Stampa questo copione

LE MUSE

Atto unico

di GABRIELE BALDINI

PERSONAGGI

MARIA

GIOVANNI

VALZACCHI

Commedia formattata da

La scena rappresenta un soggiorno senza pretese. Due porte nello sfondo o sui lati, non importa. Una immette in un ingresso dove s'apre la porta dell'appartamento, l'altra nella cucina. Pochi e disadorni oggetti d'arredamento, tra cui uno scaffale pieno di scatoloni e raccoglitori. Al centro, un grande divano pieno di cartelle e di tape recorders. Davanti al divano due registra­tori, che però al principio dell'azione non do­vranno ben distinguersi. Dietro al divano un tavolo con delle carte. Fogli e nastri magnetici sparsi per terra.

Giovanni                       -  Si prepara una brutta giornata. L'estate è finita; anche se ogni tanto ricompare il sole e sembra che faccia caldo, non dura più di mezza mattinata. Anche oggi sembrava che facesse bello: ma il tempo s'è già guastato.

Maria                             -  Vuol dire che resteremo a casa. Tanto non c'è da sbrigare nessuna cosa urgente. I giornali puoi andarli a comperare anche all'una e la spesa l'ho già fatta ieri. E poi possiamo anche fare a meno dei giornali: le notizie pos­siamo sentirle alla radio.

Giovanni                       -  Sì, ma in campagna non ha molto senso restarsene a casa. In città si può fare. Qui, non ha molto senso. Questa è una casa, in fondo, fatta solo per dormirci: è una casa provvisoria. Tutto, qui, è provvisorio. Io non capisco che aspettiamo a tornare in città.

Maria                             -  Abbiamo detto che saremmo tornati per la fine del mese. L'affitto l'abbiamo pagato fino alla fine del mese.

Giovanni                       -  Che importa? Non l'abbiamo mica pagato per morire di noia.

Maria                             -  Ma non è vero che si muore di noia. Puoi sentire la radio, puoi leggere. Ti sei com­prato tanti libri, quest'estate, che non hai an­cora letto!

Giovanni                       -  Li ho letti tutti.

Maria                             -  Impossibile. Non ne avresti avuto il tempo.

Giovanni                       -  E invece li ho letti. Certi libri basta sfogliarli.

Maria                             -  Dunque non li hai letti.

Giovanni                       -  È come se li avessi letti: so già che non ci troverei niente d'interessante. Ti dirò di più: mi viene noia anche soltanto a vederne le copertine.

Maria                             -  Mettiti a sentire la radio, allora.

Giovanni                       -  Ci sono solo canzonette. Le canzo­nette mi irritano.

Maria                             -  C'è anche il terzo programma.

 

Giovanni                       -  Il terzo programma mi irrita più delle canzonette. Insomma, torniamo in città. Non ne posso più.

Maria                             -  Ma in città sarà come qui. Anche in città è noioso.

Giovanni                       -  No, è diverso: là possiamo telefo­nare a qualcuno.

Maria                             -  Ma non saranno ancora tornati.

Giovanni                       -  A quest'epoca sono tornati tutti. Rina e Roberto sono tornati certamente.

Maria                             -  Ho capito. Sono io che t'annoio.

Giovanni                       -  No, non sei tu. Sono io stesso.

Maria                             -  No, sono io. È da un po' di tempo che me ne sono accorta.

Giovanni                       -  Non fare la stupida. Non ti sei ac­corta di niente. Sono io, sono io solo. Anzi, non capisco come non fai ad annoiarti anche tu, stando con me.

Maria                             -  Vorresti che mi annoiassi?

Giovanni                       -  No. Ma non se ne potrà fare a meno. Se non ti annoi oggi, ti annoierai domani.

Maria                             -  Non credo che mi annoierò nemmeno domani. Tu seguiti sempre a incuriosirmi. Non so se mi piaci come un tempo. Ma seguiti co­munque a incuriosirmi. Ci sono certe cose, di te, che ancora non ho capito: e fino a quando non le avrò capite, sarà difficile che mi annoi.

Giovanni                       -  Non c'è più niente da capire, pur­troppo.

Maria                             -  È di me, forse, che non c'è più niente da capire; è per questo che ti annoi. Non è così? In fondo, l'amore è solo un po' di curio­sità. E dura fino a che la curiosità non è inte­ramente soddisfatta. La tua lo è già da tempo, e la mia, invece, ancora non lo è. Tutta la dif­ferenza è qui.

Giovanni                       -  Dici sempre un sacco di stupidag­gini. Anch'io ho ancora delle curiosità. Anch'io non ho ancora capito proprio bene come sei fatta.

Maria                             -  Lo dici adesso, così, per dire. Ma non è vero. Con me si fa presto a capire. Non c'è da capire niente. Tutto si capisce fin dal primo momento.

Giovanni                       -  Questo lo puoi dire anche di me.

Maria                             -  No, con te è tutto diverso. Tu cambi tutti i giorni, e anche, qualche volta durante lo stesso giorno. Oggi sei di cattivo umore e non vedi l'ora di partire. Ieri eri tanto con­tento, e hai detto persino che avresti voluto rinnovare l'affitto e restartene qui tutto l'inverno.

Giovanni                       -  Che c'entra? Si fa così, per dire.

Maria                             -  C'entra, c'entra. Hai persino comprato una nuova risma di carta da Laganà, e hai chiesto un nastro di ricambio.

Giovanni                       -  Sì, ma non ce l'avevano.

 

Maria                             -  Che importa? Puoi andare avanti con quello vecchio. Non è poi tanto sbiadito. Nelle copie che ho fatto ieri si poteva ancora leggere benissimo. Che cosa te l'ha fatto chiedere, ieri ? .

Giovanni                       -  E che ne so? Ieri, forse, speravo che mi sarebbe venuta qualche idea.

Maria                             -  E non t'è venuta?

Giovanni                       -  No, non m'è venuta.

Maria                             -  Ma tu m'hai detto tante volte che non è questione di idee: che è solo questione di volontà. E quindi, che importa se non t'è ve­nuta l'idea?

Giovanni                       -  L'idea viene sempre, quando c'è la volontà. Vuol dire che non c'è la volontà, ecco.

Maria                             -  Ma la volontà non ci vuole niente a farsela venire. È una questione meccanica: l'hai detto tu stesso tante volte. Ci si siede al tavolo, e tutto comincia da sé. Con un segno: un segno a cui seguono, meccanicamente, altri segni. Ero tanto curiosa, ieri, di sapere come sarebbe cominciato.

Giovanni                       -  Non è così semplice. Se fosse così, lo saprebbero fare tutti: tutti sarebbero scrittori.

Maria                             -  Ma tu m'hai detto sempre che tutti sono scrittori.

Giovanni                       -  Non volevo dire questo. Tutti sono scrittori nel senso che tutti sono uomini e tutti hanno da vivere una vita e da avere delle espe­rienze, e anche la minima fra queste esperienze può essere al centro del mondo, anche se nes­suno la scrive. Ho detto tutta un'altra cosa. Come al solito, tu non hai capito niente.

Maria                             -  Perché sei così sgarbato? Perché dici « come al solito » ?

Giovanni                       -  Scusa. Non volevo dirlo. Oggi sono di cattivo umore.

Maria                             -  Io lo so perché sei di cattivo umore. Non è per il tempo, non è perché ti sei stufato e vuoi tornare in città. Non è nemmeno perché non hai più voglia d'andare a cercare quell'idea nella macchina da scrivere. È tutto per colpa mia. Sono io che ti ho messo il cattivo umore, sono io che t'ho fatto accorgere del tempo, sono io che t'ho fatto desiderare il ritorno, io che t'ho lasciato sfuggire l'idea. Se io non ci fossi, se io non esistessi, saresti già di là, e a quest'ora avresti già scritto cinque o sei car­telle. Tutto quello che potevo darti, te l'ho già dato: ora non m'è rimasto da darti più niente, e tu sei preoccupato. È tutto qui.

Giovanni                       -  Smettila di giuocare alla tua solita sincerità. Certe volte con questa tua smania di sincerità mi fai venire i nervi. La sincerità è soltanto un lusso e non si può pagarselo tutti i giorni. E non è solo un lusso, è una pretesa, è una ipocrisia; non c'è niente di più falso della sincerità. Nessuno può sapere niente e quindi nessuno sa nemmeno se e quanto è sincero. Tu credi che essere sinceri sia così facile. Credi che basti dire tutto quello che si pensa e che con questo si risolve tutto. Il difficile è cercare di capire il significato di quello che si pensa: il vero significato, che non è il primo che viene in mente. Io non lo so. Non so niente, e non ca­pisco niente. Ma tu, in questa storia non c'entri. Io non ho mai detto che vorrei stare solo.

Maria                             -  Non l'hai detto, ma lo pensi.

Giovanni                       -  Ma no, che non lo penso. (Pausa) E poi, io non so mai quello che penso. (Pausa) Non credo che potrei stare senza di te.

Maria                             -  Ma sì che ci potresti stare. Tutte le volte che ti lascio per qualche giorno, sei sempre di buon umore, e quando mi accompagni alla stazione non stai più in te dalla felicità.

Giovanni                       -  Non è vero.

Maria                             -  È vero, è vero. E lo sai bene. Se adesso me n'andassi, troveresti subito che questo posto è bellissimo e che il cattivo tempo è proprio quello che ci vuole per farti lavorare.

Giovanni                       -  Che c'entra! Qualche volta uno può desiderare di concentrarsi, di sentirsi un po' più con se stesso... di... di... di non farsi distrarre dal mondo esterno...

Maria                             -  Finalmente l'hai detta. Così, io sarei il mondo esterno.

Giovanni                       -  Ma no, ma no! Non c'entra niente, non volevo dire questo...

Maria                             -  Io faccio tanti sforzi per capire le cose, e tu me li mandi sempre all'aria. A che serve? È da questa primavera che tutto è un po' finito. Perché non ce lo diciamo?

Giovanni                       -  Ma non è finito niente...

Maria                             -  Perché non diciamo la verità?

Giovanni                       -  E basta con la tua verità...

Maria                             -  La verità non è soltanto mia: è di tutt'e due. A primavera è successo qualcosa... tu ti sei accorto che non avevo da darti più niente, e tutto ha cominciato un po' a morire. È chiaro da tanti particolari.

Giovanni                       -  Ma vuoi finirla...

Maria                             -  No, no. È meglio dire tutto. Non serve a niente fingere che non sia vero. Non serve né a te, né a me. Anche se per me è tanto più doloroso. Del resto io non mi lamento. Te l'ho sempre detto che non mi sarei lamentata, che avrei capito e che mi sarei rassegnata, ed è quello che sta succedendo. È dalla primavera che ho cominciato a rassegnarmi. Non è dif­ficile. Avevo anche pensato che ci saremmo potuti lasciare prima dell'estate. Poi siamo ve­nuti qui: qui tutto ci ha un po' storditi. Poi tu hai cominciato a lavorare e io non ti sono sem­brata più un peso: eri tutto assorto nel tuo lavoro e non potevi accorgerti di niente e nem­meno di me. Non ch'io sperassi di riprenderti: era solo un mezzo per ritardare, per averti ancora un poco. Ma adesso quella proroga è finita. Bisogna fare gli ultimi conti e chiudere la partita. (Maria s'è alzata e sta dietro la pol­trona dì Giovanni, che resta immobile e muto, guardando fuori della finestra) Ti sono grata di non dire niente. Non c'è più niente da dire. Del resto i patti erano chiari, e sono stati ri­spettati. Per me, credevo che sarebbe durato anche meno. Queste cose durano pochissimo, e quando sono finite sembra che non siano du­rate quasi niente. Ma io lo sapevo già prima e perciò non posso rimproverare niente, né a te né a me.

Giovanni                       - (interrompendola e mentre guarda uno dei due registratori). Il nastro è finito. Gira a vuoto da due o tre minuti. Forse anche da più. Del resto l'ultima parte non mi piaceva: m'è sembrata tutta piuttosto falsa. Lei non può lasciarlo così. Bisognerebbe che litigassero, prima. Tutto si svolge con troppa tranquillità. Non succede mai così.

Maria                             -  L'originalità potrebbe essere proprio in questo: nella calma di lei, nella sua apparente serenità. Nel secondo atto, poi, le facciamo spiegare tutto all'amica; lo sforzo che le è co­stato, l'intima lacerazione, sai... tutte quelle cose...

Giovanni                       -  Sì, ma il pubblico, al primo atto, ancora non lo sa che c'è quel colloquio con l'amica al secondo atto, e allora la storia, così com'è impostata, non lo può persuadere. In lei c'è troppo poca passione. Non bisogna dimen­ticare che lei è ancora innamorata, mentre lui non lo è più. Ci vogliono dei contrasti, dei colpi di scena. Magari il colloquio con l'amica, invece che al secondo atto, si dovrebbe mettere al primo, per spiegare tutto al pubblico.

Maria                             -  Ma se si mette al principio, si guasta tutto l'effetto della sorpresa. E poi lei non è tipo da litigare: la nobiltà della rinunzia, del sacrificio e, insomma, tutto il personaggio di lei risulterebbero improbabili, sbagliati, se lei si mettesse a litigare. Non si capirebbe più l'acuto desiderio per lei che riprende lui al terz'atto, in specie dopo che ha litigato e in modo tanto tumultuoso, con Lisabetta.

Giovanni                       -  Sì, forse hai ragione. Ma adesso sono stanco; smettiamo, per un po'. E poi quest'aria mi soffoca. Sai che io non posso soffrire di restare in città quando comincia la primavera. Andiamo in campagna. Sono stufo del telefono, di stare tutte le sere con Rina e Roberto; andiamo in campagna. Ho bisogno di solitudine, di riposo, di non fare niente, di sba­digliare: ho una grande voglia di annoiarmi a morte. Dovresti essere stanca anche tu.

Maria                             -  Io non mi stanco mai, lo sai. E poi De Micheli aspetta il primo atto per domani sera. La copisteria del Pantheon ci mette sempre almeno mezza giornata. Se non lo finiamo per domani a mezzogiorno, non si fa in tempo.

Giovanni                       -  Però che seccatore, questo De Mi­cheli. Potrebbe fidarsi, anche senza il primo atto. Gliene abbiamo già fatti tanti. Il titolo nel cartellone lo potrebbe mettere lo stesso. E quanto all'anticipo per la cauzione, si tratta di quattro soldi.

Maria                             -  E invece io lo capisco. Gli altri anni gli davamo la commedia sempre prima di Na­tale, e oggi siamo a metà marzo e ancora non abbiamo finito nemmeno il primo atto.

Giovanni                       -  Sì, ma il secondo è già tutto scritto, e anche una metà del terzo.

Maria                             -  È questo che non va: gli altri anni co­minciavamo sempre dal primo. Solo l'anno del « Dinosauro » cominciammo dal terzo, pas­sando poi al secondo e poi al primo. E il « Di­nosauro », te lo ricordi, non andò molto bene: anzi, fu un mezzo fiasco.

Giovanni                       -  Non andò bene, perché la parte della ballerina svedese non era adatta a te, special­mente dopo che ti rompesti la caviglia.

Maria                             -  Non vuol dire: la caviglia rotta la met­temmo nel copione dopo l'incidente, e nessuno ci fece caso. Tutti credettero che facesse parte della commedia. Eri tu, piuttosto, che non eri adatto alla parte, specie dopo che cominciasti a farti crescere la barba.

Giovanni                       -  Ma anche la barba la mettemmo nel copione. E del resto, non si poteva fare altri­menti, dopo il contratto con Michelotti per « Ursus contro Golia ». La parte, la parte adatta, si fa per dire! Tutto è adatto e tutto non è adatto. È che tu non eri in forma.

Maria                             -  A non essere in forma eri tu! Io ero in forma straordinaria.

Giovanni                       -  Non cominciamo.

Maria                             -  Va bene, non cominciamo, ma io an­davo benissimo, e lo scrissero tutti i giornali. Anche Carboni.

 

Giovanni                       -  Carboni è amico tuo, e quindi non conta. Quello te la manda sempre buona. Cerca di ricordarti, piuttosto, quello che scrisse Cam­panini.

Maria                             -  E che vuol dire? Campanini è amico tuo, bella forza! A quello non gli pare vero di poter dire che il merito è sempre tuo. Persino le commedie, fa sempre finta di credere che le abbia scritte tutte solo tu.

Giovanni                       -  Come se non fosse vero!

Maria                             -  Ma di' un po', sei matto? Senza di me, non ti sarebbe mai venuta in mente la scena madre de « Il Terzo gode »!

Giovanni                       -  Bella porcheria, « Il Terzo gode »!

Maria                             -  Ma fu un successone! Durò cinque mesi.

Giovanni                       -  Sì, ma solo perché tu facevi lo spo­gliarello.

Maria                             -  Bravo! Prova a farlo tu, lo spogliarello!

Giovanni                       -  E perché no? Un giorno mi ci provo; col pubblico dei teatri di oggi, c'è caso che mi vada anche meglio che a te!

Maria                             -  Ma se hai la pancia!

Giovanni                       -  Me la faccio andare via.

Maria                             -  Sì, a furia di spaghetti!

Giovanni                       -  Bastano le fave di fuca.

Maria                             -  Non dire parolacce!

Giovanni                       -  Senti chi parla! Te, che se non sono indecenze, non le sai nemmeno recitare. A te, il pubblico ti sopporta solo per via di quella faccenda lì: è meglio che la smetta di darti arie di drammaturga. Nemmeno le virgole, sa­presti mettere.

Maria                             -  Ci vuole un bel coraggio! Se tu non sei buono a buttar giù nemmeno una battuta senza la mia imbeccata.

Giovanni                       -  Giusto: imbeccata. L'hai proprio detta. Appena l'avvio, così, qualcosa tanto per partire, ma l'idea è sempre mia, la commedia sono sempre io che la scrivo: e la potrei scri­vere anche se tu non ci fossi. Mentre tu, da sola, non saresti buona a buttar giù un bel niente: non avresti nemmeno mezza idea.

Maria                             -  Ma se tutte le idee sono mie! Tu sei buono solo a metterle in bella copia, a datti­lografarle.

Giovanni                       -  Io? Che faccia tosta! Le ha sempre dattilografate la signorina Fulvia.

Maria                             -  Naturalmente, perché così c'era la scusa d'andare a casa sua.

Giovanni                       -  Che vorresti insinuare?

Maria                             -  Come se fossi cieca! Sono tre mesi che me ne sono accorta.

Giovanni                       -  Mi fai andare in bestia! Io la signo­rina Fulvia non la guardo nemmeno!

Maria                             -  Non la guardi nemmeno perché non usi le lenti Biraghi. Lenti Biraghi, usate sempre le lenti Biraghi. Chi vuol vedere chiaro, guardi Biraghi. Dieci streghe ed otto maghi Fan le lenti alla Biraghi. E qui, di seguito, la solita roba. Non è gran che, ma se si taglia la prima parte, con la storia di De Micheli, Campanini e Carboni, può andare.

Giovanni                       - (manovrando delle chiavette e dei tasti sul magnetofono). Come t'è venuto in mente, De Micheli?

Maria                             -  Niente, l'ho incontrato ieri a via Veneto. Dice che quest'anno i finanziamenti sono assi­curati, e che potrebbe darmi una particina.

Giovanni                       -  E il « Dinosauro », come t'è venuto in mente?

Maria                             -  Per via del « Risveglio del dinosauro » che c'era ieri alla televisione.

Giovanni                       -  E «Il Terzo gode»?

 

Maria                             -  « Il Terzo gode », effettivamente, non è male. Potrebbe farsene uno « sketch » per la pastina glutinata Gambardella. Ieri ha telefo­nato Buzzaglia che avrebbe bisogno d'un testo per la fine del mese.

Giovanni                       -  Però non hanno ancora trasmesso quello della « Bambola di Norimberga ».

Maria                             -  Ma è probabile che vogliano prepa­rarne un certo numero per metterli da parte. A proposito: ha telefonato Ravasenga già due volte per i dialoghi della « Coscienza inquieta ». Ti ricordi dove li abbiamo messi? Sono già passati due mesi.

Giovanni                       -  Devono essere nello scompartimento dei sospesi. (Indica lo scaffale a destra) Mi pare che sia una scatola rossa: ci dev'essere scritto sopra o Ravasenga o Coscienza.

Maria                             - (rovistando nello scaffale). Eccoli. (Porge la scatola a Giovanni) Mettili un po' su.

Giovanni                       - (prende la scatola, tira fuori il nastro, lo sistema sul magnetofono). Non mi ricordo bene com'era la storia. Lei ha avuto un aborto...

Maria                             -  No, no. Quello era « La brughiera gialla»: l'hanno già fatto l'altr'anno, ed è stato un fiasco. La « Coscienza inquieta » è quella con lo zen. Il produttore ha detto a Giovannoni che doveva trovare un filone nuovo, o per lo meno uno che sembrasse nuovo, e così lui s'è buttato allo zen. Ha fatto fare i dialoghi a cin­que o sei persone e quando proprio non sapeva più dove sbattere la testa s'è rivolto a noi. Poi si vede che lui e il produttore avevano altro da fare e se ne sono scordati: ma adesso pare che il film lo vogliano fare.

Giovanni                       - (ha quasi finito di sistemare il nastro). Io però non mi ricordo che storia fosse. Non mi ricordo proprio niente.

Maria                             -  Nemmeno io. È passato tanto tempo. Ma poi, con Giovannoni una storia non c'è mai. Stanno a letto tutti nudi, e parlano, anzi stanno zitti. Dice che tutto sta nel calcolare il ritmo delle pause.

Giovanni                       -  Ma se sono delle pause vorrà pure dire che si dicono qualcosa. (Preme un bottone per mettere in moto il magnetofono) Stiamo un po' a sentire. Ci ricorderemo tutto man mano. (// magnetofono è in funzione. Si sente un lungo fruscio, ma non affiora nessuna parola. Passa mezzo minuto).

Maria                             -  Ma in questo nastro non c'è registrato niente. Forse è un nastro sbagliato.

Giovanni                       -  No, no: è quello buono. Ma co­mincia con una pausa.

Maria                             -  Sarà. (Passa ancora mezzo minuto).

Giovanni                       -  Vedrai che tra poco finisce. (// regi­stratore emette un sibilo) Te l'avevo detto.

Voce di Maria nel magnetofono        -  Ho freddo. (Lunga pausa).

Maria                             -  Bisognerebbe vedere il copione. Sei sicuro che stia a letto?

Giovanni                       -  Mi pare proprio che stesse a letto. Ma il copione non vale proprio la pena di cer­carlo: chissà dove sarà andato a finire. E poi i copioni di Giovannoni non servono mai.

Voce di Giovanni nel magnetofono. Anch'io ho freddo.

Maria                             -  Guarda che ti sbagli. Sono su una ter­razza.

Giovanni                       -  Già, è vero: adesso mi ricordo. Hanno saputo che il marito di lei deve arrivare la mattina dopo, e non hanno ancora deciso se dirglielo subito o aspettare. (Giovanni e Maria si chinano sul magnetofono, aspettando la bat­tuta. Lunga pausa).

Voce di Maria nel magnetofono        - Grazie.

 

Giovanni                       -  Forse le ha acceso la sigaretta, o forse l'ha aiutata a infilarsi un golfino.

Maria                             -  Ma che golfino! Lì sarà questione di pellicce di visone!

Voce di Maria nel magnetofono        -  No, non così.

Maria                             -  Forse lui non riesce a infilarle la manica.

Giovanni                       -  No, no. Lui ha tentato di baciarla, ma lei non vuole.

Voce di Maria nel magnetofono        -  Non adesso...

Giovanni                       -  Te l'avevo detto.

Voce di Maria nel magnetofono        -  Adesso mi sento di pietra. Vedi, è come se fossi di pietra, e le tue carezze non potessero farmi nessun effetto. Sì, riscaldano un poco. Ma non rie­scono a modificarmi. Sento le tue mani che mi sfiorano, le sento vibrare, ma in me non pro­ducono nulla. È come se fossi di pietra. Lì sei tu, sempre più agitato, sempre più convulso, che mi stringi, che quasi mi fai male; e qui sono io, che non sento niente, non provo niente, che sono di pietra. È come se stringessi un'altra. Chi stai stringendo, Paolo ? Chi è quella che stai tormentando così? Non sono io: io è come se fossi altrove, in un altro luogo, in un altro paese, in un altro mondo. Mi sento lontana lontana, lontana nel tempo e nello spazio. Mi sento una statua nel deserto: sono sola col vento... sola col vento... ma anche il vento non può fare nulla, con me... non può scompigliare i miei capelli di pietra... sento che si arrovella, che mi avvolge tutta, che quasi vuole strapparmi da dove sono, svellere le mie radici, eppure io resto immobile, insensibile... l'espressione del mio volto proteso a guardare dinanzi a me non subisce nemmeno il più impercettibile muta­mento... io non rido, io non piango... sul mio volto di pietra l'eternità ha inciso un segno eterno... (Fin dal principio di questa battuta. Maria s'è alzata, s'è infilata un golf, s'è annodato un fazzoletto in testa, è andata alla porta di fondo a destra, che dà nella cucina, ed ha preso una sporta).

Maria                             -  I broccoletti li abbiamo fatti ieri; che vuoi per oggi?

Giovanni                       -  Vedi un po' se trovi qualche carciofo da fare alla giudia.

Voce di Maria nel magnetofono        -  ...sulla mia fronte impassibile si ostinano le stagioni deluse...

Maria                             -  Gli gnocchi di ieri mi hanno fatto un po' di pesantezza. Che ne diresti se oggi ti facessi un brodino con le farfalline?

Giovanni                       -  Per me fa' quello che vuoi: basta che non ci metti l'aglio...

Voce di Maria nel magnetofono        -  ...le mie narici non palpitano più... i profumi di tutti i giardini e di tutte le serre tacciono brividenti di fronte alla mia insensibilità di pietra...

Maria                             -  Se la trovo, ti faccio la pagliata. E se non la trovo, ti faccio le animelle...

Voce di Maria nel magnetofono        -  ...il silenzio ha sigillato le mie labbra: anche ora, quella che tu odi non è la mia voce... è solo un'eco lon­tana dei miei pensieri che ti raggiunge oltre le barriere del tempo... in me è spenta ogni passione... in me non vive più neppure la linfa più esangue... sono un fossile...

Maria                             -  Passerò dal calzolaio per la risuolatura dei mocassini e dalla tintoria per la tua giac­chetta di flanella. Ce l'ho portata tre volte, questo mese. Non è per la spesa, ma è che col lavaggio a secco si sciupa. Solo che dovresti darmi anche i calzoni.

Giovanni                       -  Ma i calzoni sono puliti. (Indica i calzoni che porta) E poi ce l'ho addosso.

Maria                             -  Non vuol dire. Siccome a ogni lava­tura il vestito cambia di colore, bisogna che lavino anche i calzoni. Su, dammeli. (Giovanni si alza e sì sfila i calzoni, restando in mutande).

Voce di Maria nel magnetofono        -  ...anche la mia nudità è ammantata di pudore... la pietra svela il segreto più intimo del mio corpo, eppure non sono mai stata più inaccessibile di adesso...

Maria                             -  Dammi diecimila lire.

Giovanni                       -  Sono lì, nel portafoglio.

Maria                             - (tira fuori il portafoglio dalla tasca dei calzoni di Giovanni, e glielo porge). Bastano anche cinque. (Giovanni cerca nel portafoglio, prende delle banconote e le dà a

Maria                            -  Poi posa il portafoglio su un tavolino accanto).

Voce di Maria nel magnetofono        -  ...la cupi­digia ha allentato il suo morso... cumuli di tesori naufragati risvegliano solo più indiffe­renza... la pietra disdegna l'oro fallace... il suo lustro effimero e ambiguo... scabra e porosa qual sono, nulla più assorbo, nulla più respiro... è cominciato il tempo senza fine...

Maria                             -  Allora ciao. (S'incammina zoppicando) Tutto questo zen m'ha fatto addormentare un piede. Ho paura che bisognerà rifare tutta la scena da capo. Ma adesso vado, tanto ci metto solo un quarto d'ora. Quando ritorno, rifac­ciamo il primo atto di quei due che si sepa­rano... (Si aggiusta il fazzoletto in testa, porge una guancia a Giovanni che la bacia, ed esce per la porta di destra. Giovanni interrompe il nastro che sta girando e lo ricarica all''incon­trario. Si sente la voce dì Maria capovolta col solito effetto di stridore. Ma il nastro si riav­volge in pochi minuti. Giovanni, nel frattempo, cerca nello scaffale un altro nastro, lo trova, aspetta che l'altro sia riavvolto e lo sistema al suo posto. Preme il bottone e si dispone a sentirlo).

Voce di Giovanni nel magnetofono  - L'arte non è che un segno. Anche un suono non è che un segno. La cattedrale di Chartres, un sonetto di Petrarca e un quartetto di Beethoven sono solo dei segni: ma sono «quei» segni e non « altri » segni. L'importante è di intendere la loro natura di segni, il significato è solo un fattore accessorio, che non ha nessuna impor­tanza, e ad ogni modo è sottinteso che il signi­ficato è destinato a mutare, di volta in volta: non è mai lo stesso, in. una stessa opera, lungo lo svolgersi del tempo: il significato muta a seconda del contesto in cui l'opera emerge e a seconda di coloro che si propongono di en­trarvi in rapporto. Un'opera d'arte può avere un significato al mattino e uno diverso al po­meriggio, uno alla sera e uno alla notte. La sola cosa che resta immutata è il segno: il significato è la sua parte caduca e mortale, il segno è la sua parte indistruttibile ed eterna. E poiché è sempre dal segno che un artista si deve lasciare guidare, l'artista, tanto per comin­ciare, deve procurarsi questo segno. Essendo immortale, il segno è anche, di per se stesso, raro: ma è la sola cosa della quale l'artista deve mettersi in cerca. Tutto il resto non conta niente. Hai capito, cara?

Voce di Maria nel magnetofono        -  Come sei affascinante, Giorgio, quando parli così. Mi sento rabbrividire tutta di sensualità. Voce di Giovanni nel magnetofono. Rive­stiti, che sennò prendi un raffreddore.

Voce di Maria nel magnetofono        -  Ma io non rabbrividisco di freddo, rabbrividisco per l'e­mozione!

Voce di Giovanni nel magnetofono  -  Non dire stupidaggini! Qui ci sono troppe correnti d'aria. Hai la pelle d'oca sulla pancia. Si vede anche da qui. E poi può entrare qualcuno, da un momento all'altro. Ficcati almeno sotto le lenzuola.

Voce di Maria nel magnetofono        -  Sì, ma se vieni anche tu, vicino a me, solo tu riesci a scaldarmi. (Pausa) Su, vieni... vieni, fai il bravo... (Si sente squillare un campanello. Giovanni si alza per andare ad aprire. A metà strada, s'ac­corge di essere in mutande e sì guarda attorno per cercare qualcosa con cui coprirsi. Afferra una coperta sul divano e se la mette attorno ai fianchi. Poi esce verso l'ingresso. Si sente parlot­tare, di là). Voce di Giovanni nell'ingresso. S'accomodi.

Valzacchi                      - (entrando). Mi scusi. Ma proprio non sono riuscito a trovare un altro momento.

Giovanni                       -  Ma si figuri. Sono solo. Mi dispiace di non poterle offrire un caffè... ma se gradisce una... una... una grappa...

Valzacchi                      -  A quest'ora! per carità! non s'in­comodi. Tanto i nostri affari si sbrigano in due minuti. (Cerca intorno, dove possa mettersi a sedere).

Giovanni                       -  Si segga qua. (Sgombra un po' di carte da un angolo del divano).

Valzacchi                      - (siede). Dunque... (Comincia a esa­minare alcuni fogli che ha tratto da una cartella) Per il mese di maggio e di giugno, ci sono solo due o tre fatture saldate: si tratta di poco, pur­troppo. I formaggini Sbrecca: solo 50.000. Per­ché non hanno potuto realizzare l'idea. Ma si riservano di farlo. Ad ogni modo l'hanno com­prata. Poi ci sono 200.000 per lo « sketch » del film « Totò al neon ». Il film è già fatto, ma la censura l'ha fermato. Per ora non pos­sono dare di più. Per luglio è venuto un asse­gno dal produttore di « Centomila dollari per un mafioso ». Dice che può dare solo un terzo, perché è stato consegnato solo un terzo del dialogo. Ma dice che non ha fretta. Prima aspet­tano di vedere come va « Una colt per Bìlly the Kid»: per ora l'hanno presentato solo a Livorno e al festival di Casamicciola, e non hanno ancora lanciato il disco. Ma il contratto prevedeva queste difficoltà. Baroncelli non ha pagato, e a tutte le telefonate che ho fatto al produttore e all'agente non ha risposto nes­suno: forse hanno cambiato telefono. Vedrò. Ci sono 20.000 per il ritocco ai dialoghi di «Giuseppe nudo » - ma adesso il film si chiama « Giudicca in topless » - e dicono che non pos­sono dare di più, anche perché hanno potuto utilizzare solo due scene. Tutto qui. Ma ci sono delle proposte. Non sono gran che perché sono tutte di film d'arte e di commedie impegnate. Le lascio le lettere con i particolari. (Porge due buste) C'è anche una richiesta d'un romanziere, che concorre al premio Metaponto. E c'è anche uno studente che si deve laureare sugli... sugli... vediamo... sugli « Aspetti sociali nei romanzi di Gissing ». Ho l'impressione che questa tesi l'ab­biamo già fatta. Se è così, si potrebbe rinfre­scare. Ma se non c'è già, non vale la pena, perché lo studente non può pagare più di 50.000. Se non c'è, si può suggerirgli di vedere nelle inserzioni dei giornali del mattino. Questo delle tesi è un ramo che, francamente, rende poco: forse converrebbe chiuderlo. Anche il commendatore lo consiglia. Più interessanti sono due proposte di due aspiranti a cattedre universitarie. (Esamina un foglio d'appunti) Veramente, adesso che vedo bene, sono aspi­ranti alla stessa cattedra: « Estetica applicata ». L'ordinazione ci è venuta tramite il professor Magrini - ricorda? - quello che facemmo vin­cere al concorso di Storia delle religioni del Sud Africa. Pagherebbero bene. Ma non sanno l'uno dell'altro. Voglio dire non sanno che la proposta di scrivere i titoli supplementari è stata fatta alla stessa organizzazione: e quindi biso­gna fare un po' d'attenzione. Le lascio qui l'appunto sugli articoli e le comunicazioni acca­demiche che ancora mancano. Per questo titolo qui, vede... (indica il foglio) « Princìpi di lin­guaggio nell'espressione dell'inconscio », si po­trebbe utilizzare tutta la prima parte del nastro che avete preparato per quel film di Giovan-nonì, che poi non si fece. Almeno fino alla teoria del segno: la teoria del segno non si può metterla in questo opuscolo, perché è un pal­lino dell'altro candidato. Del resto c'è sempre caso che Giovannoni, prima o poi, il film lo faccia. Bastano una cinquantina di cartelle: ma con molte note, e almeno due pagine di bibliografia con qualche titolo tedesco. L'altro candidato avrebbe bisogno... vediamo... ve­diamo... ecco! (Legge) Avrebbe bisogno di una nuova traduzione della Poetica di Aristotele con prefazione e commento. Bisogna stare attenti a non prendere niente dal libro di Tri­stano della Pantera, perché sarà certamente tra i commissari e se ne accorgerebbe: ma quasi tutti gli altri commentatori sono morti e non c'è da aver paura. Veda un po' lei. Il candi­dato ha scritto in riviste d'avanguardia, e non può farci la figura del parruccone. Ma nella commissione c'entrerà certamente il professor Pantanella, che ha tutti i voti, riuniti insieme, e del Gesù e delle Botteghe Oscure, e quindi bisogna andarci piano: un po' di Sturzo, un po' di Croce, un po' di Gramsci... un po' di... un po' di... lei sa benissimo quel che voglio dire. (Tira fuori una cartella con dei fogli e la porge a Giovanni) Queste sono le ordinazioni rifiutate. Stia un po' più attento. Questo mese ce ne sono sette. Vedrà che, almeno in due casi, si tratta di proposte irrimediabili. Le altre possiamo passarle a qualche altro cliente. (La porta del fondo si apre e rientra Maria con la sporta della spesa gonfia. Fa un cenno di saluto, si toglie il fazzoletto dalla testa e si dirige in cucina, facendo dei segni di risposta ai convene­voli di Valzacchi, come per dire che non si disturbi, che tanto lei ha da fare) Non ho altro. Ah! dimenticavo: c'è un film di coproduzione jugoslava e turca. Cercano un soggetto avven­turoso, un po' « Mille e una notte » e un po' fantascienza. E per ultimo, una cosetta da poco, che la può fare vostra moglie in mezz'ora: si tratta del poeta Silvestrini - sapete, quello del premio Pomezia - che ha scoperto sulle ultime bozze (porge le bozze) addirittura un duecento versi che fanno senso. E ci sono ventidue rime involontarie e persino una dozzina di assonanze: bisogna farle sparire. Qui (porge altre bozze) c'è l'ultimo poemetto di Rampolla: dice che in una quarantina di casi la rima non gli è venuta proprio bene: vedete se potete utiliz­zare le rime che toglierete a Silvestrini... Per oggi, non ho altro. Salvo questi due nastri, che in questo momento non mi ricordo di chi siano, ma visto che c'è il vostro nome, si tratta di cosa che, in qualche modo, vi riguarda. E adesso facciamo i conti. Anzi, verifichiamoli, perché li ho già fatti. Qui c'è la somma fatta con l'addizionatrice, e questi sono gli assegni che corrispondono a tutte le cifre. Io li ho già spuntati, e adesso potete verificare voi.

Giovanni                       -  Mesata piuttosto magra. Dal Buzzaglia mi aspettavo di più.

Valzacchi                      -  Vi rifarete col professor Pantanella il mese prossimo. Quelli pagano bene. Ed ora vi lascio. (Porge la mano).

Giovanni                       - (alzandosi e stringendo la mano). Mi dispiace... avrei voluto ricevervi meglio... Mi vorrete scusare...

Valzacchi                      -  Non fate complimenti. Al mese prossimo. (Saluta ed esce. Giovanni lo segue. Chiude la porta e rientra. Rimane per un mo­mento in piedi a grattarsi la testa. Poi va verso gli scartafacci che ha lasciato

Valzacchi                      -  Ne prende uno, lo sfoglia. Lo posa, ne prende un altro. Lo sfoglia, lo posa. Prende uno dei due nastri che ha lasciato Valzacchi: guarda la scatola da tutte le parti. L'odora. Tira fuori il nastro, lo sistema nel registratore. Fa funzionare l'appa­recchio. Poi va di nuovo verso il divano per met­tere un po' d'ordine. Nel magnetofono scoppia una musica del Settecento, per archi e tromba, qualcosa come Telemanno Bach. Giovanni si volta, sorpreso. Sta a sentire. La musica continua per un po'. Poi si sente un vocìo confuso, come di molta gente in un salotto: ma subito si distin­guono due voci, tutt'e due maschili, che dialo­gano).

Prima Voce                   -  Come diavolo si fa a fermare questo coso qui?

Seconda Voce               -  Si gira quel coso là.

Prima Voce                   -  Non si ferma. Prova a cosarlo tu.

Seconda Voce               -  Forse bisogna cosare quel coso rosso

Prima Voce                   -  Il coso rosso l'ho già cosato prima, ma non succede niente.

Seconda Voce               -  Spingi il coso verde.

Prima Voce                   -  Non succede niente.

Seconda Voce               -  Come non succede niente? Non vedi che s'è cosato?

Prima Voce                   -  A me mi sembra che cosi sempre.

Seconda Voce               -  Ma no: sembra che si muova, ma è fermo. Lascia, lascia, non cosare più niente: si cosa da sé.

Prima Voce                   -  Speriamo. Io non so perché a Giovanni gli ha presa questa mania di regi­strare.

Seconda Voce               -  Dice che fa prima. Sai, con tutte le ordinazioni.

Prima Voce                   -  Faranno quattrini a palate.

Seconda Voce               -  Più di quanto tu non creda. (Entra Maria, e comincia ad apparecchiare la tavola).

Prima Voce                   -  Non capisco perché la moglie va in giro sempre vestita così male.

Maria                             -  Di chi stanno parlando?

Giovanni                       -  Di te.

Maria                             -  E chi sono?

Giovanni                       -  Sono Giovannoni e Baroncelli, non li riconosci? Ma sta' zitta! fammi sentire. Prima Voce         - (seguitando) ...Pure, da un po' di tempo non è più lo stesso. Si ripete. Per la prima versione della « Coscienza inquieta » ha tentato di rifilarmi dei dialoghi che aveva già messo nel « Tutti gabbati » di Bolsetti e sono preoccupato perché ha messo tanto di quello zen nel soggetto del « Davanzale dei gerani » che davvero non so quanto glien'è restato da mettere nella « Coscienza inquieta ». Non ci si può fidare più di loro; lavorano troppo, e qualche volta gli succede di scambiare le ordi­nazioni. Una volta m'hanno fatto avere per sbaglio tutta la sceneggiatura d'un film di Bolsetti che si sarebbe dovuto cominciare il mese dopo, e io senza saperne niente l'ho cominciata a girare, anche se c'era qualche cosa che mi pareva non quadrasse. Figurati che ho dovuto interrompere dopo quindici giorni, fare le scuse a Bolsetti e, per farmi perdonare, naturalmente, gli ho dovuto cedere tutto il materiale girato, compresa una magnifica sequenza nella metro­politana di Londra, che Bolsetti non se la sarebbe mai sognata. Lui, è vero, m'ha pro­messo di darmi tutta la corsa al Palio di « Città turrita » da inserire nello « Sparviero di Vol­terra »: ma poi non se n'è fatto niente.

Seconda Voce               -  Già, ricordo. D'altra parte non si può negare che Giovanni, anzi Giovanni e Maria, siano bravi, e soprattutto che siano velocissimi: ho l'impressione che abbiano una infinità di materiale già pronto: magari sarà schedato male, questo sì, ma quando non si sa a che santo votarsi, loro hanno sempre qual­che idea e qualche pezzo che fa al caso. Pare che avessero cominciato col fare certe tesi di laurea a pagamento, perché lei, prima di fare l'attricetta, s'era laureata in lingue.

Prima Voce                   -  E lui, da dove viene, che faceva prima ?

Seconda Voce               -  Non so, se ne dicono tante. Pare che fosse nella redazione di « Arte e In­dustria», e che s'occupasse di pubblicità: ha pubblicato anche due romanzi in gioventù e un volume di poesie sulla Resistenza: ma nessuno le ha mai lette. Hanno anche detto ch'era nell'Ovra, ma nelle liste ufficiali il suo nome non c'era. (// nastro è finito e comincia a girare vor­ticosamente).

Maria                             -  Ma che laurea in lingue! Magari l'avessi presa! Dove le avrà pescate Giovan­noni tutte queste balle?

Giovanni                       -  Chissà! La faccenda dell'Ovra lo sanno tutti che è una questione di omonimia: ci sono state un'infinità di smentite sui gior­nali. Se lo incontro, gli assicuro che la pros­sima volta lo querelo. Ma le poesie non erano sulla Resistenza: lui voleva alludere al « Soli­tario di Gardone », e a « X Mas », due poe­metti in martelliani pubblicati a Padova nel '44. Ma avevo diciott'anni. Fanno tanto gli infor­mati, ma non sanno niente.

Maria                             -  Che ore sono?

Giovanni                       -  Le undici e mezzo.

Maria                             -  Abbiamo ancora due orette. Io dico che forse ce la facciamo a finire il prim'atto.

Giovanni                       -  E io dico che non ce la facciamo, perché bisogna rifarlo dal principio.

Maria                             -  Ma abbiamo due ore. Un atto non dura mai due ore.

Giovanni                       -  Va bene, comincia tu: io, oggi, non mi sento. (Sistema un nastro nuovo nel magne­tofono).

Maria                             - (componendosi tutta nella parte). Oggi è cominciato l'autunno. L'anno, da oggi, prende un poco a morire. E anche noi moriamo con lui...

Giovanni                       -  Ma no... ma no! Una cosa più sem­plice, più dimessa: lei comincia a montare il tono solo alla fine dell'atto, quando decidono di separarsi. Una cosa come: «Non ti pare che faccia un po' freddo... che stupidi a lasciare il maglione in città... » e roba del genere.

Maria                             - (si ricompone, in tono minore). Sarà me­glio chiudere quella finestra. Ormai l'estate è finita, e con la tua mania di non volerti mai coprire, ti piglierai un malanno.

Giovanni                       -  Sì, così va bene: questa roba l'ag­giusteremo poi. Va' al sodo.

Maria                             -  Che hai contro di me, Paolo?

Giovanni                       -  Non si chiama Paolo, si chiama Agostino. Paolo è quello della «Coscienza in­quieta ».

Maria                             -  Paolo o Agostino, fa la stessa cosa.

Giovanni                       -  Non fa la stessa cosa: è tutto un modo diverso di essere: sono quattro sillabe invece di due, e le battute cambiano tutte di ritmo.

Maria                             -  Che hai contro di me, Agostino?

Giovanni                       - (ferma il magnetofono). No, così non può andare: la battuta è sforzata e poi bisogna inventare prima la macchinetta per cui lei gli fa la domanda. Non so; lui potrebbe dire: «Senti, lasciami un po' in pace: non vedi che sto lavorando ? ». (Rimette in moto il magne­tofono).

Maria                             -  Che hai contro di me? Perché mi tratti così male?

Giovanni                       -  Non ti tratto male: sono solo un po' stanco. Non mi riesce di concentrarmi. Ti prego, lasciami solo.

Maria                             -  Non sei più lo stesso, Agostino. Ti lascio solo, va bene. Ma non sei più lo stesso. Mi nascondi qualcosa.

Giovanni                       - (interrompendo bruscamente il magne­tofono). Ma no, ma no! Non va: è troppo banale, prefabbricato. Che hai stamattina?

Maria                             -  Non lo so. Dev'essere stata quella fac­cenda di Giovannoni e Baroncelli. Proprio « at­tricetta » non direi. Ho avuto qualche successo, ho fatto qualche parte d'impegno. E poi c'è tutto il periodo di Siracusa.

Giovanni                       -  Già, quando eri soprannominata « l'attrice all'aperto ».

Maria                             -  Ho fatto Ecuba, ho fatto Clitennestra: via! proprio « attricetta » non direi.

Giovanni                       -  Ma che ti stai a preoccupare. Giovannoni è un impulsivo. Su, lavoriamo. (Rimette in moto il magnetofono).

Maria                             - (sì ricompone). Posso rimettere in ordine la stanza?

Giovanni                       - (brusco). Non adesso, te ne prego. Adesso lasciami solo.

Maria                             -  Perché sei così sgarbato?

Giovanni                       -  Non sono sgarbato. Ho molto da fare. Devo concentrarmi.

Maria                             -  Va bene, va bene. Ma non c'è bisogno di dirlo con quel tono. Me ne vado.

Giovanni                       -  No, resta, resta quanto ti pare. Fa' quello che vuoi: tanto m'è passata la voglia di lavorare.

Maria                             -  Non vorrai dire che te l'ho fatta pas­sare io.

Giovanni                       -  Io non dico niente... e qui ci met­tiamo una lunga pausa, come quelle di Giovan­noni. Tu ti giri, rassegnata, vai verso la porta muovendoti lentamente, come riluttante. Arri­vata alla porta ti giri a guardare me, che ti volgo le spalle, continuando a stare seduto al tavolo. (Maria esegue).

Maria                             -  Che hai, Agostino?

Giovanni                       -  Non ho niente.

Maria                             -  Non è vero: è successo qualche cosa, e ci vuol poco a capire che cosa.

Giovanni                       -  Io qui non rispondo niente. Anche qui ci mettiamo una lunga pausa.

Maria                             -  Ho capito, Agostino. Ho capito tutto. Non hai bisogno di dire niente. L'avevo capito da tempo. Dal principio dell'estate. Avevo spe­rato... m'ero illusa.

Giovanni                       -  Ecco, qui ci puoi mettere quella sto­ria dell'autunno che comincia a morire: qui il tono è abbastanza montato e puoi andare avanti con quella tua roba svenevole...

Maria                             -  L'autunno comincia a morire, e con lui moriamo un po' anche noi.

Giovanni                       -  Pausa. Lunga pausa.

Maria                             -  Ma non ti preoccupare, per me; io ero preparata. Al cader delle foglie... (Squilla il tele­fono).

Giovanni                       - (staccando il ricevitore). Pronto! pronto sono Mantovani... sì, sì!... ho capito... no, no... sì... sì... no, no... sì, sì! ma eravamo d'accordo per sabato sera... ah, no! non è pronto niente: eravamo d'accordo per sabato sera... no, no, oggi è giovedì, ma che dico? è addirittura mercoledì... ancora non è pronto niente. Eh, perbacco! potevate dirmelo prima... e io come faccio ? (Mette la mano sul ricevitore. A Maria) Figurati che vogliono la scena tra il bulletto e la serva a ore alle quattro del pome­riggio... (Nel microfono) Capisco, sì, capisco che viene Borgatti, ma io come faccio... sì, sì, capi­sco... (A Maria) Dice che pagano una penale, un premio, che ne so?

Maria                             -  Chiedi quanto.

Giovanni                       -  Dipende... dipende... quanto? ah, ho capito: in conto copisteria? va bene, ma quanto ?

Maria                             -  Quanto?

Giovanni                       - (con la mano sul ricevitore, a Maria). Dice sulle centocinquanta.

Maria                             -  Chiedine trecento.

Giovanni                       -  Facciamo duecento e mandatemi il fattorino alle quattro... no, o duecento o niente... e mandatemi il fattorino alle quattro perché io non posso muovermi... va bene, va bene... mi raccomando: non prima delle quattro. (Riap­pende il ricevitore. Mette in moto il microfono e continua, senza cambiare il tono della voce) Mi pare d'averla già vista.

Maria                             -  Io non ricordo.

Giovanni                       -  È mai stata dalle parti del Tufello ?

Maria                             -  Al Tufello? e chi ci va mai. Io sto a Ponte Milvio.

Giovanni                       -  Già, Ponte Milvio. Adesso mi ri­cordo. È stata forse a ballare da Ciancaribella?

Maria                             -  Io? Ma che dice?

Giovanni                       -  Mi pareva.

Maria                             -  Ma lo sa che lei è un bel tipo... ah, no! stia con le mani a posto.

Giovanni                       -  E che sarà mai... una carezza...

Maria                             -  Accidenti alla carezza! Chissà che livido m'ha fatto...

Giovanni                       -  Eh, adesso pure il livido...

Maria                             -  Un momento, bisogna che vada a spe­gnere il gas nel forno. Torno subito. Tu puoi continuare da solo.

Giovanni                       -  No, perché il nastro è finito. Vengo di là a farmi un « sandwich », mentre questi si scaricano. (Manovra prima su un magneto­fono e poi sull'altro. Esce per la porta della cucina. I due magnetofoni si scaricano e, per un errore nella manovra, parlano tutte due, come dialogando).

Voce di Giovanni         -  Adesso pure il livido, le strappate dalle mani, voi, certe cose...

Voce di Maria               - (dopo una pausa). Mi sento il corpo fasciato dalle alghe marine...

Voce di Giovanni         -  ...e sta' ferma, tanto qui non ci vede nessuno...

Voce di Maria               -  ...le mie dita si sono trasfor­mate in coralli...

Voce di Giovanni         -  ...ammazzelo come sei cat­tiva...

Voce di Maria               -  ...il bombito delle correnti ma­rine risuona alle mie orecchie come un monito di morte...

Voce di Giovanni         -  ...me lo dia un bacetto...

Voce di Maria               -  ...relitte ho per sempre le pla­ghe degli iperborei...

Voce di Giovanni         -  ...mo' t'ammollo 'no sga­nassone che levati!... (Continuano, ad libitum. Giovanni e Maria si sono fatti sulla porta della cucina. Maria gira un mestolo dentro una ter­rina. Giovanni sbocconcella un «sandwich ).

                                                          FINE