marcia, ho fret­ta di arrivare in Portogallo. Quanto a voi, vi nomino Alcadc a vita di Zalamea.

Crespo                 - Maestà, voi sapete rispettare la giu­stizia.

(il Re esce col seguito).

Don Lope            - Ringraziate Dio che Sua Maestà e arrivato in tempo.

Crespo                 - Fosse anche arrivato più tardi ormai non c'era più rimedio.

Don Lope            - Ma non era meglio rivolgersi a me, Crespo? Io avrei potuto costringere il capitano ad una riparazione con la vostra figliuola.

Crespo                 - Mia figlia entrerà in un convento che si è scelto da sé, e dove troverà uno sposo che non guarda ai gradi di nobiltà, generale.

SCENA XVI

Rebolledo, la Chispa, Soldati, Don Lope, Crespo, poi Juan, Contadini

Don Lope            - Consegnatemi gli altri detenuti.

Crespo                 - (alle guardie) Si rilascino. (Escono i soldati da sinistra).

Don Lope            - E vostro figlio? £ un mio soldato, non deve rimanere in arresto.

Crespo                 - Eccolo qui, generale.

Juan                     - Sono ai vostri piedi (Tamburo).

Rebolledo            - Io non canterò più in vita mia!

Chispa                 - Io sì. E più che mai! (Canta. I soldati che essa raggiunge si uniscono a lei) Io son titiri titiritina...

Crespo                 - Qui finisce la commedia che è storia vera. Perdonatene i difetti all'autore.

(Breve rullo di tamburo in dissolvenza).

FINE DELLA COMMEDIA