Lettere d’amore

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Lettere d’amore

Commedia in tre atti di Gherardo Gherardi

PERSONAGGI

ANNAPIA, anni 38
ANTONIO, suo padre, anni 68

SILVIO, suo fratello, anni 24

ALBERTO GHINI DORIA, anni 40

GIOVANNI DALA, anni 45

FRATESCHI, anni 40

CLARA, anni 60

MODELLA, anni 22

L'epoca è indifferente. I personaggi del secondo atto hanno tutti venti anni di meno che nel primo e nel terzo

 


ATTO PRIMO

La scena rappresenta una luminosa sala con due ampie finestre, una delle quali si aure a porta su una terrazza piena di fiori. L ar­redamento della sala è ad uso studio di pit­tura. Un grande cavalletto con un quadro incominciato verso la finestra di destra. Tele, quadri, abbozzi e disegni lungo le pareti. Una grande tavola a sinistra, alta ed incli­nata, per disegni, una pedana di legno pres­so il cavalletto per i modelli. (Quando si alza la tela, in scena è soltanto una giovane donna vestita mitologicamente da primavera, in posa immobile. Il sole la illumina. Però dietro il cavalletto, il pittore non c'è. Dopo un attimo entra Savio, un. giovanotto di circa 24 anni, molto disin­volto).

Silvio                 - (fingendo di rimanere estatico davanti alla modella) Oh, come sei bella...

Modella             - Taci!

Silvio                 - Che cosa sarebbe quel costume?

Modella             - Oggi rappresento la primavera senza fiori.

Silvio                 - (si guarda intorno) Ma... ti ha la­sciata sola?

Modella             - Pare che sia arrivata una zia.

Silvio                 - E’ arrivata zia Clarissa? Allora sie­diti un momento. Scendi dal simbolo.

Modella             - Non posso. Mi ha detto: sta ferma.

Silvio                 - Se è arrivata la zia Clarissa non tornerà tanto presto. (Le si avvicina e la bacia).

 Modella            - No, no. Mi rovini la posa. Poi se n'accorge e mi manda via.

Silvio                 - Ti assumo io.

Modella             - (divincolandosi) Non scherzare cosi.

Silvio                 - Non scherzo, cara. Non ti ho detto che ti sposo? Appena muore zia Clarissa io eredito e si vola, insieme, verso la feli­cità.

Modella             - Oh... -(lo abbraccia).

Silvio                 - E tanto per cominciare ti porto a colazione in campagna. Domando cento lire a papà. (Si interrompe). Ecco mia so­rella, riprendi la posa... su. (Mentre la modella si mette di nuovo sulla pedana per riprendere la sua posa, Silvio la guar­da di lontano come se il pittore fosse lui). Bene... più su quel braccio.

Modella             - Ma no, era così.

Silvio                 - Sta malissimo. Più fuori quel pie­dino.

Annapia             - (entra in abito da lavoro: giacchet­ta semplicissima e gonna-calzoni) Cosa fai? Ma chi ti ha permesso... (Guardando la modella e andando verso di lei). Fate­mi il favore, signorina, rimettetevi come eravate prima. Così, così. Oh...

Silvio                 - Bè, così a me non piace. Annapia - Che cosa avete? Siete così rossa... Silvio Colpa mia. Si è vergognata di farsi vedere in camicia da me.

Annapia             - Fammi il piacere di levarti di tor­no. Vai a salutare la zia Clara.

Antonio             - (entrando) Zia Clara si domanda se ha mai avuto un nipote chiamato Silvio.

Silvio                 - L'ha avuto, l'ha avuto, sicuro che l'ha avuto, e l'avrà fino alla sua morte. (Esce).

Annapia             - (si è rimessa a dipingere al caval­letto).

Antonio             - (irrequito, girando avanti e indie­tro) Era meglio che l'avessi lasciata do­ve era.

Annapia             - Chi?

Antonio             - Quella vecchia di mia cognata!

Annapia             - Stai fermo un momento papà. Sei H più irrequieto senatore che si sia mai visto.

Antonio             - (sedendosi un momento) Ecco il vero aggettivo. Irrequieto. L'altro giorno invece in senato un amico mi ha detto: Sai che ti trovo ringiovanito? Scemo! sto per finire! -(Si mette la testa fra le mani). Oh...

Annapia             - (andandogli vicino, consolatrice) -Su, su papà. Spero che lo farai per ischerzo, no? Ma guarda come si riduce l'eroe di tante battaglie, il giornalista clamoroso, il polemista intrepido. Ma che sei diven­tato?

Antonio             - Padre, sono diventato padre!

Annapia             - Lo sei da tanto tempo.

Antonio             - Ma oggi mi fa male.

Silvio                 - (annunciando con comica solennità) Zia Clara de Puttis.

Antonio             - (alzandosi) Eccola qua.

 

Clara                  - (entrando) Oh... che bello! che bel­lo! Quanta luce, quanta grazia. Quanto colore.

Antonio             - (fra sé) Eh, già, se non c'è co­lore qui...

Clara                  - (andando dietro il cavalletto della pit­trice) Ma che stai facendo? Quella lì? (Guarda la modella). A me pare tutta un'altra cosa.

Annapia             - Non è finita zia. Vedrai dopo.

Clara                  - (guardando la gonna di Annapia) Scusa un po': fa vedere... (Le scosta un lembo). Ma sono calzoni.

Annapia             - Si, zia. Calzoni.

Clara                  - (si chiude in un dignitoso riserbo e va a sedersi in proscenio in una poltrona).

Silvio                 - Zia cara, che ti prende? Parla. Son qui io ad ascoltarti, con tutto l'affetto e la comprensione di un nipote disinteres­sato.

Clara                  - Che vuoi che ti dica? Basta met­tere il naso alla soglia di questa povera casa, per comprendere che qui manca una mano direttrice.

Antonio             - Oh, senti, finiscila.

Silvio                 - La zia ha ragione. Chi comanda aui? Diciamolo francamente. Chi coman­da qui?

Antonio             - Senti caro, fammi la cortesia di andartene. E subito anche.

Silvio                 - Qui mi si manda sempre via. Dam­mi cento lire...

Antonio             - (senza por tempo in mezzo mette mano al portafoglio e gli dà le cento lire).

Silvio                 - Grazie, arrivederci. (Sventola le cen­to lire in direzione della modella e se ne va)

Clara                  - Gli hai dato cento lire? Che sene fa?

 Antonio            - Non lo so.

Clara                  - Potevi domandarglielo.

Antonio             - Non voglio abituare i miei figli alla menzogna.

Clara                  - Li abituerai alla dissipazione. E poi dimmi che in questa casa c'è ordine. Po­vera casa!

Antonio             - (alla modella) Andate pure. Per oggi basta.

Modella             - Come volete. Buongiorno. (Esce).

Clara                  - Miei cari, vi dico subito che sono venuta per ubbidire all'invito di mio co­gnato, ma che non intendo affatto rima­nere. Mi trovo male io in famiglia. Tanto più che non so a che mai io possa servirvi.

Annapia             - Sono stata io che ti ho voluta qui, zia,

Clara                  - A far che?

Annapia             - Una zia è sempre utile in una casa.

Antonio             - Può essere una distrazione.

Clara                  - Non faccio la governante. Lo sapete benissimo.

Annapia             - Ma se papà resterà solo...

Antonio             - Solo! Solo! Guardami bene negli occhi. Quando dici certe cose mi fai pau­ra. Vuol dire che hai deciso?

Annapia             - Io? Nulla. Ancora nulla. (Anto­nio sospira).

Clara                  - Sposati cara, sposati pure. Non bi­sogna guardar tanto per il sottile in certi casi. E poi è un bell'uomo, almeno lo era, un uomo serio. E' stato anche ce­lebre.

Antonio             - A suo tempo.

Annapia             - Non ho deciso nulla. Che vi de­vo dire? Perciò ti ho voluto qui, zia: per esaminare il prò e il contro, molto seria­mente. Ora lasciate che vada a mettermi in ordine, non posso riceverlo così. (Esce).

Antonio             - (arrabbiato) Insomma, io non vo­glio. Non voglio.

Clara                  - Ma che ti salta?

Antonio             - Mia figlia non è una donna che possa accomodarsi in transazioni di carat­tere pratico. E poi, che c'entra? Ha forse bisogno di qualche cosa? In questa casa è la regina,

Clara                  - Che strana idea dovete avere della vita di una donna voialtri senatori: una donna è... una donna. Se tu sapessi che tormenti...

Antonio             - Ma si distragga, si diverta...

Clara                  - Bei consigli! non ti vergogni? Non ha sofferto abbastanza quella disgraziata?

Antonio             - Tu mi faresti un favore insigne se evitassi di ricordare il passato.

Clara                  - Eppure bisognerà parlarne; no? Perché tutto viene di là. Credi che Annapia sarebbe tanto indecisa se la sua vita non avesse avuto certe scosse?

Antonio             - Ah, dunque, anche tu credi che pensi ancora a quel tanghero?

Clara                  - Questo non lo so. Ma c'è stato. An­che troppo. E Giovanni lo sa.

Antonio             - E che vuol dire? Meglio se lo sa. Se non lo sapesse bisognerebbe dirglie­lo. La verità, tutta la verità.

Antonio             - Perché?

Clara                  - Io mi trovo in una strana posizione.

Clara                  - Perché sono vergine. E certe cose mi sfuggono. Ma ho l'impressione che la donna possa amare fortemente soltanto quando può creare agli occhi dell'uomo cne ama, la verità più adatta alle esigenze della fantasia. E poi, fosse stato un uomo qualunque... scomparso, dimenticato. A farlo apposta il suo nome sui giornali, un giorno si e un giorno no... il poeta alla moda. Il grande poeta. Ghini Doria di qua, Ghini Doria di là. E anche la foto­grafia, spesso, a cavallo, alla spiaggia, nu­do. Ah, deve bruciare.

Dala                   - (si mostra sulla soglia) Permesso?

Antonio             - Caro Giovanni, avanti, venite! (Giovanni Dala è un bell'uomo di circa cinquantanni9 grigio ma forte, aitante).

Dala                   - Buon giorno, senatore.-(Si volta verso Clara e si inchina. Poi la riconosce). Oh, zia Clara. Scusate, non vi avevo ricono­sciuta. Dopo tanto tempo.

Clara                  - Decadenza, maestro. Un grande pit­tore così poco fisionomista. Come si spiega?

Dala                   - Non ho mai fatto dei ritratti, ecco tutto. Come state? Clara Come vi pare che stia?

 Dala                  - Veramente non sono medico, ma mi pare abbastanza bene, no? Naturalmente ci sarà qualche piccola cosa che non va, ma bisogna aver pazienza.

Clara                  - (seccata) Io sto magnificamente! Me­glio di quando ero giovane. Voi piuttosto, mi sembrate molto, molto... mutato...

Dala                   - Brutto?

Clara                  - Sareste per caso vanitoso?

Dala                   - In questo momento, si. Mi sento co­me un pavone che, per ragioni sentimen­tali, debba assolutamente aprire il suo ventaglio colorato.

Clara                  - Apritelo, caro, apritelo. D'altra par­te non dovete mica piacere a me.

Dala                   - No, ma ci avrei tenuto, così per crea­re un'atmosfera favorevole nell'ambiente. (Ride). Annapia?

Antonio             - E' andata a rimettersi in ordine, Perché ha lavorato fino a questo momento.

Dala                   - (va a guardare il quadro).

Antonio             - Vi piace?

Dala                   - Uhm... così! Non c'è, non c'è.... (Scrolla le spalle). Ma questo non ha im­portanza.

Clara                  - Non si può dire che l'amore vi fac­cia velo.

Dala                   - Mai. L'arte si giustifica col fanati­smo. Se no, che cosa diventa? Un gioco.

Clara                  - Non datevi delle arie, Perché siete un grande pittore.

Dala                   - Storie.

Clara                  - Siete perfino nell'Enciclopedia Trec­cani.

Dala                   - E' vero. Giovanni Dala nato... la­sciamo andare... Autore di un celebre quadro: «Il Pegaso d'oro». Non fece altro.

Clara                  - Comunque, una cosa bella!

Dala                   - Un cattivo scherzo, signora Clara, il figlio unico.

Antonio             - Bè, siete severo con voi stesso. Voi avete fatto molte altre cose che ama­te... e delle quali parlate con entusiasmo.

Dala                   - Con amore, prego... Le mie cose me­diocri sì, quelle si. Le amo veramente.

Antonio             - Nobilissime.

Dala                   - Oh... la nobiltà dell'arte è la bellez­za. Perché non avete detto belle? Perché non lo sono. Naturalmente. Ecco perché quando sento parlare di quel quadro per-o la testa. Lo regalerei al primo venuto. Vorrei che qualcuno provasse questo bel gusto di fare una cosa bella, cne poi si capisce che non è tua.

Clara                  - Non è vostra?

Dala                   - No. E' rimasta sola. Evidentemente è del caso. Ma non importa. Il mio vero capolavoro sto facendolo adesso. Perché, vedete cara zia... permettete che vi chia­mi zia?

Clara                  - Se questo vi ringiovanisce, volen­tieri.

Annapia             - (entrando) Eccomi qua. Buongior­no, Giovanni. Come state?

Clara                  - Benissimo, fa anche dello spirito. Mi chiama zia. (Annapia ride). E poi di­ce male del tuo lavoro...

Annapia             - Davvero?

Clara                  - Non gli piace.

Antonio             - Ma no...

Annapia             - Che cosa avete detto, Giovanni?

Dala                   - Niente. Dico, adesso, che invece di andare avanti mi pare che andiamo in­dietro. Questi impasti sono letterari, ma­nierati... senza vita interna, senza signifi­cato... questo movimento del braccio è melodrammatico...

 Annapia            - Cosa? Questo braccio? Ah, sen­tite... Se mi dite che la luce non è ancora perfetta, che le pieghe del velo sono an­cora un po' dure, forse potete avere ra­gione, ma il gesto, no. Per carità, non lo cambio nemmeno...

Dala                   - Fate benissimo a non cambiarlo, Perché potreste farlo peggio.

Annapia             - Tante grazie! Siete molto gentile, molto gentile... Ma se volete sapere la mia opinione, è questa, che anche in fatto di arte mutano i gusti e le sensibilità, e sono molto dispiacente che non v'accorgiate... (mentre discutono Clara e Antonio silen­ziosamente si squagliano, per iniziativa di Antonio).

Dala                   - E' un modo come un altro per allu­dere alla mia posizione ausiliaria nell'arte e alla mia età.

Annapia             - Ma scusate, voi siete stato il mio primo maestro... e non capisco questa vo­stra ostilità contro quel che faccio, che poi in fondo non può essere così mediocre se trova anche degli ammiratori. Guardate il pittore De Marchi, era qui proprio ieri...

Dala                   - Buono quello.

Annapia             - Accettato alla Biennale.

Dala                   - Non è un titolo d'onore. E’ un ter­no. E che ha detto? Che è un capolavo­ro? Se lo ha detto, ha fatto della dema­gogia, della propaganda.

Annapia             - Giovanni, se dite così non discu­tete onestamente.

Dala                   - Oh, Annapia. Non ho altro orgoglio ormai che la mia onestà artistica. Io so quel che sono e non ho bisogno che nes­suno mi ricordi, né la mia età, né la mia estetica, né la mia mediocrità...

Annapia             - (raddolcita) Adesso non mi frain­tendete. Scusatemi. Ma alle volte prendete un tono!

Dala                   - Avete ragione, ma le idee artistiche non sono dei teoremi di geometria. Non si possono esprimere pacatamente. La loro sola certezza è la violenza. Su, mettetevi il cuore in pace... Voi avete tutto il di­ritto di pensare che, in fatto d'arte, ho per­duto il diritto alla parola.

Annapia             - Non è vero. Ed è per questo che ci patisco. Io vi ammiro: e lo sapete che le vostre parole io le ascolto anche troppo. Ma ho come la sensazione che, a volte, par­liate, non so, quasi per astio.

Dala                   - (ridendo) Astio? E Perché?

Annapia             - Non so. Non parliamone più. (Pausa).

Dala                   - (che è divenuto pensieroso) Ancora una volta avete ragione. Volete rispon­dere a una mia domanda? Ci tenete tanto a quest'arte?

Annapia             - Se ci tengo? Via... sono auindici anni che dipingo, che partecipo alle espo­sizioni, che in qualche modo vivo.... vivo...

Dala                   - Ah, ecco: in qualche modo. E quan­do ci fosse un altro modo?

Annapia             - Alludete al nostro eventuale ma­trimonio?... Credete che comunque mi basterebbe?

Dala                   - Parlate proprio come se foste nata con la vocazione dell'arte...

Annapia             - Nessuno può saperlo meglio di voi. Foste voi che quindici anni fa mi diceste...

Dala                   - Si, è vero. Vi suggerii una... conso­lazione.

Annapia             - Oh... (Siede, colpita). Siete bru­tale!

Dala                   - Perdonatemi, Anna. Ma se volete dav­vero farmi la grazia di unire la vostra vita alla mia, bisognerà pure che sgom­briamo il terreno da tutti i detriti del pas­sato, dei frantumi di tutti i pensieri che vi hanno fatto compagnia fin qui.

Annapia             - Avete ragione. Non fu una vo­cazione.

Dala                   - Oh, vedete che sapete esser franca con voi stessa... Però è diventata una se­conda natura. Un ritmo inabolibile del vostro spirito. E nessuno può meravigliar­sene. Meno di tutti io, che v'insegnai il modo di trattare la prospettiva e il colore, che vi aiutai a scoprire nell'aria i giochi della luce, anche attraverso il velo delle vostre lacrime. Io vi vedevo piangere e tacevo. Non me ne importava niente, al­lora. Ero pieno di me, del mio destino. Ma ora no. Ora ripenso a quel vostro pianto. Da quel dolore venne fuori un isogno di distrazione, di stordimento.

Annapia             - Voi mi parlate come se per dispe­razione mi fossi data al bere.

Dala                   - Quasi. Cercate di capirmi. Io voglio togliere di mezzo ogni possibile causa di equivoco e di disaccordo tra noi. Non vi proibirei mai di dipingere, intendiamoci. Non sono geloso della pittura. Ma fino a questo momento è stata un sipario di fer­ro tra voi e un sogno perduto.

Annapia             - (quasi straziata) Giovanni! Non siate incauto.

Dala                   - Bisogna avere il coraggio di essere incauti e anche brutali, quando si tratta di vedere chiaro in sé stessi, e se ci si vuol salvare. Dico che ora non avete più bisogno di schermi opachi, di maschere: c'è la nostra vita, se voi vorrete; quella che, se vorrete, dovremo costruirci col no­stro cuore. I! primo sacramento che si do­vrebbe fare tra noi sapete quale sarebbe, f>rima ancora del fatidico si davanti al-altare? Io pronuncio una formula e voi sorridete. Poi voi pronuncerete un'altra formula e sarò io a sorridere. Proviamo?

Annapia             - Proviamo.

Dala                   - Tocca a me. Annapia, quella lì è una crosta. Sorridete. Brava. Adesso tocca a voi. Rispondetemi subito: « come le tue, caro ».

Annapia             - Ma no.

Dala                   - Ma si, ripetete: come le tue.

Annapia             - Come le tue.

Dala                   - E adesso guardate: sorrido io, e così, liquidata la pittura, noi siamo perfetta­mente attrezzati alla felicità coniugale.

Annapia             - Siete un caro uomo.

Dala                   - Sopratutto un uomo sicuro. E allora? Debbo attendere ancora molto tempo la risposta della Sibilla? Annapia         - Giovanni, voi sapete che mi resta ben poco da dare in compenso del vostro amore...

Silvio                 - Disturbo?

Dala                   - (alzandosi) Terribilmente.

Silvio                 - Mi dispiace, ma ne vale la pena. Ho una notizia interessantissima, buffissima. Guarda. (Tende il giornale ad Annapia che lo scorre appena, poi lo passa a Gio­vanni).

Annapia             - Lo sapevo.

Silvio                 - Lo sapevi?

Dala                   - Ah, si sposa.

Silvio                 - Ma leggete, leggete. Qui si si parla di fatale amore dei quarantacinque anni di Demone Meridiano... che pagliacci! Co­me se non si sapesse chi è il poeta Ghini Doria. E secondo il suo solito, fa un buon affare. Un'americana piena di dollari. Chi l'avesse detto... Te lo ricordi, Annapia, quando veniva in casa nostra tutto strac­ciato? Io avevo allora cinque anni. Che paura mi faceva! Avevo paura soltanto di lui e dei mendicanti.

Dala                   - (assente) Intuizioni del sub-cosciente.

Annapia             - Stiamo facendo a quel signore un onore che non merita.

Dala                   - Voi sapevate che...

Annapia             - Ma si, avevo letto. Che importa?

Dala                   - (guardandola) Oh, niente. (Dopo una pausa va a guardare ancora il quadro di

Anna).

Silvio                 - Ma che cosa c'è? Ho fatto una to­pica?

Annapia             - Non state a guardare ancora quel quadro, Giovanni. Lo avete già condan­nato.

Dala                   - (pensieroso, guardando il quadro) Non esageriamo adesso, c'è qualche cosa di buono. Vedete, per esempio? Questa pennellata vi è uscita dal cuore.

Annapia             - (andando verso di lui per scostarlo affettuosamente dal quadro) Come siete caro. Ma non ha alcuna importanza.

Clara                  - (entrando con Antonio cautamente) Avete finito di bisticciare?

Silvio                 - (mostrando i due che sono stretti in­sieme) Non vedi? Le ha fatto un com­plimento.

Clara                  - Pareva che vi doveste levare gli oc­chi!

Dala                   - Per certi pittori sarebbe la soluzione radicale.

Antonio             - Dunque, la zia è proprio decisa e riparte subito.

Annapia             - No, zia. Te ne prego...

Clara                  - Mìa cara, ognuno ha la sua dignità; tuo padre è un ostinato e...

Annapia             - Ma che cosa le hai detto?

Antonio             - Lascia andare, è una storia vec­chia di ventanni.

Clara                  - Prima mi dice che una donna, in questa casa, occorre.

Silvio                 - Si, zia. E’ questa anche la mia opi­nione. Tant'è vero che, se parti domani, io ti seguo. Ho bisogno di affetto.

Clara                  - Taci! Per avere una dama dì com­pagnia, una saggia consigliera, una don­na esperta di riti matrimoniali e di pompe funebri, potevate mettere un avviso eco­nomico sul giornale.

Antonio             - Quando dico che in certi mo­menti occorre una donna, io intendo...

Clara                  - "Lo so quel che intendi. La donna vera, la donna della casa, la donna di qualcuno. Ora io sono la donna di nes­suno.

Silvio                 - Io non capisco Perché papà non si sia mai risposato.

Antonio             - Lo vedi? Ti fai prendere in giro da tuo nipote per le tue manie sentimen­tali. (A Silvio). Va via,- tul (Silvio esce; dopo una pausa). Non ti ho sposato venti anni fa, dovrei farlo adesso?

Clara                  - Oh, non m'ero fatta alcuna illusione in materia. Ma ti domando, che consigli posso dare io ad una figliola, che sta mu­tando il corso della sua vita in un senso che mi è perfettamente ignoto? Non una donna ci vuole, in questi casi, ma una madre. E una madre non s'improvvisa.

Antonio             - Tanto meno alla tua età.

Clara                  - In questo caso avrebbe più impor­tanza la tua.

Antonio             - Insomma!

Dala                   - Scusate: non vorrei avere complicato, coi miei problemi, la vostra vita. Ma non vedo proprio la necessità di questo consiglio di famiglia. Non accade nulla di par­ticolarmente preoccupante. Né io, né An­na, scusate, siamo più al tempo dei dram­mi sentimentali.

Clara                  - Cosa dite, cosa dite?

Dala                   - (eccitato) Dico che vorrei che tutti avessero le preoccupazioni di buon gusto che abbiamo io ed Anna.

Clara                  - Incominciate allora col sentire il cattivo gusto di certi riferimenti al pas­sato.

Dala                   - (protestando) Ma no! Antonio -(quasi a coro) Che cosa dici, adesso?

Clara                  - (quasi a coro) Eh... parla dei tempi dei drammi!

Annapia             - (energica) Zia!... (Pausa imbaraz­zante).

Silvio                 - (entrando) Sapete chi c'è in anti­camera ?

Clara                  - Dio mio...

Antonio             - Qualcuno che chiede di me?

Silvio                 - Di Annapia. Ma Perché fate quella faccia? C'è qualcuno che non v'aspettate di certo.

Dala                   - (nervoso) La vuoi smettere con gli indovinelli?

Silvio                 - Frateschi. (Ride). Frateschi. Non ti ricordi, Annapia?

Annapia             - Frateschi?

Clara                  - Meno male. (L'atmosfera di attesa e di ansia si scarica).

Annapia             - Ma di dove salta fuori?

Antonio             - (va in fondo e lo chiama) Frate­schi, venite.

Frateschi            - (di dentro) Caro senatore, caro senatore... mi levo il pastrano...

Clara                  - Cosa dice?

Antonio             - Si leva il pastrano... se lo è le­vato... Eccolo qua.

Frateschi            - (compare e saluta affabilmente il senatore) Senatore come va, come va? (E' un ometto di circa 50 anni, calvo, con pochi capelli ritti, un monocolo di vetro affumicato, un vestito logoro ma di taglio elegante, parla a scatti. Il non vedere da un occhio lo obbliga a guardare al modo delle galline, cioè piegando la testa).

Antonio             - Venite, venite...

Frateschi            - (guardandosi intorno in modo buffo) Trovo tutti, tutti... zia Clara...

Clara                  - Vi facevo morto.

Frateschi            - Grazie tante. Ho perduto sol­tanto un occhio. Se fossi morto avreste veduto la mia commemorazione sui gior­nali. Il mio nome è ancora temuto e ve­nerato nella repubblica delle lettere.

Annapia             - Siete dunque riuscito a farvi ac­cettare fra i futuristi?

Frateschi            - No. Sono solo. Isolato. Lascia­mo andare... Annapia... signorina Anna-pia; immutata, terribilmente evocativa.

Annapia             - Sempre galante. Volete prendere qualche cosa?

Frateschi            - Si grazie. Dala, Giovanni Dala... Godo di rivedervi. Quante memorie, un vulcano di memorie. Un'eruzione improv­visa di lapilli. Cento mila pensieri fosfo­rescenti. Tanto piacere. E questo giovane?

Antonio             - Mio figlio.

Frateschi            - Ah, Silvio? Silvietto... vi ho cul­lato sulle ginocchia, sapete? Sulle ginoc­chia, e vi cantavo la cosa... com'era pure... non mi ricordo le parole, ma era la ca­valcata eroica dell'anima vergine, verso gli orizzonti del destino, da spaccare, fran­tumare, rovinare, che risate! Tanto pia­cere! (Si volge agli altri). Eccoci qua.

Antonio             - Non sedete?

Frateschi            - Dove? dove?... -(Si guarda intor­no). Qui. C'è la tavola. Sapete, io non posso sedere che presso le tavole. (Tam­burella).

Antonio             - Per tamburellare.

Frateschi            - Obbedisco ai ritmi interni.

Annapia             - Un cognac, Frateschi?

Frateschi            - Ah, ah... vi ricordate le mie preferenze? Grazie. No. Volevo anzi dir­vi... Perché adesso fa acido. Troppo fuoco ho ingoiato. Devo bere dolce.

Annapia             - Cherry?

Frateschi            - Grazie, ma con un biscotto. E' meglio.

Annapia             - (si allontana per andare a seri/ire).

Frateschi            - Voi mi chiederete la ragione...

Clara                  - Si. Dopo tanti anni veramente, im­magino che avrete da dirci molte cose.

Frateschi            - No, non dico niente. Perché vo­glio che comperiate il mio libro autobio­grafico. State attenti. Uscirà a giorni. Pa­ratie stagne dell'anima. Lì c'è tutto.

Silvio                 - Tutte cose vere?

Frateschi            - Come? Ah, si. Tutto vero. (Lo guarda). Però il ragazzo è mordace. Be­ne. Bene. Finché la vita non t'ha messo il morso, galoppa, galoppa o poledro schiu­moso. (Intanto Annapia ha servito il Cher­ry). Ed il biscotto?

Annapia             - Viene. (Si allontana per servire).

Frateschi            - (a Silvio) Come vostro padre, eh? Tale e quale. La sua penna era una perforatrice elettrica... Caro Dala, da un pezzo non sento più parlare di voi.

Dala                   - Nemmeno io, di voi.

Frateschi            - Già, ma io riemergo, vedrete. (Beve). Ecco fatto.

Annapia             - Il biscotto.

Frateschi            - Grazie. (Mangia). Parlate, par­late pure, vi ascolto.

Antonio             - Veramente noi attendiamo di co­noscere la ragione della vostra visita.

Frateschi            - Ah, già. -(Ingoia un boccone). Io devo parlare alla signorina Annapia. A quattr'occhi. -(La guarda fisso e tambu­rella).

Silvio                 - (ride).

Frateschi            - (volge rapidamente l'occhio sul giovane, poi comprende la ragione della risata). Già. E' un modo di dire, un po' ardito, nel mio caso.

Dala                   - Avete perduto l'occhio in qualche guerra ?

Frateschi            - No, un incidente di automobile.

Dala                   - Eccesso di velocità?

Frateschi            - Non l'ho mai saputo. Io ero a piedi.

Annapia             - E si può sapere Perché volete par­lare a me sola?

Frateschi            - Se ve lo dico prima, che cosa vi dico dopo?

Annapia             - Io non ho segreti per nessuno dei presenti.

Frateschi            - Ma io si. Io ho segreti per tutti. Vita complicatissima... Leggete, leggete quel libro. Quindici lire... Come?

Antonio             - E va bene. Noi ce ne andiamo. (Via).

Clara                  - (a parte) Però è una sconvenienza.

Dala                   - Vi rivedrò più tardi?

Frateschi            - Forse, non so.

Dala                   - (sulla porta, per uscire) Auguri per il vostro libro.

Frateschi            - Grazie. Riemergo, riemergo. (Tutti, meno Annapia e Frateschi, sono usciti. Rimasti solo i due st guardano).

 Annapia            - Eccoci a tu per tu.

Frateschi            - (estatico) Luci abbaglianti sfer­zano il cielo notturno dell'oblìo. O tempo, o tempo... quando la finirai di essere stri­tolato dagli orologi?

Annapia             - Per piacere, parlate chiaro.

Frateschi            - Già. Ma è difficile. Io mi trovo in una imbarazzante situazione, Perché voi mi conoscete in un modo ed invece io adesso faccio un mestiere molto deli­cato.

Annapia             - Questura?

Frateschi            - Ah, no. Questura no. Bellissimo. Sapete che cosa faccio? Faccio il segre­tario particolare.

Annapia             - Di un ministro? Allora siete com­mendatore.

Frateschi            - Niente ministro. Di più!

Annapia             - Di un Sovrano?

Frateschi            - Di più. Di un poeta, di un grande poeta. Ma sono commendatore lo stesso. Perché il mio poeta è un uomo molto pratico. Avete capito di chi si trat­ta? Già, è difficile sbagliare.

Annapia             - Si. E allora?

Frateschi            - Alberto Ghini Doria ha affidato alle mie mani l'anima sua.

Annapia             - Non eravate nemici, una volta? Ricordo perfettamente che non lo stima­vate affatto.

Frateschi            - Se si dovesse stimare coloro che ci pagano, lo stipendio dovrebbe essere aumentato almeno del venti per cento. La vita, amica mia, la vita. Ma lasciamo an­dare.

Annapia             - (dura) Allora siete qui per lui?

Frateschi            - (si alza) Me ne devo andare?

Annapia             - (dopo un attimo) Sedete.

Frateschi            - Il capo delle tempeste è dop­piato.

Annapia             - (dopo una pausa) Come sta?

Frateschi            - Ah, come volete che stia? Quel­la gente 11 sta sempre bene. Figuratevi che ha il coraggio di sposarsi una donna da­gli occhi rossi. Come?

Annapia             - Non ho detto nulla.

Frateschi            - Mi pareva che aveste doman­dato chi sposa.

Annapia             - Non ci penso nemmeno. Lo so, una americana.

Frateschi            - Fa l'ultima sciocchezza. Ma gli andrà bene anche questa. La fortuna di quell'uomo... Scrive dei romanzi e dei versi che fanno letteralmente ribrezzo. E' un poeta di destra... Affari, affari... Già anche in questo matrimonio c'è un affare editoriale. Conquista l'America, con una donna... Cóme?

Annapia             - Non ho detto niente.

Frateschi            - Mi pareva che mi aveste chiesto se è bella.

Annapia             - Non mi interessa.

Frateschi            - Brutta, bruttissima... Come? Se l'ama?

Annapia             - No, non l'ama.

Frateschi            - Grazie, mi facilitate il compito.

Annapia             - Ma infine, che vuole da me?

Frateschi            - Uh... non oso dirvelo. Già, non posso. Ma è una sciocchezza. Una scioc­chezza vergognosa e mortificante, per lui si intende... E' giù in macchina che aspet­ta di essere ricevuto da voi... da voi che avete trascurato un amore come il mio...

Annapia             - Frateschi, vi prego.

Frateschi            - Oh, cosa passata, naturalmente I Ma io ricordo bene che vi amavo e che avrei potuto fare di voi...

 Annapia            - ...una segretaria particolare.

Frateschi            - Già, eh, già, forse. La vita. Acro­bazie di delusioni. Carnevale di stelle ca­denti. Mi sono giocato un patrimonio a forza di edizioni rare.

Annapia             - Bravo. Veniamo al nostro affare.

Frateschi            - Al suo affare. Già. Bè? Lo rice­vete o no? Se volete un mio consiglio mandatelo al diavolo e ditegli che non farete nulla di quello che vi chiederà. An­zi, che coglierete quest'occasione per ven­dicare l'oltraggio. Non merita alcun ri­guardo. E' un uomo che dimentica giu­ramenti, promesse e propositi. Ma adesso ha trovato quel che fa per lui, la Nemesi yankee dai capelli di stoppa. Una donna che porta il sentimentalismo fino alla fe­rocia. E' vero che lui se la cava sempre, con la scusa che parla male l'inglese.», lo avete mai sentito parlare l'inglese? Bè, fate quello che volete, ma ditegli...

Annapia             - Gli dirò che non si fidi troppo del suo segretario particolare.

Frateschi            - Lo sa che non si deve fidare. Oh... ma mi tiene appunto per questo. Preferisce avermi sotto mano. Eh... eh... è un cinico.

Annapia             - Insomma, non mi potete dire quello che vuole da me?

Frateschi            - Vuole una cosa meschina. Ecco tutto. Perché è un uomo finito e...

Annapia             - Fatelo salire.

Frateschi            - Va bene. -(Si alza). Vado subito a chiamarlo. In confidenza, state attenta. Si è profumato all'ambra di Russia. An­nusate. Non era un profumo che gli re­galaste voi? Allora?

Annapia             - (seccatissima ed energica) Volete andare?

Frateschi            - Dov'è l'uscita? (La cerca). Ec­cola. (Prende la rincorsa ed esce. Annapia va a ravviarsi i capelli alla specchiera).

Antonio             - (comparendo sulla porta) Se ne è andato?

Annapia             - Si.

Antonio             - Che voleva?

Annapia             - E' venuto ad annunziarmi una visita di Ghini Doria.

Antonio             - Che cosa?

Annapia             - Hai capito.

Antonio             - E tu lo ricevi?

Annapia             - Naturalmente.

Antonio             - (energico) E' una sciocchezza! Che torna a fare dopo venti anni?

Annapia             - Non lo so.

Antonio             - Annapia...

Annapia             - Stai tranquillo. Non mi può fare né del bene né del male.

Antonio             - Ma Giovanni vorrà sapere.

Annapia             - Digli che non se ne vada, che mi aspetti.

Antonio             - (via di fretta sbattendo la porta. Entra Ghini Doria: è un uomo di qua­ranta e più anni; alto, robusto, elegantis­simo, anzi di una eleganza ricercata, quasi femminile-, le tempie brizzolate e un piz-zetto capriccioso danno alla sua maschia faccia un tono di grazia caratteristica, che bara sulla fede di nascita. E' imbarazzatissimo.. Si inchina ad Annapia e resta senza parole sulla soglia).

Annapia             - (con disinvoltura, prendendogli la mano) Oh, come stai, Alberto?

Alberto              - Grazie, Anna.

Annapia             - Siediti. Non c'era bisogno che tu mandassi quella strana staffetta per an­nunciarmi la tua visita. Ti avrei ricevuto comunque.

 Alberto             - Già, questo è vero. Già, ma vedi, io credevo...

Annapia             - Che cosa?

Alberto              - Non so. Bè, dopo tutto... meglio così.

Annapia             - Vuoi una sigaretta?

Alberto              - No, grazie. Non fumo più da quindici anni.

Annapia             - (accendendo la sigaretta) Io si, fumo, da venti.

Alberto              - Vedo che non mi risparmi le al­lusioni imbarazzanti. Ma è giusto.

Annapia             - Oh, perdonami, ma non ci avevo nemmeno pensato. Anzi, vieni subito alla ragione della tua visita e così non corre­remo il pericolo di ricantare delle vecchie melodie. Perché hai voluto vedermi?

Alberto              - Ma... vedi... non è facile. Mi ac­corgo adesso che non è facile; devi com­prendere Anna. Io qui, tu...

Annapia             - Qui...

Alberto              - Già... Si ha un bell'essere pronti a tutte le sorprese della vita, si ha un bell'avere per abitudine di battaglia il dominio dei propri nervi, del proprio cuo­re... ma...

Annapia             - Che cosa debbo fare per metterti a tuo agio? Debbo dirti che il rivederti non mi ha fatto alcun efletto? Che mi sento perfettamente tranquilla? Vuoi che parliamo del più e del meno per il mo­mento? Ti trovo un po' stanco.

Alberto              - Commosso. Ma si, anche stanco. Specialmente dopo il Titano. Sapessi quan­to mi è costato quel successo...

Annapia             - Il Titano? Che cosa sarebbe?

Alberto              - (parlando di sé si rinfranca) il Titano? Ma allora non mi hai seguito.

Annapia             - Ma si, come no? Certo. Generica­mente. Perché sai, io di letteratura, di teatro ci capisco poco-Alberto Eppure allora... Anzi, ricordo che quest'opera la concepii allora e te ne par­lai anche. Ti piaceva tanto.

Annapia             - Si? Non ricordo. Ma scusa, come hai potuto aspettare tanto tempo a realiz­zarla? Vivere quindici anni con un'idea in capo deve essere noioso.

Alberto              - Purché non lo sia al pubblico. Ma poi non è nemmeno così. La verità è che si vive alle spalle della propria giovinezza. Quando una giovinezza è intensa e ricca, è come il fondaco delle idee di un uomo, specie di un poeta. Ecco Perché il Titano...

Annapia             - Ha avuto un grande successo, al­lora?

Alberto              - Enorme. Non ne hai idea. Ci vo­leva, sai? Perché i critici mi avevano già spacciato come esaurito. Finito! — diceva­no -— Dopo la Lanternanon farà più nulla.

Annapia             - Ah, un'altra tragedia!

Alberto              - No, un romanzo. Ma proprio tu non mi hai seguito. Capisco, povera e cara Anna. Doveva essere un tormento per te.

Annapia             - Perché dobbiamo recitare qui del­le commedie... fra noi... davanti a noi stessi ?

Alberto              - Anna... (Le prende una mano che lei gli lascia per cortesia). Tu ti fai forza e nascondi la tua commozione.

Annapia             - No, no, credi...

Alberto              - Ma si. E Io fai per orgoglio. Ti conosco. Ma in fondo... lasciami dire. Tu hai tutte le ragioni di pensare che non valga la pena di mostrarmi la tua debo­lezza. Merito questo giudizio. Ma poi che io sono qui, tremante, credilo, tremante...

 Annapia            - Letteratura.

Alberto              - Oh, non mi ripetere la solita pa­rola anche tu. Letteratura. Vorrei sapere che cosa avete tutti quanti con la lettera­tura. E' un modo di vivere più alto.

Annapia             - Meno sincero.

Alberto              - Forse. Non dico di no. Ma più alto. Almeno c'è una volontà di bellezza, una aspirazione.

Annapia             - (che da questo momento in poi as­sume un atteggiamento sempre più iro­nico) Ma io sono incapace di respirare quelle atmosfere intense. Perché mi guardi?

Alberto              - Il dolore ti ha dato una spiritua­lità più luminosa.

Annapia             - Il dolore? Quale?

Alberto              - (imbarazzato) Ma... il dolore-in generale... Avrai sofferto anche tu qual­che volta, no?

Annapia             - Oh, non molto, ringraziando Id­dio. Le pene d'amore durano poco. Tu lo sai. E quanto al resto, la natura mi ha ab­bastanza risparmiata. Ma vuoi dirmi Perché sei venuto?

Alberto              - (si alza e va in giro) Bene arre­dato qui. Meglio di allora. Chi è che di­pinge? Tuo tratello?...

Annapia             - Ti vendichi, vero?

Alberto              - Perché?

Annapia             - Non sai che sono diventata una buona pittrice? Che i giornali parlano di me qualche volta?

Alberto              - Davvero? Oh, scusa, in fatto di pittura non capisco niente. (Guardando il quadro). Magnifico. Veramente magni­fico. Sai che sei brava? Complimenti...

Annapia             - Ma, hai detto che non capisci niente.

Alberto              - Scommetto che è stato Giovanni Dala a metterti in capo questa idea del­l'arte.

Annapia             - Infatti.

Alberto              - Poveraccio.

Annapia             - (vivace) Perché poveraccio?

Alberto              - Mi ha sempre fatto pena. Allora era circonfuso di gloria. Un quadro cele­bre. Mille speranze. E poi più nulla. Già. Deve essere triste...

Annapia             - Triste magari potrà anche essere, ma poveraccio...

Alberto              - L'aveva avuta, la carezza della gloria. E' un fallito.

Annapia             - (al colmo dell'ironia) Quando un uomo è costruito dentro secondo tutte le leggi della statica morale, non fallisce mai. Basta. Ti sei messo a tuo agio? E allora, caro... vieni alla ragione della tua visita.

Alberto              - Si... devo fare una premessa...

Annapia             - Non ne hai fatte abbastanza?

Alberto              - Allora... vorrei che tu.,, vorrei che tu mi restituissi le mie lettere.

Annapia             - Quali lettere?

Alberto              - Le lettere d'amore. Quelle che ti scrissi allora. Se le hai conservate, benin­teso.

Annapia             - Ma, scusa... non ho capito bene. Tu vuoi le tue lettere? Ah, bene. Si, cre­do di averle conservate. O almeno non le ho distrutte. Che non è la stessa cosa. Ma infine credo che ci siano ancora. Un mo­mento solo. (Sta per uscire quando Al­berto la ferma mettendosi davanti a lei).

Alberto              - Scusami, Anna. Vedi, io avrei potuto incaricare senz'altro Frateschi e tu avresti potuto consegnarle direttamente a lui. Ma la religione che io conservo del nostro amore...

 Annapia            - Ti ringrazio per la religione.

Alberto              - Oh, Anna... (Con un po' di di­spetto). Ma permettimi di commuovermi un momento. Mi stai dinnanzi con quegli occhi freddi, indifferenti. E io sono qui con le lacrime in gola.

Annapia             - Oh... risparmiati questi sforzi. Ti giuro che la tua domanda non mi ha scosso minimamente. E' sciocca, soltanto. Aveva ragione Frateschi.

Alberto              - Ah, Perché Frateschi ti aveva det­to che ti avrei fatto una domanda?

Annapia             - Maschina.

Alberto              - Un bel cretino. E dire che sa la ragione... (Con decisione). Insomma, An­na, noi non possiamo lasciarci così. Biso­gna che tu mi comprenda bene. Te ne prego! (La costringe a sedersi e si siede a sua volta). E' vero che tu parli di statica morale... o che so io, ma c'è anche la realtà con le sue dure esigenze. Sciocche spesso, ma inesorabili. Questo pensiero delle lettere mi venne sei mesi fa a Sali­sburgo, dove ero andato per la rappresenta­zione di una mia tragedia. E appunto in un giornale ricevuto là, con un certo ri­tardo, vidi un annuncio funebre, che mi gettò nella più grande costernazione. Si. in quell'anuncio, avevo letto il tuo nome.

Annapia             - Ero morta io?

Alberto              - Pareva, Non ti posso dire quel che provai. E non ne parlo. Anche per versare i segreti più gelosi del nostro cuo­re è necessaria una comprensione...

Annapia             - Un'atmosfera di credito.

Alberto              - Precisamente. Ma resto ai fatti. Telefonai a Roma e assunsi informazioni. Fui rassicurato, tranquillizzato. Si tratta­va di un'omonimia. Era la direttrice di un carcere femminile.

Annapia             - Questa sera dirò un preghiera per quella poveretta,

Alberto              - Naturalmente il corso dei mici pensieri non si fermò, a tranquillità rag­giunta. Sai come sono. Fantasticai. Ripen­sai. Larghi cerchi nell'acqua placida dei ricordi.

Annapia             - Placida?

Alberto              - (irritato) Almeno lasciami dire gli aggettivi che preferisco! Da quel fondo, commosso venne su il pensiero delle mie lettere. Si: pensai con un brivido di pau­ra, lo confesso, alla eventualità che quelle lettere potessero cadere in mani estranee, venali.

Annapia             - Ho capito: tu hai paura che io muoia uno di questi giorni.

Alberto              - Ma, santo cielo! Io faccio tutto quel che posso per dare al nostro incontro dopo venti anni e dopo tanto amore, un senso lirico, l'intensità di un fatto degno del nostro passato e di noi, e invece tu... Ma che cosa sei diventata?

Annapia             - (marcatissimo) Io?

Alberto              - Insomma cara, io non penso af­fatto che tu debba morire, né oggi, né domani. Anche senza questa funebre even­tualità le mie lettere possono sfuggirti di mano. Intanto mi hai detto che non le hai distrutte, ma che non sei sicura di averle ancora. E poi c'è il furto, lo smar­rimento, se cadono nelle mani di certa gente...

Annapia             - Eh, via. Che cosa se ne fanno?

Alberto              - Che se ne fanno? Ma cara mia, non hai alcuna idea della vita letteraria! Si fa di tutto con tutto. Per abbattermi non scelgono le armi...

Annapia             - Ma che armi sono delle lettere d'amore?

Alberto              - Ma insomma, io non sopporto la idea che quelle lettere possano essere lette da estranei, intendi? In primo luogo il pensiero che il tuo nome vada sulla bocca di tutti e serva di pretesto a pubblicazioni piccanti in giornali umoristici.

Annapia             - Grazie.

Alberto              - (pensoso) Si ha un bel dire, ma non si passa sul sacro pudore dei propri culti essenziali.

Annapia             - E poi?

Alberto              - E poi, e poi... chissà com'erano scritte. Prosa giovanile, di getto. Pubbli­cate oggi potrebbero...

Annapia             - (ridendo forte) Ah, questa è bella. Bravo. Pensi a tutto.

Alberto              - Oh, io rinuncio a farmi capire. Ma lo sai che cosa aspetto io in questi giorni?

Annapia             - Lo so. Sposi un'americana.

Alberto              - Lascia andare l'americana. Aspet­to FAccademia.

Annapia             - Ah, si? Complimenti. E allora?

Alberto              - Ma come? Non sai nemmeno che quando un uomo è candidato all'Accade­mia, deve avere il porto d'armi Perché tutti lo vogliono ammazzare?

Annapia             - Ammetto, ma le mie lettere...

Alberto              - Tutto è buono. Un letterato de­luso può avvelenare un leone con una occhiata.

Annapia             - No, caro, no. Tu non mi dici tutto. Accademia, letteratura, il leone mor­to, tutto va bene, ma la verità è un'altra. Quella che non hai detto. L'americana. Si, insomma il tuo matrimonio.

Alberto              - Ma no...

Annapia             - Fammi il favore... Spiegami. An­che se fossi sempre follemente innamo­rata di te come tu credi, anche se in que­sti venti anni non avessi fatto che pen­sare a te, diventando più velenosa di un letterato deluso, e oggi volessi pubblicare quelle tue lettere, come puoi pensare che questo potrebbe pregiudicare il tuo con­tratto nuziale? Ha tanto poco spirito quel­la donna da non perdonare a un grande poeta un amore giovanile?

Alberto              - (capitolando, confuso) E’ gelosa... E’ malata di gelosia...

Annapia             - Ma no! Esiste ancora questo?

Alberto              - S'è messa in capo che io ami adesso per la prima volta...

Annapia             - Glielo avrai detto tu...

Alberto              - Si dice sempre a tutte, ma nes­suna lo crede mai e tutto va bene... In­vece questa sciocca...

Annapia             - Oh, non è bello!

Alberto              - Ho fatto un apprezzamento af­fettuoso.

Annapia             - Bravo! Non bisogna vergognarsi delle persone che si amano.

Alberto              - Le ho parlato di afletto... L'amo­re... eh... (fa un gesto vago). Tu mi co­nosci, Anna... Nessuna mi conosce me­glio di te. (Pausa).

Annapia             - (dopo una lunga pausa, durante la quale ella lo considera attentamente). Devo confessarti che la tua visita mi ha causato una profonda emozione...

Alberto              - Ah,... vedi...

Annapia             - Si, ero sicura di me. Ero certa che non mi sarebbe accaduto nulla, che avrei conservato il dominio di me stessa e che ti avrei salutato alla fine della visita esattamente nelle stesse condizioni di spirito con le quali ti avevo accolto. Indif­ferenti. Invece...

Alberto              - (fatuo) Capisco. Venti anni!

Annapia             - (severa) Aspetta. Invece non so liberarmi da una impressione penosa, la­sciamelo dire, penosa... Ho fatto di tutto per dissiparla ma tu, parola su parola, l'hai creata, l'hai appesantita, fino a farmi male, male.

Alberto              - Forse io non arrivo a capire.

Annapia             - Io continuo a domandarmi che cosa sei diventato? Tu dici che nessuna ti conosce meglio di me. Ebbene, io non ti conosco. Mai visto. Oh, non si tratta di un culto segreto che tu abbia offeso in me. Tutt'altro. Ma anche un ricordo fred­do, è meglio che ci resti piacevole, no? Degno almeno della nostra fierezza, del nostro orgoglio. E nemmeno tu ti ricono­sceresti più; di fronte a te stesso diresti: mai visto...

Alberto              - Vedo che la mia domanda ha prodotto in te delle conseguenze strane. Via, posso avere ferito una delicatezza sentimentale, ma poi, francamente, che cosa ho fatto? A venti anni di distanza ho fatto quel che tutti i fidanzati, tutti gli amanti fanno nell'atto stesso di dirsi addio.

Annapia             - (apparentemente vinta) Va bene. Vado a prendertele. Aspetta un momento. (Esce. Rimasto solo Alberto tira un pro­fondo sospiro e si siede. Frateschi fa ca­polino al fondo).

Frateschi            - Solo?

Alberto              - (nervosissimo) Ma vattene. Che vuoi?

Frateschi            - Ti ricordo l'appuntamento con la tua fidanzata. Miss Elbritt è impaziente.

Alberto              - Precedimi da lei. Dille che sono dal notaio, che vengo subito. Rimandami la macchina.

Frateschi            - Bene. E allora? Come è andata? Te le restituisce?

Alberto              - Pare di si.

Frateschi            - Allora possiamo contare su un nuovo libro... Finalmente! L'editore inco­minciava a preoccuparsi della tua aridità...

Alberto              - Ti ha detto questo?

Frateschi            - Me lo ha lasciato intendere.

Alberto              - E tu?

Frateschi            - Io rispetto le opinioni degli altri.

Alberto              - Tante grazie.

Frateschi            - Sarà intitolato Epistolario inti­mo oppure Confessioni?

Alberto              - Non lo so. Levati dai piedi...

Frateschi            - Vado. Ma tu non ti dissolvere nella caligine dei giorni perduti. Guarda avanti, guarda avanti. (Cerca la porta ed esce). Ciao.

Annapia             - (entra portando una cassettina) Ecco le tue lettere. .

Alberto              - Grazie, Anna.

Annapia             - Farai una grande fatica se vorrai ritirare dalla circolazione tutte le lettere d'amore che hai scritto in passato.

Alberto              - Non ne ho scritte che a te, (/ due si guardano Perché l'accento di Alberto è sincerò).

Annapia             - Alberto... io vorrei poterti dire: «prendi queste lettere e portatele via». Ma non posso. Ho bisogno di porti una condizione; per quanto strana ti possa sem­brare, devi accettarla.

Alberto              - Ma certo. Dimmi.

Annapia             - Me le devi leggere tutte. Ad una ad una ad alta voce. Man mano che le avrai lette, ad una ad una le getterai nel fuoco, in quel caminetto. Per me sarà que­sto un modo di conservarle e per te...

Alberto              - Le devo bruciare?... Voglio dire... Perché leggerle?

Annapia             - Perché lo desidero io.

Alberto              - Ma è un capriccio. Saranno parec­chie credo.

Annapia             - Si, ci vorrà tempo, ma è un lavoro che puoi fare a rate.

Alberto              - Ma, Anna, rifletti. Diventerebbe una piccola consuetudine.

Annapia             - Temi di compromettermi? Non te ne preoccupare. Ho il mio scopo.

Alberto              - Posso conoscerlo?

Annapia             - Certo. Alla fine dell'ultima lettera.

Alberto              - E poi Perché distruggerle?... Mi pare una cosa...

Annapia             - Oh... resteranno nella nostra me­moria, vedrai.

Alberto              - Credi? E allora... quando possia­mo cominciare?

Annapia             - Quando vuoi. Anche subito. Pren­dine una a caso. Non c'è preoccupazione cronologica...

Alberto              - (molto seccato, guarda l'orologio) Non so. Adesso avrei un appuntamento dal notaio.

Annapia             - Vuoi telefonare? Io vado a salu­tare i miei ospiti. (Anna esce. Alberto, guardingo fa un numero al telefono e par­la guardando la porta dalla quale è uscita Anna).

Alberto              - Allò, siete voi miss Elbritt. Mia cara. My dear. Debbo rinunciare a pren­dere il tè con voi, sono dal mio notaio. Molte carte da esaminare... carte legali, si intende. Sono dolentissimo. Vi adoro... cara... Bye, bye. (Depone lentamente il ricevitore e incomincia a mettere le mani nelle sue lettere).

Annapia             - (rientra) Fatto? Incominciamo.

Alberto              - (si siede accanto al caminetto e incomincia a leggere molto seccato)  15 maggio. Mio caro amore. Ti aspetto alle sette. Non mancare. Liberati di quel cre­tino. Tuo Alberto. (Alberto guarda in­terrogativamente Anna).

Annapia             - Fu la sera che andammo a cena clandestinamente alla Batteria, la prima volta.

Alberto              - E il cretino chi era?

Annapia             - Frateschi.

Alberto              - Ah, già. Dovevo immaginarlo.

Annapia             - Brucia. (Alberto getta la carta nel fuoco e una vampata rossa rapida in­vade la stanza).

Alberto              - (prende un'altra lettera) « 18 gen­naio. Mio caro amore. Se ieri avessi sapu­to mentire oggi avrei potuto dirti d'essere sulla via della fortuna. Ma avrei venduto la mia libertà spirituale, il mio cuore, per­fino la mia bandiera ». Già quell'austra­liana che mi voleva rapire... (ride).

Annapia             - Si vede che il tuo cuore era merce di esportazione.

Alberto              - (riprendendo a leggere) « Ma non so né mentire, né vendere, né comperare, né corrompere, né fingere... » (guarda interdetto Anna).

Annapia             - Avanti, avanti.

Alberto              - (con voce incerta) « Né fingere. Perciò mi sento degno dei miei sogni più superbi e del tuo amore, del nostro gran­de amore, Annapia, (la guarda ancora) e del destino che mi attende... ».

 

TELA

ATTO SECONDO

 Spentesi le luci della sala e apertosi il primo velario, apparirà un secondo velario illumi­nato dalla ribalta. Dopo un attimo si udirà nel silenzio la voce di Alberto che legge una lettera. S'intende che in quest'atto i personaggi hanno venti anni di meno.

Voce di Alberto          - Undici settembre. Mio caro amore, stordito dalla immensità del tuo dono, mi inginocchio davanti a te. Non so se per chiederti perdono, o per pregarti, come si prega un simbolo di fe­de. Forse in questo stesso momento, tu ti curvi su i nostri recenti ricordi... (In questo momento si apre il secondo ve­lario sulla scena buia. Soltanto un riflet­tore a fascio, dall'alto, illuminerà la fi­gura di Annapia diciottenne, che, seduta su una poltrona, medita. Poi piano piano, la scena si illuminerà tutta. Non e una scena: senza mobili, salvo quella poltrona o forse un alto stelo con fiori, ha come unico ornamento un panorama neutro di velluto che la chiude intorno. Il pavimen­to è diviso in due parti, una più bassa al proscenio, una più alta in fondo, di­vise da due gradini. Dopo un attimo di silenzio, Giovanni scenderà verso Anna-pia con un album in mano e silenziosa­mente le si metterà accanto in piedi).

Dala                   - (sfogliando l'album) C'è del buono. Molte cose che rivelano un autentico tem­peramento.

Annapia             - (alzandosi seccata) Oh, il tempe­ramento.

Dala                   - Come si deve dire? Questi vostri disegni non sono niente di straordinario, ma hanno una personalità. Noi diciamo un temperamento per dire...

Annapia             - Per dire che non c'è niente di fatto, tutto da fare.

Dala                   - Insomma, vostro padre ha voluto il mio giudizio su questi tentativi...

Annapia             - Ma io non volevo. Che impor­tanza ha per me questa roba? Nessuna. Come potete considerare queste povere cose, voi che tornate da un così grande successo?

Dala                   - (sensibile al complimentò) Vi ringra­zio. Ma anche un grande pittore può com­prendere la fatica dei primi passi. Anzi...

Annapia             - Per carità. E poi non fate la com­media. Mio padre non vi ha mandato da me per i disegni. Che cosa vuole?

Dala                   - Signorina Anna, l'amicizia che mi lega da tanti anni a vostro padre mi dà il diritto di parlarvi quasi come un fra­tello. Vostro padre è preoccupato. Du­rante tutta la colazione non ha fatto che guardarvi e voi guardavate lontano. Che cosa avete?

Annapia             - Vi siete messi a parlare di poli­tica. Poi di affreschi, di elettricità, di cro­ciere. Dio mio, di quante cose si può par­lare a questo mondo.

Dala                   - Voi vorreste sentir parlare di una cosa sola, forse, o sbaglio?

Annapia             - (vivace) Come sarebbe? Lascia­temi stare. Vorrei tanto restare sola un momento. Credetemi, io sono in uno stato d'animo tale che non odo nulla; le pa­role che si dicono mi sembrano lontane, sorde, come se avesse nevicato per tutta la terra. (E’ presa da un improvviso scop­pio di lacrime),

Dala                   - Signorina.

 Annapia            - Per piacere. Non c'è niente di straordinario nella malinconia di una ra­gazza, vero?

Dala                   - Niente affatto. Sono tante le cause della malinconia: la fame, il freddo, la scadenza di una cambiale, l'attesa di un treno di notte in una stazione sconosciuta, la pioggia in campagna, l'amore... Dun­que sentiamo: chi è?

Annapia             - Chi è? Chi?

Dala                   - Lui. Potete dirmelo. Vi prometto la massima discrezione.

Annapia             - Oh, vi sbagliate! Siete un grande pittore, ma in fatto di ragazze non capite nulla. Non avete mai letto nei libri che una ragazza patisce di strane inquietu­dini?

Dala                   - Voi l'avete letto?

Annapia             - Io si.

Dala                   - Ecco. Ma se non l'aveste letto non ci pensereste nemmeno a questa scusa in­timista. Del resto, io non voglio forzare il vostro cuore. Per quanto amico, fratel­lo, non ho il diritto di insistere. Avrei tanto gradito una vostra confidenza, Perché, sapete, voi mi interessate molto.

Annapia             - Vi interesso?

Dala                   - Non vi spaventate. Mi interessate Perché sento che diventerete una donna eccezionale. E se mi aveste detto la ve­rità, mi sarei messo a vostra disposizione per inventare una bella bugia da raccon­tare a papà. Anche lui ha diritto di stare tranquillo, in casa, con tutti i pensieri che gli dà il giornale. Vedete che lavora sempre. Anche adesso, c'è di là un redat­tore, che gli sta guastando la digestione con dei manoscritti polemici.

Annapia             - Chi è?

Dala                   - (notando la vivacità della domanda, non sa trattenere un) Ah... (Breve pausa: i due si guardano). Quel ragazzo. Ghini Doria.

Annapia             - (nervosissima, si alza e dopo un attimo, voltando le spalle a Giovanni) Vi prego, maestro, lasciatemi sola. Un mo­mento, un momento sola.

Dala                   - Grazie, Annapia.

Annapia             - Di che?

Dala                   - Mi avete data l'ispirazione di un quadro. Poco fa, quando mi avete do­mandato: «Chi è? ». Non dimenticherò facilmente la vostra espressione. Bellissi­ma. Avevate l'anima nel respiro. Farò un capolavoro e ve lo dedicherò. Titolo: Luil (Ridiscende verso Annapia). Non esistono drammi d'amore, sapete? L'amore, i dram­mi se li crea per civetteria. Ma non ci sono. E la vostra malinconia è come lo sbadiglio dell'alba. Basta un nonnulla a trasformarla in un sorriso. Un raggio... (Via. Buio).

Voce di Alberto          - Incomincio a misurare le mie forze, con tutti e dovunque. Gli istinti guerrieri si svegliano. (Fascio di luce su Alberto e Antonio).

Antonio             - (sfogliando delle carte che ha in mano e che via via passa ad Alberto) Questa mettetela in prima pagina, corpo sette. Questa in seconda... corsivo... A questa bisognerà dire al segretario che ri­sponda con molta cortesia, ma rifiutando. Ah... questo è il vostro articolo.

Alberto              - Si, direttore.

Antonio             - Ma, dico, quando ho letto queste vostre pagine mi sono domandato se per caso non siate diventato matto.

Alberto              - Perché?

Antonio             - Ma voi sapete benissimo Perché. Andiamo. Non si attacca così un deputato.

Alberto              - Ma è un nostro avversario, no? E' l'anima dei radicali. Fa l'amore coi riformisti... S'ede a sinistra, ma sorride a destra, è un pagliaccio qualunque,

Antonio             - Insomma, non si tocca. Va bene? Dovreste sapere... Insomma, tante cose-Se non le sapete non chiedete altro. Ma non scrivete.

Alberto              - Ma allora è vero? L'onorevole Piastri entra nel carrozzone del progetto doganale...

Antonio             - Voi lo chiamate carrozzone. Io, invece, lo chiamo una riforma necessaria, utile al bene del paese.

Alberto              - Ma si può sapere, direttore, chi serviamo noi? Delle idee o degli interessi privati? Qui non ci si capisce niente: ci siamo battuti per un Ministero di concen­trazione e adesso che con una fatica del diavolo siamo riusciti a farlo, dobbiamo fare l'occhio di pesce all'opposizione.

Antonio             - (francamente meravigliato lo guar­da) Bè, che vi piglia? Avete fatto qual­che brutto sogno stanotte?

Alberto              - Perché?

Antonio             - Ma guarda un po'. Un bravo ra­gazzo, timido, tranquillo, svagato, che scrive delle commediole e delle storielline per il supplemento della Domenica,..

Alberto              - Ma ho la mia dignità anch'io...

Antonio             - (seccato, soffiando) Che c'entra la dignità? La dignità è il vostro stipendio.

Alberto              - Ah, no! Perché bisogna sapere al­meno chi si serve e io non lo so più. Ad­dio dignità.

Antonio             - Ma mi volete dire che cosa acca­de? Con che diritto vi permettete di pren­dere questo tono con me? Il direttore del giornale sono io, e non ho mai chiesto a nessuno dei consigli e delle direttive. A nessuno, tranne che alla mia coscienza.

Alberto              - Ecco, direttore, io ho una grande fede nella vostra coscienza, Perché so che siete un galantuomo... E allora ditemi co­me fate a farla stare tranquilla. Così farò stare tranquilla la mia.

Antonio             - (sta per arrabbiarsi) Oh... (Ma poi si calma). Non vale nemmeno la pena di ascoltarvi. Siete stupidamente imper­malito Perché vi ho bocciato questo arti­colo...

Alberto              - Perché il fatto dimostra che il no­stro giornale non è un giornale di idee, ma di affari, e il partito degli affari ha dei rappresentanti in tutti i gruppi par­lamentari e io non ci vedo chiaro e mi vergogno...

Antonio             - Vi vergognate di essere un mio stipendiato? D'essere redattore del mio giornale?

Alberto              - Se non mi spiegate... si, mi ver­gogno.

Antonio             - Ma io non spiego niente. Se non avete abbastanza intuizione per compren­dere la necessità delle battaglie parlamen­tari, caro mio, vuol dire che non avete nessuna disposizione a vivere nel consor­zio umano...

Alberto              - E democratico.

Antonio             - E ci siamol Anche voi venite fuori a dir male della democrazia. Grazie tante! Bella scoperta, ma c'è... ci siamo dentro fino al collo, che ci possiamo fare? Dobbiamo forse ucciderci per questo? Ab­bandonare il campo? Le armi sono quelle che sono. E poi, e poi, che cosa vorreste sostituire voi alla democrazia? Sentiamo...

Alberto              - Io non so, non me ne intendo... Ma mi pare che intanto sarebbe una bella cosa sgombrare il terreno da tutti questi pidocchi che vivono in margine ai gruppi parlamentari. Che bella, che nobile bat­taglia per un uomo onesto come voi, di­rettore!

Antonio             - Giovanotto, voi avete nella testa delle cicale!

Alberto              - Perché poi, i casi sono due: o si dichiara guerra a questa gente, oppure si diventa come loro!...

Antonio             - L'importante è avere ben fermo nella mente il bene della Nazione.

Alberto              - Ma intanto si transige un poco tutti i giorni, e a forza di transazione sa­pete come si finisce? Col non capire più quello che è onesto e quello che non lo è. E anche un galantuomo come voi, può alzarsi alla mattina con l'anima di un ribaldo...

Antonio             - (fa per scagliarsi addosso, ma si trattiene ancora) Andate via, andate via, siete un mentecatto... passate all'ammini­strazione a farvi dare il ben servito.

Alberto              - Grazie. Non importa; il ben ser­vito me lo do da me. « Oggi, 16 maggio ipio, Alberto Ghini Doria ha incomin­ciato a servire fedelmente... ».

Antonio             - Che cosa? Le vostre idee?

Alberto              - La mia coscienza.

Antonio             - Andate via... via... via... (Entra Dala che va verso Antonio; questi, ve­dendolo, si smonta e con ansia paterna va verso di lui. Alberto sta per andarse­ne: sale i due gradini per uscire, ma quando ode le prime parole del dialogo si ferma).

Antonio             - Ebbene, avete veduto Annapia?...Le avete parlato?

Dala                   - Si.

Antonio             - Che ha? che cosa le è accaduto?

Dala                   - Niente. Malinconia. Primavera. Pre­ludi sentimentali. Ma state tranquillo, an­che se fosse l'amore...

Antonio             - E' innamorata? E' innamorata?...

Alberto              - (affannato) Direttore, permettete che vi dica una cosa?

Antonio             - Siete ancora qui voi? Non avete sentito? Non voglio più vedervi! Se vo­lete ringoiare le vostre sciocchezze...

Alberto              - No, direttore, io le mie sciocchez­ze le amo.

Antonio             - E portatevele dietro allora, e non comparitemi più dinnanzi; io non ho tem­po da perdere. Dov'è Annapia?... (Esce).

Dala                   - Ma che cosa è accaduto?

Alberto              - Gli ho detto che il nostro gior­nale è al servizio di affari loschi...

Dala                   - Bene. Forse non è stata una prova di tatto dirlo proprio a lui...

Alberto              - Mi è venuta così... questa mattina mi sono alzato col bisogno di dire tutte le mie verità... e ho cominciato.

Dala                   - Ma se non sbaglio, vi ha scacciato.

Alberto              - Si, ma non importa. Gli ho detto tutto quello che pensavo. E adesso non ho paura nemmeno della fame.

Dala                   - E siete sicuro di avere detto proprio delle verità?

Alberto              - Almeno credo.

 Dala                  - Siete un ragazzo. Ma, dopo tutto, meglio. La gioventù che non commette sciocchezze è come una cena di carnevale senza vino. E poi siete un'artista, e il do­vere di commettere delle sciocchezze lo avete, anche al di là della giovinezza.

Alberto              - (lusingatissimo) Voi credete che io sia un artista?

Dala                   - Si. Ho letto qualche vostra novella. Qualche lirica. Bene, mi pare che ci sia la vena. L'estro.

Alberto              - Grazie. Queste parole dette da un grande artista, mi confortano tanto... però voi non approvate che io abbia messo in guardia il direttore contro i ladri?

Dala                   - Ma si, approvo. Non approverei lui se poi agisse di conseguenza.

Alberto              - Anche voi credete che le transa­zioni con la coscienza siano necessarie.

Dala                   - Nella vita pratica, certo. Se no, che diventerebbe il mondo/ Un manicomio...

Alberto              - Voi pure conoscete quest'impeti, non è vero? Saranno magari delle inge­nuità, degli errori...

Dala                   - Quando uno non ha paura della fa­me, come voi, non sono nemmeno errori, non sono nemmeno ingenuità. Sono delle misure. Uno misura se stesso. Come il pu-gilatore che alla mattina si alza e per al­lenarsi sferra pugni contro una palla di cuoio che gli rimbalza sul naso. E chi non l'ha provata questa ginnastica morti­ficante?

Alberto              - E la fame, l'avete provata?

Dala                   - Tanta, caro, tanta. E vi posso dire che non è poi tanto brutta come si crede. La famel Che lucidità mentale, che chia­rezza, che idee suscitai I quattro quinti delle stupidaggini che si scrivono, o si dipingono, o si cantano... sono dovute uni­camente al ventre pieno.

Alberto              - (esaltato) Si, si, avete ragione. Non bisogna mangiare.

Dala                   - Non esageriamo. Bisogna mangiare, ma poco. Di quando in quando. Così... allora si è pronti ad afferrare nell'aria la idea bella che passa. Tra le mie opere dipinte a ventre vuoto e le stroncature dei critici scritte a ventre pieno, c'era un con­trasto incomponibile. Ma, mi dicevo: qual­che cosa nascerà. Poi le prime luci sulla via diritta, i primi sorrisi della sorte. Ah... proverete anche voi che cosa voglia dire guardare il passato dall'alto di una auten­tica vittoria, conquistata da solo.

Alberto              - Si, vero? Deve essere bello. E allora si sputa in faccia a tutti.

Dala                   - No, questo no. E' una soddisfazione, che non ve la potrete prendere mai.

Alberto              - Ma insomma... (come per dire « quasi »). E voi credete che io arriverò come voi?

Dala                   - Dovete crederlo voi. Con tutte le forze.

Alberto              - Si, si, io lo credo. Da qualche giorno ho dentro di me una certezza, in­somma... una coscienza... Bisogna soffri­re, lo so, bisogna combattere, bisogna ri­nunciare a tutto ciò che costituisce il bene degli altri uomini: il denaro, i begli abiti, le comodità, i divertimenti volgari.. SoloI PoveroI Con questa idea ben terma, con questo ribollire di fantasia. L'arte. L'arte come religione, come sacrificio... come ri­nuncia. Io credo di avere qualche cosa da dire. Che ne dite?

Dala                   - Può darsi. Lavorate.

Alberto              - Si. Lavorerò. E noi ci incontre­remo un giorno. Saremo due grandi nomi.  Due vincitori. Ma io sarò sempre lieto di poter dire che voi, in un momento triste della mia vita, vi siete chinato su di me per parlarmi della vostra lotta e farmi co­raggio... (Si commuove e stringe la mano a Dala che gli batte l'altra sulla spalla fino quasi ad abbracciarlo. Buio).

Voce di Alberto          - Mentire a quelli che non comprenderebbero la verità, può essere for­se necessario, caritatevole... (Luce su Antonio e Annapia).

Antonio             - (che ha afferrato Annapia per i polsi) Devi parlare, devi parlare, lo ho diritto di sapere tutto da te, sono tuo pa­dre, io, non ho che te. Capisci?

Annapia             - Lasciami, mi fai male, non ho niente da dire, niente da confessare.

Antonio             - Ma allora Perché questo conte­gno, queste lacrime, questa paura di guar­darmi ?

Annapia             - Ti guardo, ti guardo, papà. (Ri­de). Che vuoi che sia? Sarà la primavera, questi profumi che spossano, che stordi­scono. Si può piangere ma si può anche cantare, quando si è così... Vuoi che canti, paparino mio? Vuoi che canti? (Gli pog­gia la testa sulla spalla).

Antonio             - Scusami se sono stato violento, ma te l'ho detto. Non ho che te. Tuo fratello è ancora troppo piccolo Perché io possa considerarlo qualche cosa di più di una cara bestiolina domestica. Ma tu, tu... (Si passa una mano sulla fronte). Ma già, torse sono io stesso troppo irritabile, ner­voso.

Annapia             - Sei molto stanco, papà. Tu lavori troppo.

Antonio             - Questo non sarebbe nulla, se si vedesse chiaro... davanti a noi...

Annapia             - Che importa; tu sei sereno, ama­to, temuto...

Antonio             - Che cosa vuoi capire tu povera piccina. Tu vivi in margine alla vita, tu disegni, scrivi, parli con letterati, artisti... A proposito di letterati, ti avverto che ho licenziato Ghini Doria. Per conseguenza mi farai il favore di smetterla di riceverlo per le letture delle sue fantasie dramma­tiche.

Annapia             - (dolorosamente colpita, con un filo di voce) Licenziato? Perché?

Antonio             - Pretende di dire la verità... di fabbricare una umanità tutta di martiri e di santi... Ha detto più verità lui in due minuti, di quelle che non possa dire un pazzo in tutta la giornata.

Annapia             - Ma allora...

Antonio             - Allora se ne deve andare. Mi ci ha tirato per i capelli. Del resto credo che questa lezione gli gioverà.

Annapia             - Ma, è povero... Come vivrà adesso?...

Antonio             - Oh... se incomincia a vivere con questa tecnica credo che morirà presto.

Annapia             - (angosciata) Papà, che cosa dici? (Sotto gli occhi stupiti del padre si domi­na). Doveva venire oggi a leggermi l'ul­timo atto di un dramma.

Antonio             - Se è proprio l'ultimo, niente di male. Ma è una grave imprudenza avere accanto quel tipo. Si mette a parlare... e allora è come un obice di guerra inesploso che si ricorda di essere caricato. Non è prudente. Ma questo non ha importanza. Bisogna invece che io ti dica che è tem­po per te di pensare a cose serie. Debbo esporti un progetto...

Annapia             - Un progetto? Importante?

 Antonio            - Come la vita.

Annapia             - Come la vita? (Buio. Immediatamente dopo, il raggio colpisce Frateschi che sta accanto alla tenda diritto in attesa. E' elegantissimo, quasi eccentrico, giovane, capelli neri, monocolo di vetro bianco Perché ha tutti e due gli occhi buoni, un mazzo di fiori in mano e sotto il braccio un libro volu­minoso).

Frateschi            - (parlando da solo come ripetendo una lezione a memoria) Vi amo. Vengo dalle lontananze astrali. Via Lattea. Para­carri aerolitici incandescenti. Pietre miliari zodiacali divorate dalla velocità. Svolte pericolose a strapiombo sugli abissi del-i'infinito a fuga precipitosa sui rettifili dei mediriani celesti. (Soddisfatto di se). Bello, veramente bello.

Alberto              - (che è entrato) Che cosa bron­toli tu?

Frateschi            - Oh, chi si vede? Aspetta. No­tizia.

Alberto              - Tu hai una notizia da dare a me?

Frateschi            - Uscito.

Alberto              - Chi?

Frateschi            - Il mio ultimo volume.

Alberto              - L'ultimo? Meno male.

Frateschi            - Il più recente. Senti il titolo: Arcobaleno, traiettoria delle speranze.

Alberto              - Ho già capito tutto. Mi dispiace di essere stato licenziato dal giornale, se no te ne direi quattro...

Frateschi            - (ridendo nervoso, pieno di una gioia incontenibile) Licenziato? Ah, ah. Licenziato? Ah, ah... Era tempo. Era tempo.

Alberto              - Te la godi, eh?

Frateschi            - Si, francamente. Me la godo. Hai sempre scritto contro di me vituperi, menzogne, malignità, sbavate dall'invidia. Me la godo.

Alberto              - Non ti illudere. Posso ricomin­ciare altrove. Non si sa mai.

Frateschi            - (preoccupato) Altrove? Hai già trovato posto in qualche foglio? Alberto - No, ma...

Frateschi            - (sospira di liberazione) Meno male. (Ride). Ah, ah... Gli scrittori come te dovrebbero essere distrutti con la pol­vere insetticida. Tradizione, rettorica, me­stiere. Stai attento che finisci male, sai?

Alberto              - Finirai male tu a forza di pagarti delle edizioni così lussuose: quanto ti è costato questo libro?..

Frateschi            - Tanta fatica, tanto amore.

Alberto              - E il tipografo?

Frateschi            - Oh... insinuazioni! Vorresti gua­starmi la gioia di questa giornata che gri­da, grida.

Alberto              - Ma che ti succede?

Frateschi            - Mi sposo.

Alberto              - Tu? (Ride). E chi è quella di­sgraziata ?

Frateschi            - Non sei perspicace. Mi vedi qui, vestito così, doni, fiori, letizia. Sono tanto felice che mi propongo di aiutarti. Vuoi diventare il mio segretario? La tua lette­ratura deve andar bene per la mia corri­spondenza...

Alberto              - (gli si slancia addosso) Imbecille.

Frateschi            - Oh, dico... Ingiuria. Reazione inconsulta...

Alberto              - Di che matrimonio vai parlando?

Frateschi            - Del mio, naturalmente.

Alberto              - Con chi? Con chi? Vuoi parlare?

 Frateschi           - Molto eccitabile. Capisco. Di­soccupazione, scarsa fiducia in sé stesso.

Alberto              - (gli si butta addosso) Se non la smetti di parlare di certe cose io ti stri­tolo. Imbecille, imbecille. (Frateschi preso al bavero è scosso molto energicamente da Alberto. Strilla).

Frateschi            - Sopruso. Forza fisica. Ahi, ahi. I fiori. (Irrompono in scena Antonio, Dala e Clara).

Antonio             - Ma che cosa accade qui? (Pausa).

Frateschi            - (liberato dalla stretta) Ecco co­me finiscono le discussioni estetiche.

Dala                   - Ma che cosa vi salta in mente, ra­gazzo?

Antonio             - (ad Alberto) Adesso mi pare che basti, no?

Alberto              - Si è permesso di offrirmi il posto di suo segretario.

Frateschi            - Ingratitudine. Oh...

Clara                  - Bel modo di rispondere ai benefici, alle buone intenzioni.

Antonio             - (a Frateschi) Avete avuto uno slancio generoso. Ma credo che per voi sia meglio così. Avete già parlato ad An­napia ?

Frateschi            - No, non ancora. Mi ha talmen­te sconquassato che tutte le parole sono cadute a terra., di qua, di là...

Dala                   - Erano mature, si vede.

Antonio             - Insomma, se volete decidervi... se no...

Frateschi            - Ah, si!

Antonio             - Ricordate però quel che vi ho detto.

Alberto              - Ma allora è vero, è vero?...

Dala                   - Venite via, non fate altre scenate. (Lo trascina fuori).

Antonio             - Ora ve la mando. Tu Clara re­sta... (Esce).

Frateschi            - (preoccupato della cravatta) C'è uno specchio in casa?

Clara                  - La cravatta? Penso io. (Gliela ag­giusta).

Frateschi            - Il colletto è sciupato?

Clara                  - Non tanto. Ma state tranquillo... Quel che vi deve dire mia nipote ve lo dirà egualmente.

Annapia             - (entra) Vi ringrazio Frateschi... Oh, che bei fiori... E questo?

Frateschi            - Arcobaleno, traiettoria delle spe­ranze... Se a Marinetti non piace nemme­no questo, io non so più che cosa pensare.

Annapia             - Grazie. Vi auguro fortuna. E non vi dico quanto io sia commossa di tanti gentili pensieri... e delle belle espressioni della vostra ultima lettera.

Frateschi            - Che attende risposta. Vorrei in­ginocchiarmi per ascoltarla.

Annapia             - Non vi disturbate. State in piedi. La mia risposta è che, per ora almeno, io non voglio sposarmi.

Frateschi            - Ah, ma io non ho fretta. Posso attendere.

Annapia             - Non vorrei che perdeste gli anni più belli della vostra gioventù.

Frateschi            - Oh, ma... io posso sciupare tutto ciò che possiedo, per una speranza co­me voi.

Clara                  - Annapia vuole pensarci. Non ha tutti i torti.

Frateschi            - (alla zia) Grazie.

Annapia             - No, zia, ci ho tanto pensato e non voglio pensarci più. E nemmeno lui ci deve pensare più.

Clara                  - Ma infine, non si prende una deliberazione cosi importante senza riflettere, senza tenere conto dei vantaggi... degli svantaggi.

Frateschi            - Ecco: i vantaggi sarebbero que­sti: una posizione sociale invidiabile, un carattere d'oro...

Annapia             - Li conosco, li conosco. Ma io pro­prio... Frateschi, perdonatemi.

Frateschi            - (dopo una pausa) Signorina An­napia, a me non si nasconde nulla. Voi siete innamorata.

Annapia             - Di chi?

Frateschi            - Alberto Ghini Doria...

Clara                  - (scoppia a ridere) Ma che cosa vi salta in mente? Un caro ragazzo, ma vi pare che una figliuola di giudizio come Annapia si perda con quello spiantato, sfaccendato... sognatore.

Frateschi            - Eppure... Mi ha dato dell'im­becille.

Clara                  - Sarà stato per qualche altra ragione.

Frateschi            - Credete che ve ne siano altre?

Annapia             - Frateschi, non preoccupatevi del mio cuore. Non è vostro. E questo vi de­ve bastare.

Frateschi            - Si, si... Ah, certo... E allora... non mi resterebbe che dire una frase in­cisiva che suonasse rammarico, tristezza, rampogna, maledizione. Ma che vale?

Clara                  - Non avvilitevi adesso...

Frateschi            - Poco fa, entrando qui, avevo preparato delle parole di poesia... da pro­nunciare ai vostri piedi. Ma mi hanno scosso, sbattuto... Come si fa?... Che amo­re era il miol

Clara                  - Poveretto!

Frateschi            - (andandosene) Che amore!...

Clara                  - Sei stata un po' crudele. Potevi la­sciargli qualche speranza. Io non ho mai amato far soffrire gli uomini.

Annapia             - E’ uno sciocco. Mio padre deve capire...

Clara                  - Tuo padre, caso strano, si è com­portato benissimo. Ti ha lasciata libera del tuo cuore. Ma poi, non è uno sciocco. Anzi, mi pare che quando ha parlato del­l'altro abbia còlto nel segno. Tu hai tra­salito. (La guarda). Annapia... E' vero?

Annapia             - (scoppiando) E' vero, è vero... Sono la sua amante. (Clara cade a sedere su una poltrona).

Clara                  - Oh, santissimi Apostoli! Ma ho ca­pito bene, Annapia?

Annapia             - Si, si, hai capito benel La sua amante, la sua amante, la sua amante! Ah che liberazione!

Clara                  - Ma parla piano. Ti pare che questa sia una notizia da araldo telefonico.

Annapia             - (gettandosi alle ginocchia della zia) Oh... zia Clara... (Piange).

Clara                  - Povera la mia figliola. Ti sei lasciata trascinare dall'impeto della tua giovinez­za. Ora sei pentita...

Annapia             - No, no, non sono pentita. Nem­meno per sogno.

Clara                  - No? Ma allora? Dimmi tutto cara, dimmi tutto.

Annapia             - (rasserenata) No, zia. Ho ceduto a un momento di malinconia, ma ora non dirò più nulla.

Clara                  - Non temere che ti faccia rimpro­veri. La mia posizione in questa casa è assolutamente disinteressata. Se vuoi con­fidarti, sfogarti. E' un gran conforto, sai, per chi ha qualche cosa sulla coscienza, poter dire come fu, come non fu.

 Annapia            - Si, forse mi fa bene. Ma devo spegnere questi lumi. (Finge di girare l'in­terruttore e la luce si abbassa).

Clara                  - Ma si, ma si, cara, spegni.

Annapia             - Come per parlare con me stessa.

Clara                  - Benissimo. (Si dispone ad un gran divertimento). Stiamo attenti che non ven­ga nessuno a disturbarci.

Annapia             - Non verrà nessuno. Però zia, nien­te consigli, vero?

Clara                  - E che consigli vuoi che ti dia, figlia bella. Si trattasse di soffocare un grande amore, potrei anche dirti qualche cosa Perché ne ho soffocati parecchi e so come si fa. Ma al punto in cui sono giunte le cose, è come se uno, come me, che non ha ancora... finito gli esami, volesse di­scutere con uno, come te, che ha preso la laurea di fresco. Mi sento inferiore. Ti giuro che ti ascolto con un misto di com­mozione .e di rispetto. Da un lato mi fai pena, ma dall'altro... (Singhiozza). La­sciami piangere un momento, figlia mia. Ecco fatto. Parla.

Annapia             - E’ povero, solo al mondo, co­stretto a lavorare di notte e dormire di giorno. Non conosce la vita e nemmeno se stesso; la vita notturna gli ha dato lo slancio dei sogni, ma l'incertezza di sé. E' timido e sconsiderato, contemplativo e violento...

Clara                  - Ho visto. Scuoteva il povero Fra­teschi come se fosse un ciliegio.

Annapia             - Non osa confidare le sue fantasie a nessuno. A me si. A me sola. Forse Perché ho avuto un moto di tenerezza verso la sua malinconia; e così io sola sono entrata nel suo mondo intimo e ho riconosciuto, nel viluppo di tante riserva­tezze, di tante perplessità un uomo, un vero uomo. Un'anima semplice, un senso così vasto della vita, così nobile dell'arte, una volontà di donare così felice e gene­rosa, che non si può pensare a lui senza commozione. Parlare con lui vuol dire esaltarsi. Le sue parole tumultuose hanno il potere di comunicare una vita quasi febbrile. Se avesse fede in se stesso la sua fantasia metterebbe le ali.

Clara                  - Spiegami, cara, spiegami. Non ci capisco nulla.

Annapia             - E' come un cieco che vede tutto dentro di sé, ma fuori nulla: il buio e qualche cosa che somiglia alla paura.

Clara                  - Vieni al primo bacio, cara.

Annapia             - Non c'è stato, zia.

Clara                  - Cosa?

Annapia             - Il nostro amore non è mai comin­ciato. Appena appena riusciamo a ricor­dare le nostre prime parole, i primi sguar­di. Oh, zia, come dirti? Era il primo uomo che mi baciava, ma non ricordo come e quando sia accaduto, tanto è stato naturale, fatale. E non so nemmeno co­me si sia creata fra noi quella confidenza fisica, che mi ha consentito di offrirmi, così, semplicemente.

Clara                  - Lo dicevo io. Incoscienza. Follia.

Annapia             - Ah, no, zia. E che cosa sarebbe allora? Al contrario. Ero perfettamente consapevole di quello che facevo. Volevo che fosse. Se tu sapessi come soffrivo quando i suoi entusiasmi improvvisi ri­piegavano nel dubbio. Si martoriava con­fessandosi imperfetto, insufficiente. Qual­che nota mancava alla sua arte. Piangeva quasi. Che cosa non avrei fatto per dargli coraggio, per comunicargli la mia certez­za nel suo destino?

Clara                  - Ah... allora, tu l'hai fatto, così, per un impulso benefico.

Annapia             - Perché lo amo. Ho pensato: qua-l'è il sentimento più impegnativo per un soldato? Quello della responsabilità... Una bandiera. Un'idea. Un nome. Per se stesso nessuno combatte. I tristi soltanto. E sono quasi sempre battuti. Ora Alberto ha qual­cuno per cui combattere. Due occhi che lo guardano e che non gli permettono di tremare (buio).

Voce di Alberto          - Per la prima volta ho sentito l'orgoglio di essere me stesso e l'impazienza di uscire dalla notte. An­napia... (luce su Clara e Annapia).

Clara                  - Ma non ti sposerà.

Annapia             - Non lo vorrei. Non potrei mai sposare un uomo povero.

Clara                  - Brava.

Annapia             - Perché lo sentirei eternamente umiliato della mia ricchezza.

Clara                  - Oh, a questo non ci pensare!

Annapia             - E allora sarebbe peggio. Non lo stimerei più.

Clara                  - Ma se... se ci fossero delle conse­guenze?

Annapia             - Sarei felice,., sarei felice!

Clara                  - Ma tuo padre non la penserà così!

Annapia             - Le idee di un padre non sono quelle di un nonno!

Clara                  - Che strana storia d'amore... Io mi aspettavo delie confidenze... più intime... come dire... Insomma io non ho sentito quel fremito, quella scossa...

Annapia             - Non c'è che un grande amore, lucido, deciso, consapevole, lo l'ho amato fino a volerlo amare. E sento che fra le mie braccia è rinato. Non c'è altro da dire. Ora sono certa che vincerà. Vincerà. Vincerà. (Buio),

Voce di Alberto          - Ed ecco, siamo giunti al vertice dove le nostre vite si contondo-no... (La voce si rompe nella commo­zione).

Voce di Annapia         - Avanti. Non piangere, continua.

Voce di Alberto          - Si confondono in una sola sofferenza... (Singhiozza). (Un grido altissimo di Annapia).

Annapia             - No, no! Papà, no... (Luce su Antonio, Alberto, Annapia e Clara, che entrano e si dispongono per la cena: Alberto da un lato molto ab­battuto a capo chino, ma fiero; Antonio col braccio teso verso di lui. Annapia a terra, sui gradini, mentre Clara, curva su di lei, cerca di farle coraggio).

Antonio             - Siete un ribaldo, un essere igno­bile. Ma Perché non parlate, Perché non parlate?

Annapia             - (alzandosi di scatto) E che cosa deve dire? Che cosa t'aspetti che dica? Sei in casa tua. Come può risponderti? Io, io ho detto tutto quello che c'era da dire. E basta!

Antonio             - No! Bisogna che dica anche io quel che sento per questo apostolo della virtù, per questo retore della moralità. (Si copre la faccia con le mani). Oh...

Annapia             - Papà, te ne prego. Non ti accorgi che sono tutte parole inutili?

Antonio             - La vergogna. La vergogna su di me. Il mormorio che mescola il mio no­me a quello di un uomo...

Annapia             - Alberto, fammi il favore, va via. (Alberto non si muove).

Antonio             - Ah no! Sarebbe troppo comodo. Vattene tu. Io voglio restar solo con que­sto signore...

Annapia             - Con calma. Con la padronanza di te stesso.

Antonio             - Va bene, va bene. Ma tu vattene.

Annapia             - Non cercare soluzioni pratiche, papà, lo ho già fissato la mia linea di condotta.

Antonio             - Non me ne importa niente.

Clara                  - Vieni, cara, vieni. E non aver pau­ra. Una donna nelle tue condizioni ha tutti i diritti. (Escono insieme).

Antonio             - (restato solo con Alberto si calma, anzi si accascia) Voi capite bene che for­zando l'impeto dei miei sentimenti io deb­bo ridurmi al linguaggio della ragione. E se mi costi non vi dico. Tutto avrei po­tuto immaginare, tutte le sciagure. Ma di dovermi trovare davanti a un ragazzo co­me voi, per questo... no... no... Di dover­mi proporre il problema di avere, o no, un genero come voi...

Alberto              - Ma io...

Antonio             - Tacete. Ci sono dei doveri ai quali non ci si può sottrarre,.. Ne convenite?

Alberto              - Se voi ponete il problema del do­vere, vedrete che lo risolveremo, Perché sono pronto a qualunque sacrificio... per pagare...

Antonio             - E qui non si tratta nemmeno di un dovere di cui si possa rimandare la scadenza... Perché non sappiamo che cosa possa accadere... (Controscena di Alberto per dire che ha capito) Insomma, bisogna decidersi. Da questo momento voi siete il fidanzato di mia figlia. Non il marito, intendiamoci bene, non il marito. Se avete dato l'assalto alla ricchezza...

Alberto              - Oh... Ditemi che cosa debbo fare.

Antonio             - Per il matrimonio c'è tempo di pensarci. O qualche mese, o qualche an­no... o mai più... Secondo... mi capite?... Ma per ora...

Alberto              - Ho capito.

Antonio             - Rientrerete nel mio giornale. E' inutile che mi diciate che questo vi nau­sea, che la vostra coscienza si ribella, che non vi sentite moralmente di servire...

Alberto              - Io non dico nulla.

Antonio             - Bene. Rientrerete. Voi capite che cosa significhi nelle vostre condizioni que­sto ritorno? No? La rinuncia a tutti i vostri atteggiamenti donchisciotteschi. Se­rietà... Obbedienza... Rispetto... Silenzio. E sopratutto nessun atteggiamento di pro­tagonista... Sarete il mio segretario, il mio braccio destro... il mio... (sospira) porta­voce... Oh... Ma insomma... E' necessario. E quanto alla letteratura... non vi proibi­sco di farne, ma state attento. Nella vo­stra posizione può essere pericolosa... Ma poi non ne avrete il tempo. E con me do­vrete lavorare anche voi!... Vedrete. Da questo momento siete...

Alberto              - Un uomo morto.

Antonio             - Se per vita intendete la libertà di distruggere con le parole ciò che gli altri hanno costruito coi fatti, morto. Se intendete il diritto di sottrarvi a qualsiasi responsabilità per amore di parole, per fa­scini di immagini, morto. Ma tutte queste sono chiacchiere. Siete un uomo come tutti gli altri. Tutti più o meno siamo control­lati dentro di noi e fuori di noi dal senti­mento di qualche dovere, grande o pic­colo, non importa. Nessuno è slegato, sciolto come credevate che fosse possibile. Capito? Nessuno!

Alberto              - Sta bene. Farò il sacrificio di tutto me stesso. Alla felicità di Annapia io de­vo dare anche il sangue, se occorre.

Antonio             - Vanitoso. Mia figlia non potrà essere felice mai più. Nessuno potrà più essere felice qui. Mai più... (Esce).

Alberto              - (si accascia e scoppia a piangere come un bambino).

Annapia             - (entra, lo vede in quello stato e lo scuote) Alberto, Alberto, perdonami, perdonami, ma la colpa non è stata mia. lo non ho potuto tacere. Le parole mi sono uscite dal cuore senza che io lo vo­lessi, (Alberto l'accarezza) e d'altra parte sono stata come trascinata da un istinto di vendetta contro il gesto di mio padre. Perché ti aveva scacciato... ti aveva scac­ciato senza sapere quel che era per me, senza pensare che tu eri il mio avvenire, la mia vita... tutto.

Alberto              - No. Non ti rammaricare di aver parlato. Hai fatto bene, Annapia. E in­tatti ci sentiamo più leggeri e non abbia­mo più alcuna vergogna di nulla... Po­trebbero comparire a quella porta tutti quanti, tuo padre e gli altri... e noi reste­remo così, abbracciati. E' come se avessi­mo consacrato il nostro amore con un rito immenso. Il rito della franchezza. Ah... bisognava, bisognava...

Annapia             - Ma allora Perché piangi, Perché sei così turbato?...

Alberto              - Sono turbato Perché la vita inco­mincia a mostrarmi il suo volto. Incomin­cio a vedere quello che è.

Annapia             - Hai paura?

Alberto              - (dopo un attimo) No. Non ho paura. Giuro. Ma una tristezza, un'ango­scia... Un amore come il nostro non me­ritava forse di trovare innanzi a sé il sor­riso di tutti? E invece... Prevedo che tutta la vita sarà così e che sempre troveremo negli altri inimicizia e incomprensione. Annapia, ho come l'impressione che io sia il primo uomo che ama e che è amato da una donna. Non hai visto come si sono tutti stupiti che io ti voglia bene, che tu mi voglia bene? (Ride male). Noi abbia­mo incominciato un'epoca nuova nella storia del cuore umano.

Annapia             - E chi ti dice che non sia vera­mente così? Forse il mondo ricomincia tutte le volte che due creature si amano veramente.

Alberto              - Adamo ed Eva... (Ride). L'arcan­gelo con la sua spada di fuoco mi ha scac­ciato dal paradiso ed eccomi solo, accanto a te, di fronte alla vita... Dovette sentirsi sgomento il buon padre Adamo. Ed è giu­sto che anch'io lo sia. Ma giuro di accet­tare la vita come è, senza paura, in nome delle forze ideali che sento crescere in me. Non mi piegherò, non tradirò, non men­tirò, non patirò ne astio, né invidia, né rancore. Voglio essere sereno e puro, vo­glio camminare accanto a te, scoprendo palmo a palmo la terra e da noi verrà tanto bene che Dio un giorno ci richiamerà per dirci che siamo degni d'essere felici! (Si commuove).

Annapia             - Ma che accade? Che hai?

Alberto              - Rettorica... mi ha preso fino alla gola... (Irato). Non è vero nulla. Io non patirò, non andrò a raccontare le mie fan­tasie agli uomini, (più calmò) e se vorrò dare un attimo di respiro ai miei sogni, dovrò rubare le ore alla notte, frustare la mia stanchezza. Ma non importa. Tu, in­vece, consolerai me, se mi vorrai sempre bene...

Annapia             - Ma dunque, è accaduto qualche cosa... Mio padre ti ha detto...

Alberto              - Mi ha detto quel che deve dire un padre. Ha ragione. E non badare alle mie chiacchiere. Sono uno sciocco, tanto è vero che mentre giuro di accettare la vita come è, senza paura, eccomi qua a piangere Perché la vita non è come vor­rei. Annapia, io sono un pover'uomo. Ec­co quel che sono. La sola speranza che mi resta è di trovare in me la vera forza umana. Quella di rassegnarmi.

Annapia             - Ma a che cosa? A che cosa?

Alberto              - Alla vita oscura, al lavoro ignoto, al silenzio. Oh, anche questa vita può avere la sua poesia, accanto a te. Abbi pa­zienza che mi abitui a questo pensiero e che onestamente io persuada me stesso. Dopo tutto, chi ti dice che non siano felici gli uomini di cui si ignora il nome? Chi dice che il bene non possa essere fatto, comunque, anche nel fondo di una vita grigia? Forse la vita vale soltanto in quan­to costruzione morale... Anzi, certamente è così. Ebbene, questo lo possiamo fare tutti, tutti. (Con voce rotta). Tutti poeti. Dal contadino al minatore, dall'impiegato al commesso di negozio, dal facchino di porto al muratore! Tutti poeti... L'impor­tante è costruirsi dentro, secondo tutte le regole della statica morale. (Con stupore). Anche questo è bello, no? E' bellissimo!

Annapia             - Alberto...

Alberto              - Alberto non piange più. Si vergo­gna di aver pianto... E' buio davanti a me, ma non importa. Ti amo... ti amo... Annapia... E tu mi ami e avremo carità di noi stessi. (L'abbraccia).

Annapia             - (divincolandosi dall'abbraccio) Ah, no, no. Non è così che ti voglio. Avrò diritto anch'io di parlare, no? Così, no... Ti pare che io potrei vivere accanto ad un uomo che avrebbe potuto essere una cosa e invece è un'altra? Io ti volli bene Perché sentii dentro di te una forza che stava per sprigionarsi... Io non amai l'o­scuro impiegato che si consuma notte per notte, senz'altro sogno che quello di aspet­tare l'alba.

Alberto              - Ma io ho promesso...

Annapia             - Hai fatto male... Parlerò a mio padre. Io non ti voglio così. Non ti amo così... Non so nemmeno se potrei viverti accanto. Finirei per non sopportarti forse. Come se il mio amore fosse peggio che tradito, burlato... No, no. Vattene via. Vattene via.... Sono io, adesso, che ti man­do via.

Alberto              - Ma non posso, Annapia... Come faccio? Sarebbe un tradimento.

Annapia             - Tradisci me, se resti così. Parlo io a mio padre. Gli dirò che rinunci ai suoi pregiudizi borghesi e che piuttosto abbia fede in te, come ne ho io.

Alberto              - Non ne avrà. Ma poi, Annapia, io gli ho promesso di rinunciare a tutto, di obbedire, di pagare...

Annapia             - A pagare che cosa? La mia ver­ginità? Non si paga. Non si paga né con una vita né con due. Il prezzo è un altro. Ma già, forse è proprio quello che tu non vorresti pagare...

Alberto              - Qualunque prezzo... Dimmi che cosa devo fare e io lo farò,

Annapia             - Ritornare.

Alberto              - Come?

Annapia             - Ritornare. Ti sarà difficile. Ma è quello che voglio. Vai, vai! Vivi la tua vita, tenta la tua battaglia... e poi... vin­citore o sconfitto, ritorna. Vediamo se sa­prai fare questo.

Alberto              - Tu dubiti di me? Ma credi che un uomo che per te ha rinunziato a tutte le sue speranze...

Annapia             - Quel che ti chiedo io è più dif­ficile.

Alberto              - Sarebbe difficile se io fossi un'ani­ma debole, una coscienza incerta...

Annapia             - E allora puoi andartene. Sono certa che ritornerai.

Alberto              - (andandole incontro entusiasta, commosso, tenero) Annapia, come posso ricevere da te anche questo dono?

Annapia             - (accarezzandolo come un bambi­no) Non è un dono! Sei un bambino pieno di illusioni.

Alberto              - Oh, la gran donna! Diciottenni...

Annapia             - Da qualche giorno i miei diciot­to anni non sono che un modo di dire... Mi pare di avere l'esperienza di una vec­chia... e mentre ti accarezzo, nel lasciarti so già quello che dovrò patire, so già quello che mi attende...

Alberto              - E io dovrei andarmene così?... Non potrei muovere un passo... Devi dir­mi: ti credo...

Annapia             - Ti credo...

Alberto              - Devi dirmi: ti aspetto.

Annapia             - Ti aspetto...

Alberto              - Anche battuto, vinto, disperato...

Annapia             - Anche se vincerai?

Alberto              - Comunque, se no come meriterei di vincere? Annapia, tu sai che saprei sempre giudicarmi.

Annapia             - E se ti dovessi condannare?

Alberto              - Annapia, Perché allora mi hai voluto bene? Perché mi hai dato la tua vita?

Annapia             - (disperatamente) Hai ragione, hai ragione... Ma in questi momenti bisogna perdonare al cuore qualche smarrimento. Lo so. Ti ho amato per la tua chiarezza spirituale, per la tua lealtà di uomo, la tua dirittura di carattere, la tua generosità...

Alberto              - T'inganni forse?

Annapia             - (disperatamente volitiva) No! (Con moto brusco Alberto l'abbraccia forte forte). (Buio).

Voce di Annapia         - Brucia! Brucia!

(Una vampata rossa invade la scena illu­minando due personaggi che restano im­mobili, abbracciati).

 

TELA

ATTO TERZO

 La scena è come al primo atto. All'alzarsi del velario Annapia è davanti al caminetto, assorta. Pare che guardi il fuoco, che illu­mina il suo volto. E' scossa da questo atteggiamento dall'entrata clamorosa di Clara.

Clara                  - Non si finisce mai. Tutte le volte che chiudo le valigie devo sempre riaprirle.

Annapia             - Già, si dimentica sempre qual­cosa.

Clara                  - Io non dimentico niente. E’ la vita che dimentica i suoi casi e te li butta die­tro, appena volti le spalle.

Annapia             - Parli di mio fratello, forse?

Clara                  - Non ti pare interessante il caso di quel ragazzo?

Annapia             - Interessante? Usi una parola strana.

Clara                  - La parola di una spettatrice, come sono io. Chi m'avesse detto che Silvio avrebbe avuto un'amante così presto!

Antonio             - (entrando) Annapia, fammi il favore di dare gli ordini per il corredo di Silvio.

Annapia             - Parte?

Clara                  - Lo scacci?

Antonio             - Non lo scaccio. Lo allontano. (Ad Annapia). Il rimedio più sicuro con­tro il mal d'amore è la lontananza.

Clara                  - E dove lo mandi?

Antonio             - C'è una commissione archeolo­gica che va in Albania per degli scavi. Lo hanno accettato cóme segretario. Sei mesi di vita solitaria gli faranno bene.

Clara                  - E ti pare che abbia dimostrato delle attitudini alla archeologia?

Antonio             - Le disposizioni che ha dimostrato finora, non credo che debbano essere in­coraggiate.

Clara                  - Io pagherei di sapere chi è quella ragazza.

Antonio             - Io no, preferisco non saperlo. O è una stupida senza criterio, o è una delle solite macchine calcolatrici. (Entra Silvio).

Silvio                 - Papà.

Antonio             - (a Silvio) Ricordati bene che non voglio scene, non voglio promesse, non voglio pianti. Ho deciso quel che ho de­ciso e basta.

Silvio                 - Io faccio quello che vuoi, ma ti av­verto...

Antonio             - E niente arie, niente toni, e niente ti avverto...

Silvio                 - E come devo dire? Tu devi sapere che i miei sentimenti io li porto con me.

Antonio             - Bravo. Portateli in Albania.

Clara                  - (a Silvio) Non è bello quello che hai fatto.

Silvio                 - Per essere bello è bellissimo. Che ne sai tu? Ma se credete che con questo viaggio fra i ruderi tutto si accomodi, e io poi ritorni cambiato, vi sbagliate tutti quanti.

Annapia             - (ridendo) Stai tranquillo. Cam­biato! Cambiarissimo! Tra due settimane al massimo, non ti ricorderai nemmeno di questa disgraziata, che in un momento di illusione ha giocato tutta la vita per te.

Antonio             - Eh, esagerazioni! Tutta la vita! Come se le ragazze del giorno d'oggi des­sero tanta importanza a certe cose!

 Annapia            - Le ragazze no! Non ci pensano nemmeno! Ma poi la vita s'incarica di dare un peso alle loro leggerezze.

Antonio             - Insomma... Hai intenzione di di­fendere tuo fratello?

Silvio                 - Io non ho bisogno che nessuno mi difenda. Ho detto quel che ho detto sem­plicemente Perché tu sappia che, per quan­to mi riguarda, stai per fare delle spese inutili.

Antonio             - Tutte inutili le spese che ho fatto per te, a cominciare da quelle per i tuoi libri.

Annapia             - Se la mia opinione contasse, tu non te ne andresti. Ti costringerei a condurre qui quella donna...

Clara                  - Almeno vederla!

Annapia             - E te la sposeresti il più presto possibile. Non si ha il diritto, nemmeno a vent'anni, di giocare col destino degli altri.

Antonio             - Ma senti che parole: vita, destino!

Annapia             - Le parole fanno paura, vero? Se basta non pronunciarle, cancelliamole dal nostro vocabolario.

Silvio                 - Io non ho giocato, ho fatto sul serio.

Annapia             - Appena voltato l'angolo, nem­meno più un pensiero per questa poverina.

Silvio                 - Ti giuro...

Annapia             - Ma che cosa contano i tuoi giu­ramenti? Guardati nello specchio. Hai forse la faccia di uno che può giurare qualche cosa? Un piccolo vanitoso che si lascia amare, che s'inebria del sentimento che riceve e s'illude sulla natura di quello che prova! Per carità, Silvio, non ti dare queste arie che fai ridere.

Antonio             - Benissimo.

Annapia             - (al padre) Sei tu che lo autorizzi a darsene, scacciandolo, ma fai male. Non devi mandarlo via. Devi tenerlo qui e obbligarlo a pagare i suoi debiti.

Antonio             - (scattando) Ma che debiti I Sei sicura tu che quella ragazza non abbia barato? E poi, intendiamoci, è suprema­mente ingenuo attribuire i nostri principi ad una sconosciuta, che potrebbe anche essere...

Silvio                 - Papà...

Antonio             - Insomma, io non so chi sia.

Clara                  - Perché non ne hai mai parlato con noi?

Silvio                 - Perché quando c'entrano di mezzo le famiglie, il bello finisce. E poi non usa più.

Antonio             - Ma il padre usa ancora e tu te ne vai.

Silvio                 - Me ne vado, ma poi torno. Io le voglio bene, io ho dei doveri...

Annapia             - E lasciate che li senta questi do­veri, finché si trova in istato di grazia.

Antonio             - Tu dimentichi che il responsabile della sua vita sono io.

Annapia             - Anche lui è responsabile di una vita!

Clara                  - Scommetto che la conosci.

Annapia             - Non la conosco. Ma lui è respon­sabile di una vita. Le lettere che gli avete sottratto parlano chiaro.

Clara                  - Io dovevo spazzolare la giacca.

 Antonio            - Belle lettere, bello stile.

Silvio                 - Che c'entra la grammatica?

Antonio             - Insomma, se credi che questa di­sgraziata possa essere presentata a me, a tua sorella, alla tua società, ai tuoi amici, avanti!

Clara                  - Deciditi!

Silvio                 - Così, no.

Antonio             - E allora la sua dolorosa storia non mi interessa.

Annapia             - Papà, vuoi che te la racconti io la storia di quella scioccherella? Vuoi che te la racconti io?

Antonio             - Tu non ne sai nulla. Mille donne, mille storie diverse. E poi tu chi credi di difendere? Uh grande amore? Un'anima ingenua? Un fiore reciso?

Annapia             - Io difendo molto più che una povera donna.

Silvio                 - (commosso) Grazie, Annapia.

Annapia             - Tu ringrazia tuo padre. E’ il solo qui, che cura i tuoi interessi.

Antonio             - Io voglio salvarlo da una situa­zione nella quale si è gettato per inco­scienza giovanile.

Annapia             - Papà, lasciami dire una cosa an­cora. Un giorno tra dieci, venti anni, Sil­vio incontrerà forse il ricordo della sua giovinezza. Io posso dirti che si vergo­gnerà d'essere fuggito.

Antonio             - A differenza di tanti altri che scappano di propria iniziativa potrà con­solarsi accusando suo padre. Questa re­sponsabilità me la piglio.

Annapia             - E va bene. Evidentemente, è fa­tale. In un modo o nell'altro, col padre o senza padre, l'uomo se la cava sempre con un sospiro di rammarico. Chi non si salva è la donna che, ricca o povera, scioc­ca o intelligente, ha data la sua giovinezza una volt£ per sempre, senza rimedio e senza rivalsa. Si, deve essere fatale. E al­lora fate come volete, fate come volete... (Esce in fretta, commossa).

Clara                  - Lo vedi che ti ci vuole una colla­boratrice per risolvere i problemi della vita? Da solo, povero Antonio, non ci ca­pisci nulla. Vado a consolare quella po­verina. (Esce).

Antonio             - (a Silvio) Ma tu ti levi di torno.

Silvio                 - E va bene. (Antonio esce).

Silvio                 - (rimasto solo solleva i lembi della tenda per vedere se è arrivato qualcuno che egli evidentemente aspetta).

Dala                   - (entrando) Come va il tuo romanzo d'amore?

Silvio                 - Male. Parto tra poco.

Dala                   - Tuo padre?...

Silvio                 - Irremovibile.

Dala                   - E Perché?

Silvio                 - Al solito. I padri non si credono intelligenti se non si oppongono. Si sono sempre opposti. E pure si è sempre visto che gli amori contrastati sono diventati fatali. Tutti lo sanno, ma non importa. Si oppongono. Che ci volete fare? Scu­sate, Dala, io dovrei...

Dala                   - Fai, fai pure. Io attendo qui An­napia.

Silvio                 - E' molto strana oggi mia sorella. Prima pareva mi difendesse e poi non vi dico come mi ha trattato. Buffone, incosciente... Da lei non me lo aspettavo. Ora è la che piange...

Dala                   - Piange? Per te?

Silvio                 - E chi ne sa nulla? Per me, non credo, date le opinioni che ha esposte sul conto mio. (Entra Annapia).

Annapia             - Giovanni. (Gli tende la mano).

Silvio                 - Mi dici Perché mi hai trattato cosi male?

Annapia             - Non ho trattato male te.

Silvio                 - E chi allora?

Annapia             - Vai, vai... non perder tempo. (Silvio esce. Pausa; Annapia ss siede).

Dala                   - Mi dicono che siate triste.

Annapia             - Si può essere sempre allegri?

Dala                   - Già. Scusate. (Pausa). Mi dicono an­che che le sedute spiritiche siano finite.

Annapia             - Alludete a Ghini Doria? Finite, si. Ma non scherzate, ve ne prego.

Dala                   - Non ne ho nessuna voglia. Credrvo che una nota disinvolta facilitasse un col­loquio che a quanto pare si presenta af­fannoso. E' partito quel signore?

Annapia             - Credo.

Dala                   - Dio sia lodato.

Annapia             - Vi ho fatto soffrire, Giovanni?

Dala                   - Un poco, ma era necessario.

Annapia             - Forse ho fatto male...

Dala                   - A far che? No, no. Avete fatto be­nissimo. Certe cose bisogna affrontarle coraggiosamente. Per non avere poi dub­bi, incertezze...

Annapia             - Non avete paura della certezza?

Dala                   - Non ricordate il mio discorso sulla pittura? Ebbene, quella volta io parlai proprio per amore di certezza. Per chia­rire. Per vedere bene in fondo al vostro cuore. (Pausa).

Annapia             - Giovanni, ho deciso di abbando­nare la pittura.

Dala                   - (guardandola attentamente) Per me o per lui?

Annapia             - Siete deliziosamente intelligente. E questo mi fa pensare che non siate mol­to innamorato.

Dala                   - Che cosa è questa strana idea delle donne che l'amore debba rimbecillire? An­zi: l'amore è divinazione. Un uomo inna­morato capisce tutto: se deve fare uno sforzo intellettuale in certi casi disgraziati, è proprio per non capire.

Annapia             - Che cosa capite voi in questo momento?

Dala                   - Voi potete uccidermi, se volete; ma non è bello che mi costringiate a farlo da me.

Annapia             - Ma non prendete la cosa su que­sto tono drammatico.

Dala                   - E allora che cosa sono i drammi? Sapevo che oggi avrei avuto una sentenza. Sapevo anche che tra un uomo che pro­mette un avenire, e un uomo che ricorda un passato, sia pure doloroso, ma illumi­nato dalla giovinezza, il primo, cioè in questo caso il sottoscritto, doveva trovarsi per forza in una condizione di inferiorità. A un certo punto della vita, anche il senti­mento diventa pratico. Si tiene al sodo. L'avvenire: promesse vaghe. Ci vuole troppa fede. Ma il passato è vero.

Annapia             - Il mio è distrutto, bruciato tutto in quel caminetto.

Dala                   - Ma si è diffuso nell'aria. L'avete re­spirato. Vi ha gonfiato il cuore.

 Annapia            - Avete detto bene voi. Per un av­venire ci vuole troppa fede.

Dala                   - Otto giorni fa, prima di questo ma­laugurato ritorno, ne avevate.

Annapia             - E mi disponevo a guardare in­nanzi fiduciosamente, accanto a voi. Ma adesso non posso più sperare, non posso più dare alcuna speranza a nessuno.

Dala                   - A nessuno?

Annapia             - Non mi fraintendete, Giovanni. Io non amo Alberto.

Dala                   - Non lo amate ancora.

Annapia             - Ma che pensate? Siete fuori di strada. Vi immaginate che io sia trava­gliata dai ricordi, dalle nostalgie. Magari! Sapeste come mi sentirei più viva, più ricca. Il male è che, invece, leggendo quel­le lettere, non ho provato che un senso di desolazione e di vuoto, non so dirvi, uno smarrimento come deve provare il malato quando intuisce che il suo destino è segnato. Rivivere il passato fa male. Corrode la vita che resta. E come distrug­gere a un tempo, il passato e la possibi­lità dell'avvenire. Mi capite? Giovanni, io stavo per ingannarvi.

Dala                   - Ho capito. Ho capito. Non dite altro. (Si alza e prorompe:) Vorrei sapere sotto quale segno di malaugurio sono nato. Tutto a rovescio! Tutto! E' una cosa quasi singolare, miracolosa. Non capita a nes­suno.

Annapia             - Giovanni, domani forse vi accor­gerete che non è stata una disgrazia.

Dala                   - Domani... domani non Io so. Non m'interessa ciò che potrà fare di me, do­mani, l'istinto di conservazione. Intanto oggi ho la bocca amara... Perché vi amo... e vi perdo... e per colpa di chi? (Entra Clara).

Clara                  - Annaoia, Silvio ti vuole. Che abbia qualche rivelazione da farti?

Annapia             - Vi rivedo, Giovanni?

Dala                   - Se sono un uomo, no. (Annapia esce).

Clara                  - Che cosa potreste essere invece?

Dala                   - Non lo so. Un bue che perde il suo tempo a ruminare qualche cosa.

Clara                  - Non fate il difficile. Che cosa vo­lete ruminare?

Dala                   - Delle speranze perdute, signorina Clara. Avete notato che non vi ho chiama­to col dolce appellativo di zia? Siete con­tenta? Pareva che avere un nipote della mia età non vi facesse piacere.

Clara                  - Ah... davvero? Ora capisco. Caro Giovanni, dovrei compiangervi, ma che vi devo dire? Per me ,tra voi due c'è troppo differenza di età. 'La propria don­na, tenetevelo bene in mente, si cerca fra le coetanee... E se la donna magari è un po' più vecchia di voi... Quanti anni avete?

Dala                   - Quattro meno di voi, se le mie in­formazioni sono esatte.

Clara                  - Se è un po' più vecchia, non guasta.

Dala                   - Non guasta. Ammazza.

Clara                  - (con un gesto di collera se ne va).

Dala                   - (rimasto solo ha un momento di in­certezza. Sta quasi per sedersi nella solita poltrona, ma reagisce e si dirige sicuro verso l'uscita).

Alberto              - (in questo momento appare alla co­mune. I due uomini si guardano un mo­mento in silenzio).

Alberto              - (stanco, ma cordiale) Giovanni  Dala... Non mi riconoscete più? Io vi ho riconosciuto quasi subito.

Dala                   - Ah... siete voi...

Alberto              - Vi trovo bene. Quasi immutato.

Dala                   - (amaro) Si vede che l'ozio, l'insuc­cesso, la delusione, conservano più della fortuna.

Alberto              - Questo vuol dire che mi trovate molto mutato.

Dala                   - Si, molto.

Alberto              - Quanti anni! Vi ricordate un cer­to colloquio tra noi che avvenne proprio qui? Mi diceste delle parole generose che mi diedero tanto coraggio.

Dala                   - Non parlavo per spirito altruistico.

Alberto              - No?

Dala                   - La generosità dei fortunati è una decorazione della vanità.

Alberto              - Non importa. Io ebbi del bene da voi e mi sono augurato di incontrarvi qualche volta per contraccambiarlo, se ne aveste avuto bisogno.

Dala                   - A, si? Sul serio? E allora avanti, pa­gate il vostro debito morale, che il mo­mento è buono. Che cosa potete fare per questo deluso?

Alberto              - Ora? Ora è troppo tardi.

Dala                   - Per me?

Alberto              - Per me. Io sono ora più deluso di voi. Son giunto per altra via al vostro stesso punto.

Dala                   - Davvero? Ci si arriva anche col ven­to in poppa? Non lo avrei creduto. Anzi, permettetemi di non credervi, se no, io so­no un uomo fallito, anche come disperato. Eh, si! Se a questo mondo non c'è for tuna nemmeno quando tutto va bene... la disperazione perde la sua poesia.

Alberto              - Eppure quando a un certo punto si è tratti a fare i conti di quel che si è lasciato di sé stesso, sulla strada della for­tuna, vi giuro che si invidiano coloro che non hanno mai avuto la tentazione di ba­rattare l'anima con questo diavolo.

Dala                   - (sempre ironico) Accipicchia! Diven­tiamo mistici! E' così, ditela franca, vo­lete farmi credere che invidiate anche me?

Alberto              - Anche voi, più di quanto non possiate immaginare.

Dala                   - Vi ringrazio. Davvero. Dopo aver vissuto una vita inutile, questa consola­zione proprio ci voleva.

Alberto              - (guardandolo attentamente) Ho l'impressione che non siate in uno dei vo­stri momenti buoni. Scusatemi se mi sono permesso di trattarvi come un vecchio amico. Stavo quasi per farvi delle confes­sioni.

Dala                   - Anche le confessioni! Ma allora vi ci vuole proprio un frate con la barba e un bel segno di croce. (Trincia nell'aria un bel segno di croce).

Alberto              - Che cosa avete? Vi sento strana­mente ostile.

Dala                   - (passa improvvisamente dal contegno ironico alla collera) Perché siete tornato? Non oggi, in questo momento, ma otto giorni fa. Perché siete tornato? Volete ri­spondermi?

Alberto              - (stupito) Ma... devo dirlo a voi?

Dala                   - Non volete? Non importa. Ma do­vete avere la pazienza di ascoltare quello che vi dico. Quando si fa del male a qual­cuno, si deve almeno avere la carità di lasciarlo in pace a dimenticare. Ecco, vedo che mi capite! Ritornare, resuscitare è uno scherzo macabro ma stupido, che se diverte voi, crea negli altri delle pene inu­tili e forse anche fatali. E' molto comodo l'atteggiamento ascetico del malfattore pen­tito, cne invidia le sue vittime, ma sapete che cosa ne pensano le vittime? Che, oltre a tutto, è anche un pagliaccio.

Alberto              - (a queste parole scatta, pare voglia reagire fisicamente contro Dala, ma si trattiene subito imponendosi la calma) Voi soffrite. (Dala non risponde). Perdo­natemi. Non dite a nessuno che sono stato qui. (Si avvia).

Dala                   - (più calmo, quasi pentito) Fermatevi. Tanto, che voi andiate o restiate, io non ho nulla da attendermi ormai. Sono io che me ne devo andare.

Alberto              - Dala! Dobbiamo lascarci così?

Dala                   - Per me, se volete che riconosca di essere stato impulsivo, posso anche farlo. Mr quando ho qualche cosa qui dentro bisogna che la dica. E non ho niente da modificare.

Alberto              - E vi stupite che io vi invidi? Questo significa che la vostra giovinezza l'avete ancora con voi.

Dala                   - Voi mi dite con bella maniera che mi sono comportato come un ragazzo. Ma io ho anche questa disgrazia, che non so invecchiare. E' terribile sentirsi dentro queste forze quando i capelli sono grigi. Bisognerebbe sapere che a un certo punto quel che è fatto è fatto e non si può più ricostruire nulla, Perché non si hanno sot­tomano che dei ruderi inutilizzabili. Qui c'era una speranza. Qui un'impresa non riuscita. Qui un trionfo dimenticato. Pit­toresco! (Ride). Anche per voi, sapete? La stessa cosa. Non fatevi illusioni. Qui c'era l'amore! Vi saluto. (Si avvia alla porta del fondo, ma entra la modella che fa un cen­no di saluto e si dispone ad attendere. Dala la guarda un momento ed è colto da un pensiero. Ritorna verso di lei).

Dala                   - Non sei la modella della signorina?

Modella             - Si.

Dala                   - Hai molto da fare in questi giorni?

Modella             - No. Anche la signorina credo non abbia più bisogno di me.

Dala                   - Bene, allora vuoi venire con me?

Modella             - Oggi non posso. Domani, se vo­lete.

Dala                   - Fammi vedere le gambe.

Modella             - (interdetta) Voi, bene o male, siete un pittore, ma il signore...

Dala                   - Pittore anche lui, bene o male.

Modella             - Allora... (Alza le sottane).

Dala                   - Belle, diritte, suggestive. Compli­menti. Il mio studio è in via Grazia, io. Domani mattina alle nove. Apri con que­sta chiave, fai un po' di pulizia e accendi la stufa.

Modella             - Nudo?

Dala                   - Integrale.

Modella             - La mia passione.

Dala                   - Speriamo che diventi anche la mia. (Ad Alberto). Che ne dite di questa bambocciona?

Alberto              - Non è un rudere...

Dala                   - Appunto. Si può ricostruire qualche cosa. Bellezza, ti amo. (Via).

Modella             - Bel tipo!

Alberto              - Già.

Modella             - Romantico.

Alberto              - Può darsi.

 Modella            - Gli uomini lo sono un po' tutti, quando invecchiano, non è vero?

Alberto              - (sempre cupo) Non so.

Modella             - Voi che cosa dipingete? Cimiteri?

Alberto              - (seccato) Vi lascio sbrigare le vo­stre faccende con la signorina. Aspetterò in salotto. Se volete dirglielo. (Esce).

Modella             - (ha un gesto come per dire: quante arie!).

Silvio                 - (entrando in fretta) Finalmente se ne è andato. Chi era?

Modella             - Un pittore.

Silvio                 - Perché sei venuta così tardi?

Modella             - Parti subito?

Silvio                 - Non perde tempo, mio padre. Ha già fatto chiamare il tassì.

Modella             - Allora addio... addio per sem­pre... (E' un po' triste, sinceramente).

Silvio                 - No, non dire così. Andassi anche in capo al mondo, io non penserei che a te. Non mi credi?

Modella             - Non voglio farmi illusioni.

Silvio                 - Ma io ti amo davvero. Devi dirmi: ti credo.

Modella             - (accondiscendente) Ti credo.

Silvio                 - Devi dirmi: ti aspetto.

Modella             - Ti aspetto.

Silvio                 - Ho fede nel tuo cuore...

Modella             - Si, tu sei buono. Almeno ti ho sempre conosciuto così.

Silvio                 - Temi di ingannarti? (Annapia, che era entrata da qualche istante e che aveva ascoltata la breve conversazione, intervie­ne energicamente).

Annapia             - Finiscila! Se devi partire, abbrac­cia anche me e fa presto.

Silvio                 - (l'abbraccia) Ma tu mi hai giudicato male. Vedrai. Quella (indicando la mo­della) è la mia donna, per sempre.

Annapia             - Va bene.

Silvio                 - Dovresti proteggerla, aiutarla.

Annapia             - Non dubitare.

Antonio             - (dall'interno) Silvio!

Silvio                 - Eccomi! (Ritorna verso la modella per abbracciarla in fretta) E mi racco­mando, non posare per il nudo. Me lo hai promesso. Addio, pensami... (Va e torna indietro). Scrivimi... Ti farò avere il mio indirizzo. (Va e si volta ancora). Cara... (Via. Un silenzio).

Annapia             - (porgendo alla modella una busta) Questo è il compenso per il vostro lavoro.

Modella             - Grazie.

Annapia             - Quanto al resto... Modella  - Perdonatemi. Vi prego di non dire a nessuno...

Annapia             - 'Lasciatemi parlare. Voglio darvi un consiglio. Per quanto possa sembrarvi crudele, in questo momento, vi assicuro che è dettato da un grande interessamento per voi, per evitare dolori inutili. Non pensate più a quel ragazzo. Non illude­tevi che torni, che vi sposi, che ricordi ciò che gli avete sacrificato.

Modella             - (interrompendola) No, signorina, io non mi faccio illusioni. (Pausa). Do­mani andrò a posare per un nudo.

Annapia             - (sorpresa) Ma allora che comme­dia avete recitato con mio fratello?

Modella             - Commedia? No. Perché comme­dia? Un amore. Finito. Pazienza.

Annapia             - E con questa bella rassegnazione lasciate che l'uomo al quale avete dato tanto, troppo, se ne vada per sempre?

Modella             - A qualcuno bisogna pur dare quel troppo che si ha, e poi è tanto caro. Ma se ne va. E allora...

Annapia             - (un po' irritata) Ah, benissimo, complimenti. Avete una forza di adatta­mento veramente ammirevole.

Modella             - Voi stessa volevate darmi questo consiglio.

Annapia             - Ma non ne avevate bisogno, a quanto pare. E’ questo che mi stupisce.

Modella             - Che cosa potrei fare? Delle tra­gedie? Non bisogna prendere queste cose troppo sul serio. Se no, ci si guasta la vita e la si guasta anche agli altri. Io, poi, ho da lavorare.

Annapia             - Ma se quel disgraziato vi credes­se? Se tornasse ancora innamorato?

Modella             - Impossibile. I giovani cambiano facilmente gusti. Oggi vogliono una cosa, domani un'altra.

Annapia             - Ma chi vi ha insegnato queste cose?

Modella             - Posando, si sentono tanti discorsi.

Annapia             - Questi sono sciocchi, Perché tal­volta accade anche ciò che voi dite im­possibile.

Modella             - Davvero? Uno che non cambia gusti? Un vecchio.

Annapia             - Un giovane.

Modella             - Poveretto. Ma non è il caso di Silvio; Silvio è intelligente. Vedrete che quando ritornerà non ricorderà nemmeno di avermi conosciuta, di avermi scritto delle lettere d'amore.

Annapia             - (vivamente) Quelle fareste meglio a restituirgliele subito.

Modella             - Come posso? Le ho sempre strac­ciate.

Annapia             - Ah!

Modella             - Non sono mica cambiali. Cose dette così, nell'entusiasmo.

Annapia             - (in collera) Andate via! Andate via!

Modella             - Ma, non vorrei aver detto...

Annapia             - No cara, no cara, niente di grave. Anzi, avete dette cose piene di saggezza e di carità umana... Andate, andate.

Modella             - (sta per uscire, ma poi si ferma) C'era qui un signore con la barbetta che vi aspettava. E’ in salotto, credo. (Per un attimo attende un ordine che non viene, poi se ne va. Annapia pare non abbia nem­meno udito l'ultima frase).

Clara                  - (entra in lacrime) Magnifico! Edifi­cante! Devo dirti che tuo fratello si è comportato da uomo. Ha dato lui stesso l'ordine all'autista: « Alla stazione! » col tono di un generale sicuro della vittoria. Tuo padre invece era molto commosso e pensieroso. Scommetto pensava che avevi ragione tu... Che non bisognava strappare l'edera dal tronco.

Annapia             - (ridendo) Ma che edera... ma che edera! Non avevo ragione affatto. Sentì, zia, mi vuoi fare un grande favore? In salotto c'è Alberto. Non so più che cosa voglia ormai. Fammi la cortesia, vai tu a dirgli che non sto bene, che non voglio vedere nessuno, che se ne vada. Digli quello che vuoi, ma che se ne vada.

Clara                  - A proposito di Alberto, è vero che hai liquidato Giovanni?

Annapia             - Zia, ti dirò poi, ma ora...

Clara                  - Perché in questo caso bisogna riflet­tere bene a quello che si fa.

Annapia             - Ho già riflettuto, ho già riflettu­to... Vai...

Clara                  - (va alla porta, guarda verso l'interno e chiama) Ma bravo, signor poeta. Ve­nite... Annapia è qui. (Ad Annapia che si stupisce). Perdonami cara, ma che vuoi? Io devo ubbidire alla mia ispirazione... (Via. Annapia ha un moto di disappunto. Alberto compare sulla soglia e si ferma in attesa).

Annapia             - (imbarazzata) Non avevi detto che saresti partito oggi, per sempre?

Alberto              - Così infatti avevo deciso. Le mie valigie erano già sul treno. Ma poi... ec­comi qua.

Annapia             - (nervosa) E... che cosa vuoi?

Alberto              - Non lo so. Probabilmente io sono ritornato qui per una reazione istintiva. Ti giuro che non lo so. Io sono in un tale stato di confusione... (Si siede pesan­temente prendendosi la testa fra le mani) Che cosa hai fatto? Che cosa hai fatto?

Annapia             - (impressionata) Alberto!

Alberto              - Mi hai,., mi hai... lo vedi? Ho paura delle parole grosse: segno che bi­sognerebbe proprio adoperarle... Otto gior­ni fa, entrando qui dentro, io ero un uo­mo arrivato, sicuro di me. Adesso..

Annapia             - (si avvicina a luì) Ma che cosa accade? Vuoi spiegarti?

Alberto              - Tu hai bisogno che ti spieghi? Tu?

Annapia             - Alberto, ho l'impressione che tu stia per farmi delle accuse.

Alberto              - Accuse? No. Non so. Annapia       - Delle recriminazioni...

Alberto              - Ma no. So bene che non ho que­sto diritto. Ma quello di gridare, di sfo­garmi, di rammaricarmi, quello si, me lo devi riconoscere. Non sei stata tu a gri­darmi qui otto giorni fa che io ero irri­conoscibile? Che sarei stato irriconoscibile anche ai miei occhi stessi?

Annapia             - Si, io.

Alberto              - Mi hai detto: leggi. E io ho letto. Verissimo: irriconoscibile. Hai colto nel segno. Puoi essere contenta.

Annapia             - Posso esserlo? Allora vuol dire che ti ho fatto del bene.

Alberto              - Oh, Annapia, del male! Da quelle pagine che tu hai voluto per forza met­termi sotto agli occhi è balzato verso di me il giovanotto che ero ventanni fa, con tutte le sue illusioni, le sue baldanze, le sue bandiere. Tutto tradito. Tutto. Ve­rissimo. Ma l'uomo, l'uomo che sono, con tutte le sue miserie, le sue menzogne, nel­l'urto si è sfiancato e tu sapevi che questo sarebbe accaduto.

Annapia             - Insomma, questo fortuito incon­tro ti ha meravigliato. Tu dunque ti eri illuso di essere stato sempre fedele, alme­no a te stesso...

Alberto              - E chi lo sa? Esistono forse degli strumenti di precisione per fare il punto della navigazione morale? Si va, si va guardando avanti, consumandosi a poco a poco, senza nemmeno accorgersene, di transazione in transazione... di trucco in trucco... ma un'illusione resta, per tenere la rotta. Non sarà una stella, ma almeno un faro... o anche un'allucinazione. Per vivere! Per vivere!

 Annapia            - Ti dispiace di aver veduto una stella?

Alberto              - Ma l'ho alle spalle... lontana. Posso forse tornare indietro? Ringiova­nire? Ricominciare da capo? Non fingere di non capire Annapia. Il fatto è che ades­so io sono costretto a vedermi come mi vedi tu, attraverso la lente delle mie me­schinità. Ho perduto ogni fede in me. Peggio: ogni simpatia. Mi hai comuni­cato il tuo disprezzo di me, Perché avevi ragione, avevi ragione... e non sapevi che ben poco, Perché c'è di peggio, sai? Per quanto tu possa intuire, c'è di peg­gio... Che povera cosa, un uomo come me... E adesso come faccio? Sono distac­cato da me stesso: come faccio a illuder­mi di lavorare, di creare, di costruire qual­che cosa? Per te, per gli altri che impor­ta? Letterato più, letterato meno... Ma per me! Di una ragione di vita, piccola o grande che sia, un uomo ha bisogno, no?

Annapia             - Che ti devo dire? Io sono forse una povera donna e non arrivo a capire l'importanza del tuo dramma. Ma, mi pa­re che, come capita spesso a tutti coloro che hanno troppo in confidenza le parole, tu stia esagerando. Non c'è uomo al mon­do, che non coltivi il ricordo della sua giovinezza. Soltanto tu, dovresti rimaner­ne schiacciato?

Alberto              - Ma il ricordo è una cosa vaga. E' una fantasia del tempo, non è un do­cumento. E' una creazione del presente che si vive. Tanto è vero che i vecchi ac­canto al fuoco si raccontano vite non mai vissute. Tanto è vero che quando si trova, in fondo a un cassetto di famiglia, un ri­tratto di auando s'era giovani, £a un ef­fetto macabro, come se si trattasse di un povero morto. Ma io non ho veduto un povero morto. Mi sono imbattuto in una giovinezza viva, urlante, che mi ha accu­sato senza carità; guarda che cosa sei di­ventato!

Annapia             - E tu non sai rispondere?

Alberto              - No.

Annapia             - Si dice: figliolo, la giovinezza è un sogno e la realtà è un'altra cosa.

Alberto              - E Perché la vita non dovrebbe essere tutta un sogno?

Annapia             - Perché è battaglia. Anche i ripie­gamenti strategici sono ammessi dalle buo­ne regole.

Alberto              - Non la fuga. No, non ci sono giustificazioni nemmeno pratiche. Perché, quel giovinotto, che diceva tante generose sciocchezze, era anche più felice di me! Sapeva mantenersi in pari con uomini, cose, vita, senza mai rimandare all'indo­mani il saldo della verità, senza mai la­sciare che gli si accumulasse nel cuore la fanghiglia delle menzogne e delle transa­zioni morali. Viveva una vita sola, la sua. Semplice. Lineare. Si pensa che la giovi­nezza sia un momento fisiologico. Non è vero. E' una tecnica di vita. Anzi, la sola tecnica di vita possibile. Mi domando Perché io abbia fatta tanta fatica a vivere tutte le vite possibili e abbia trascurato la mia. Perché mi sia tanto affannato a mentire, a trafficare, a intrigare per rag­giungere qualche successo quando, in so­stanza, davanti a quel ragazzo avrei do­vuto vergognarmi anche di essere infelice. Nulla! Non regge più nulla. (Si alza net-voso\ E quel che mi ferisce di più è che tu, la sola persona che può capirmi, che deve capirmi, Perché l'autrice di questa crisi sei tu, hai l'aria di pensare che io, non so, mi abbandoni a un estro, a un atteggiamento... (Con calore). Ma perche poi? Per spirito polemico? E a che scopo? Per vendicarmi? Di che? Della tua ven­detta? Come devo fare a farti sentire che quel che dico è vero, meno del vero? Che non mi rimane più nulla, che sono sfinito, stanco, Annapia  (con voce rotta) mortal­mente stanco. (Pausa). Annapia, tu mi hai amato.

Annapia             - Non ti amo più.

Alberto              - Ma mi hai amato, come io ti ho amato.

Annapia             - Forse. Ma non mi ami più.

Alberto              - Ma ci siamo amati. (Un silenzio; i due si guardano. Alberto, dopo una breve incertezza, formula la sua conclu­sione) Vuoi essere mia moglie?

Annapia             - (resta un momento silenziosa sotto il peso della improvvisa domanda, ma poi reagisce di un riso nervoso) Adesso? An­che questa dovevo sentire, anche questa! Ma che cosa abbiamo di comune noi due?

Alberto              - Tutto quel che resta della nostra vita. Un ricordo.

Annapia             - Una fantasia, come dici tu. Chis­sà poi com'era.

Alberto              - Non abbiamo comunque altra ric­chezza. Ed è mia come tua.

Annapia             - Non ti pare troppo poco?

Alberto              - Purché basti alla poesia degli an­ni che restano...

Annapia             - No: un accomodamento equivo­co. Un'altra transazione. Come se io ti avessi sottoposto non delle lettere d'amore, ma delle cambiali in protesto.

Alberto              - No, no!

Annapia             - Come se fosse! Non erano cam­biali. Perché nessuna donna sensibile alla logica della vita può prendere sul serio quel che dice un ragazzo in un momento d'entusiasmo. La sostanza è un'altra. Io difendevo me stessa, la mia ricchezza co­me la chiami tu. Io difendevo quel ragaz­zo dalla catastrofe di quest'uomo.

Alberto              - E io ti sono grato. Mi hai fatto del male, mi hai confuso al punto che non so più quel che sarà di me, ma ti sono grato, come se da quella catastrofe avessi difeso me stesso. Annapia, non discutiamo più, non tormentiamoci più. Guardiamoci nel cuore. Non vedi che siamo soli? Che non puoi essere senza di me, né io senza di te? E domandi che cosa abbiamo di comune?

Annapia             - Ma tu non hai pianto. Io si. E niente riscatta quelle lacrime che mi han­no sfibrato, nemmeno questa tua resipi­scenza, non so quanto durevole. In ogni modo, niente la giustifica, nemmeno la speranza di riparare a un male, Perché tut­to il male è stato consumato. Tutto. Qui, sola, per anni, con un pensiero solo. Una vita inutile! Avrei potuto sposare l'uomo al quale avevo dato tutto, avrei potuto vivere al suo fianco, avere dei bambini, patire per le nascite e per le morti, sen­tirmi utile e necessaria, viva davvero. No, niente. Non è stato niente. Non è più possibile niente. E allora che cosa vuoi da me? Che cosa mi porti? La tua dispera­zione per consolare la mia? E che me ne faccio? Preferisco che la mia vita conservi quel po' di nobiltà che le viene da un sacrificio, piuttosto che trasformarla in una umiliante attesa d'anticamera. Vai, vai, non avere paura, deciditi a partire e ve­drai come dimenticherai presto questo smarrimento e come ricomincerai a cam­minare allegramente per la tua strada. Ma io resto sola. Voglio restare sola.

Frateschi            - (entrando di corsa) Scusate. Per­messo. Sapevo che era qui. E' sempre qui. Buongiorno, signorina. Permettete che di­ca due parole segretissime al mio princi­pale?

Alberto              - Non ci sono segreti. Parla.

Frateschi            - Ma dico? Diventi matto? Quel­lo che stai facendo è criminoso. Fatale. (Visto che Alberto non gli risponde nem­meno, si volge ad Annapia). Scusate si-fnorina. Prima di tutto, Casa Editrice aro. Tutti i contratti disdetti. Impossi­bile. Centoventimila lire Tanno gettate dalla finestra. Dico, è grazia di Dio. Io sono religioso.

Alberto              - Non ti agitare. Ho bisogno di raccogliermi, ecco tutto.

Frateschi            - Raccoglierti? (Ad Annapia). Raccogliersi? E Perché vuole raccogliersi? Signorina, diteglielo voi che non si rac­colga E’ pazzo. (Ad Alberto). Hai forse intenzione di ritirarti dall'esercizio della poesìa?

 Alberto             - Da venti anni mi sono ritirato dalla poesia.

Frateschi            - Che vuol dire? Non capisco. Spiegati. No; non spiegarti. Urge provve­dere caso pratico. Fra te e la fame c’è un velo. (Ad Annapia). Spese pazze. Dis­sipazioni. Debiti. Vigili del traffico lette­rario... Rispondi!... Non risponde. Que­st'uomo affonda e lascia la zattera di sal­vataggio.

Alberto              - Adesso basta!

Frateschi            - Io parlo. Mio dovere. Miss Elbritt mi incarica di salutare il suo ex fidanzato e lo avverte che tutte le volte che udirà il suo nome esecrato sputerà. (Ad Annapia). Scusate, signorina. Ma bi­sogna aver pazienza. E’ americana. (Ad Alberto). Parte stasera.

Alberto              - Buon viaggio! (Si siede accanto al fuoco).

Frateschi            - Due brevi notizie ancora. Io ras­segno le mìe dimissioni da segretario di un uomo finito.

Alberto              - Accettate.

Frateschi            - Seconda notizia. Parto stasera con miss Elbritt. Segretario paga doppia. Io le piaccio molto. Soffri? (Alberto scrol­la le spalle). Non soffri? Grazie. Non ho altro da dire. (S'inchina alla signorina).

Signorina           - (Annapia non lo ascolta. Ad Alberto). Me la saluti tu quando ritorna? Grazie. Ecco fatto. Vado. Volo. Riemer­go. (Esce).

Annapia             - (con impeto quasi materno) Al­berto, non far sciocchezze...

Alberto              - (fermandola col gesto) No, An­napia... Ad un certo punto tutti sentono il bisogno di riposarsi accanto ad un fuoco acceso. Siediti qui...

Annapia             - (sedendosi) Ma devi riprendere quel contratto con l'editore, devi lavorare...

Alberto              - Sono pochissimi quelli che smet­tono di lavorare deliberatamente. Un giorno all'improvviso... Si può spegnere questa lampada? (Annapia spegne la lam­pada: mezza luce). Grazie. Si sta benis­simo qui. Devi permettermi di venirci qualche volta... Eccoci qua, come se ci fossimo sposati. Come se avessimo tra­scorso la vita insieme.

Annapia             - Come se i nostri bambini fossero morti.

Alberto              - Ecco. Immaginiamo una vita mai vissuta...

Annapia             - Ma la giovinezza è vera.

Alberto              - Si, ma, dopo, dopo... se non avessi mentito...

Annapia             - Se fossi stata amata.

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