L’UNGHERESE
ATTO UNICO DI MARIO FRATTI
Amavo gli americani, con devozione.
Ho cambiato idea.
Me ne è successa una...
Incredibile, atroce, disumana!
L’ho raccontata ad una collega. S’è messa a ridere, la vacca.
Alle mie spalle, quella figlia di cagna!
Voglio raccontarla a voi, voi che capite ed apprezzate di più. Voi europei che siete la crema del mondo.
Comincio dal principio.
Nel 1956, come tutti voi sapete, ci fu la rivoluzione in Ungheria.
La voce d’America ripeteva continuamente - “tenete duro. Verremo a liberarvi”.
Ammazzammo quindi centinaia di poliziotti rossi e tenemmo duro.
Nessuno venne a liberarci.
Dovemmo fuggire.
Mi fu facile venire in America, dove mi dettero molto: devo ammetterlo.
Cittadinanza, lavoro, casa.
Tutto eccetto un marito.
E’ difficile pescarne uno qui.
I migliori sono tutti sposati. I ricchi sono sposati con amanti, ed esausti.
Gli altri....
invertiti o disperati.
Voglio un uomo, io, un vero uomo.
Se no in questa stanzetta, impazzisco.
Dal lunedì al venerdì, non c’è male.
Ufficio, pranzo, ufficio cena, letto.
Il sabato, tutto letto.
Per recuperare le energie.
La domenica. Disastro!
Il mio corpo e la mia anima sono riposatissimi. Vibranti e ricettivi. Ma nessuno è li, con me, a levarmi la voglia. A vivere e farmi vivere.
Vado a passeggiare, sola, sperando nell’insperabile.
La scorsa domenica
Al solito, scelgo la cinquantasettesima strada. Sicura ed elegante durante la settimana. Ma la domenica mattina è sfortunatamente piena di derelitti ed ubriachi, dormono sul marciapiedi, sotto le vetrine, nelle entrate.
Dovrebbero arrestarli! I turisti giapponesi si divertono e prendere foto. Serviranno poi per diffamare l’America.
Una donna alta e forte come un corazziere, mi fa una proposta oscena. A mezza bocca , meccanicamente. La fa forse a tutte. Senza speranza. Ne sono in un certo senso lusingata. Ha intuito la donna in me la vera donna.
Un’altra mi precede sculettante, alla disperata ricerca di un uomo.
Si muove un po’ troppo. Sono curiosa. Affretto il passo. E’ brutta come...
E’ un uomo! Dovrebbero arrestarli, quei depravati! Una bionda turista con macchina fotografica tedesca (una turista russa forse) prende foto. Per diffamare l’America, poi, al ritorno, nei tuguri di Mosca.
Di uomini non c’è ancora traccia. Troppo presto. Stanno ancora smaltendo la sbornia del sabato.
Ci sono i soliti negri in colori sgargianti. Che ti promettono, oscenamente molto, ma darebbero, eventualmente poco.
Spacconi, buffoni, ruffiani. Pronti a vendere in ogni angolo sorelle, mogli e madri. Dovrebbero isolarli ad Harlem. “Neri ci neri e bianchi coi bianchi”. Come dice giustamente Muhamed Ali. E come impongono, saggiamente gli astuti governanti del Sud Africa.
Giungo al parco.
Il giardino zoologico con gli stomachevoli odori esalanti da ogni gabbia.
Il leone sbadiglia,. L’orso ha fame. L’orango si masturba. E’ terribilmente umano.
Mi viene da sorridere al pensiero di tutta quell’energia sprecata nel nulla.
Mi fermo ad osservare le foche. Una è spalancata al sole, aperta al mondo, libera come il buon Dio l’ha fatta.
La invidio. Vorrei essere io, li, nuda, al centro della vasca, offrendo il mio corpo al mondo.
Se fosse permesso e morale offrirsi nudi alla carezza del sole e degli sguardi altrui.
Mi siedo al solito caffè affollatissimo e attendo.
C’è il solito vecchietto che ti fissa le ginocchia. I due semi-pederasti che parlano di te perché sono troppo imbarazzati per parlare di se stessi, di quel che sognano insieme.
Studentesse, famiglie, coppie.
tre italiani che parlano a grandi gesti. So un po’ di italiano. Tendo l’orecchio, narreranno forse le loro avventure nelle alcove statunitensi.
“...salsicce, peperoni, pomodori, salsa piccante, vino.....
Gli americani parlano sempre di soldi. Gli italiani di cibo,. Chi parla più di donne? Le donne purtroppo, solo le donne.
Due giovanotti con magliette sportive.
le colleghe, in ufficio mi hanno detto di evitare gli atleti. Sono così innamorati dei loro corpi che ignorano il tuo.
Io non ci credo. A me, quando vedo atleti e poliziotti, scorre un brivido lungo la schiena. Un brivido di piacere. Sono ancora i più virili in questa società di svirilizzati.
Vediamo un po’. Se avessi il potere di scegliere quale sceglierei?
Quello col naso lungo. Non per la volgarissima ragione alla quale avete pensato voi ma perché c’è più luce nei suoi occhi. Una promettente scintilla.
Ma anche l’altro....
Ho sempre sognato di averne due insieme, o tre, o dieci. Ma chi ha il coraggio di una offerta simile?
Solo una regina, forse. Quelle possono permettersi di tutto. Anche di assassinarli tutti e dieci, perché non raccontino che anche le regine sanno gemere di piacere.
I tre italiani si leccano i baffi, (tutti e tre hanno terminato il pasto con una ricca torta al formaggio; tutti e tre hanno i baffi) e si allontanano pregustando il prossimo pasto al ristorante Capri. Lo dicono a voce alta a tutti. Come se volessero essere ammirati di nuovo dalle donne che non hanno saputo ammirare qui.
A che ora?
Dalle sette alle undici, senza dubbio. Quattro minuti ad una donna, di tanto in tanto. Quattro ore ad un pasto, due volte al giorno.
Un’adorabile bambina corre ed occupa una delle tre sedie. Precede il padre, un bell’uomo che la raggiunge poco dopo con un vassoio.
Un bell’uomo.
Mi fissa.
Abbasso gli occhi come mi insegnò Padre Josef a Budapest.
Della bimba vedo solo i lunghi capelli biondi, ora.
Dell’uomo fisso le forti mani pelose fino alle nocche delle dita, la fede matrimoniale, la camicia pulita ma vagamente sdrucita, con trama ed ordito pericolosamente sottili.
Un’altra vittima di quelle dannate lavanderie cinesi...
Forse è un vedovo.
Continua a cercare i miei occhi, di tanto in tanto. E mi fissa i capezzoli, con le labbra semiaperte.
Ha pupille che sanno bruciare il loro obiettivo. Li sento ardere. Il disagio si alterna ad un vago sentimento di piacere. Sono eccitata, qua e la nelle ben note zone erogene.
Forse è un vedovo stanco di cucinarsi da solo, di portare la figlia allo zoo e la biancheria ai cinesi.
Forse è alla disperata ricerca di una moglie.
Sono tutta tesa e turbata. Non oso muovere un dito, per non fare una mossa falsa. Quante donne hanno perduto il loro uomo per una mossa goffa o una mano tremante?
Fisso i capelli della bambina.
Adorabile. L’amerei sul serio, Con tutta l’anima mia. Come se fosse carne della mia carne.
Già nata, viva, adorabile. Già parte della famiglia. Dovrei farne solo un’altra.
Un maschietto, con un po’ di fortuna. E poi mi farei legare i tubi. Per godermelo fino in fondo, un uomo simile.
E’ un vero maschio. Mi fissa senza tregua, ora. Con intensità e desiderio.
Di quelli che ti fanno correre i brividi lungo la schiena.
Sollevo la tazza lentamente, tenendo il manico con saldezza. Non voglio fare il minimo sbaglio , oggi. Una goccia di caffè sul capezzolo e lo perdo.
Già l’adoro lui e la bambina. Sarò la sua schiva se necessario. Tutto quello che vuole. Anche quelle esperienze sessuali che erano chiamate perversioni in Ungheria e qui, anni fa.
Tutto, mio caro, tutto quello che vuoi. Sono qui, tutta tua. Pronta ad adorarti.
I veri maschi sanno raccogliere le vibrazioni di una donna vera. Mi sorride.
Gli sorrido.
Il tipo divinamente deciso. Prende la sua sedia e viene al mio tavolo, dimenticando per un attimo sua figlia.
Adorabilmente appassionato.
“Posso sedermi qui?”
La figlia si volta, smarrita.
“Possiamo sederci qui?
Ride di cuore. Una di quelle risate che ti riempiono l’anima. E la camera. E la vita.
Ridiamo tutti e due, a cuore aperto.
Sono nervosissima e quella risata scarica tutta l’energia nervosa che mi scoppiava dentro.
Parla di se, di New York, delle domeniche al parco, di tutto. Una voce calda e carezzante.
La bambina lecca in silenzio il suo gelato. Sbocconcella poi i biscotti e succhia la gelatina.
“Come ti chiami, angelo?”
Nessuna risposta.
“Nancy. Sei anni. E’ timida”.
Risponde lui, muovendo quelle forti dita verso di me.
Vuole toccarmi. Voglio essere toccata. Se non ci fosse l’angelo tra noi!
Un angelo che forse non mi vuole istintivamente, nella vita di suo padre.
Ma ne conquisterò l’amore. Lo so, a tutti i costi. A costo di lavarle il culetto dieci volte al giorno, se necessario.
Mi parla poi di sua moglie. Toccandomi la mano tre volte. Appena appena. Con tocchi sapienti. In una tenera morsa.
Lo lascio fare. Di questo passo ci saltiamo addosso.
E’ vedovo. Solo. Vive con la bambina alla cinquantaseiesima.
Quattro stanze che danno sulla Settima Avenue.
Lo adoro.
Lo adorerei anche se ne avesse una sola, una stanzetta come la mia.
Due cuori, tre, ed una capanna.
Mi offre un’altra tazza di caffè. Dico un no che è naturalmente affermativo.
Torna con due gelati e due caffè. Un gelato per me, uno per la silenziosa testimone di un amore nascente.
“Che vuoi, cara? Quello di fragola o quello di cioccolata?”
Afferra quello di cioccolata, senza pronunciare verbo.
Sgarbatella. Ma sarò la più paziente delle madri. Dopo tutto, Nancy sta evidentemente ubbidendo agli ordini di papà Arthur. (Bel nome, no? Forte virile come il romantico vedovo che mi sta corteggiando con tanto calore e passione).
“Non parlare mai agli sconosciuti!” le avrà ordinato.
Dopo tutto sono ancora una sconosciuta.
Per poco. Solo per poco.
Lasciamo il ristorante insieme, naturalmente. Nancy, in mezzo a noi. A me da la mano sinistra. Piccola e tenera. Commovente.
Mi sento morire dalla gioia.
Una famiglia, già. I mille che ci guardano pensano che siamo già una famiglia.
Ed alcune donne, lo sento, m’invidiano la segreta virilità del mio Arthur.
Parla a lungo, di tutto, con un entusiasmo che commuove. Un marito come questo riempirebbe un castello con tanto calore.
Poche domande, sulla mia vita. Con delicatezza e rispetto. Gli dico che sono ungherese, una delle rivoluzionarie del 1956.
Non batte ciglio.
Non è un dedicato anticomunista, come avrei sperato ed avrei preferito.
Forse è ebreo.
Circonciso.
La differenza fra i circoncisi e i no è così minima! Non la si sente nemmeno.
“Avevo sedici anni nel 1956. Vivo sola ora. Volete salire su, per una tazza di te?”
Voglio mostrargli che la mia cameretta è pulitissima, in ordine perfetto. (Quando non ho niente da fare pulisco e ripulisco, lucidando tutto come una dannata). Un letto solo, stretto e verginale. Una vasca da bagno immacolata come un altare.
Capirebbe subito che sono profumata come una rosa. Sempre. Pronta al divino rito dell’amore più completo.
“Nancy è un po’ stanca....”
Per la prima volta amo Nancy un po’ meno. Sarà spesso un ostacolo, questo silenzioso mostriciattolo.
“Ma potrei lasciarla
dalla portinaia per un paio d’ore”
Per un paio d’ore! Una virilissima promessa di felicità. Mi si stringe la gola.
Succederà oggi, proprio oggi? Che data è? Mi è impossibile ricordarlo!
Forse il quattordici, forse il quindici. Sono confusa. Il sangue mi pulsa dappertutto. Nelle vene, nelle tempie, altrove. Sono felice, felice, felice.
“Mamma, che mi proteggi da quell’azzurro cielo magiaro, grazie! Lo sapevo che non mi avresti abbandonata!”.
“ Ciao Nancy”.
Le bacio la fronte con amore e gentilezza. Le stesse labbra che sanno baciare il piccolo angelo con tanta devozione e purezza, fra poco, forse, baceranno altro.
La mutolina non si smentisce. Scompare dietro la porta a vetri della portineria, con Arthur.
Non faccio nemmeno a tempo a guardarmi nello specchietto che Arthur riappare. E’ felice ed eccitato come un bambino. Intrecciamo le dita delle mani e camminiamo come due fidanzatini.
Sono fuori di me dalla gioia. Per la prima volta non invidio le coppie. Guardo le donne sole. Sento che sono loro, adesso, ad invidiarmi.
Ebbene....
Come avete indovinato, non seppi dire di no.
Dopo il te, mi bacia le mani, le ginocchia, le cosce poi su, su fino all’anima più mia.
Il letto verginale che aveva spesso visto la deprimente ginnastica di una donna sola, vede ora l’appassionato amplesso di due giganti.
Settantatre minuti di dedizione assoluta. Quello che gli altri, quelli all’antica, fanno in trent’anni di matrimonio, con moglie ed amanti.
Una sintesi di vita.
Una celebrazione dell’amore più vero, assoluto, spregiudicato.
Sulla soglia lo bacio a lungo, una prima volta. E poi i tanti teneri bacetti che gli innamorati si scambiano quando non hanno il coraggio di separarsi.
Mi dimentico di dargli il mio numero di telefono e di chiedergli il suo. Lo attendo quindi alla porta, da un momento all’altro, all’indomani.
Non viene.
Un giorno, sette, venti.
Il mio è il ben noto orgoglio ungherese. Non voglio essere la prima a cercarlo.
Dove ho sbagliato? Quale è stata la mia mossa falsa?
Troppo presto?
Troppo?
Non gli ho chiesto niente, assolutamente niente.
Quel che ha fatto lo ha deciso tutto lui, volontariamente.
Quel bacio sulla soglia, forse, troppo lungo............
O l’avrei dovuto invitare a passare la notte con me!
Quello no.
Sarebbe stato peggio.
Dopo quattro settimane ho una buona ragione per andare al suo indirizzo.
Busso giù, in portineria.
Nancy è lì. Loquace e sguaiata questa volta.
“Nancy mia cara. Dov’è il tuo papà?”
Me lo indica. Un uomo in maniche di camicia, con barba lunga e sporca. Il portinaio! La vecchia strega mi interpella rudemente, con ostilità.
“Cerchi Arthur?”
“si”
“Non abita qui”
“Ma credevo.....”
“Lo credono tutte. Non abita qui. Non è vedovo. Quella non è sua figlia. E’ la mia.”
“Ma allora?.....”
“Viene a prenderla ogni domenica, per una passeggiatina nel parco. La prende in “affitto”. Torna sempre con una di voi, oche, puttanelle o ingenue, in fregola per un marito. Se sei incinta, posso darti un indirizzo”
“Mi sento morire”.
“Incinta? ripeto macchinalmente”.
“T’ha fottuta no? Se sei incinta ti do l’indirizzo di una che lavora coi guanti”.
Mi allontano camminando come un’ubriaca.
Domattina vado in ospedale.
Voglio ammazzarlo il figlio di quel figlio di puttana.
Mi sta crescendo dentro, questo futuro cittadino USA, ed io lo odio.