Ma, insomma, Iago che intenzioni aveva?

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MA, INSOMMA, IAGO CHE INTENZIONI AVEVA?

Di Carlo Terron

Protocollo di un sodalizio in bianco e nero,

nutrito di sentimenti disdicevoli

Odierna sovra, o sottolettura di “Otello”,

modesto omaggio a Shakespeare, se gradisce;

sennò, pazienza, sarà per un’altra volta, non c’è fretta

(Ma ci rimette).

PERSONAGGI:

Emilia

Desdemona

Iago

Otello

Luogo: un trascurabile paese orientale, difficilmente reperibile sulla carta geografica, temporaneamente occupato da truppe statunitensi, su “invito”, si capisce, del governo legittimo locale. Scopo ufficiale: difesa dall’aggressore e relativa civilizzazione, senza che, naturalmente, la combinazione di essere, a mezzo metro dal suolo, grondante di petrolio come una zuppa inglese, sia determinante. Oggi, si intende, ma presumibilmente anche domani. Dipende. Come è sempre dipeso. Armato di un’orchestra michelangiolesca, piomba su una platea attonita, inconsapevole di ciò che l’aspetta, il furore dell’uragano dell’ “Otello” di Giuseppe Verdi, impennandosi in uno stentoreo “Esultate!”, urlato da Mario Del Monaco come solo Mario Del Monaco sapeva urlarlo; e sfuma, sul filo di un lene sospiro esalato dal violoncello, nello sfinimento morente della lussuria malinconica, secreta dal sublime tema finale del bacio a Desdemona assassinata. Il denso silenzio onde si estingue, dopo una congrua sospensione, viene occupato da un’inaspettata e provocante, quanto convinta e suadente, voce maschile ridondante di sesso, che enuncia nitido e scandito: “Ma potrebbe essere andata, più – o meno – modestamente, anche così…” -1- ESSE – allegretto con brio. Come potrebbe essere andata, lo insinua la confidenziale voce di Frank Sinatra in uno dei suoi celebrati successi trapelante da una radio portatile. La petulante macchinetta, induguiante, ogni tanto, in qualche onirica cadenza di danza esotica, visibile al centro della scena come un ombelico al centro di un ventre, al susseguente aprirsi del sipario, occhieggia su un tavolo rotondo di metallo, all’ombra di un palmizio nemmeno poi tanto lussureggiante, anzi piuttosto stento e vergognoso. Evidentemente un palmizio col complesso del nano. Ma se lo scenografo, d’accordo col regista, in un raptus di priapismo botanico, ritenessero più acconcio esaltarlo col narcisistico complesso del gigante, facciano pure prestando orecchio all’urgere dei loro ormoni nel momento magico della creazione, senza tener conto che l’immaginazione dell’autore tendeva piuttosto verso la malinconia di un palmizio malato alle soglie della menopausa. Intristisca o vigoreggi, quel che conta è che esso vivacchi tra altri simili, in una specie di addomesticato giardino tropicale, gomito a gomito ad una pretenziosa piscina immediatamente contigua a un campo da tennis; escluso all’occhio, non però all’orecchio per via dei ritmati, soffici tonfi delle palle rimandate dalle racchette, monotono, per qualcuno ossessivo, accompagnamento: il basso continuo di un’effusa noia vagamente inquietante; dove tutto – luogo e discorsi, gesti e pensieri, istinti e intelligenze, sentimenti e contegni, impulsi e reazioni – pare disporsi lungo la trama dell’innaturale naturalezza di una spontaneità ambiguamente sofisticata, come percorsa da una blanda corrente nevrotica; che, senza parere e senza che ce se ne renda conto, dell’eccezione si direbbe aver fatto la regola; e in cui le situazioni, anche incontestabilmente gravi, non riescono ad essere mai del tutto serie – troppo o troppo poco “sentite” – senza però esimersi, a tempo e luogo, dal risultare senz’altro tragiche. È come doversi destreggiare, col gusto, insieme, e il malessere, del funambolo senza essere mai esonerata dal rimanere sulla corda, sempre e in tutto, in precario equilibrio anche se, all’apparenza, in perfetta normalità; costretti, sino al momento di scoprirne – se si scoprirà – il perché e il come, ai margini di un’aureola di irrealtà che fa corona ai fatti e alle cose, non meno che alle psicologie e alle parole: una sorta di sovreccitazione impercettibilmente equivoca, “giocata”, “recitata” ecco; ma quasi non lo si avverte: una falsa naturalezza ipernaturale che accomuna tutti, in varia guisa, ma poi non troppo, uomini e donne; un poco meno forse – o, proprio per questo, un poco più? – colui che governa il gioco, ma chi se n’accorge? E dove sta? Appena appena, insomma, però si “sente il teatro”. Comincia coll’offrirne subito un esempio, poco più che inafferrabile nella propria superficiale spontaneità amorale elegantemente mondana, la chiacchiera innocua, apparentemente svagata, ma, per chi tenda l’orecchio, rivelatrice e vulnerante, di due splendide donne, prodighe di sensuale giovanilità, una bionda e una bruna. Come ineccepibili consorti di due ufficiali dell’esercito americano, il rischio dell’intellettualismo dovrebbe essere evitato e, a maggior ragione, quello della cultura. Però chi può giurarlo? Senza pessimisticamente predisporsi al peggio, non farsi nemmeno eccessive illusioni. La noia, si sa, che, generalmente, ottunde, in qualche caso, acuisce l’intelligenza ed esaspera la sensibilità, ma, soprattutto, accentua il malcontento. E dalle mogli di due prodi, annoiate, in istato di intelligenza acuita, di sensibilità inquieta e di malcontento in agguato, ci si può aspettare di tutto; anche assistere all’innocente passatempo della confidenza spregiudicata che fa il solletico alla maliziosa compiacenza del sottinteso salace, gemello dell’indiscrezione indecente. Sarebbe ancora il minor male. Mettendosi a discorrere, quando due belle donne perdono il pudore, lo perdono del tutto. Tutto sta far finta di niente, capire e sfumare. Vengono avendo appena smesso, alla pari, una partita di tennis a coppie. Stufe, l’hanno lasciata continuare ai loro mariti, meno, di esse, suscettibili al tedio. Le palle che si sentono sono quelle maschili, si fa per dire. Vanno a sedersi al tavolo sul quale depongono le racchette; si versano due bicchieroni di aurea aranciata in ghiaccio, precedentemente apprestata per loro in una caraffa di cristallo, da uno dei giovani boys di servizio alla residenza e di cui fa razzia e pascolo la bruna; ma non si è tenuti né a saperlo né a farlo sapere. Ascoltano, per un po’, tacendo, la fine della canzone di Sinatra; pensano, ma hanno il buongusto di non rendere di dominio pubblico: “Sinatra è sempre Sinatra”, anche per non sentirsi controbattere: “Però, la Piaf…!” …poi cominciano a discorrere; e discorrono, discorrono, discorrono, dicendo tutto e niente. Ah, la bruna si chiama Emilia e la bionda si chiama Desdemona, nomi carichi di Destino. Delle due, la prima ha preso su, da un cestino da lavoro a portata di mano, un elaborato fazzoletto di seta, “trapunto a fiori” e, naturalmente, “più sottil d’un velo”; e, ago e filo microscopici, s’è messa a rammendarlo con sciolta e disinvolta accuratezza. La conversazione, all’inizio fiacca e banale, si vivacizza smediocrizzandosi, in seguito, mano a mano che si immaliziosisce e rivela l’irrivelabile

DESDEMONA       - Nulla da fare, vero?

EMILIA                   - Sfido un competente ad accorgersene. Non sarà un rammendo a sconvolgere la tua vita.

DESDEMONA       - Dici, Emilia?

EMILIA                   - Dico, Desdemona.

DESDEMONA       - Ho ancora da rendermi conto come sia stato possibile un disastro del genere. Non conosce il lapsus. Meno male.

EMILIA                   - (nemmeno lei. Meglio ancora) Chiamalo progresso. Ragnatele miracolose come codesta, non si stivano in una lavatrice come tanti tovaglioli. Dovevi esserti addormentata.

DESDEMONA       - Senza te, io, incapace di dare un punto, non so come avrei potuto rimediare.

EMILIA                   - Qualche eredità dal collegio mi doveva pur rimaner appiccicata ai polpastrelli. Fa credito alla mia modesta ricerca del tempo perduto. Proust rimane sempre una risorsa. Perfino quando arriva alla portata della consorte di un ufficiale dell’esercito americano, allevata dalle Orsoline.

DESDEMONA       - Sono i guasti provvidenziali della cultura.

EMILIA                   - E poi, si sottovaluta l’influenza del cattolicesimo nel Nuovo Mondo.

DESDEMONA       - E pensa, povere anime pie, cosa direbbero sapendo che una ex loro allieva modello, dopo essersi punta i polpastrelli con Proust, si indebolisce la vista con “L’amante di Lady Chatterley”! La malizia le è stata suggerita dall’essersi trovata in mano il romanzo distrattamente nel cestino da lavoro; nascondiglio ideale, da tempo immemorabile, dei libri proibiti in lettura alle signore costumate. Pare che se ne servisse persino la regina Vittoria, quella che, a scanso di tentazioni del principe consorte, faceva indossare sottane di pizzo alle gambe dei pianoforti. Inconfessabile voluttà segreta: il feticismo delle gambe del pianoforte. Ah!... Gente che sapeva vivere.

EMILIA                   - Occhieggiava sfacciato sul comodino della colonnella che ci ha preceduti in questo desolato esilio. Può voler dire molte cose sulla sua vita coniugale… M’è parso un “messaggio nella bottiglia”, e mi è venuto fatto di rileggerlo, ecco il mistero. Adoro le complicità occulte e inconsapevoli.

DESDEMONA       - (soprapensiero) … “molte cose sulla vita coniugale”… Sai che non afferro bene?

EMILIA                   - Per afferrarlo bene, un problema occorre condividerlo. Sforzati. Recupera l’immaginazione.

DESDEMONA       - Noo… Pensi davvero?... Il colonnello? Un fulmine di guerra. Lo chiamavano… aspetta… il medagliere vivente.

EMILIA                   - Tu non hai idea ciò che può servire a coprire una medaglia. Non è sul petto che andrebbe portata in più di un caso. Militarismo e virilità non sempre coincidono, amica mia.

DESDEMONA       - Però…

EMILIA                   - Ho premesso non sempre.

DESDEMONA       - Quando si dice l’apparenza. Poveretta.

EMILIA                   - Eppure, sembra che fosse una donna irresistibile: un grembo ardente e sitibondo. Riferisco la pittoresca espressione di uno dei boys della residenza che rispose per tutti. Magari ignorano la tavola pitagorica, però sono poeti in queste contrade.

DESDEMONA       - Ma superano la ventina!

EMILIA                   - Ringraziando il cielo è uno dei posti dove non c’è disoccupazione giovanile.

DESDEMONA       - Dipende dalla mia connaturale ingenuità, o hai calcato sull’eppure? Che può significare un eppure?

EMILIA                   - Qualche volta l’estrema risorsa.

DESDEMONA       - Non mi dire.

EMILIA                   - Cara, nella vita di una bella moglie delusa, con tutti i suoi ormoni a posto, gli eppure è raro che manchino. Possono costituire una gran risorsa gli eppure.

DESDEMONA       - Gli, dici?

EMILIA                   - Gli, gli. Va bene gli.

DESDEMONA       - Al plurale?

EMILIA                   - Al plurale. Non c’è controindicazione.

DESDEMONA       - E quante volte gli?

EMILIA                   - Dipende. Temperamento. Dei nostri tempi, il numero è potenza.

DESDEMONA       - Come aumenta la vita, creature! Da un anno all’altro, tutto raddoppia. Una volta ci si accontentava di un eppure solo. A mia nonna, un solo eppure durò fin che visse e il rimorso quasi l’uccise.

EMILIA                   - Sprechi del consumismo. S’è perso il gusto del risparmio, è tutto lì. Oggi un eppure, quando dura molto, dura sei mesi. Fortunata te che ignori la questione. Due cose, vedi, l’uomo non può nascondere: la gobba e i sensi soddisfatti. La prima, per te, non costituisce problema: ti manca; la seconda è più difficile: avresti bisogno di circolare con una maschera perché ti si legge in faccia.

DESDEMONA       - Dispongo anche di un neo a metà strada tra l’ombelico e il pube. Che ne faccio?

EMILIA                   - Guardati dallo spostarlo. Né esibirlo, né occultarlo. Ha trovato da sé la sua sede ideale. Tu appartieni a quel genere di amiche che, nel migliore dei casi, suscitano invidia.

DESDEMONA       - E nel peggiore?

EMILIA                   - Rabbia.

DESDEMONA       - Alla larga.

EMILIA                   - Ma è proprio tra le amiche più intime e care che succede questo.

DESDEMONA       - Ti so dire tra le altre.

EMILIA                   - Tra le altre, le cose procedono molto più lisce. Non sai che solamente coi lati peggiori di noi stessi costruiamo le nostre amicizie più tenaci?

DESDEMONA       - Spero di no.

EMILIA                   - Togli a una grande amicizia la sua componente di complicità e poi sappimi dire cosa ti resta.

DESDEMONA       - E l’amore?

EMILIA                   - Ma l’amore non è altro che un’amicizia schiavizzata dall’obbligo di andare a letto insieme. Non sono i sessi determinanti, sono le complicità.

DESDEMONA       - Non c’è che dire: hai un’idea rispettabile dell’amore, tu.

EMILIA                   - E’ da anni che mi state sotto gli occhi te e tuo marito e, in tanto tempo, non ho mai smesso di domandarmi come facciate a non essere ancora morti di… indigestione. Mai un giorno di magro per voi. Mai un eppure.

DESDEMONA       - Così?

EMILIA                   - Così.

DESDEMONA       - E’ imbarazzante, adesso che lo so. Tu ci vedi, e pensi subito…

EMILIA                   - Automaticamente. Vista e tatto. È più forte di me. Dispongo di un’immaginazione feconda in quel reparto lì.

DESDEMONA       - Avrei preferito non sentirmelo dire così brutalmente.

EMILIA                   - Hai estratto il biglietto vincente, altroché! Con un fusto simile non c’era donna al mondo che non andasse sul sicuro. L’uomo non è che carne: carne e basta. È sempre, e solo, essa a decidere alla fine. Sbaglio? Occhi negli occhi! Ma che ragione c’è di proclamarlo con tanta rabbiosità? E, di colpo, luce mezzana concorrendovi, entrambe come estranee, in un contesto che non le riguardi. Ma che, son prese da sonnambulismo?

DESDEMONA       - Detto in confidenza, non è che, a me, questo discorso mi persuada molto.

EMILIA                   - Sincerità per sincerità, nemmeno a me. Ma tanto vale. Quante volte nella vita si può manifestare quel che si sente e dire quel che si pensa? Si è su un palcoscenico; parlare bisogna parlare e una chiacchiera vale l’altra. L’importante è non restar a bocca chiusa lasciandosi travolgere del tutto.

DESDEMONA       - Non dico di no. Però, nemmeno uscir troppo dai binari, coll’effetto di due che si recitano in faccia parole di cui non condividono il senso. Va bene, ogni tanto, il gusto di esser epici, ma un po’ di originalità sentita non guasterebbe.

EMILIA                   - Ormai si è ridotti che, solo rinunciando all’originalità, si può sperare di essere originali.

DESDEMONA       - Dipende dalla pretesa di volerlo essere troppo.

EMILIA                   - O dalla preoccupazione di non esserlo abbastanza.

DESDEMONA       - Cinque minuti di sana banalità al giorno e sarebbe la salvezza. Pensa che sollievo!

EMILIA                   - Che vuoi, snobisti si nasce.

DESDEMONA       - Molto peggio quando snobisti si muore.

EMILIA                   - Purtroppo, non c’è rimedio quando snobisti si vive, senza essere degli snobisti originali. Automatico scatto e rimbalzo immediato nella normalità. Forse si son sbagliate, recitando una didascalia.

DESDEMONA       - Non si può, comunque, concludere – me eccettuata – che tu esorbiti in ottimismo circa la vita coniugale delle consorti dei militari all’estero.

EMILIA                   - Quanto a questo, nemmeno su quella delle consorti dei borghesi in patria. Le seconde non stanno meglio delle prime.

DESDEMONA       - Ciò che impressiona, soprattutto, in te, è l’imparzialità.

EMILIA                   - Ahi! Mi sono punta. Vedi ciò che vuol dire far dei complimenti insinceri. Distraggono già quelli sinceri!... A proposito, e se ti sembro indiscreta padrona di non rispondere, ho sempre da spiegarmi la ragione che ci tieni tanto a questo dispettoso fazzoletto. Mai farsi regalar fazzoletti. Porta male. Dicono. Lo sai, no?

DESDEMONA       - Non ci tengo io, figurati, ci tiene lui. Manie.

EMILIA                   - Continuo a non capire.

DESDEMONA       - Dipende, vedi che quel fazzoletto ebbe un gran da fare durante la nostra prima notte di nozze…

EMILIA                   - (troppo ingenua per essere ingenua) Aveva il raffreddore?

DESDEMONA       - Semplicemente, non aveva una salvietta a portata di mano.

EMILIA                   - Mi par d’aver capito. Ma che t’ha insegnato tua madre al momento del matrimonio?

DESDEMONA       - Ho dovuto e voluto essere in tutto, e per tutto, un’autodidatta.

EMILIA                   - Non sempre gli insegnamenti delle mamme sono da buttar via.

DESDEMONA       - Da quel giorno, da quella notte, lo considera come sacro… un talismano permalosissimo investito di occulti poteri malefici. Prende tutto sul serio, sai com’è. E’ la solita storia: gratta l’eroe, e scopri, sotto, il selvaggio. Non è così?

EMILIA                   - Chi lo dice?

DESDEMONA       - Lo si pensa, va’ là, lo si pensa. Anche se non lo si dice, lo si pensa. Ne so qualcosa.

EMILIA                   - Mica, certo, io e mio marito.

DESDEMONA       - Me lo auguro, e, se del caso, vi chiedo scusa. Conservo solo l’ipotesi.

EMILIA                   - Starebbero là, dà un’occhiata, diversamente, a sfiancarsi a vicenda la carne… e lo spirito, colla lena e coll’abnegazione onde se li sfiancano, dalla mattina alla sera, come galeotti al remo?

DESDEMONA       - Galeotti al remo?! Che termini!

EMILIA                   - Ma lo sono!

DESDEMONA       - Poveri cristi, se non avessero nemmeno il tennis, qui ci sarebbe da spararsi.

EMILIA                   - Appunto. In questi acquitrini abbandonati da Dio e prediletti dalle zanzare, rischiano di saltare anche gli ultimi freni inibitori.

DESDEMONA       - Alt! Che almeno ci sia risparmiata la tirata sulla scomodità delle guerre del Terzo Mondo in appalto al maggior offerente.

EMILIA                   - Professioni privilegiate. Fieri, ribaldi e puri, un giorno qua, un giorno là, a tener calda la guerra fredda.

DESDEMONA       - Di diversa gradazione, ma sono eroi!! Non va dimenticato.

EMILIA                   - Già. Non riesco mai a ricordarmelo. Mi sfugge il concetto. ( dopo una breve ma marcata riflessione) Mah. Così facile da capire, tuo marito non riesco a capirlo.

DESDEMONA       - Eppure, è come un’acqua trasparente.

EMILIA                   - Si vede che c’è acqua e acqua. Ma è persuaso veramente di essere stato confinato a bagnomaria in questo disperato lembo del pianeta come civilizzatore di turno per esclusivi ideali umanitari? C’è un limite anche all’ingenuità.

DESDEMONA       - Ti dispiace se facciamo un bel taglio e diamo per noto tutto il sottofondo politico della faccenda?

EMILIA                   - Del resto, a che si riduce la questione? Nello stare al gioco. E fin quando il nostro paese di ragazzi cresciuti troppo in fretta, anziché la dotazione di vitamine, incrementa la fornitura delle armi, trovando chi ci sta, coi suoi uomini migliori in buonafede e in prima fila, la ragione è dalla sua parte. Perché lui, è uno che ci crede, vero?

DESDEMONA       - Fatto com’è, o come è convinto di essere, diversamente non starebbe qui un’ora di più. Quel serpente nazirazzista di mio fratello va dicendo, anche a chi non lo vuol sapere, che è troppo militare per essere intelligente. Sarà quello.

EMILIA                   - Guarda, guarda: esattamente il contrario di ciò che mia suocera non perde occasione di proclamare di suo figlio.

DESDEMONA       - E cioè?

EMILIA                   - Che è troppo intelligente per essere militare, e ciò induce a qualche sospetto. Qualcosa di vero ci deve essere in questa discorde concordanza.

DESDEMONA       - Ad esser giusta, mai che l’abbia sentito pronunciarsi sull’argomento.

EMILIA                   - Probabilmente, ritengono sufficiente lasciar credere di non essere al corrente che il trascurabile mazzetto di guerre di serie B al minuto, ha già fatto più morti dell’ultima guerra di serie A all’ingrosso. Sono le risorse di divertirsi a giocare coi numeri. Alla resa dei conti: due vocazioni sbagliate.

DESDEMONA       - Che ti devo dire? Fammi egoista, il mio mi sta bene così.

EMILIA                   - Il mio molto meno. Una vocazione sbagliata anche per me, ho timore.

DESDEMONA       - Non dirmi! Perché l’hai sposato, allora?

EMILIA                   - Era il partito più conveniente, in tutti i sensi, nel raggio di trecento chilometri. E tu, il tuo, perché?

DESDEMONA       - Era il partito meno conveniente, in un senso solo, in un raggio doppio.

EMILIA                   - Ti lasci dire, ciononostante, che ti invidio?

DESDEMONA       - E’ qui che ti aspettavo. Da settimane. Non facevo che pensare: cos’avrà, questa qui, per metterci tanto ad arrivarci. Ecco che, finalmente, mi levi un peso dal cuore.

EMILIA                   - Saresti, per caso, gelosa?

DESDEMONA       - Anzi! Solo contenta che tu non faccia eccezione.

EMILIA                   - Non dirmi che ne sei lusingata: da un’esagerazione all’altra: la corruzione delle anime incorrotte!

DESDEMONA       - (naturalissima) Ci sono abituata. Non certo l’invidia del candido patriottismo dei suoi ideali rimasti incorporati nel suo residuo goliardismo, infantilismi non rimossi. No. Si tratta di un’invidia… in nero. Sfiora quasi tutte, non credere, amiche e non amiche: quelle aliene da pregiudizi e abbastanza in confidenza da trovare il coraggio, tra un sorrisetto e l’altro, di confidarsi apertamente; e quelle no, che non lo trovano e rimediano fantasticando in segreto: le autonome, le chiamo io. Nero su bianco sono due tinte che combinano bene. È l’ancestrale, inconfessato, invidiato e paventato sottinteso che accompagna, da sempre, la sua razza: la vendetta antica dell’onnipresente serpente: il gran serpente d’ebano. Tentazione d’ogni donna e invidia-rancore d’ogni uomo, bianchi, si capisce. Se non altro, quella compensazione, crepi l’avarizia: quella supremazia lì, lasciamogliela, a modesto indennizzo di tanti antichi debiti rimasti in sospeso.

EMILIA                   - Per quanto mi concerne non chiedo di meglio. Ma, franchezza per franchezza, lo ritieni un sottinteso giustificato o abusivo? Se c’è una in grado di… convalidare un giudizio del genere, dovresti essere tu.

DESDEMONA       - Personalmente, sarei un’irriconoscente lamentandomi. Ti basta? Aldilà delle mie esigenze, insomma. Parecchio aldilà.

EMILIA                   - (la disinibita spontaneità del suo ridere!) Vedi che non ho torto di invidiarti. Pure, c’è ancora qualcuno che insiste a dire che si tratta di un luogo comune. Ahh…

DESDEMONA       - Perché sospiri?

EMILIA                   - Così…

DESDEMONA       - Si vede che io sono stata fortunata, che ti devo dire? Scusa.

EMILIA                   - Che per certe prestazioni, loro…

DESDEMONA       - …i negri, chiamiamoli col loro nome, non c’è disonore.

EMILIA                   - …i negri fossero il non plus ultra era anche una fissazione di mia suocera che vantava una lunga e numerosa pratica in merito. Adesso, tu mi confermi che la sua stima non era mal riposta.

DESDEMONA       - Non tutte le suocere mentiscono alle nuore. Ci sono anche quelle che dicono la verità: la tua. Ed ora, per restituirti il complimento, debbo dirti che tuo marito è un gran bell’uomo esorbitante di fascino?

EMILIA                   - Equivalente al tuo?

DESDEMONA       - Esiste fascino e fascino.

EMILIA                   - (diretta, naturalissima) Ci andresti a letto assieme?

DESDEMONA       - (sconcertata) Che domande sono? Tu possiedi il genio di svuotare le domande coll’aria di riempirle.

EMILIA                   - (imperturbata) Ci andresti a letto assieme?

DESDEMONA       - Perché insisti? Sei brutale.

EMILIA                   - Test. Un semplice test. Ho i miei test personali anch’io, cosa credi? Sì o no?

DESDEMONA       - Beh…

EMILIA                   - Non ci andresti a letto assieme.

DESDEMONA       - No.

EMILIA                   - E la ragione, se è lecito?

DESDEMONA       - Sta a vedere che adesso ti offendi. Domando e dico cosa avresti fatto se ti avessi detto di sì.

EMILIA                   - Ti ho posto una domanda precisa.

DESDEMONA       - Emilia, che ne so?

EMILIA                   - Io, viceversa, avrei potuto anticipare la tua risposta prima ancora di fartela.

DESDEMONA       - Non te la devi prendere. È così. Son cose alle quali non si comanda.

EMILIA                   - A chi lo dici?!

DESDEMONA       - Ha tutto. Sono desolata. Ma è così. Te lo dico col cuore in mano.

EMILIA                   - Ma cara, non mettiamoci a sprecar gli equivoci. Io, ritenerti un’ipocrita? Solamente il nome che porti è una garanzia, abbi pazienza; devi pur fargli onore in qualche modo. Ancora ancora, ti chiamassi Carolina, Francesca, Amalia, perfino Porzia, guarda. E via, una diecina di veloci botte e risposte inequivocabilmente e accentuatamente “giocate”. Estraniamento numero due:

DESDEMONA       - Non mi piace il mio nome.

EMILIA                   - Sconoscente! Ma se è il condensato di ogni candore, di ogni virtù. Con un diverso nome, non saprei proprio come immaginarti.

DESDEMONA       - Forse per quello. Sai come non mi sarebbe spiaciuto chiamarmi?

EMILIA                   - Non ne ho idea.

DESDEMONA       - Ofelia.

EMILIA                   - Ofelia? Beh, sai… non è che ci sia una differenza abissale. Più o meno, siamo lì.

DESDEMONA       - D’accordo. Ma meglio e più chiaro… Forse, più ingenua, ma certo, meno sciocca… o no?

EMILIA    - O sì?

DESDEMONA       - Mah.

EMILIA                   - Ofelia. Deve essere morta ancora vergine. Ci hai pensato?

DESDEMONA       - Quello non si sa. Non cominciamo a calunniare, adesso. Ridono consapevoli di scherzarsi addosso. E tu?

EMILIA                   - Vergine io? Ma che ti passa in mente?

DESDEMONA       - Come ti sarebbe piaciuto chiamarti, intendevo.

EMILIA                   - Io? Chi sono io? Un nome opaco e vuoto. Il mio nome non è che una parola. L’uno vale l’altro, suono e basta. Sono colei che rimane sempre fuori da ciò che succede… Vorrei, per una volta, essere qualcuna, possibilmente; mica soltanto “la moglie di…” che annaspa, senza aver da dir niente, mentre rattoppa fazzoletti… e finge di pungersi per farsi notare… Qualcuna: pretendo troppo? È desolante essere una che potrebbe anche non esserci. Vorrei diventare un personaggio, ecco ciò che vorrei. Posso?

DESDEMONA       - Hai detto niente!

EMILIA                   - C’è chi farebbe carte false per diventare un personaggio.

DESDEMONA       - Io no.

EMILIA                   - Sfido, lo sei.

DESDEMONA       - C’è anche chi farebbe carte false per cessare di esserlo. Specie quando si rende conto di essere un personaggio cretino e noioso. Mah, si nasce come si nasce. Può anche succedere il brutto scherzo di nascere Desdemona. E rimane assorta in un silenzio vuoto, apparentemente riempito da profondi pensieri.

EMILIA                   - …Taci? Che stai rimuginando?

DESDEMONA       - Sul punto di approfittarne, penso che ne ha fatti di guasti Pirandello. Ancora prima di nascere ha cominciato a farne. E non ha ancora finito. Noi, qui, oggi, siamo le sue ultime vittime, in un certo senso.

EMILIA                   - Per carità, non dirlo. Garibaldi non si tocca. Non è ancora il momento.

DESDEMONA       - Credi che verrà?

EMILIA                   - Confidenza per confidenza, si sta avvicinando. Ma silenzio. Qui lo dico e qui lo nego. Certi omicidi sono difficili e lenti. Non per altro danno tanto gusto. Decisamente, secco, altro tono, altro ritmo, dopo una pausa calcata, estraniamento chiuso. Malinconie!... E speranze a venire.

DESDEMONA       - Tu non me la dai mica da intendere: sei ancora offesa.

EMILIA                   - Per cosa?

DESDEMONA       - Il mio rifiuto di tuo marito.

EMILIA                   - Figurati, non me ne ricordavo già più. Era in preventivo.

DESDEMONA       - Sono desolata, proprio, sai.

EMILIA                   - Che vuoi farci? Pazienza.

DESDEMONA       - Quanto sei cara, Emilia.

EMILIA                   - Inezie, Desdemona.

DESDEMONA       - Me lo fai un piacere, a scanso di altri imbarazzi?

EMILIA                   - Ma dieci, cento.

DESDEMONA       - Caso mai avesse in animo di farmi la corte, dissuadilo: non vorrei offendere anche lui, mi par così sensibile.

EMILIA                   - Non preoccuparti, tesoro, è un pericolo che non corri.

DESDEMONA       - (travolta da un raptus di preoccupazione) Non vedo chiaro in me stessa: è bello, signore, colto, elegante, vigoroso, giovane…

EMILIA                   - Ventotto anni dopodomani; non scordarti gli auguri, a proposito. Predilige la biancheria di seta, quarta misura. Ci tiene. E, in quel settore, è riconoscentissimo.

DESDEMONA       - Ventotto anni? Lo facevo più vecchio. Tre o quattro maggiore: l’età, più o meno, del mio.

EMILIA                   - No, no. “Quattro volte sette anni”, come usa citarsi lui per mettere al corrente che sta in confidenza con Shakespeare. L’ha detto il bardo e tanto basta. Punto fermo su un ghignetto verde, mentre l’amica procede imperterrita alla propria introspezione:

DESDEMONA       - …Ha un’intelligenza fuori del comune; è gentile, brillante, spiritoso; mordace quanto è necessario, tenero all’occorrenza, altero nella seduzione, carezzevole nel distacco.

EMILIA                   - Ma tu non aspetti altro che di cadergli tra le braccia!

DESDEMONA       - Appunto. Non gli manca niente. Ma pensa: e, invece: un blocco: ma proprio niente. Va’ a vedere quel che mi succede. Non sono mica giusta, ti dico.

EMILIA                   - Capita. Lascia perdere, ti ripeto.

DESDEMONA       - No, no, lascia perdere. Devo essere malata, e mica neanche poco. Ha tutto. Tutto!... Perché fai quella faccia?

EMILIA                   - Tutto. Però non funziona.

DESDEMONA       - Sono io, io che qualcosa non mi funziona. Che ne pensi? Sarà grave?

EMILIA                   - Un cancro sarebbe peggio.

DESDEMONA       - Vedi che ti contraddici. Quando mai, se hai ancora un po’di fiato, un cancro ha impedito, ad una donna, la tentazione di andare a letto con un bell’uomo, se è un bell’uomo, e lui lo è. Ha persino gli occhi verdi: uno su un milione, e lui li ha. Che importa se pochi mesi dopo dovrà tirar le cuoia?

EMILIA                   - Non è un paio di occhi verdi che può cambiare la situazione. Tosca aveva due comuni occhi neri e faceva furore. Rischiò persino uno stupro che è il supremo omaggio alla bellezza. Scarpia se ne intendeva. Non ti devi affliggere. Malata o sana, è sempre la medesima storia, più o meno l’effetto che fa a tutte indistintamente. Non gli manca nulla…

DESDEMONA       - Nulla, nulla, son io la prima a riconoscerlo. Da restare a bocca aperta solo spennellandolo con lo sguardo.

EMILIA                   - …ma le sue mani scultoree sono sempre gelide, i suoi piedi michelangioleschi, proprio perché michelangioleschi, sono di marmo e tutto il suo ammirevole resto è come… là: un picco eternamente innevato dell’Hymalaia. Un vago gesto verso Oriente ché, forse, non è lontano.

DESDEMONA       - Un uomo non è fatto soltanto di mani e piedi freddi, sii seria: alla peggio si rimedia con una stufa.

EMILIA                   - (scivolando verso una risentita sincerità) Non ci sono stufe che bastino a scaldar animo, cuore, cervello… Quel suo pallore latteo di notte, disteso, immobile, accanto a me, a una distanza siderea… Irraggiungibile… ore… un cadavere vivo, e so che non dorme… Non hai idea. Non si possono né amare, né desiderare, né far godere né far soffrire gli spettri… Coiti allucinanti di larve inafferrabili, e poi a chiederti se furono realtà o incubo. Esistono, sai, i dissanguati in apparenza umana… Una mostruosa facoltà di trasformare lo splendore del suo corpo in qualcosa di repellente. E il ribrezzo… il solo pensiero di allungare un dito per toccarlo, e allora il ribrezzo: il suo rifiuto, forse: la sua difesa, chissà, una guardia dove sia impossibile penetrare. (non priva di cattiveria) La sua asettica, scostante bellezza bionda sarebbe perfetta solo che raggiungesse la fluorescenza disgustosa dell’albino. E, come ridestandosi sarcasticamente, ricaduta, immagine e parola, alla banale realtà: …Però, o perciò, ti rendi conto, adesso perché non è… appetibile? Del resto, me lo son voluto io, e me lo tengo. Mai disarmare dall’orgoglio dei propri errori.

DESDEMONA       - (inaspettatamente dissonante, del tutto fuori dalla vicenda) Congratulazioni; il personaggio è nato. Per partenogenesi, ma è nato:

EMILIA                   - è!

EMILIA                   - E allora, lasciamolo crescere. Qualcosa da dire ce l’ha anche lui, volevo dire lei. Oh, se ce l’ha!

DESDEMONA       - Attenzione a non esagerare. E via con proterva e arrogante insolenza: l’

EMILIA                    - inedita e insospettata allo scoperto:

EMILIA                   - Prendila come ti pare, umiliante o non umiliante: sincera: io, a letto con tuo marito, viceversa, ci andrei di corsa. Un paio di volte l’ho perfino sognato. Ma cos’è l’evanescenza d’un sogno a paragone della concretezza della realtà? L’ombra contro la luce. Pure, vorrei, tutte le notti poter rivagheggiare quella scorporata realtà… Cose!... Amiche leali come siamo, sappi, e tieni conto, che non mi farei scrupolo a incoronarti peggio della foresta di bambù là, oltre la collina. Attenzione, tu. Dove passa, la lussuria nera incendia. Più rara ed inquietante di una lussuria bianca che, dove tocca, agghiaccia.

DESDEMONA       - Che devo dirti? Grata della franchezza… Povero caro, il giorno che lo sapesse, si vergognerebbe come un ladro.

EMILIA                   - (già riprendendosi) Chi ha detto che i ladri si vergognano? È una calunnia messa in giro, per invidia, dagli onesti. E poi, ficcati in testa che nessun uomo al mondo s’è mai vergognato, né mai si vergognerà, che una donna lo desideri, pavoni come sono; molto pùi delle donne. Sono solo più ipocriti, ecco il loro unico vantaggio. – (dopo un po’) – E più vili… Forse.

DESDEMONA       - Non credi di essere ingiusta?

EMILIA                   - Non lo escludo. E ne approfitto. Chi me lo vieta?

DESDEMONA       - Già, è vero: chi te lo vieta? Sempre come tante frustate, uno di quegli scarti di tono sconcertanti che si ripetono.

EMILIA                   - Chi ci stesse ad ascoltare, potrebbe credere di assistere a una commedia di Noel Coward un po’ osé – (ci pensa su un attimo) – E meno divertente, perché qualcuno tende, maldestramente, a tirare verso Shakespeare.

DESDEMONA       - Dipenderà dai nostri nomi.

EMILIA                   - Può essere.

DESDEMONA       - Ogni nome racchiude un destino, si dice.

EMILIA                   - Torniamo a Coward, c’è meno responsabilità. E rischio. E gloria.

DESDEMONA       - Otello adultero: l’aggettivo mi fa sorridere. Lui: un labirinto di pudori persino nel corso dei suoi… impudichi pudori.

EMILIA                   - Vedi, la differenza tra te e me consiste che tu dici: “un labirinto di pudori”; io avrei detto: “più pudori che muscoli”. Sembra niente e c’è la firma di due temperamenti.

DESDEMONA       - Sì. Tu, Emilia, hai il gusto della calunnia.

EMILIA                   - Nove volte su dieci, il gusto della calunnia non è che il gusto della verità ribattezzata.

DESDEMONA       - O del rancore.

EMILIA                   - O del rancore chiamato col suo nome.

DESDEMONA       - Tu non vuoi bene a te stessa.

EMILIA                   - Nemmeno un po’. A differenza di te, che te ne vuoi troppo… Ma sei lì che non vedi l’ora di attaccar a parlare di lui. Suvvia, sfogati. Ti faccio da spettatrice io.

DESDEMONA       - Perché tu, tu che progetti di portarmelo via e lo credi possibile, non l’hai né visto né conosciuto nelle situazioni in cui l’ho visto e conosciuto io. Con tutte le sue mostrine e le sue medaglie, la sua carriera fulminea e la sua fama eroica, quando lo conobbi, nella nostra minuscola e permalosa città del Sud, eternamente arrabbiata… più timido di un collegiale: un ragazzone imbranato peggio di una recluta. Mica discorreva, domandava scusa: un disastro, e, in un certo senso, lo è rimasto.

EMILIA                   - Nell’intimità, forse, perché (via ironizzando), come soldato, una frusta impugnata da un condottiero irato. Cito, alla lettera, uno scritto del suo fedele aiutante.

DESDEMONA       - Pure competizioni di facciata. Solamente nell’intimità ci si conosce a fondo per quello che si è.

EMILIA                   - Quando ci si conosce, se ci si conosce. Soprattutto, se si è.

DESDEMONA       - Otello e le donne! (ridacchia) Ci cascano tutti. Mai e poi mai si sarebbe azzardato a prendere lui l’iniziativa. Eppure, irradiava dal corpo di quel giovane atleta, che ti so dire?, una sorta di intangibile aureola di verginità disposta ad arrendersi, anelante ad essere espugnata… sempre, però, in difesa. sempre sulle sue: il pudore, o, forse… la vergogna, ecco, della propria prorompente maschietà. Per cosa credi che me ne sia innamorata a prima vista? Per quella sua selvatichezza tenera e indifesa, offerta alla capitolazione; assurda, incredibile e anche vagamente ridicola… ma pur così carica di segrete promesse: il morbido sentimento di una peccaminosità delicata ancora tutta da esplorare. Tu sei nata e venuta su al Nord. Certe situazioni, se le conosci, le conosci unicamente dai discorsi, dai giornali, dao libri. Ma viverci, viverle!... E poi, uno come lui, mistura di fierezza e modestia. Non faccio per dire, occorreva del coraggio. Ed ero timida.

EMILIA                   - L’improntitudine dei timidi è inimmaginabile al più sfacciato degli sfacciati. Su questo non ci piove.

DESDEMONA       - Cosa vuoi? Monache anch’io.

EMILIA                   - La scuola migliore per la rivolta dei timidi.

DESDEMONA       - Ci conoscemmo ad un ballo dove non avevano potuto fare a meno di invitarlo celebrandosi una battaglia e lui l’aveva vinta. Contavano che non venisse. E venne, unica preda negra tra un branco di segugi bianchi. Ingenuità? Orgoglio? Ha alzate d’ingegno così. Lo si considerava già una specie di eroe nazionale emergente: imprese scriteriate compiute goliardicamente: l’America. Soltanto, credo, il bronzo della sua pelle mi impedì di accorgermi del suo rossore, quando dovette ardire di invitarmi, come dicono giù da noi, ad aprire le danze. Adesso, ho imparato: comincia dietro l’attaccatura dell’orecchio, nel solco dove il colore è meno cupo. Le spie delle sue emozioni le conosco tutte, nei punti meno immaginabili e prevedibili del suo corpo. Il sottile piacere, Emilia, di coglierle sul nascere… il segreto impenetrabile che ci accomuna… Ti stupirebbe sapere che i suoi rossori cominciano tra dito e dito, nell’incavo delle ascelle, sotto le piante dei piedi… nella piega dei gomiti… Ci facciamo su dei giochi tra noi… Al centro della sala, il giovane eroe bruno e la pallida ereditiera figlia dell’uomo bianco più autorevole della contea danzavano sotto il fuoco degli sguardi impermaliti di tutta la città. Non c’era niente da fare. Gli spettava. In quel civile medioevo, l’etichetta è ancora sacra. Mai, fin che viva, mi usciranno dalla mente gli sforzi sovrumani dei suoi grandi occhi lampeggianti e mansueti per non incontrare i miei. Per non guardarmi in faccia, non facevamo che scivolarmi nel rifugio della scollatura. E c’è qualcos’altro che non ho più dimenticato, di quella sera fatale che decise della mia vita: il ruggito silenzioso cosparso sul volto di mio padre, obbligato alla finzione di una civile cerimoniosità non condivisa. Tra una cosa e l’altra, avevo il cuore in gola. Come ballerino era, ed è rimasto, una frana; e, tuttavia, quella sera ebbi le ali. Era il valzer del Faust. Quando me lo riporta la radio, mi travolge ancora colla violenza degli uragani che devastano la mia terra e mi son rimasti nelle orecchie. Se il signor regista crede di poterla assecondare facendoglielo riassaggiare, il disco costa quattro soldi.

EMILIA                   - Il mio balla benissimo. Nemmeno quello m’è stato risparmiato.

DESDEMONA       - …Nella stretta delle sue braccia, il suo corpo, sempre più premuto contro il mio… dopo tanto autodominio: sconcertante…

EMILIA                   - (sardonica) E sconveniente, spero… “Impudico” è troppo?

DESDEMONA       - Fu come si fosse, all’improvviso, liberata, in lui, una qualche furia inarrestabile… non lo so… vergogna ed estasi… Me la lasci chiamare sensualità intimidita?

EMILIA                   - Chiamala come credi. Sensualità intimidita a me sta benissimo. Il resto ce lo metto colla testa mia.

DESDEMONA       - …La mia testardaggine era proverbiale in famiglia, in questo sono figlia di mio padre: in quel momento, giurai a me stessa che quel tenero bisonte sarebbe stato il mio uomo e nessun altro.

EMILIA                   - E tu sei una che mantiene i giuramenti, a quel che pare.

DESDEMONA       - Quando posso, sempre. Ci si vedeva di nascosto e ci si incontrava fortunosamente, escogitando i pretesti più infantili ed architettando le occasioni meno credibili; non estraneo tuo marito – allora, voi due non vi conoscevate ancora e lui pareva votato al celibato perpetuo. – Era l’unico al corrente della nostra relazione e ci teneva mano. In modo maldestro, magari; a rischio, senza volerlo, due volte su tre, di farci sorprendere e mandar all’aria tutto – una vera fatalità – ma ce la metteva tutta, quel che è giusto è giusto, e se la fortuna gli era sempre contro, non era colpa sua.

EMILIA                   - A quel che mi par di intuire, sarebbe stato meglio che non se ne fosse occupato. (meno male che stavolta s’è tenuta dentro il termine lapsus). Insomma, vi è andata bene… nonostante la sua assistenza.

DESDEMONA       - Non dico questo.

EMILIA                   - Ma siamo lì. Mi figuro lo zelo che avrà posto nel farvi da ruffiano: il suo gusto della mortificazione.

DESDEMONA       - Era astutissimo. Sfortunato ma astutissimo.

EMILIA                   - Astutissimo in tutto e sfortunato in una cosa sola: è lui!

DESDEMONA       - Ci voleva sposati ad ogni costo. Fu molto caro.

EMILIA                   - Pensa un po’!

DESDEMONA       - E Otello che recalcitrava. In quel periodo vennero fuori tutti i suoi complessi… La prima volta che lo si convinse ad affrontare mio padre!... Misericordia!... Non ce la faccio ancora a capacitarmi come abbia trovato l’ardire. Fece e disse cose, in quell’occasione, tra il sì e il no, tra il volere e il disvolere, lo sperare e il disperarsi, che nemmeno un ragazzo. Quella fragilità è una delle catene che lo àncorano indissolubilmente al mio cuore… Quei giorni, Dio del cielo! Non avevo dalla mia altro che mia nonna che l’arteriosclerosi stava centellinandosi come una coppa di champagne d’annata. Cosa usciva dalla sua bocca! Non faceva che magnificare le estasi godute coll’ultimo schiavo sopravvissuto in famiglia, col quale aveva cornificato mio nonno: “Tieni duro bambina, non disarmare. Non sai cosa perdi”, gridava, “purché sia un negro, il paradiso è tuo. O negro o niente. Non cedere il tuo negro nemmeno per dieci bianchi. Saranno i negri a ripopolare la terra: la bomba atomica non prevarrà. Dio è negro!” Dalla finestra lo proclamava. Vedeva l’Universo in tinta unica, tutto in nero. Dovettero internarla in manicomio senza riuscire a far ammutolire il suo apostolato.

EMILIA                   - E, poi, ogni tanto, qualcuno salta su a dire che, coll’età, si rincretinisce!

DESDEMONA       - Il senatore, mio padre, piuttosto! Distrutto… Povero cristo, dal suo punto di vista… Gli costò la nomination a governatore che era il sogno della sua vita, e, giù da noi, conta. Per una goccia di sangue negro, contaminati cinque secoli di sangue blu.

EMILIA                   - E pensare che son due tinte tanto simili da confondersi, quasi.

DESDEMONA       - Ma io, ormai: uno schiacciasassi lanciato giù da una scarpata. Lui stesso ne era esterrefatto. Non ti dico riuscire, coll’aiuto di tuo marito, convincerlo… a rapirmi. Lo scandalo! Credo che, laggiù, se ne parli ancora. “Hai distrutto una famiglia” furono le lapidarie parole di congedo di mio padre. Avevo già il velo bianco in testa. Poi, povero vecchio, sbarrò porte e finestre e non uscì più di casa come la contessa di Castiglione alla prima ruga.

EMILIA                   - Più spesso di quanto si creda, i colpi di testa che paiono sbagliati, finiscono per rivelarsi le decisioni più indovinate. (e, dopo una lunga riflessione tutta interiorizzata ma chiaramente fisionomizzata) A differenza del contrario.

DESDEMONA       - Fu come vivere un film western da tanto tutto, adesso, mi sembra irreale.

EMILIA                   - Dì un po’, piuttosto: e il vostro paraninfo, in quella stretta?

DESDEMONA       - Strano, a dir poco. Incomprensibile. Lo crederesti? Amico come ci era stato, più visto: dileguato.

EMILIA                   - Ah!

DESDEMONA       - Al punto di non farsi vedere alla cerimonia delle nozze, e doveva essere uno dei due testimoni. Ci dovemmo accontentare di un testimone solo, di basso grado.

EMILIA                   - Il tenente Cassio?

DESDEMONA       - Il tenente Cassio. Pochino, no? Otello se la legò a un dito.

EMILIA                   - Bel ragazzo, però: ben fatto, scattante, sensuale: sempre allegro, simpaticissimo. Alacre, ecco! Alacre: so!

DESDEMONA       - Tutto quello che vuoi, ma pochi gradi: una miseria.

EMILIA                   - Dipende, vedi, che, i militari, io non riesco mai a vederli in divisa, colla loro roba addosso. Me li figuro sempre… in libertà.

DESDEMONA       - Li spogli, in altre parole: nudi.

EMILIA                   - Pensi che dovrei vestirli? Mi dici, poi, cosa resta?

DESDEMONA       - Penso che dovresti dar tempo al tempo. Tu sei vittima dell’impazienza.

EMILIA                   - Si vive tanto poco! (volubile) E così, l’angelo custode dagli occhi verdi, uccel di bosco: tout se tien!

DESDEMONA       - Quando più tardi – mio marito già colonnello, il tuo già maggiore – vennero a una spiegazione, e fu piuttosto movimentata, prova a dire quale fu la risposta…

EMILIA                   - Non perdere tempo coi puntini di sospensione: sono curiosa come una scimmia.

DESDEMONA       - Disse – ed era sincero – che s’era dimenticato la data. Guarda, tu, gli scherzi della memoria. Va soggetto ad amnesie? Perché, solitamente così ciarliera, l’altra non dice niente stancando le meningi a pensare?

DESDEMONA       - Va soggetto ad amnesie? Sveglia, Emilia.

EMILIA                   - Ufficialmente, no.

DESDEMONA       - Sarà dipeso che, nel frattempo, s’era fidanzato anche lui…

EMILIA                   - A rotta di collo.

DESDEMONA       - E avrà avuto altro per la testa.

EMILIA                   - Quattro settimane: visti, conosciuti, promessi, chiesti e maritati. Sarà dipeso da quello. Troppo occupato. O si faceva precipitosamente, o non si faceva più, si vede: per non esser da meno. Rivalità?

DESDEMONA       - Ci raggiungeste poco più tardi.

EMILIA                   - Immediatamente, vorrai dire. Gli era tornata la memoria.

DESDEMONA       - E, ad onta di quell’ombra, la loro amicizia, se possibile, si rinsaldò ulteriormente. Non è magnifico?

EMILIA                   - L’ho in testa come avvenuto ieri. Tutto ho in testa.

DESDEMONA       - Aveva fatto fuoco e fiamme per riaverlo come aiutante.

EMILIA                   - Non meno del mio per tornare sotto i suoi ordini. S’erano “riconciliati”.

DESDEMONA       - Colla risorsa e il sollievo, per noi, di diventar amiche.

EMILIA                   - Evidentemente, nel duetto germogliava il seme del quartetto.

DESDEMONA       - Eh?

EMILIA                   - Non badarci. Sto tenendo d’occhio Coward in agguato. Le grandi amicizie, mia cara, sono casseforti inespugnabili.

DESDEMONA       - La sorpresa al vostro arrivo – e la contentezza – scoprendo che, frattanto, aveva preso moglie anche lui! Parevano tornati ragazzi: un equilibrio ristabilito.

EMILIA                   - Eh già… sono labirinti… Fa’ tanto di avventuratici per dieci passi e addio sentiero per ritrovare l’uscita.

DESDEMONA       - Io trovo tutto ciò assai bello. Tu no?

EMILIA                   - (sempre vagamente distante) Hai notato quando giocano il singolo insieme? Per un’ora, il mio, accanito, fa di tutto pur di vincere, corretto fino alla scorrettezza – anche adesso, là, sbircia la sua faccia: sputerebbe l’anima – poi, per gli ultimi cinque minuti, non manca un’occasione per perdere; o, meglio: per esser vinto. E ci riesce sempre; mentre il tuo ci patisce a morte a dover prevalere, costretto a “rassegnarsi” alla vittoria. È una lotta – perché è una lotta – che non cessa di affascinarmi. Si sparano contro morbide palle da tennis: potrebbero essere obici. Ormai, è come un rito che si ripete estasiandoli. La loro droga, e non lo sanno.

DESDEMONA       - Ma che stai fantasticando?

EMILIA                   - (un esplicito tentativo di alleggerimento nel sarcasmo) …Qualche ambiguo patto segreto fra loro, da sempre, senza saperlo; chi vince col perdere e chi perde col vincere. È meno arduo traforare una montagna che aprire una fessura in un’amicizia maschile vera, quando è vera – perché è vera – e vi sia stato gettato dentro tutto di sé: il meglio e il peggio, il sordido e il sublime.

DESDEMONA       - Pensa, piuttosto, un’amicizia che dura dall’adolescenza senza un’incrinatura.

EMILIA                   - (seria, colla sola aggettivazione di una semplice naturalezza) Non ti dà un vago senso di paura? Inafferrabili!

DESDEMONA       - Da un po’ carichi le parole di significati incomprensibili. Tutto ciò che dà, a me, è rispetto, stima e ammirazione.

EMILIA                   - Sì, sì… Ciò non toglie – li senti? – tof, tof, tof, ma non ascoltare colle orecchie… ore, ogni giorno… E’ possibile?... Un silenzio sospeso dove si dilata e si esalta, ossessivo, il tonfo alterno delle palle da tennis che vanno e vengono coll’alternità di un metronomo. Non li sopporto più. Mi fanno diventar matta. Vorrei essere sorda. L’angoscia di un’attesa sotto la minaccia dell’imprevisto.

DESDEMONA       - Emilia, non ti par di oltrepassare i limiti? Hanno messo, nella loro amicizia, la parte più alta di sé stessi. Un miracolo.

EMILIA                   - I forzati dell’amicizia! Attenta a non perdere anche tu la misura delle parole. (tra l’apprensivo e il minaccioso) Ma non deviamo, sarà preferibile per tutti. Stavi dicendomi: i tuoi. Avranno pur disarmato, alla fine, si saranno fatta una ragione.

DESDEMONA       - Una ragione? Forse la speranza che, un giorno o l’altro, qualcuno inventi una scolorina per imbiancare la pelle. Per tutti questi anni, sono vissuti nell’angoscia del nipotino color cioccolata. Han tirato un respiro solo dacché abbiamo perso la speranza di avere figli. E di questo – mica che ne abbia mai fatto parola – ma lui ne ha patito. E non poco. Ne patisce ancora, sono convinta.

EMILIA                   - Tutto differente il caso dei miei che, pur di averlo, un nipote,
andrebbero ad acquistarlo al mercato, persuasi e risentiti che dipenda
unicamente da me la sterilità del nostro matrimonio. Sono gli unici al
mondo fiduciosi e innamorati morti di lui; convinti che, se una bomba
atomica dovesse caderci in testa, metter la museruola agli anticoncezionali,
qualche tartufo a cena, e affidare a lui la ripopolazione del continente
americano, nove mesi e ogni problema sarebbe rimosso. Fa’ conto il negro
di tua nonna. Giurano sui suoi coglioni come sullo Spirito Santo. Il
fecondatore! Mi meraviglio che non siano ancora stati assaliti dal terrore
che la Russia ce lo rapisca. Ma, evidentemente. il ritardo dipende che, su
questo pericolo, la televisione non s’era ancora pronunciata.

DESDEMONA       - Non ti piacerebbe avere un bambino?

EMILIA                   - (dura e sicura) No. Da lui, no. Mai. E nemmeno lui da me, metterei una mano sul fuoco. Un punto, almeno, ci trova d’accordo.

DESDEMONA       - (addirittura trasognata) A noi sì, tanto.

EMILIA                   - E’ evidente. Quando parli di te, non dici mai “io”, dici, sempre, “noi”.

DESDEMONA       - …Percepisco il suo desiderio di paternità con più intensità che se me lo manifestasse apertamente, quando, ammansita la furia del desiderio, coi sensi sazi e le palpebre serrate, vergognoso delle sue grandi mani golose e indiscrete, ancora frementi di una lussuria umida e ardente, mi si rannicchia, nudo e caldo, fra le braccia e sembra farsi, lui stesso, bambino. Di colpo, allora, è come se tutta la violenza compressa in quel corpo atletico, guizzante di muscoli, si afflosciasse, giù a picco, esausto ed esanime, illanguidendosi in una fragilità indifesa, una dolcezza ferita… Non so dire: un’umile richiesta, una muta invocazione di tenerezza… so solo – stupida – che gli occhi mi si riempiono di lagrime. Una variazione estranea e dissonante come un minuto di una notte di gennaio conficcato in un mattino di maggio. Tira un po’ al patetismo eroico, però, tutto considerato mica poi male, no?

EMILIA                   - Va’ sicura. Nella sua officina, c’è il Bardo che controlla. A tempo e luogo, sa anche essere patetico.

DESDEMONA       - In quei momenti, la mia mano – si trova sempre sulla sua nuca – comincia a scendere automaticamente… Una carezza incorporea lungo la seta morbida della sua pelle bruna ancora madida e tiepida… a lungo, lentamente… Lui spalanca gli occhi e mi avvolge di un sorriso. La riconoscenza di quelle grosse labbra socchiuse ed umide, Emilia!... Che ti devo dire? Prenditi pure gioco di me: ti fa sentire, e proprio in quei momenti, insieme amante e madre… Riesci a realizzare?... Ecco, questo è Otello. Sarò poco stupida? La risposta sta tra un freddo sorriso di ironico distacco e un singhiozzo sibilante di autofrustrazione rabbiosa.

EMILIA                   - C’è di meglio, visto l’impegno di doversi inventare fino in fondo, come personaggio. Che ne diresti del confronto con un’Emilia, naturalmente propensa alla soddisfazione delle legittime concupiscenze in agguato, dei… casti e meno casti connubi, accanto a un arido narcisista, che non s’è mai nemmen dato pena di nascondere – proprio così – la sviscerata ammirazione del tutto abusiva, che nutre verso il suo sesso, per la verità niente di eccezionale, grazioso quanto inutile soprammobile da esporre, tutt’al più, nella vetrina del salotto, tra i fragili vetri di Murano; e se potesse, ce lo esporrebbe? E si trova impossibilitata a continuare la conversazione con lo sgomento di un silenzio che potrebbe durare anche una settimana. Hai perso la parola, eh?! Vedi che non son pochi – e insospettati – i modi per decapitare una conversazione. Ti prego solo, sinceramente, di una cosa; non chiedermi, adesso, per tagliar l’aria, se “il mio” è geloso, perché, dal ridere, rischierei veramente di schiattare. Via via riprendendosi: sarcasmo, risorsa insostituibile. …Agguanta l’acqua, se ci riesci. È inafferrabile. Credo che sia l’uomo più solo al mondo. Dice che è il prezzo della libertà. Basta a sé stesso, ripete. Sarà, poi, vero?

DESDEMONA       - (incauta, afona e stonata) Non ha te?

EMILIA                   - Ma sei cieca o lo fai? Cieca e sorda. Unicamente Dio, se c’è, conosce cosa cerchi. Forse qualcosa che non può avere e non avrà mai. Cerca quella, ammesso che esista, proprio a causa che non la può avere – perché non è uomo da illusione – e, il giorno che l’avesse, per distruggerla. Da sempre, in attesa del fantasma di un’eventualità non si sa quale: l’impossibile possibilità dell’impossibile… il momento dell’assoluto senza il coraggio di affrontarlo: lucidamente consumato così, dannato a una croce del genere, più o meno; recitando se stesso, falso fino alla sincerità estrema. (inaspettata, inverosimile, incredibile e naturalmente, sarcastica) Lui “ama solo le rose che non colse”, bisogna capirlo.

DESDEMONA       - Non deve trattarsi di un vivere facile nemmeno il suo.

EMILIA                   - (già padrona dei propri nervi) A lui, vedi, è totalmente aliena la facoltà naturale, così fresca e spontanea in tuo marito, di trovarsi sempre in armonia colle proprie emozioni. Seppure ne ha – ed è poco probabile – esiste una sfasatura perenne, insanabile. Congelata in una regione ignota, inesplorata, non disponibile; dove è proibito avventurarsi: riserva personale sbarrata.

DESDEMONA       - Anche a lui medesimo?

EMILIA                   - Mah… Bisognerebbe riuscire a frugargli dentro. E anche se… cosa troveresti? Quello che lui ha deciso di fartici trovare. Sicuro è che la sua facoltà di analisi degli altri, è addirittura malefica. Capisce tutto. Troppo. E, specialmente, ciò che va a tuo danno. Ti spoglia. È maestro nel farti sentire una merda: un bersaglio che non sbaglia mai, quello. È più forte di lui: la libidine ossessiva di ridurre tutto meschino.

DESDEMONA       - Sei impetuosa, nei suo riguardi.

EMILIA                   - Sono anche peggio, perché, un po’ gli somiglio. Sono la sua reazione. Mi son costruita, se mi son voluta costruire, coi suoi cascami. Ma nei riguardi di chi lo è, pietoso, lui?

DESDEMONA       - Dente per dente.

EMILIA                   - Nemmeno. Lui non odia, disprezza; quando non ignora, il che è più offensivo ancora. È sempre altrove. Però non gli sfugge niente. Può sfuggire a te un sentimento che ti pervade, una sensazione che ti sfiora, un pensiero che ti rasenta, il più trascurabile, il più effimero, il più evasivo, il meno avvertito. Al suo radar non c’è pericolo: è il termometro delle ombre. Avverte, registra, accumula. È il suo sport esclusivo. Se compie su se stesso un’operazione analoga, deve essere l’inferno. Ma a nessuno è consentito gettarvi uno sguardo: il suo inferno personale è… uniposto… Sarà che gli manca, gli è sempre mancata, qualsiasi gioia di vivere. È il cancro che lo infelicita fin dalla nascita. Ne era ben conscia sua madre, ho idea. E si astrae in una sconfinata riflessione.

DESDEMONA       - (giusta) Hai detto sua madre.

EMILIA                   - E’ dipeso, in gran parte da lei, presumo, il suo inaridirsi, prima ancora di dar qualche frutto, di ogni capacità di amare… Certo… Certo. Vernicia questa… paralisi, di un’intelligenza indocile, fuori del comune, e poi sappimi dire.

DESDEMONA       - Non si volevano bene, lui e sua madre?

EMILIA                   - (in coda a un riso sinistro) Bene? Si detestavano. Fin nell’utero, sono persuasa. Lei perché non lo voleva per figlio, lui perché non la voleva per madre. Su questo punto – unico! – accordo perfetto. Se il padreterno avesse voluto tentare un esperimento di infernale ingegneria psicologica, non avrebbe potuto escogitare di meglio. Quanto si detestavano!... Ma nemmeno. Si respingevano, ecco. E senza neanche curarsi di nasconderlo e di manifestarlo. A priori. Sempre. Nulla escluso. Riesci a figurarti una calamita al contrario, hai presente?

DESDEMONA       - MI sforzo.

EMILIA                   - Una calamita al contrario. Ne vuoi sapere una? Giuro: faceva gelosia l’accordo, stavo per dire l’amore, che trovavano – naturalmente – nel respingersi: sì, una specie d’amore… Cara mia… Orfano del padre quando non aveva compito nemmeno un anno, lei ne ha fatto di tutti i colori. La chiamavano, i più benevoli, “la vedova allegra”. Può vantarsi di essersela spassata, sì, la bella vita, mia suocera! Non parla nessun risentimento in quel che ti racconto. Al contrario, per essere schietta fino in fondo, semmai uno spolvero di rispetto, per non dire di ammirazione. E poi, perché quando io ero, forse, l’unica a cui mostrasse un po’ di simpatia – a suo modo, beninteso? Tutto si può dire di lei, e non si finirebbe più: non che le mancasse il coraggio delle proprie azioni. Spinto, se vogliamo, fino alla brutalità, ma l’ipocrisia non faceva parte, di sicuro, del suo bagaglio, né mentale, né morale… né fisico. Per niente gretta, anzi, tendenzialmente estranea – ignota – qualsiasi dimensione morale, ecco. Mah… L’aveva dato da allevare a una vecchia zia paterna che lo adorava. Facci caso, l’infanzia dei nevrotici, nove volte su dieci, è infestata da zie esemplari, anche quando non sarebbero necessarie.

DESDEMONA       - Nevrotico?

EMILIA                   - Lascia giudicare a chi ha qualche esperienza.

DESDEMONA       - …Nevrotico. Strano giudizio su uno sempre tanto lucido padrone di sé.

EMILIA                   - Cosa credi, che i nevrotici debbano prendere per il collo la gente che passa per la strada? Ci son dei nevrotici dolcissimi e padronissimi dei propri nervi. Guarda me.

DESDEMONA       - Se lo dici tu…

EMILIA                   - Si fa coppia. Prendilo come un paradosso. Eravamo fatti l’uno per l’altra.

DESDEMONA       - Io non ho avuto zie, né esemplari né deplorevoli, per cui…

EMILIA                   - Io sì, queste e quelle. So quel che mi dico. E pare estraniarsi in un silenzio perso, tormentando la radio che non corrisponde alle sue attese.

DESDEMONA       - T’eri fermata a sua zia.

EMILIA                   - Appunto. Buona quanto equilibrata, ed era la bontà in persona, a quanto egli riferisce; l’aveva reclamato, tramite tribunale, onde sottrarlo, diceva; e, forse dal punto di vista della morale comune, non aveva tutti i torti, “all’esecrabile esempio di una madre infame”: le espressioni alla Victor Hugo, afferma sempre lui, erano la sua specialità; dal che si deduce che nemmeno sua zia convibrava molto colle sue corde.

DESDEMONA       - E lei, sua madre?

EMILIA                   - Visse coll’orario ferroviario in una mano, e con i suoi giovani accompagnatori, occupati a sfogliarlo, nell’altra. Nessun altro al mondo come mia suocera, negli ultimi cinquant’anni, ha tanto incrementato i mezzi di comunicazione. Quando si veleggia in un mare di dollari, tutto risulta facilitato. Se, poi, si tratta di un mare di dollari galleggiante su un oceano di petrolio, non è nemmeno più necessaria la vela. E’ proprietaria del sottosuolo di mezzo Texas.

DESDEMONA       - Pare un romanzo.

EMILIA                   - Metà d’appendice e metà pornografico, ma lo è.

DESDEMONA       - E tu, come andò che la venisti a conoscere?

EMILIA                   - Appena sposati, ci fu un fugace periodo che ebbe il capriccio, ho ancora da spiegarmi perché – forse un attacco fulminante di maternità presto superato – di venire a star con noi, né più né meno come in un albergo. In albergo, viceversa, manteneva un gigantesco domatore di tigri, un vatusso: ventiquattro anni, uno e novantotto, quarantasette di piede, nero come un temporale caricato a grandine; prelevato dal circo Medrano, in occasione di uno dei suoi viaggi di rifornimento a Parigi, suo mercato preferito. Ce lo fece anche conoscere: un elettrico animale, una tentazione quant’era lungo – per la verità – e non era certo breve; persuaso che il passaggio da domatore di giovani belve mansuete a mantenuto di indocili cacciatrici anziane, costituisse una ragguardevole promozione sociale.

DESDEMONA       - Ognuno cerca di far carriera come può.

EMILIA                   - Te lo stavo spiegando. Aveva soltanto cambiato tigre, colla differenza di non poter usare la gabbia, e non ne aveva tenuto conto, ecco il suo errore. Si era rivelato un fallimento desolante, mi confidò delusa, povera donna; per via che, immalinconito dalla privazione delle sue belve che gli ruggivano intorno, aveva cessato di eccitarla meno che niente. E pensare, concluse, che, alla vista, i suoi pantaloni promettevano tanto, colmi d’amore fino a scoppiare! Ah, diceva pane al pane. Pare che ci mettesse sempre troppo, o troppo poco sentimento, segno infallibile di insincerità, garantiva: “Fa l’amore ad occhi chiusi!”. Era indignata.

DESDEMONA       - Un bel guaio, poveretta.

EMILIA                   - Ah, niente. Non fece una piega. Somma delle somme, da collezionista esperta, quanto delusa, gli cacciò in mano un biglietto di aereo, classe turistica, e dall’oggi al domani, imbronciato e truce, lo rispedì in Europa alla pista che il cielo gli aveva destinato dalla nascita.

DESDEMONA       - Poteva comperargli una tigre e sistemargliela sul terrazzo.

EMILIA                   - Non ci pensò. Non ne ebbe il tempo, arrabbiatissima con se stessa per essere la prima volta che si sbagliava, nella vita, sul conto di un uomo. Ma io arguii che era il principio della fine di una gloriosa carriera e non mi sbagliavo. Si chiamava Darix, il domatore, Darix. Nome facile a pronunciarsi alla sua età: le inciampava sempre nella dentiera. In confidenza, sospetto che se ne sia liberata anche per questo. Era vanitosissima del proprio sorriso di porcellana.

DESDEMONA       - Che, oltretutto, sono i più delicati.

EMILIA                   - Ma anche i più brillanti, per la verità.

DESDEMONA       - Trovi?

EMILIA                   - Ah, non c’è dubbio.

DESDEMONA       - Non lo so, guarda. Sul fatto che sono i più fragili spero che saremo d’accordo, almeno.

EMILIA                   - Se lo dici tu… Non entro nel merito. Non ho pratica. Centinaia di milioni spesi in denti. Attenzione, autore che, per scansare Coward, non si naufraghi su Feydeau.

DESDEMONA       - Un bel sacrificio, comunque, pur di non guastarsi il sorriso.

EMILIA                   - Durante quel tempo, madre e figlio stavano anche settimane senza rivolgersi la parola. Era molto se si scambiavano il sale a tavola. Lei, pur avendo indefessamente manifestato un debole per i soldati, non gli perdonò mai di aver intrapreso la carriera militare che è sempre anche rimasto un enigma per tutti. L’avrebbe voluto archeologo, va’ a sapere. “L’archeologo”, domandava, “è rientrato?”. “Dorme ancora, l’archeologo?” Se telefonavano chiedendo del “capitano”, nel caso che afferrasse la cornetta lei: “Qui nessun capitano”, rispondeva, “ha sbagliato numero; un’altra volta stia più attento dove infila il dito”. Una vera allergia. Era fatta così. Aveva sortite che ti lasciavano di pietra. Non mi scorderò fin che vivo un pomeriggio, io e lei, tra una sorsata e l’altra di tè – ne beveva a litri – di punto in bianco, dopo aver osservato che pioveva da quattro giorni, e, con quell’umidità il padreterno doveva smetterla per un riguardo, se non altro, ai suoi reumatismi, uscì fuori a dire, senza una ragione al mondo: “Un uomo, non destituito di intelligenza”, fece, “ha una giustificazione sola, valida e legittima di scegliere la carriera militare”. “Quale?” domando io. “Disporre della vocazione del frocio e non essersene reso conto. Niente di male se si tratta di una vocazione autentica; anzi, vantaggioso. Ognuno ha diritto al tipo dei suoi ormoni. Ma bisogna che qualcuno glielo spieghi”. Poi, medesimo umore, medesimo tono, riprese l’argomento del tempo e dei reumatismi e andò avanti tre quarti d’ora buoni. Sulla sciatica sapeva tutto meglio di un dottore. Eravamo marito e moglie da due mesi scarsi. Se avessi riferito la nostra conversazione a suo figlio, dieci contro uno: l’avrebbe strozzata. Perché lui è un’altra la cosa che, in cuor suo, non le ha mai perdonato.

DESDEMONA       - E cioè?

EMILIA                   - Di occupare un posto su questo pianeta dove si sta già tanto
stretti. Lo si direbbe uno che “non voleva nascere”: uno che non voleva
nascere, sì, proprio, ecco: che non voleva nascere.
Una breve pausa meditativa, lacerata da uno strappo vocale e ritmico.

DESDEMONA       - Era bella?

EMILIA                   - Bellissima. La nostra è una storia di belli: era bellissima. E non vorrei che anche questo desse fastidio a suo figlio. Fa conto lui in versione donna: il suo ritratto sputato. E lo è, bella, ancora adesso, vecchia e in disarmo – se è in disarmo – ma non meno scentrata… Non so, ho fin l’impressione, qualche volta che, col passare del tempo, lui ne vada recuperando i gesti, gli atteggiamenti; in chiave severa e moralistica, te lo figuri: lei, l’amoralità e l’allegria!... La voce, soprattutto… Guarda: bellezza, talento ed egoismo, non hanno ragione di lamentarsi: se li son spartiti in parti eguali, son madre e figlio. Non escluso il sarcasmo: lei, ilare, lui tetro. Mica lo chiama: “mio figlio”; sempre, solo: “tuo marito”. Mai saputo il grado che riveste nell’esercito. Ogni tanto lo domanda, glielo dici e se ne dimentica. Lo fa apposta. Aveva nome Barbara.

DESDEMONA       - (involontariamente e inesplicabilmente pensierosa) Povero Iago!

EMILIA                   - Già, in un certo senso, tutto considerato, povero Iago. Eh, i nostri consorti sì, son personaggi sul piedistallo: nomi coll’epigrafe.

DESDEMONA       - Mi sa tanto che nemmeno tu cominci a scherzare. Finisce che, di questo passo, qui, l’unica cretina rimango solo io. Un’interruzione onde poter trafficare, una delle due, colla radio, cercando musica; che esce accentuatamente esotica, naturalmente, se esce, considerato il paese dal quale esce. Posso farti una domanda colla promessa che non ti offendi?

EMILIA                   - Tra noi, ormai…

DESDEMONA       - L’hai mai tradito?

EMILIA                   - Sempre. A più non posso. Come si fa a non tradirlo?

DESDEMONA       - Lo sa?

EMILIA                   - Ah, ma allora tu non hai ancora compreso niente. Certo che lo sa. Non gliel’ho mai nascosto, fin dalla prima volta.

DESDEMONA       - Un patto segreto anche tra te e lui, per caso? È convinta di essere stata spiritosa.

EMILIA                   - Press’a poco. Tacito, non segreto. È molto più semplice… E leale.

DESDEMONA       - E come reagisce?

EMILIA                   - Non reagisce: ignora.

DESDEMONA       - Ignora?

EMILIA                   - Ignora. È straniero a tutto, te l’ho detto.

DESDEMONA       - Sapendo.

EMILIA                   - Sapendo. Ignora sapendo. È bravissimo. Ciò garantisce dai malintesi e dalle sorprese. Lui e me. E, del resto, cosa potrebbe fare, sennò? Me lo dici? Qualche volta, m’ha persino attraversato la mente che l’abbia voluto. Sicuro: in una certa maniera, l’ha predisposto. Guai diversamente. Amor proprio e ipocrisia, credi pure, sono due elementi incompatibili, da tener ben separati. O l’uno o l’altro. Mescolati c’è il rischio di una miscela esplosiva micidiale. Non si ha, né lui né io, alcun interesse a far saltare in aria la Santabarbara. Ci conviene non portare fiammiferi in tasca. E non ne portiamo, salvo imprevisti.

DESDEMONA       - Non è un bel vivere, mi rendo conto.

EMILIA                   - E’ un vivere. Tutto sta rispettare le regole del gioco. Non è poi tanto difficile, una volta accettato.

DESDEMONA       - (tentando l’alleggerimento della spregiudicatezza umoristica iniziale) A quel che sento, fai uso dei tuoi… eppure, anche tu, insomma.

EMILIA                   - (assecondandola) Si vede che è il destino delle colonnelle… Taci?

DESDEMONA       - Che vuoi che dica? Imparo. Un po’ scossa, ma imparo, perché, santo cielo…

EMILIA                   - In guardia! Tu stai distruggendo il tuo personaggio, Desdemona… sei già poco; rischi di diventar nessuno. Zitta. Non dir più nulla… Senti? Lo scroscio delle docce ha finalmente messo a tacere quelle maledette palle. Sono in arrivo. Tira su, più che si può, la voce di quella nenia. Fino ad oggi, non è stato inventato niente di più utile della musica per eludere, senza perdere la faccia, i colloqui sgraditi; e questa qui ha anche la risorsa di conciliare il sonno. Cosa credi che ci stiano a fare quelle due sedie a sdraio, gomito a gomito, là sotto la magnolia? Aspettano il loro quotidiano sudore, per il quotidiano riposo del guerriero, dopo la quotidiana fatica, della quotidiana partita, in attesa della quotidiana stretta di mano… Se ci vai vicino e le annusi riconosci il loro diverso afrore (oh, la trascendenza del suo sorriso!...), quello che li tiene uniti… Prova… prova, chiudi gli occhi e prova, concediti questa dolce libidine… ieri come oggi, oggi come domani, qua e nelle future residenze… civilizzanti; dove saremo dispersi a esportare la nostra noia, fino al giorno della pensione; perché; se Dio vuole, finiscono in pensione anche gli eroi; e, in mancanza dell’imprevisto, l’unico rimedio concesso all’uomo contro la noia è solo ancora quello di analizzare la propria noia, anche solo odorandola.

DESDEMONA       - Sai che consolazione!

EMILIA                   - Desdemona, è una monotona partita a quattro, senza principio e senza fine. Dimmi tu…! E pensare che, insieme, ho fatto il conto ieri, insieme non si fanno nemmeno i cento e undici anni… Così giovani e già così veterani!... Che afa! Ecco, se non altro, qualcosa di inequivocabile, in cui la parola corrisponde alla cosa.

DESDEMONA       - S’è fatto nuvolo…

EMILIA                   - Si trattasse, almeno, di un preannuncio di stagione delle piogge. Anche l’acqua dal cielo sarebbe un diversivo.

DESDEMONA       - Eccoli. Arrivano. Nascondi il fazzoletto.

EMILIA                   - La vanità dei maschi! Portano in processione i loro preziosi corpi come tanti ostensori.

DESDEMONA       - Sudati.

EMILIA                   - Attributo mica tanto connaturale all’immacolatezza dell’ostensorio.

Improvvisa, secca, una saetta. A momenti, si spalancheranno le cateratte del cielo. -2- ESSI – andante sostenuto. Una sauna privata. Tra vapori e sudori, due atletici giovanotti, ragguardevoli campioni di maschilità diversissime, anzi opposte: loro, naturalmente. Iago, un volto casto e corrotto, continuamente cangiante e in allarme; dove, nei non frequenti momenti di minor controllo, si palesa un’ansia, tenuta a bada dalla vigilanza di uno sforzo assiduo e feroce, di cui è spia l’avvicendarsi di un’ambiguità o leggermente sfrontata o teneramente altera; mai semplicemente spontaneo e disteso: l’ostentata euforia dei deboli; al contrario di Otello, il cui corpo scultoreo è come abbandonato – e fissato – in un sorta di quieta tensione, erompente da una naturale offerta erotica, onde paion congiungersi la carnalità insaziata di una vitalità anelante con non si sa che stanco e inafferrabile – l’ombra di un’ ombra – presagio di morte: la misteriosa malinconia dei forti. Nudi, ma niente osta, anzi tutto consiglia, che cingano un asciugamano intorno alla vita, fintanto che, in palcoscenico, sarà ancora prudente usar prudenza. Col tempo, ove – è possibile tutto – a qualcuno solleticasse il capriccio di rappresentare ancora questa ambigua bizzarria, si potrà farne a meno ed altro, inneggiando al tempo ritrovato di una riconquistata umanità disinibita. Ma, allora, forse, sarà diventato inutile, anche se meno divertente, il ricorso alla sofisticata e pavida danza degli equivoci pudori, e alla elementare scaramuccia delle finte e dolenti ironie, foglia di fico alle parole, nella ritrovata innocenza dei sentimenti che osano presentarsi col loro nome. Peccato non esserci più a verificare. Dietro di lui, il bianco sta massaggiando, non senza un certo vigore, una spalla al negro. È preferibile la destra, ma non è tassativo; solo a fine scaramantico: trattasi di un muscolo duplice, bilaterale e omologo. Con qualche ricorrente accentuazione in alcuni momenti topici – facilmente individuabili – non molti, ad opzione della regia e niente affatto in funzione deliberatamente ironica, il colloquio è sommessamente accompagnato, un’eco appena, da cima a fondo, con motivi di Calypso; modulati, si capisce e deve risultar sempre riconoscibile, dall’avvolgente melodiosità di Harry Belafonte, ai suoi verdi dì. Mai scordarsi che si tratta di una storia di belli e di giovani: tutti, non escluso, quindi, il bronzeo miele della voce che presta le proprie canzoni, chi ne ha ricordo e gli piace. Recitazione sempre più, anche se sempre meno parendo, sessualizzata…

OTELLO                 - Dico!... Sei brutale. Mi fai male. Più delicatezza.

IAGO                       - Un massaggio è un massaggio, mica una carezza, vuoi una carezza?

OTELLO                 - Lo so.

IAGO                       - E allora?... Non è qui che ti duole?

OTELLO                 - Sì. E’ lì. Vecchi ricordi che, ogni tanto, si rifanno vivi. Corea.

IAGO                       - A me succede a un calcagno. Vietnam.

OTELLO                 - Dà tempo al tempo. Non sono le articolazioni che mancano.

IAGO                       - Soltanto sulla divisa, le gloriose fatiche della guerra si adagiano come medaglie. Sulla carne, si depositano come cicatrici: il tuo caso; oppure come reumatismi: il mio. E quando va bene. Quando va male, finisce con una pietra sopra, ammesso che nelle vicinanze, una pietra la si trovi. È anche vero, però, che, senza, si riposa con meno peso addosso: nella morte, nudi.

OTELLO                 - Incerti del mestiere. È scontato, no?

IAGO                       - Come diceva quel tale? Si ha quel che s’ha donato. È nel contratto… Cambiando argomento, sai, tu che sai tutte le cose che sai, come si chiama il muscolo che ti sto massaggiando in questo momento e che ti fa gemere tanto? Dubito che tu conosca il nome di certi muscoli.

OTELLO                 - Ha un nome?

IAGO                       - Altroché. Tutto ciò che esiste è obbligato ad avere un nome: l’etichetta! Niente etichetta, niente esistenza. Magari le cose potessero essere senza nome! Sarebbe molto più facile viverle e vivere. Quante cose diventerebbero lecite e onorevoli senza un nome!... Su: quello che ti pizzico adesso: il nome? Dieci dollari, scommessa che non lo conosci.

OTELLO                 - Ho perso. Dimmelo.

IAGO                       - E’ un muscolo sottile, sensibile, forte e nobile, il minimo di materia per il massimo di energia: un muscolo estroso, discreto e riservato. Ed ha un nome evocatore, seducentissimo – qualche eroe mitico, qualche semidio greco, qualche sovrano morto giovane – Il suo guaio è di essere soltanto un muscolo: fatalità dell’etichetta che lo respinge nella bassa forza.

OTELLO                 - Non sapevo che anche i muscoli fossero vittime del destino.

IAGO                       - Certo che lo sono. È perché vivono un’esistenza modesta e delicata, ma il giorno che raccontassero i loro drammi segreti!...

OTELLO                 - Lo pubblichi?

IAGO                       - Cosa?

OTELLO                 - Questo alato elogio del muscolo aristocratico, respinto nella casta degli intoccabili.

IAGO                       - (sempre sul filo della sua lirica ironia) Preferisco d no. Te lo offro in dono, se l’accetti, omaggio d’amico.

OTELLO                 - Che me ne faccio?

IAGO                       - Ecco il guaio tuo.

OTELLO                 - C’è, forse, qualcosa di obbrobrioso ad essere un muscolo?

IAGO                       - Al contrario. Anzi, che ti stavo dicendo?

OTELLO                 - A sentirti, parrebbe di sì.

IAGO                       - Mai più. Il nome, solo il marchio del nome, siamo sempre lì. Corrono molte calunnie sul loro conto.

OTELLO  - Beh?

IAGO                       - Beh?

OTELLO                 - Allora, come si chiama questo portento?

IAGO                       - Ah! Scaleno. Si chiama scaleno. La tua è la “sindrome dello scaleno”. (e l’ironia si assottiglia in capricciosa pedanteria) Avverti l’eleganza di queste tre parole insieme? “Sindrome dello scaleno”. Generalmente, conseguenza di eccesso d’attività fisica: un’esclusività dei grandi atleti. Lo scaleno si tende, si tende, si inarca – sempre in una sola direzione - … e si smaglia. A riscattarlo allora, intervengono le parole: sindrome dello scaleno, ed è redento! Rientra nei ranghi della rispettabilità.

OTELLO                 - (cercando di accordarsi al suo tono non senza una certa goffaggine) E’ un muscolo dispettoso, però.

IAGO                       - Diciamo imprevedibile. (deliberatamente banale, privo di qualsiasi ambiguità) In parole povere, fai parte di coloro che hanno abusato, o che continuano ad abusare, dei loro muscoli, ecco tutto. Gli antichi, che di certe cose erano più esperti di noi, ti avrebbero classificato un “temperamento” muscolare. Niente di male. Ma la schermaglia si va già esaurendo. Rimane, per il momento, solo un’ombra di gioco aggressivo.

OTELLO                 - Personalmente, la fatica fisica mi dà quiete, figurati un po’.

IAGO                       - …A che?

OTELLO                 - Eh?

IAGO                       - A che, ti dà quiete?

OTELLO                 - Mi giudichi male se prometto di usare, una volta sola, la parola spirito, tua riserva personale? La fatica fisica mi dà pace allo spirito. Posso?

IAGO                       - No! Rimango persuaso che dovresti limitarti, più modestamente, a dire “a distendermi i nervi”.

OTELLO                 - (cameratescamente scherzoso) Meno confidenza, colonnello!

IAGO                       - Agli ordini, comandante. Abbia pazienza. Io sono uno che, perseguendo uguaglianze arcane, si dimentica facilmente delle gerarchie. Mi spiego?

OTELLO                 - Cialtrone! Ma se, formalmente, nessuno le rispetta quanto te!

IAGO                       - Perciò non riesco a tenerle a mente nella sostanza. Sapendole adoperare, le forme sono altrettante armi della libertà.

OTELLO                 - O dell’ipocrisia?

IAGO                       - Stamattina non andiamo d’accordo su niente. (calcato) Meno del solito. Tutt’altro giro d’umori e di toni. Parole vere ma recitate.

OTELLO                 - Scaleno, hai detto?

IAGO                       - Scaleno, sicuro. Bravo.

OTELLO                 - Mi piace. Non lo sapevo.

IAGO                       - Evviva. Una cosa c’è che non sapevi, tu che, del concreto, conosci tutto. Se Dio vuole, anche la sapienza di un campione del reale, un ingegnere dell’ordine, ha qualche buco. È rassicurante.

OTELLO                 - (con tolleranza ostentata da una distratta condiscendenza) Fosse il solo!... E tu, com’è che lo sapevi?

IAGO                       - Ne so così, io, di cose che non si sanno… e non si dicono. E poi, per i muscoli, ho simpatia. Le cose poco importanti, con predilezione per quelle superflue, un debole per quelle vietate e un’inclinazione irresistibile per quelle morbide…

OTELLO                 - Torbide? Fammi capire… hai detto torbide?

IAGO                       - … morbide, morbide, io le so tutte… Quasi tutte. Quelle dall’altro versante, meno assai. L’inconveniente è lì. Io sono tutto sbilanciato da una parte.

OTELLO                 - E ci ricami su.

IAGO                       - A punto-parola. Adoro le parole. Come papà. Sapessi che inesauribili paraventi sono! Non hanno limiti. Sei egoista e ti fanno sentire disinteressato, vile e ti fanno sentire coraggioso, malato e ti persuadono di essere sano… O viceversa: o viceversa. E tante tante altre cose… illuderti di essere eccellente quando sei solo mediocre, darti la vita mentre ti danno la morte; darti la morte mentre ti danno la vita: consolarti nella disperazione e renderti disperato consolandoti… Tutto! Protesi e droga. Aiutano a tirar avanti, le parole: lo sa il “vecchio”.

OTELLO                 - E a seppellirti sotto una montagna di letteratura, no?

IAGO                       - Che male c’è? La morfina, fa pur parte della farmacopea ufficiale.

OTELLO                 - Come di morfina, di fantasia si può anche morire: provoca inedia morale.

IAGO                       - Si può morire anche di normalità: provoca paralisi perbenistica.

OTELLO                 - Ne uccide più la parola che la spada. Il buon senso, Iago…

IAGO                       - Aiuto! Di buon senso si può restar secchi. Guai abbassare la guardia un momento: si è perduti. La pugnalata, Otello, può giungere da qualsiasi direzione. Mai smettere di guardarsi le spalle. Anche tu, attento, murato nella fortezza di tutto il tuo buon senso, anche tu.

OTELLO                 - Da che guardarsi?

IAGO                       - O da chi? Da me, per esempio: che e chi. Parole travolte da un’epica risata dell’eroe bruno. Il pugnale sta raramente nel pugno che si sospetta. Non c’è gusto. Né a brandirlo, né ad infliggerlo, e nemmeno a riceverlo nella carne, presumo; basta pendere un fiat sul versante del masochismo.

OTELLO                 - Colle chiacchiere, se potessi, ci andresti a letto assieme. Che ci fai colle chiacchiere, tu? Cose inconfessabili: da censura.

IAGO                       - (vagamente assorto) Ognuno si sceglie le amanti che predilige, o accetta quelle che trova, o si accontenta di quelle che può; o sta a contemplare il soffitto, contando le “gocce” di cristallo del lampadario: mai due volte che il numero corrisponda. La lussuria può essere la più esigente, ma anche la più accomodante, delle passioni. Nel suo mistero, la scala del piacere…

OTELLO                 - … Del vizio…?

IAGO                       - Del vizio – la solita questione dei nomi – ha gradini infiniti. Noblesse oblige.

OTELLO                 - (umoristicamente pesantino, proprio da caserma) Saluti a maman!

IAGO                       - (subito sospettosamente impermalito) Che c’entra mia madre? Sai che non mi va che se ne parli. Con tono, di colpo, discorsivo, distaccato e lucido.

OTELLO                 - A proposito, toglimi una curiosità: perché una madre francese?

IAGO                       - Perché Iago, problematico com’è, non poteva essere un prodotto, unicamente, della cultura americana; ci voleva una grossa fetta anche di quella europea.

OTELLO                 - Già!... Mentre Otello, invece… sicuro.

IAGO                       - Appunto: uomo senza spessori, poteva essere tutto americano. Lui è moto più semplice.

OTELLO                 - O semplicistico?

IAGO                       - Fa’ tu. Non ti offendi mica, vero?

OTELLO                 - Per carità. Nuovamente personaggi dalla testa ai piedi.

IAGO                       - T’ho domandato: cosa c’entra mia madre?

OTELLO                 - Ah, non ne ho idea. Non me la volesti nemmeno mai presentare. Mi dicesti solo: mia madre è di Bordeaux, nemmeno si trattasse di una malattia contagiosa. E si sente, ancora, dopo tanti anni.

IAGO                       - Cosa vorrebbe dire, si sente?

OTELLO                 - Il francese, noblesse oblige. Non perdi occasione di lasciarne cadere qualche fogliolina dove ti capita, come un cuoco il prezzemolo, senza nemmeno accorgertene. (calcandovi su) Si riconosce, in te, “una sensibile eredità europea”. Sei contento? Va bene?

IAGO                       - Grazie, sì. E si lascia osservare a lungo dall’amico improvvisamente assorto in un silenzio assediato da remoti pensieri. Sono una sorta di raptus semiconsapevoli non infrequenti fra loro. Ma come farlo capire? Dall’intonazione totalmente diversa e dai tempi del dire rallentati fin quassù all’estenuazione e come se contemplassero degli altri, diversi da se stessi, accarezzando un ricordo? L’oggettiva cristallinità di Toscanini cede, forse, la bacchetta alla soggettività sensitiva di von Karajan? Più alla buona: si nuota, facendo il morto, in un mare di puntini.

OTELLO                 - Talvolta, mi domando di che sia fatta la nostra intesa….

IAGO                       - Lo stesso faccio io.

OTELLO                 - Se c’erano, al mondo, due esseri che non avevano nulla in comune per familiarizzare, eravamo noi.

IAGO                       - (solo a non aver dismesso un lucido residuo di critica ironia) Forse, è ciò che ci ha fregati: l’attrazione dei contrari. Non si dice così?... (può trascorrere anche un quarto d’ora prima della conclusione del pensiero) I contrari… Mah…

OTELLO                 - Sono dieci anni che me lo domando.

IAGO                       - Un paio di più.

OTELLO                 - …Due ragazzi… E segue, collo sguardo, un gesto del commilitone, che lo guida alla contemplazione della loro immagine riflessa in un grande specchio a grandezza d’uomo infisso nel muro.

IAGO                       - E ora… due vermi, nudi, in un brodo d’acqua calda, tra vapori e sudori estenuanti, sprecati in scaramucce a pizzicotti fra loro… Non si può dire che non si sia fatta carriera.

OTELLO                 - …Eri giunto la sera prima…

IAGO                       - Bagnato fin nelle ossa. Pioveva che Dio la mandava… Chissà perché non ho mai potuto soffrire gli ombrelli…

OTELLO                 - Ti ricorderanno qualcosa.

IAGO                       - Cosa mi può ricordare un ombrello? Quella sera.

OTELLO                 - Se non lo sai tu…

IAGO                       - …Quell’autunno afoso in cui agonizzava un’estate dura a morire… Diciassette anni ancora da compiere…

OTELLO                 - Ne dimostravi anche meno…

IAGO                       - Sono sempre stato tardivo.

O T E L L O               - (s e n z a r i f l e t t e r e ) In tutto?

IAGO                       - Solo nel crescere. In certe cose, anzi, precoce… Mi rifiutavo di crescere… sì, un rifiuto… tanto desiderio di crescere e il rammarico di farlo…

OTELLO                 - …Mi accorsi di te, la prima volta, durante un allenamento, il pomeriggio del giorno dopo.

IAGO                       - …Era rispuntato il sole… eccessivo, innaturale, fuori stagione: l’estate aveva avuto uno sfacciato miglioramento… come certi moribondi dispettosi…

OTELLO                 - …Fisso, immobile, le mani afferrate alla rete, per tutto il tempo, ai margini del campo: mi spiavi!... Che voleva da me, per fissarmi a quella maniera, quel petulante nuovo arrivato?... Sì, uno di quegli antipatici visi pallidi, educati e benvestiti, che, da adolescenti, non si possono non invidiare per le loro belle cravatte in alternativa ai loro morbidi maglioni di cachemire…e vogliono dire poter spendere quanto gli pare…

IAGO                       - …E stava lì a vergognarsi di aver belle cravatte, in alternativa a morbidi maglioni.

OTELLO                 - Quello lì, mi ricordo, pensai, aspetta la prima volta che mi capiti a tiro, ti sistemo il tuo muso ben lavato. La rabbia per i tuoi capelli biondi, dritti e sempre pettinatissimi, mai uno fuori posto, così morbidi.

IAGO                       - E io quella di averli sempre pettinatissimi, dritti, morbidi e biondi. (badando a non incontrare lo sguardo dell’amico)… Lo sapevo, lo sentivo e… lo temevo…

OTELLO                 - Cosa?

IAGO                       - Che la voglia tua era potermi mettere sotto alla prima occasione.

OTELLO                 - E, allora, perché mi stavi sempre tra i piedi?

IAGO                       - Mistero.

OTELLO                 - Ti sarebbe piaciuto prenderle? Perché, a dartele, sarei stato io.

IAGO                       - Eri due volte me, facevi poca fatica.

OTELLO                 - Appunto. Un bel ragazzino; bello ma ragazzino: una mezza sega, insomma.

IAGO                       - …Perché?! Ti stavo sempre tra i piedi, intendo?... Scoperchia il cranio di un ragazzo di diciassette anni e frugaci dentro, in cerca dei perché, tu… Fosse mai stata invidia?...

OTELLO                 - (prima delle parole, la risposta son due schiaffi sulle proprie g u a n c e ) Invidia? Di me? Tu?

IAGO                       - Invidia reciproca: ecco il forse del forse di un possibile forse, rimasto forse.

OTELLO                 - Alquanto contorto, al tuo solito: cercar grane, a vicenda, una pianticella delicata, allevata al buio, e un lazzarone selvatico, venuto su nei prati di una periferia (scuro)… senza bisogno di abbronzarsi?

IAGO                       - …Io che, ad abbronzarmi, non sono riuscito mai.

OTELLO                 - La mania di voialtri bianchi.

IAGO                       - Ogni colore ha le sue.

OTELLO                 - E’ ciò che mi stavo ripetendo… Avevi persino l’odore del bianco. Esalavi benessere, belle maniere, timidezza e un disgustoso olezzo di sapone profumato di dollari, da ogni poro.

IAGO                       - Nei tuoi panni, io alleggerirei un po’ quella timidezza.

OTELLO                 - E con cosa la rinforzo?

IAGO                       - Inquietudine, malinconia… non mi dispiacerebbero, ad esempio.

OTELLO                 - A quell’età, malinconico?

IAGO                       - Ed era già una malinconia vecchia, pensa un po’.

OTELLO                 - Avevo dimenticato che, fin da allora, possedevi il genio dello… spleen irritante, capace di far venire il nervoso al padreterno.

IAGO                       - La ragione per cui il padreterno dovrebbe essere esonerato dal nervoso? Chi è? Che diritto ne ha? Da chi è raccomandato?...

OTELLO                 - (una sorta di stupore) Ma tu, li hai i nervi?

IAGO                       - (è possibile suggerire un senso di stanchezza celiando?) Mi credi se ti dico che non lo so nemmeno io?

OTELLO                 - Che, poi, non è nemmeno così: tu i nervi li recuperi quando non ci vorrebbero e te ne liberi appena sarebbero necessari. Tu ti soddisfi a corrodere i nervi degli altri.

IAGO                       - Dipendesse, per caso, da tutte queste saune alle quali mi costringi?...

OTELLO                 - (l’imprudenza di chi non ha sospetti) Bugiardo. Ma se non si vede l’ora?!... Sono gli unici momenti in cui si riesce a ritrovar noi stessi, senza estranei tra i coglioni.

IAGO                       - (palesemente divagante) … Sai che mi è sgradito alle narici anche quel… - come hai detto? – “disgustoso odore di sapone” a caro prezzo?

OTELLO                 - Lo lascio, o via anch’esso?

IAGO                       - Lasciacelo pure. Tanto, nemmeno quello non son mai riuscito a strapparmelo dalla pelle… e non solo da lì.

OTELLO                 - Come facevi ad essere così bianco, così biondo?... Magro! Un fil di ferro a sostegno di due occhi allucinati… e lampi di crudeltà nello sguardo… Fu la prima impressione che mi colpì… Sì: una candida crudeltà puntatami contro come un’arma… E, invece, era tutto tifo che facevi per me, pensa un po’! Io son sempre stato un cattivo psicologo.

IAGO                       - Chi non faceva il tifo per te? Eri già qualcosa di leggendario. La violenza che eruttavi nel gioco metteva spavento, altro che le armi puntate degli altri! Non c’era uno in grado – o che solo osasse – di tenerti testa.

OTELLO                 - Eruttavo, soprattutto, rabbia.

IAGO                       - Rabbia?

OTELLO                 - Fa’ pur finta di non saperlo! La rabbia antica del mio colore. Ma, a quell’epoca, me ne rendevo conto sì e no.

IAGO                       - Nemmeno la nobile professione del… guerriero, è dunque riuscita a scaricartene? Pure, era la strada più indicata.

OTELLO                 - Fa’ conto che si trattasse, allora, di un modo di pagarmi la borsa di studio che m’aveva permesso di varcare una soglia proibita. Le promozioni sociali hanno il loro prezzo. E chi ha quel debole, giusto è che lo paghi.

IAGO                       - Evidentemente, non c’è come i complessi per stimolar l’ingegno: stai diventando sofista, mercé il complesso del debito.

OTELLO                 - (nella dimensione di un umano e dolente risentimento) Esaltare, ingigantire… il fenomeno da esibire negli stadi. Ti persuade? Importavano i miei muscoli, tu che ironizzi sui muscoli, conoscendo i bersagli giusti. Valevo tanto oro dal collo in giù. Dalle orecchie ai piedi, ero qualcuno, scaleno compreso. Il resto, esserci o non esserci, era superfluo.

IAGO                       - Già, con una medaglia olimpionica?!

OTELLO                 - Appunto. È ciò che ti stavo spiegando.

IAGO                       - Ma se eri l’idolo di tutti.

OTELLO                 - Appunto. Incrementavo il medagliere del college. Io sono stato perseguitato dalle medaglie. Ho fatto carriera a colpi di medaglie.

IAGO                       - Le ragazze stravedevano per te: un’occhiata e spalancavano le gambe. I compagni ti guardavano la patta dei pantaloni come si guarda al Santissimo. Si sarebbero fatti il segno della croce.

OTELLO                 - Appunto. Muscoli. Se non servono i muscoli lì… Ne conosco perfino il nome anch’io, di quelli. Rimaniamo sempre ai piani bassi.

IAGO                       - Non sai dire che appunto.

OTELLO                 - Appunto! L’ultimo piano – dove prendi aria tu – ha potuto, così, rimanere sfitto, come vedi: a tua disposizione.

IAGO                       - (il vago disagio di chi si sente spinto alle corde)… Perché io, al contrario…

OTELLO                 - (un’ombra fugace di cattiveria; appena un’ombra, ma c’è) Tu? Tu venivi dall’attico. Eri il solito rompicoglioni indiscreto ed irritante con la puzza sotto il naso. Tra i calzini e le canottiere, nella valigia, a diciassette anni, tu avevi Eliot e Gide: cocaina dell’intelligenza: uno di coloro che, al proprio compagno di banco, la prima cosa che domandano è se conosce “Le bateau ivre”, e, quello, magari, stravede per “I tre moschettieri”; se sa risolvere le equazioni di terzo grado, e, quello si trova intrigato con una sottrazione di due cifre; che marca di biancheria intima porta, e, magari, non ha mai indossato una maglia di lana. Ecco, uno del genere, più o meno, eri tu. Per tutta risposta – al segnale di Belafonte, come capita sempre in queste slittate - , l’altro esce dal proprio personaggio scuotendo con disapprovazione il capo.

IAGO                       - Mai più. Troppo colto e spiritoso per Otello.

OTELLO                 - deve restare nell’umanità e nell’onore. Tutto d’un pezzo.

OTELLO                 - Ma io le so tutte quelle cose lì. (pesante) Le so “anch’io”.

IAGO                       - Le saprai pure, però non devono risultare.

OTELLO                 - Galantuomo ma analfabeta!

IAGO                       - E’ il personaggio, abbi pazienza. Si tratta di un eroe. E quando mai hai sentito un eroe citare il simbolismo? Ce lo vedi Garibaldi parlar di Mallarmè? Massimo “La capanna dello zio Tom”.

OTELLO                 - Eggià, perché la cultura e lo spirito sono rigorose prerogative di Iago, vero?

IAGO                       - Non dipende da me. È stato stabilito così.

IAGO                       - è soltanto un uomo… Colto… Quattro secoli più tardi.

OTELLO                 - Ma cosa credi, che, per questo,

OTELLO                 - debba rimanere un fesso e basta? Darmi del Garibaldi!... Io non ci sto.

IAGO                       - Che ti devo dire? Prova. Se te lo lasciano fare… Ma ti distruggi colle tue stesse mani. C’è già abbastanza dilettantismo in giro.

OTELLO                 - Almeno un’altra citazione la voglio tentare. Voglio essere un uomo anch’io.

IAGO                       - Fatti furbo, Otello: è un rischio.

OTELLO                 - Bene: il rischio è il mio pane, no? Almeno quello, oh bella!

IAGO                       - Regolati come credi.

OTELLO                 - Ho capito: sei un intellettuale decadente. E ci marci.

IAGO                       - Dài, dài pure; della tua reputazione sei padrone tu.

OTELLO                 - (nuovamente rievocativo) I Dioscuri del college. Hai in mente? Avevano cominciato a chiamarci così. Mah…

IAGO                       - Non avevamo proprio nulla che ci affratellasse. Salvo, in seguito, beninteso, un congruo numero di cadaveri in comune, per dar credito alla leggenda secondo la quale nulla come la vita militare è feconda di amicizie: il concime dell’amistà.

OTELLO                 - (nel frattempo, rimasto soprappensiero) … I Dioscuri… tutto quanto è rimasto dallo studio dei classici… I Dioscuri. Non mi ricordo nemmeno più chi erano.

IAGO                       - Per carità, comandante, Dioscuro in seconda. Quello che vien dietro collo zaino e la borraccia.

OTELLO                 - Ma chi erano?

IAGO                       - (con pazienza, trionfante) Vedi? Ti avevo messo in guardia?

OTELLO                 - Chi erano?... Te ne sei dimenticato anche tu!?

IAGO                       - Due gemelli, figli di Giove “en travesti”: da cigno, figurati, e di una certa Leda, al naturale. Ed erano in rapporti ambigui.

OTELLO                 - Col papà o colla mamma?

IAGO                       - Otello!... Tra di loro.

OTELLO                 - Nooo… non posso crederci: fratello e sorella!...

IAGO                       - Fratello e fratello.

OTELLO                 - E’ una balla!

IAGO                       - Pare proprio di sì. Sai, erano greci. Antichi.

OTELLO                 - Non sarà una calunnia messa in giro dai Romani?

IAGO                       - Dai Greci stessi.

OTELLO                 - Che puttanaio! Sai cosa ti dico? La cultura è… La cultura è una forma di immoralità.

IAGO                       - E’ ben per questo che ti mettevo in guardia. Ti rendi conto, adesso, che devi essere più prudente?

OTELLO                 - Non lo faccio più.

IAGO                       - Prima o dopo, tu sei uno destinato a ricascarci.

OTELLO                 - Dici?

IAGO                       - Spero. Volevo dire: temo.

OTELLO                 - Un “lapsus”, eh?!...

IAGO                       - Vedi? Stavi già riscivolandoci. Che ne devi sapere tu dei lapsus? Tu sei Otello! Il mio sano amico Otello.

OTELLO                 - E tu avvertimi, per la miseria.

IAGO                       - Mi farò premura.

OTELLO                 - Sennò, che amici siamo?

IAGO                       - Appunto! Hai ragione. Sennò che amici siamo? Tu fidati di me.

OTELLO                 - Mi metto nelle tue mani.

IAGO                       - Mai precipitare. A tempo e luogo. Chi sa aspettare con pazienza, prima o dopo, il momento magico non può non arrivare.

OTELLO                 - Ma che c’entra?

IAGO                       - E’ una battuta misteriosa, aperta a tante possibilità. Mi piace. Lasciamocela entrare.

OTELLO                 - …Davvero, sai, chiunque mi avesse predetto che, antipatico come mi stavi, si sarebbe diventati amici, gli avrei riso in faccia. Nessuno al mondo avrebbe scommesso un cent sulla tua metamorfosi. Non eran passati due anni ed eri già lo scattante e avvenente capitano della squadra di pallacanestro: un altro!

IAGO                       - Vitamine, ormoni, cibo abbondante, esercizio fisico e, soprattutto, fuori i piedi dalla famiglia, fanno miracoli a una certa età… A non considerare l’emulazione di un campione come te: la tua protezione, diciamo.

OTELLO                 - Un campione come me!... L’adolescente che non sa di aver tenuto a battesimo la prima chiavata del grande atleta!... E siamo già ai reumatismi. (una sghignazzata) Come passa il tempo!

IAGO                       - (senza aggettivi e senza riserve, stupefatto ma semplice, il che non gli succede spesso) Non dirmi! Era la prima volta?

OTELLO                 - La prima volta.

IAGO                       - Ma avevi già 21 anni.

OTELLO                 - Compiuti. Inaugurato quella sera, nuovo di zecca. Fra le dieci e mezzanotte, decapitata una virtù.

IAGO                       - La tua fama di amatore indefesso? Eri l’invidia di tutti. Capace di “farne” sei in una notte!?

OTELLO                 - Leggenda. Lasciavo credere. Era parte del personaggio.

IAGO                       - Tutte quelle stronze che facevano le bave per te?

OTELLO                 - Come no? C’erano, c’erano. E magari, pure disposte a tutto.

IAGO                       - Lo credo bene.

OTELLO                 - (la sua fissazione) La tentazione della cioccolata, capirai. Non c’ero io; rimaner solo con una di esse: bloccato, la morte. E, ancor più strano, un risentimento, ma un risentimento… Arrapato di voglia e, insieme, l’impulso di picchiarle… Un paio di volte, lo feci, pure. Quella puttana lì – mi fissavo – vuole, una cosa sola vuole; ci siamo intesi quel che vuole, il mio coso – nero – vuole; non mi accetterebbe mai per marito, quella lì: una malattia, come una malattia. Va bene?

IAGO                       - Sì, sì va’ là: a contorcimenti psicologici, se

IAGO                       - piange,

OTELLO                 - non ride.

OTELLO                 - Prova a nascere dalle parti dell’Oklahoma, cosparso da una mano di nerofumo, e poi sappimi dire.

IAGO                       - A ventun anni ancora vergine. Ma no!

OTELLO                 - A ventun anni ancora vergine. Ma sì!

IAGO                       - Cristo, non lo ero più io, già da tempo, e ne avevo appena diciassette!? La mia verginità se l’era succhiata – è la parola – un’amica di gioventù di mia mamma, che mi impartiva “maternamente” lezioni di letteratura tedesca… Se l’era fatta fra il suicidio del giovane Werther e la decapitazione di Maria Stuarda: fra Goethe e Schiller, atmosfera sublime, come vedi, anche se mica tanto allegra tra un revolver e una mannaia e, fuori, il silenzio.

OTELLO                 - Sono le prime parole che sento anch’io.

IAGO                       - Non è onorevole confessare di essere stato… deflorato in tedesco da una nibelunga nostalgica, che indossava come una corona, e pretendeva il present’arm, il ricordo di essere stata a letto con Hitler.

OTELLO                 - A far che?

IAGO                       - O un pisolino o la stesura della dichiarazione di guerra che ce la fece vincere. Che ne so? S’è sempre tenuta sulle generali. E poi, vorresti che non avessi in antipatia le guerre!... E tu… Incredibile. Non ce la faccio a crederci.

OTELLO                 - E io ancora immacolato – si fa per dire, considerato il fondotinta – a ventun anni passati. Che posso farci? Non vorrai, per questo, concludere che, io le guerre le ho in simpatia. Non è che tra verginità e pacifismo esista una vera e propria incompatibilità.

IAGO                       - No, no: la verginità, in fondo, è uno stato d’animo. Dico sul serio. Sì, uno stato d’animo… E’ così – ti accorgi quanti legami sconosciuti? - : due vergogne contrarie ma sullo stesso argomento: io sì e facevo credere no; tu no…

OTELLO                 - … e lasciavo credere sì. Come vedi, il leone era un coniglio, più o meno.

IAGO                       - Non per questo, il coniglio era un leone. E precipita in un mutismo di pietra. Ma, in testa, un tornado!

OTELLO                 - Hai perso la parola?

IAGO                       - Eh?...

OTELLO                 - Dico a te: hai perso la parola?

IAGO                       - La prima volta: Otello, eroe misterioso, colmo di gloria, di sesso e di destino! Ma, allora…

OTELLO                 - Allora, l’esame più duro della mia vita. La paura che io non ho mai provato sui campi di battaglia, l’ho provata sempre nella camera da letto di una donna, finché, per fortuna, non ho incontrato la donna giusta. Ma fino allora…! Le guerre di dopo la guerra, le ho fatte tutte, tu lo sai, e abbastanza onorevolmente…

IAGO                       - Direi.

OTELLO                 - Mi credi? Niente, nemmeno lontanamente comparabile. Terribile… Mai sofferta, tu, l’angoscia della bocciatura e relativa umiliazione e terrore – terrore – di non farcela mai a laurearsi?

IAGO                       - Ma… sicurezza, ardimenti, eroismi, rischi, pericoli, bravate, imprese matte…? Ne hai pur infestato la tua esistenza.

OTELLO                 - E medaglie! Possibile che tu non capisca? Come dite, voialtri, gente istruita? Compensazioni? Solo esageravo: in ogni caso e in tutto. E anche fuori dalla morsa del sesso, intendiamoci. Però, sempre, ho idea, per via del sesso. Spiegamelo diversamente, tu, se hai un’altra spiegazione.

IAGO                       - Ti spieghi benissimo. Sei un

OTELLO                 - che ha sentito vagamente parlare di Freud e fa una certa confusione, ma ti spieghi benissimo da te. Oh poverino!...

OTELLO                 - E’ tutto ciò che trovi da dire?

IAGO                       - Trovo da dire che io sono uno

IAGO                       - imbecille anche conoscendo un po’ meglio Freud.

OTELLO                 - L’imbecille ero io. Mi vuoi togliere anche l’imbecillità?

IAGO                       - Imbecille io, lascia perdere: la verità ti passa accanto, ti spalancherebbe, forse, degli universi e tu non te ne accorgi e non ne approfitti. Che ti serve, allora, ricordarti la parte?

OTELLO                 - Cosa stai fantasticando, adesso?

IAGO                       - Non farci caso. Guai se mi metto a pensare ad alta voce.

OTELLO                 - A me succede, qualche volta. E mi fa anche bene, ti dirò.

IAGO                       - (rimonologandosi addosso) La rivivo quella sera. Presa la decisione di affrontare l’esame, sempre rimandato, bisognava passarci. M’ero arreso. Ci si sarebbe incontrati a cena. L’invito era stato inequivocabile e perentorio. Via i suoi, saremmo stati liberi e soli fin dopo mezzanotte. Ero organizzatissima. Non c’era scampo, stavolta. Al maldestro tentativo di un’ennesima scusa, colla noncuranza mordace di certe donne che hanno il coraggio di ciò che vogliono, m’aveva incastrato precisando: “Non crearti scrupoli: se per caso, non ti piacciono le donne, fa niente. Va di moda. Tra voi studenti, pare un’epidemia, specie i più maschi e non si sa più come regolarsi. Basta dirlo, nulla di male, e la smettiamo di star a perder tempo; ti presento mio fratello che, mi sa tanto, tende all’anfibio ed è, spaccato, il ritratto di Marlon Brando; ci si beve su e resta tutto in famiglia”. Non parendo: un ultimatum. O sì, o sì…

IAGO                       - Perché, suo fratello…? Senti, senti.

OTELLO                 - Sembra. Che ti devo dire? Residuati di guerra, si vede.

IAGO                       - Mai sospettato… Un pugile come lui… Va’ avanti.

OTELLO                 - Avevo cominciato a darmi da fare, credo, due ore prima. Doccia, barba… i peli del petto: li raso, li lascio? Li rasai. Poi, si imbufalì perché contava di giocarci dentro colle dita, mai che la si indovini… di nuovo doccia poiché, nel frattempo, il pensiero dominante m’aveva fatto sudare da matto. Perché tu ti renda conto del mio stato d’animo: ero stato, perfino, dalla manicure dei piedi: sei dollari.

IAGO                       - Vorrai dire la pedicure.

OTELLO                 - Precisamente.

IAGO                       - E’ naturale. Sei sempre stato fiero dei tuoi bei piedi.

OTELLO                 - Hai, per caso, qualcosa da dire contro i miei piedi?

IAGO                       - Un aggettivo soltanto: splendidi. E doppi! Mica come il naso, la bocca, l’ombelico… e via discorrendo. Due! Uno, più il ricambio.

OTELLO                 - …Camicia, calzini, canottiera, tutto in tono, fragrante di lavanderia… No, adesso che mi viene in mente: la canottiera no, messa e tolta: faceva più maschio senza, e poi, quel contrasto fra bianco e nero…: tolta! In altre parole, ero netto come un pollo bollito e profumato come una puttana debuttante.

IAGO                       - Press’a poco, proprio.

OTELLO                 - Come, proprio?

IAGO                       - Possiedo un odorato anch’io. Non badarci. In certe situazioni, ci si assomiglia tutti. E ho memoria buona.

OTELLO                 - Ah, sicuro. Ti vedo ancora aprir la porta. Entrasti in camera mia, mentre mi stavo spruzzando le ascelle di deodorante; sarà stata, a dir poco, la ventesima volta. A proposito, ero stato incerto se radermi anche lì, così folte. Altro sbaglio. Meno male che le lasciai come mia madre me le aveva fatte; perché; più tardi, quando le confidai il mio dubbio, mi disse che, se mi fossi presentato con le ascelle rasate, m’avrebbe scaraventato giù per le scale, nemmeno l’ascensore. E ne era capace. Alle ascelle col pelo non avrebbe rinunciato per tutto l’oro della terra. Erano mesi, confessò, che me le concupiva. Tu pensa in che posti, senza sospettarlo, qualche volta, ti trascini aggrappato l’occhio di una ragazza! Neanche le piattole.

IAGO                       - Ma non sapevi nemmeno di essere al mondo, a rischio di finir gettato in pasto al pugile! Hai mai sentito parlare dell’attrazione erotica dell’ascella? È uno dei crocevia della sensualità.

OTELLO                 - E’ ben quello che mi domandò anche lei, dopo avermi dato una sberla.

IAGO                       - Sfido io! E tu cosa rispondesti?

OTELLO                 - “Altroché!”, esclamai. Mica vero. Per me, era tutto nuovo, mai udito un discorso simile.

IAGO                       - Cosa speravi, di trovarlo scritto sul dizionario?

OTELLO                 - Non si può saper sempre tutto, scusa. Fai presto a parlare, tu, perché sei colto. Io ero il “buon selvaggio”. Posso dirlo?

IAGO                       - Sei impazzito, col razzismo di cui è continuamente accusato il nostro paese?

OTELLO                 - Ma se è un negro a dirlo…

IAGO                       - Poi i critici equivocano: stroncature, rettifiche, proteste, polemiche, lettere ai giornali, vien fuori un casino. Guardatene bene.

OTELLO                 - Mai capito perché le ascelle delle femmine vadano depilate e quelle dei maschi no.

IAGO                       - Una valida ragione c’è.

OTELLO                 - E’ sicuro che io morirò senza conoscerla.

IAGO                       - I doppioni vanno evitati, Otello, per quello che c’è già; e, per quello che non c’è, si cerca di ingegnarsi conservando ciò che gli somiglia. Mi spiego? Se una cosa non te la dice il cervello, te la deve dire…

OTELLO                 - (innocente come Parsifal) … Che?... Cosa me la deve dire?

IAGO                       - Lasciamo perdere. Non può parlare. Non dispone di corde vocali.

OTELLO                 - Mah!... E, poi, dopotutto, non c’ero mica andato colle ascelle calve. Il mio pelo lo avevo addosso tutto; e, in seguito, quando conobbi meglio la vita, feci attenzione a portarmelo sempre dietro. Tante storie per quattro peli. Quando erano necessari, sono sempre stati presenti e si son fatti onore. Anche da ammogliato, faccio per dire.

IAGO                       - Non ne dubito. Scusa tu. Prosegui pure.

OTELLO                 - Adesso, mi sono confuso. Ah, i maglioni. Solita ora, solito rito: eri venuto per la tua infantile mania dello scambio dei maglioni. La menata di tutte le sere.

IAGO                       - Né mania né menata: patto, se non ti dispiace.

OTELLO                 - Lo sapevi, che è antiigienico?

IAGO                       - Anche l’avessi saputo, me ne sarebbe importato meno che tanto. Non erano lezioni di igiene di cui andavo in cerca.

OTELLO                 - Che vuol dire? Nemmeno io. Però, dimmi tu se ero in grado di pensare al rito dei maglioni in quei momenti, siamo logici.

IAGO                       - Perché no?

OTELLO                 - Stavo per andare a letto con la mia prima ragazza, Iago! Ti riesce a entrare in testa?

IAGO                       - Per me, era una delle tante. Ti stavo facendo, forse, una scena di gelosia?

OTELLO                 - Dopotutto, cosa ti dissi? “Stasera, niente cambio di maglioni”, ti dissi.

IAGO                       - Sì, ma con che tono!

OTELLO                 - E non aggiunsi subito: “Bardatura delle grandi occasioni. Ho un appuntamento con…” Accidenti, come si chiamava?

IAGO                       - Si chiamava Nicole e ti faceva il filo da Natale. Ti “concupiva” l’ascella. Quella sera, lo sapevi.

OTELLO                 - E chi dice di no? Nicole, da Natale; mi sta tornando in mente… Ho idea che fosse bionda, tu che ne dici?

IAGO                       - Sono sempre state tutte bionde le tue donne. Quella, tirava al rosso, era piena di efelidi come una cravatta a pallini e aveva un deturpante dito a martello al piede sinistro. Orribile, paragonato alla perfezione del tuo.

OTELLO                 - Il mio cosa?

IAGO                       - Il tuo piede, naturalmente.

OTELLO                 - Ah, già, hai sempre avuto un debole per il mio piede… Eccola. Grazie. La vedo, ora la vedo, le vedo il dito. Ma ti pareva tanto orribile?

IAGO                       - Senz’altro, una delle peggio che hai avuto. A quel tempo, si faceva stantuffare dal battitore della tua squadra. Per poco, anzi, non vi eravate presi a pugni per causa sua.

OTELLO                 - Cosa mi racconti!... Era geloso?

IAGO                       - Non sarà stato, certo, per ragioni culturali. Cosa ci trovavate poi…? Sarà dipeso dalla sua abilità di ninfomane famelica d’ascelle. Passava da un aborto all’altro come cambiarsi la camicia, per via che aborriva il coito interrotto, non digeriva la pillola ed era allergica ai preservativi.

OTELLO                 - Ma, scusa, a letto con lei ci son andato io o tu?

IAGO                       - Tu, tu, nessuno te la ruba. Ma le sue abitudini le conoscevano anche i sassi. I cessi erano pieni di scritte col suo nome: una fogna nella fogna. Da una buona donna, sì, ti sei lasciato inaugurare. E, magari, sarai stato persuaso che ti fosse toccato il dono di una vergine.

OTELLO                 - Ti dirò: un mezzo sospetto l’ho avuto. “Mah…?”, pensai per tutto il tempo.

IAGO                       - Mano male, hai avuto un mezzo sospetto. Era un mah universale. I meglio se li era fatti tutti!

OTELLO                 - Tranne te, evidentemente.

IAGO                       - Io ci provai la sera dopo, ma non volle saperne.

OTELLO                 - Hai capito, l’amico!

IAGO                       - “Non mi fai voglia. Torna quando sarai cresciuto e vedremo” mi disse chiudendomi l’uscio sulla faccia. La odio ancora.

OTELLO                 - Ma pensa…! Beh, col tuo maglione in spalla, vedendomi così asettico e lustro: “Te la dà?”, mi chiedesti. Domanda spudoratissima in bocca tua.

IAGO                       - “Stasera me la dà”, mi rispondesti, gonfiando il collo come un gallo da combattimento. Risposta da play-boy di periferia. Tipica.

OTELLO                 - E fu a questo punto che mi sorprendesti con qualcosa di inaspettato, mai più riuscito a dimenticare.

IAGO                       - (una provocazione intesa unicamente a tagliar corto) Figurarsi se te l’eri dimenticato: entrai nel bagno… ma non per pisciare.

OTELLO                 - Un paio di minuti dopo, nemmeno… ricomparivi e…

IAGO                       - …Colpo di scena!...

OTELLO                 - Tenevi, fra due dita, appena sfilati, ancora caldi, i tuoi slip.

IAGO                       - (insolente) Una carezza! Di seta, color canarino, lievi e trasparenti come una ragnatela. Ad alitarci contro, prendevano letteralmente il volo.

OTELLO                 - Fu ciò che facesti.

IAGO                       - Una pazzia della “francese”.

OTELLO                 - Tua madre?

IAGO                       - Lei faceva regali così. Un’indecenza indossarli.

OTELLO                 - Appunto. Perché, allora?... Non ci fu Cristo: se volli recarmi a quel convegno d’amore, dovetti – mi vergogno a raccontarlo – levarmi e scambiare con te i miei di bucato per indossare i tuoi, ancora impregnati dell’odore del tuo corpo. “Ti porteranno fortuna” insistevi, facendomi il nodo alla cravatta.

IAGO                       - Blu elettrica a righe scarlatte: un cazzotto nell’occhio.

OTELLO                 - Non ti superava nessuno nei nodi alle cravatte. “Vedrai, ti porteranno fortuna”…

IAGO                       - Ci porteranno, fortuna, dicevo: ci; sono sicuro che dicevo: ci.

OTELLO                 - Grottesco, indecente e incomprensibile. Non trovi anche tu, oggi, a mente matura?

IAGO                       - No. Non trovo. Non tutto è grottesco ciò che la gente trova grottesco, come non tutto è indecente ciò che la gente trova indecente; e io mi rifiuto di essere la gente. Incomprensibile, dipende. Chi ci arriva e chi no. Ci si scambiava sempre i maglioni!

OTELLO                 - Però non ci si era mai scambiati gli slip!

IAGO                       - Era anche ora!... Se ne fai una questione di indumenti…

OTELLO                 - L’unica ragione, guarda, penso di averlo fatto per scaramanzia. In fondo, era come essere in due: aumentava le probabilità di riuscita. Forse, dipese anche, un po’, il dispiacere di te che rimanevi a bocca asciutta. Più passa il tempo e più mi pare assurdo. Ma dimmi tu se è possibile: la prima volta che vado a donne, ci vado dentro alle tue mutande! Che mi erano anche strette. Ti sembra normale?

IAGO                       - (esplosivo) Normalissimo! Otello, è ora di smetterla colle etichette. Lo sai che mi stanno sui coglioni! E i miei slip erano la tua stessa misura. Cosa vorresti far credere? Un silenzio per pensarci su.

OTELLO                 - Me, se ben ricordo, me li sentii stretti. Però… E, poi, il ritorno. Allungato sulla poltrona, in camera mia, sveglio, la radio aperta sottovoce. Cantava Belafonte. Attenzione, regista! Un po’ vizioso devi aver sempre teso ad esserlo: era già notte ed avevi passato il tempo a leggere Baudelaire! Abbi pazienza, ma è un nome che non posso non fare. Eredità materna, suppongo, devo dirlo, se non ti offendi.

IAGO                       - Di Baudelaire, mia madre, ignorava anche l’esistenza. Sì e no, si era fermata a quel porco sifilitico di Maupassant che non parla che di casini e puttane.

OTELLO                 - Non vedevi l’ora di sapere come era andata. Insistente, febbrile, aggressivo. E cosa avevo provato io, e cosa aveva provato lei; e cosa ci si era detti; e se, “durante”, s’era parlato o taciuto e quali argomenti… perfino, ma sì, se al momento… al momento… m’era venuto l’impulso di bestemmiare, pare che non esista goduria maggiore… E quante volte, e come…e “dove”! “Dove”, Iago! Sensazioni, pensieri, gesti, durata… E quanto avevo goduto io e quanto avevo fatto godere lei: tutto e più ancora… Un altro, eri diventato un altro. Irriconoscibile… Certi particolari intimi volevi conoscere… una scabrosità, un’indecenza! Era come venir scorticato di fuori e di dentro. “Dimmi tutto”, incalzavi all’evasività stupefatta del mio laconico rispondere che annaspava in una balbettante vergogna: “Voglio conoscere tutto!” Persino, mi ricordo bene: “Ho diritto di conoscere tutto”. Ma che t’era accaduto? Che t’era accaduto? Peccato che l’animo, e di conseguenza il tono del discorso viri verso tutt’altra sponda. Ma già, la zona meno chiara è sempre quella più prossima alla lampada, e nulla è più invisibile di ciò che non si vuol vedere.

IAGO                       - Tu, piuttosto, perché ti ecciti tanto? Curiosità. Mi interessava sapere, ecco tutto. A quell’età, non si è mai sazi di curiosità, specie certe curiosità.

OTELLO                 - Potevo chiuderti la bocca con un semplice: “Cambia musica, sono state due ore di torcibudello ma sono stato promosso, scusa tanto?” Preferii mandarti al diavolo… Un sovrano offeso: pretendesti subito, da villano, sì, da villano, ma immediatamente, di ritorno…

IAGO                       - Con questi slip, sai, cominci a rompere… quel che c’è dentro.

OTELLO                 - Cazzo! Dovetti sfilarmeli lì davanti a te, mentre tu facevi altrettanto coi miei, davanti a me – anche un po’ ridicoli, se vogliamo – Te ne tornasti in camera tua con un muso più lungo del corridoio, senza aggiungere una parola, sbattendo l’uscio. Un matto!... Mah, la nostra amicizia cominciava appena: voglie insoddisfatte di adolescente immaturo e invidioso, dovetti pensare, qualcosa del genere… Mi vien da sorridere: mi sentivo come un padre. Capirai! Ero appena stato laureato uomo. (a conclusione di un pensiero opportunamente inopportuno) Ti masturbavi a quel tempo?

IAGO                       - (né vergognoso né sfacciato) Naturalmente. Parecchio. Pare che non sia più come una volta. Oggi, garantiscono, fa bene alla salute. Posso considerarmi un precursore.

OTELLO                 - Io no, pensa. Mi sembrava degradante.

IAGO                       - Si capisce. C’è qualcosa che non quadri in te? Sai chi mi ricordi?

OTELLO                 - Sono preparato a tutto.

IAGO                       - Parsifal… coll’abbronzatura.

OTELLO                 - Ma fa dormire in piedi! È l’unica serata che mi rammento con terrore del mio viaggio di nozze.

IAGO                       - Parsifal senza sonno.

OTELLO                 - La storica serata… degli slip, il Parsifal sarebbe stato sprecato. A immergermi nel più profondo dei sonni ristoratori bastarono, e ne avanzò, la soddisfazione della prova superata e il sollievo di un ostacolo rimosso. Ecco, senza gloria e senza infamia, la mia iniziazione al sesso. E così è cancellato dalla nostra amicizia anche l’ultimo segreto… custodito in un vecchio paio di slip di seta… Da frocio, scusa… eh sì: da frocio. (IAGO        - rimane muto) L’altro risponde con un silenzio fermo lasciando passare tutto il tempo che crede.

IAGO                       - Fu rimosso davvero, poi?

OTELLO  - Cosa?

IAGO                       - L’ostacolo.

OTELLO                 - Su quel versante, dopo, cessò ogni problema. Dalla sera alla mattina, la faccenda era diventata quello che era: una piacevole funzione naturale e buonanotte.

IAGO                       - Evidentemente, c’era la stoffa.

OTELLO                 - Quanto tempo?!...

IAGO                       - Avvenne la sera del diciannove di maggio, esattamente undici anni e due mesi fa: un plenilunio, sembrava giorno. Presso la finestra, potei leggere Baudelaire a luce spenta.

OTELLO                 - Tieni un diario?

IAGO                       - Non ne ho bisogno.

OTELLO                 - Com’è che te ne ricordi con tanta precisione?

IAGO                       - Versi, rancori e date sono sempre stati il mio forte. La stessa mattina, un mercoledì, secondo un rituale goliardico – ingenuo, visto da adulti saggi, non rassegnati all’idea che l’uomo ha il privilegio di portarsi dentro, fino alla tomba, la propria infanzia – con una incisione reciproca sull’avambraccio sinistro, avevamo mescolato il nostro sangue in pegno di fratellanza. La lametta adoperata era una Gillette, marca che adopero tuttora, ogni mattina, per farmi la barba, e che usi anche tu. Questo, nel caso che ti sia caduta dalla mente la cerimonia. Ma le cicatrici, a scrutar bene, persistono ancora. (l’ultima freccia, quanto spuntata!, di ironia) Sono indelebili. Controlla. (e gli mette sottocchio l’avambraccio)

OTELLO                 - Non me ne sono scordato nemmeno io. Scherzavo. Guarda. (e fa altrettanto)

IAGO                       - Lo so. Tardi, ma, scivolando scivolando, il loro vascello ha imboccato la rotta della sincerità, e non c’è provocazione, ironia o pudore che valgano a vulnerarne le vele. …E poi, vennero altri esami, più importanti…

OTELLO                 - No. (sorridendo ma non troppo) Più importanti no.

IAGO                       - Nemmeno gli esami ad eroe nazionale, o giù di lì?

OTELLO                 - Meno di tutti quelli. Lo sai, fosti sempre al mio fianco…

IAGO                       - (cantarellato) “Ed io rimango, di sua moresca signoria, l’alfiere”. Con testuale citazione musicale della frase dall’

OTELLO                  - verdiano.

OTELLO                 - Prima – m’era rimasto ben in mente – dicesti, come dicesti? Un’amicizia garantita da un “congruo numero di cadaveri in comune”, o press’a poco. Non è così, Iago… Allunga il calcagno. Tocca a me, ora. Il bianco poggia un piede sulle ginocchia del negro e il massaggiato diventa massaggiatore.

IAGO                       - Sicuro, sicuro, dei nemici, soprattutto dei cadaveri dei nemici – i cadaveri della parte giusta - , tu hai sempre avuto, e preteso che si avesse rispetto. Era il fiore all’occhiello dei condottieri antichi, coi quali tiri a condividere la magnanimità.

OTELLO                 - E se fosse il caso, più modestamente, di semplice carità?

IAGO                       - Ancora un altro scambio di etichetta. Stipendiati per produrre cadaveri redditizi, si fa lealmente il proprio mestiere. Questa è la nuda verità.

OTELLO                 - Vorrei che tu conoscessi un episodio che – secondo te – non avrà alcuna attinenza col nostro discorso, ma, per me, assai.

IAGO                       - Le mie orecchie sono tue. Infilaci dentro ciò che vuoi: violentale pure.

OTELLO                 - Quando tu non eri ancora stato trasferito, laggiù, sai, in quello spaventoso laggiù, dove si viveva con solo una domanda fra i denti.

IAGO                       - Già: “perché?”

OTELLO                 - Sicuro: “Perché?”… Un bombardamento aereo, tanto stupido e inutile da giustificarsi, guarda: dico giustificarsi, unicamente come uno sbaglio…

IAGO                       - Uno dei tanti, da buttare all’ammasso del “perché” totale.

OTELLO                 - Capita, in guerra, capita anche questo.

IAGO                       - E’ nei preventivi. È capitato anche a noi.

OTELLO                 - Anche a noi, d’accordo.

IAGO                       - E non una sola volta.

OTELLO                 - E non una sola volta… Bene: in un paio di minuti, fu massacrata una compagnia al completo. Non ne restò vivo – ed intero – uno che è uno. Erano tutti ragazzi. Il più vecchio – vecchio! – sbagliava una settimana a fare ventun anni…

IAGO                       - Chissà se era ancora vergine anche lui?!

OTELLO                 - Iago!...

IAGO                       - Non farci caso. Intendevo solo precisare che parecchi saranno morti senza nemmeno mai aver fatto l’amore. Ma non sarà mancato qualcuno che, senza i tuoi scrupoli, andava a mano. Meglio questo che niente. O no?

OTELLO                 - (dopo, come prima risposta, aver chinato il capo in silenzio) Noi, ci si dovette ritirare a rotta di collo, come si poté, lasciando quel carnaio, ancora caldo e palpitante, a imputridire negli acquitrini.

IAGO                       - E senza un Tacito a raccontarlo. (l’esperto) . Rappresaglia?

OTELLO                 - Che si doveva fare? Subire? La sera stessa.

IAGO                       - Regolamentare. Quanti?

OTELLO                 - Press’a poco altrettanti e un aereo a terra.

IAGO                       - Prevedibile. Sei sempre stato giusto nel calcolo del dovuto e discreto nel risarcimento degli interessi.

OTELLO                 - (alto) Che si doveva fare, Cristo!

IAGO                       - Quello che hai fatto, né più e né meno.

OTELLO                 - (il peso di una tristezza fonda) … Inatteso, non si sa da chi e come avvertito – io ne ebbi notizia più tardi, a cosa fatta – in mezzo a quel carnaio, il giorno dopo, comparve un giovane missionario… sgraziato, foruncolosi, malvestito… Veniva dalla missione, una decina di chilometri a sud. Io lo avevo conosciuto tempo prima. Per modo di dire conosciuto: poche parole, ma m’era rimasto impresso. Prima di farsi missionario, m’aveva raccontato, lavorava la terra nella fattoria dei suoi; erano non so quanti fratelli: tanti. Un giovanottone maldestro, sciatto, insignificante e taciturno; mi colpirono le sue mani spropositate e pronte… balbettava, pure, e non brillava per eccessiva pulizia, ebbi l’impressione. Cappellano, medico, infermiere, uomo di fatica della missione? Non m’ero nemmeno curato di informarmene, uno qualunque. Passato e via. Comparve solo, mi riferirono.

IAGO                       - Cambia calcagno, se non ti dispiace. Comincia a dolermi anche il destro. Azione corrispondente naturalissima, sempre senza la benché minima conseguenza sul fluire del discorso.

OTELLO                 - …Giorno dopo giorno, coll’unica sua forza di contadino; senza fretta, paziente, sereno – mi raccontarono che cantava, mentre faceva il suo lavoro, cantava vecchie canzoni popolari, anche piuttosto scabrose, del nostro paese, uno del sud pure lui, pare – pezzo a pezzo, come poté, rimise insieme quei resti martoriati; li identificò, coloro che poté identificare; e, corpo dopo corpo – erano trecentoottantatré - , scelto un breve spiazzo asciutto, ombreggiato da grandi bambù, nella foresta, nudi nella nuda terra, li seppellì. Pensare a una bara, là, tu ti rendi conto, sarebbe stato da insensato. Egli non si pose nemmeno il problema. C’eran dei corpi da sotterrare e c’era della terra adatta e disposta ad accoglierli. Indispensabili, erano, semmai, una zappa ed un badile, e a quelle aveva già provveduto il suo scrupolo di contadino, al momento di porsi in marcia. Poi, per ognuno, colle sue enormi mani inchiodò due pezzi di legno; incise rozzamente i loro nomi su altrettante tavolette, tutte uguali… E adesso, allineati, sotto ventitré file di grezze croci indistinguibili; più tre dietro alle altre: gli ignoti senza nemmeno il nome; tutti quei poveretti – tutti – stanno lì a farsi compagnia in pace, nel grembo del loro vuoto sacrificio… E questo, mercé la carità di un oscuro ragazzotto che non aveva mai visto nemmeno in faccia nessuno di loro, distante da qua alla luna dall’idea di attribuirsi qualche merito, e che non lascerà traccia di sé su questo pianeta… Vedi, sul nostro non invidiabile cammino si incontrano esseri e… carriere, del genere. Non sarebbe sprecato tenerne conto. Solo questo.

IAGO                       - Normale. Vorrei vedere che fosse diverso; e un mondo, dove è possibile che i figli dei falegnami finiscano appesi con due chiodi nelle mani ed uno solo nei piedi per risparmio, e dopo hanno ancora voglia di tornare su questa terra, non fosse in grado di mettere in circolazione, ogni tanto, gente così! È il meno che possa fare.

OTELLO                 - (un sospiro che sfonda il muro) D’accordo. Ma c’è un’aggiunta. Ogni sera, quel mansueto gigante esce dalla Missione e, un passo dopo l’altro, si macina dieci chilometri di andata e, poi, dieci di ritorno, nella foresta. Raggiunge il piccolo cimitero nel canneto, percorre lentamente, senza trascurarne una, le file di tutte quelle croci, si sofferma un attimo ai piedi di ognuna, vi depone uno sguardo, muove appena le labbra leggendone il nome… e trasforma la guerra in un muto e breve colloquio con chi ne è stato vittima. Quando li ha mormorati tutti, solo, tranquillo, lento, riprende il sentiero del ritorno. Non prega. Solo nomi. Se un soffio della memoria di quei nostri fratelli, rimasti privi di risposta al loro perché, riesce ancora a perpetuarsi è solamente per l’esiguo filo di quell’attimo di pietà, e fintanto che quel ragazzo viva. Dove i nomi non li ha potuti incidere, guarda e tace. Di tanti a cui ho domandato, nessuno conosce come si chiami lui.

IAGO                       - Quindi, non avrà medaglie. Nulla di umano deve rimanerti alieno, nevvero? E tu, ovviamente, ambiresti ad eguagliare anche quel tuo mansueto gigante.

OTELLO                 - Quanto veleno in quell’ “anche”, Iago. Perché ti vuoi così male? Perché non fai nulla per aiutare gli altri ad esserti amici?

IAGO                       - Non ho bisogno di amici. E non li voglio. All’erta, tu. Fra la cosiddetta umanità e la pura e semplice retorica non c’è che un soffio. Come tra la politica e la demagogia, la stessa cosa.

OTELLO                 - Ma c’è.

IAGO                       - Ah sì? I nostri “fratelli”, eh, a tenersi compagnia. E gli altri, la moltitudine degli altri: quelli dall’altra parte, la parte sbagliata, la parte colpevole; alla quale restituiamo il colpo, da bravi ragionieri? Gli irregolari, i ribelli, i reietti, i nemici di sempre?... I vinti, Otello! Son molte le maniere di appartenere ai vinti.

OTELLO                 - Gli anarchici a tempo pieno come te, odiatori di ogni ordine e freno?

IAGO                       - Gli anarchici a tempo pieno come me, profetici del caos: gli appestati che hanno sempre torto – la sterminata, indistruttibile ombra che occupa l’abisso dell’animo umano - . Per essi, né tempo né memoria, né “vane parole sulle loro ceneri mute”: Catullo, te che invidi le citazioni. Non è difficile, credi, né divertente, rovesciare i vostri miti come una vecchia giacchetta logora che si pretende di sventolare, persuasi che si tratti di una gloriosa bandiera da venerare. Non c’è bisogno di essere dei problematici, proprio no. (uno sghignazzo) L’America è un errore, Otello.

OTELLO                 - E’ già stato detto.

IAGO                       - Il che non esclude che lo rimanga.

OTELLO                 - Certo. Però, costretti a scegliere tra errori diversi, è ancora sopportabile il meno peggio.

IAGO                       - E allora, diciamo: è un inganno, se preferisci.

OTELLO                 - La risposta non muta. Diventa solo più dolorosa.

IAGO                       - (sapiente nel vulnerare un punto nevralgico) Eppure, anche tu, in un certo senso, e nonostante tanti nonostanti, (in rallentare per meglio ferire) pare che, più di una volta, ti senta, ti sia sentito, relegato tra gli esclusi, i respinti… gli “altri”… le anime di seconda scelta, i fondi di magazzino…

OTELLO                 - (senza ira, non però senza una calma cruda e virile) Se dici negri basta una parola sola ad intenderci.

IAGO                       - E’ il tuo complesso, si sa.

OTELLO                 - Ma il fatto è, vedi, che ad onta di tutto, io persevero a credere in un paese che pur ci sottovaluta e ci emargina.

IAGO                       - Te? Emarginato? Sai quel che dici?

OTELLO                 - Non basta caricare uno di onori per renderlo uguale. Anzi, qualche volta è proprio un onore di più a marcare la differenza, allo stesso modo che una giustificazione non richiesta ribadisce una colpa… I miei, la mia gente, (un baleno appena di ferocia) mi concedi di servirmi di una parola infetta?, la mia “razza”, si emarginano; ed è lo stesso come si emarginasse me, sputi che sento arrivare sulle mie guance rispettate e riverite… Tuttavia, ci credo. Guai altrimenti. E, se vuoi, ci credo proprio a causa, che, a me, è toccato, o mi illudo che mi sia toccato, di contribuire ad affrettare il giorno in cui cesserà di sottovalutarci, e vi si sforza già.

IAGO                       - Ci credi, o si tratta soltanto di un’illusione per giustificare che lo servi, questo paese tanto generoso e invidiabile?

OTELLO                 - Lo servo perché ci credo.

IAGO                       - E non giudichi?

OTELLO                 - Si giudica forse il proprio padre, la propria madre?

IAGO                       - Altro se si giudicano! Solo i figli hanno diritto di giudicare i genitori, mettiamocelo finalmente in testa.

OTELLO                 - Credevo il contrario.

IAGO                       - Ti sbagliavi.

OTELLO                 - Vivendoti vicino, avvilisce il dubbio di uno che reciti la commedia del cinismo per mascherare nonsisaché… Cos’è, Iago? Con me potresti aprirti.

IAGO                       - L’ora è passata. Ci si conosce troppo, ormai, per conoscersi davvero.

OTELLO                 - Dici sempre il contrario di ciò che dovresti dire.

IAGO                       - Per paradossale che possa sembrare, solo conoscendosi poco, due possono sperare di conoscersi fino in fondo. Conoscersi vuol dire erigere muraglie fra due esseri. Più si grida e meno ci si sente… E si resta soli. La stazione terminale della conoscenza è la solitudine. È lì che devi scendere.

OTELLO                 - Ma si direbbe che tu ne abbia fatto la tua meta.

IAGO                       - Ne ho fatto il mio destino. Sai chi fu l’uomo più solo al mondo?... Giuda. E aveva le sue buone ragioni di essere Giuda. Ricordatene. E non scordarti nemmeno, se e quando fosse necessario, che, di quei dodici galantuomini, fu colui che dovette patire di più. Io lo so. Non domandarmi come.

OTELLO                 - (s t o n a t o , s t o n a t o) C’eri?

IAGO                       - Fa’ conto che ci fossi.

OTELLO    - La causa?

IAGO                       - Giovanni. Chi l’avrebbe detto? (quanto scherno!)

OTELLO                 - Il più mite, il più amato?

IAGO                       - E lui il meno. Non ti pare sufficiente?

OTELLO                 - (dopo una breve riflessione, tollerante, perfin dolce, ma fermo) Ma chi sei tu? Per te, pare non esistere nulla di sacro, nulla di serio, nulla di rispettabile, nulla degno di essere vissuto e per cui vivere… Chi sei?

IAGO                       - Si è quel che si è. Io non sono che un critico. È stato detto anche questo.

OTELLO                 - Il segreto del tuo pensare, il criterio del tuo agire: la ragione di essere come sei?... Mistero.

IAGO                       - La ragione del non esserci una ragione. Se ti può servire…

OTELLO                 - …Tutto al negativo. A caso, a capriccio…

IAGO                       - A destino, suona meglio; ci si sente più importanti. Angoscia, meglio ancora. Più umani. La stagione degli eroi è tramontata. Qualsiasi segno essi portino, ne abbiamo i coglioni pieni.

OTELLO                 - Nulla da fare: accettarti come sei, o non accettarti.

IAGO                       - Accettarmi – me, da me stesso accettarmi – o non accettarmi. È così breve la vita, Otello; un fiato di vento e via, passata, che non ti lascia tempo per scandagliare il fondo del tuo essere. Pizzicotti, un solletico e accontentarsi… E, poi, esiste un fondo?... E, se pure, a che scopo? In nome di che? Dio? Ma, se Dio ci fosse, che senso avrebbe aver messo, e poi lasciare, in circolazione uno come me? Una prova di modestia a dimostrazione fino a che punto possa arrivare anche lui quando sbaglia?... E’ già una fatica essere vivi e basta… Dio va e viene… E’ distratto e vagabondo. Né quando né dove dovrebbe essere reperibile, mai che si trovi. Sarà l’età.

OTELLO                 - Ti si chiedono cose e tu rispondi parole. Perché non hai fatto 10 scrittore? Mi sa che saresti riuscito meglio.

IAGO                       - La mia vita ho preferito l’errore di viverla alla scappatoia di scriverla. Mi son consapevolmente chiuso in galera colle mie mani e, poi, ho gettato le chiavi dalla finestra. Ma non potevo non farlo, se permetti. M’è parso più leale (completamente e unicamente a sé, per sé): un po’ meno ipocrita, lusso eccezionale per un ipocrita… se si tratta di un ipocrita. 11 tempo indispensabile a un immediato quanto sorprendente
capovolgimento istrionesco di tono e di ritmo, che però non spezza il
sotterraneo corso dello stesso pensiero. Tu, ad esempio, sentiamo: perché hai scelto la carriera militare?

OTELLO                 - Perché si comanda e si vince. Non ho scrupolo a confessarlo.

IAGO                       - Nessuna sorpresa. In te, lo trovo logico e coerente: ti risolveva il problema di tante frustrazioni: fornisco… eroismo, voi mi pagate in potere e onore. Ineccepibile.

OTELLO                 - E tu, allora – tu, bianco – perché? Non l’ho mai capito e non lo capisco.

IAGO                       - (non meno sincero, per una volta) Non l’ha mai capito nessuno e non lo poteva capire: perché si obbedisce e si perde. E io non ho vergogna a confessarlo. Una botta di silenzio dirompente come una cannonata.

OTELLO                 - (gridato o sottovoce, fa lo stesso) Tu?

IAGO                       - Io! Fatto personale. Non comunicabile: censura. E, poi, naturalmente, binocolo a tracolla e microscopio nel tascapane, uno passa la vita in esplorazione delle ragioni del proprio operare. Sul serio: sarebbe da ridere se non fosse da piangere: ed ecco, l’onesto Iago. Apri gli occhi, Otello!!... Indi, a chiusura di un’araldica pausa e dopo un ghigno che non è che un gemito mascherato dal proprio contrario: E, adesso, se mi rendi il mio calcagno, io ti restituisco il tuo scaleno, pardon: la tua indefettibile fede nell’umanità. Vince chi perde. Il massaggio è bene che si interrompa qui. Guai, di

IAGO                       - e di

OTELLO                 - fare un minestrone solo! Si offendono i numi. Assorto, purché non esageri, senza replicare,

OTELLO                  - cessa di massaggiarlo –l’aveva già fatto, come, l’amico, lui, prima, fra interruzioni e riprese alterne - , si infila in un accappatoio alquanto vistoso, gialli girasole e rossi scarlatti, non senza, involontariamente – ma lo si nota - , pavoneggiarsi alla specchiera; e si dirige verso l’uscita accompagnato dallo sguardo cupido dell’interlocutore; e nell’ammirazione incontenibile, il rasoio dell’ironia lo trattiene, un momento, sulla soglia.

IAGO                       - Non cessano di piacermi gli sfacciati squilli delle tue sfavillanti vestaglie esclamative, da eroico sceicco avvolto nei gloriosi stendardi delle proprie vittorie. Sei fatto per marciare; in testa, si capisce. E a cavallo, naturalmente.

OTELLO                 - (dimesso quanto l’altro è stato istrionico) In un’idea mi son nuovamente confermato, oggi.

IAGO                       - Cioè?

OTELLO                 - Non sei un uomo felice. E, ancora ancora, che, a riparare il tuo squallore, ti rimane il paravento della letteratura.

IAGO                       - La letteratura è solo quel che rimane quando non si ha più niente… E tu?

OTELLO                 - Io non sono infelice, proprio perché tra me e la vita non s’è messa di mezzo la letteratura a ripararmi. Certe medicine, quanto più salutari si credono, tanto più dannose si rivelano. Chissà… Vado ad istinto, io. Ancora una sbirciata allo specchio e non c’è più.

IAGO                       - (livido) … come i camion, a benzina! Se potesse, si infilerebbe l’anello al naso. E ci guadagnerebbe. Perché “non vuoi capire?” (e tutta altrettanto nevroticamente convulsa la successiva confessione…) Quanto temo lasciò passare, come cancellato, prima di balbettare il proprio segreto? …L’ebbrezza dell’umiliazione. Ed è così ogni giorno: la scusa di massaggiarsi il corpo per mendicare la carità di poter, un poco, massaggiarsi l’anima… Amplessi mostruosi. E non lo sa. Per lui, è normale solo ciò che è ragionevole… E’ sufficiente solo ciò che è consentito… E’ morale solo ciò che è confessabile… ed è intelligente solo ciò che è stupido. Il resto è silenzio. Sordo e cieco chi non sa ascoltare e scrutare sé stesso subendo, e accettando, la propria morte… Sempre lì, accasciato, chino il capo umiliato e colpevole, e gli occhi a terra, fissi sul drappo caduto dai fianchi dello scomparso. Lento, investito da un vero e proprio raptus crepuscolare, donde ogni precedente coercizione ragionevole uscirà scardinata; assediato da nemiche larve striscianti, nel sordo e cupo e inavvertito e tristo emergere della Natura finalmente insorvegliata, lo raccoglie, lo appallottola e lo scaglia contro lo specchio. Altro che medaglie! La sveglia al collo! E, ciononostante, l’aggressività già s’è fatta resa. Si alza in piedi, luminoso e fragile, va, ora, lui, davanti alla specchiera, si toglie, se l’aveva, il proprio asciugamano dia lombi, affrontando, ignudo, l’immagine riflessa di sé, così casta, così vulnerabile; e, possibilmente senza mai elevare il tono dell’autocrudeltà vitrea di una voce priva d’anima, colla lama gelida della sintassi rotta dall’allucinata isteria che lo travolge, in sommessa estenuazione, racconta se stesso senza carità come se si trattasse di un estraneo. Questo corpo bianco, superbo e umiliato di essere bianco… Madre maledetta, madre infame, madre oscena, puttana madre, che cominciasti a tradirmi prima ancora di spremermi dalla tua carne: mi credo io e sono te. Ecco la mia dannazione… Smaniavi per loro. Solamente quelli come lui sono veri maschi. Era la tua ossessione. Ed è la mia. Me l’attaccasti, codesta febbre, quella notte, coll’odio di te che è il pilastro della mia esistenza: il costo di quell’odio, da pagare fino alla tomba, debito inestinguibile. E attenta a precedermi sottoterra, che goda il pensiero di poter odiare il tuo cadavere imputridito… Fino alla morte, l’innocente che origliò quella notte dietro quell’uscio!... Eri scesa nella strada coll’ombrello, sotto la pioggia a cercarti il marinaio negro… Vi sorpresi nella livida fosforescenza del plenilunio che dilagava, dalla finestra aperta, sul vostro amplesso – e ogni goccia di sangue mi sfuggì dalle vene - : convulsi, sul gran letto della grande camera, dove mi avevi concepito e partorito. Spettacolo orrendo e inesplicabile… Il grasso animale buio dalle labbra tumide e voraci, ansimava e sudava sopra il tuo corpo minuto e luminoso… Cagna incalorita, ti dimenavi e mugolavi “ancora”, sotto di lui, senza conoscerne nemmeno il nome. Non facesti in tempo a chiederglielo. Nei casi come i tuoi, il nome lo si chiede sempre dopo, quando lo si chiede: “tu”, lo chiamavi “tu”, e parole impronunciabili, mai udite, e gemiti, appesi a quel “tu”… E il bimbo svenne, dietro l’uscio socchiuso… Nudi e risentiti di dover interrompere il bestiale orgasmo, al tonfo foste costretti a soccorrerlo adagiandolo sul letto sfatto, ancora caldo della vostra lussuria e madido dei vostri umori – E questa pelle non s’è mai più liberata di quel ribrezzo! - … Cogli occhi sbarrati, assistette al vostro irritato rivestirvi. Lui che bestemmiava col gran sesso ancora turgido; tu, il risentimento, in volto, di esserne privata… (un fievole gemito di fanciullo ferito a morte) E non seppi allora, e non so adesso, e non saprò mai vedervi con altri occhi, impiccato a vita a quella visione devastante, sempre scacciata e sempre richiamata, che, calpestandomi l’anima mi castrò il corpo… e amo solo mentendo di amare e di aver amato.. Non posso fare a meno di lui perché sono te, inchiodato a quell’ora di angoscia e di agonia. Lo amo perché tu lo avresti amato. Lo voglio, e non lo avrò, perché tu lo avresti voluto e lo avresti avuto. Avanza, automa, fino alla ribalta, collo sguardo perso; e, perentorio, non, con ciò, privo di un’esausta dolcezza, punta l’indice sulla platea. Voi, tanti e variamente infelici, non dimenticate: “il nostro motto deve essere: “che cosa t’hanno fatto, povero bambino mio?”. Si rende conto di aver citato, senza mutare una virgola, il principio enunciato da Freud, chiave di ogni umano dolore? O l’avrà fatto apposta? … Reprimere, dissimulare, fingere, negarsi, non voler conoscersi: il corto sollievo del rifugio nella maschera o il lungo tormento della privazione della maschera, ecco la malattia chiamata uomo: dalla culla alla bara, soffrire… e godere della propria sofferenza: far di due in amore un gemito solo!... (direttamente proprio nello specchio) Sono geloso di te che ne puoi essere invaso. (alto, ora, e aggressivo, ritornato lucido, consapevole di sé) Dannazione e beatitudine: ce l’ho radicato dentro come un cancro e la sua cura… Sozzo, lurido, nefando ed esecrato negro! Si può, dunque, amare chi si odia, ammirare chi si disprezza, provar ripugnanza per chi si desidera, anelare ad essere chi non si vorrebbe mai essere… offrirsi alla distruzione di chi si vorrebbe distruggere?!.. E sentirsi tanto vili da non trovare il coraggio di manifestare ciò che si è? Chi non azzarda il rischio di liberarsi dalla ragione, non speri di arrivare mai a se stesso. Raccoglie nuovamente l’asciugamano dell’odiatoamato e se lo preme convulsamente contro la faccia. Forse lo morde, forse lo bacia, forse è solo commedia. Ma, di colpo, sonnambulo restituito alla coscienza, calcolato istrione sardonico. No, no. Guai accettare di essere un personaggio e, poi, accanirsi a volerlo vivere diversamente da come fu creato, rimanendo il medesimo. È possibile far combaciare gli ardimenti dell’anarchico e le pusillanimità dello schiavo: odiare troppo perché sia soltanto odio, e troppo amare perché sia soltanto amore?! Dissonanza assordante: sbaragliato Belafonte. Dieu du ciel, quel dommage, c’est la folie: Iago, desolato eroe del male, maritato ad Amleto, mesto eroe del dubbio! È la catastrofe! Maledetta letteratura! (se crede, può usare l’esclamazione di didascalia in funzione di battuta di chiusura. È consapevole, fino in fondo, del gioco che sta conducendo, come – fischi permettendo – sarà palese a momenti). -3- Epiloghetto

DESDEMONA         - ed Emilia, attraversando il proscenio, estranee come due spettatrici in ritardo e già annoiate:

EMILIA                   - Uffa! Cambiamo cinematografo subito: hai capito? La solita storia di guerra, all’americana, col sergente che fa le bave contro il capitano, turbamenti da caserma: checche represse come uno yankee su tre.

DESDEMONA       - La mia impressione, piuttosto, è che non erano tipi da prender moglie; mi par chiaro, ecco tutto.

EMILIA                   - Non sono i soli.

DESDEMONA       - Trovi?

EMILIA    - Tu no?

DESDEMONA       - …Non si tratterà di una cosa reciproca, solo che il negro non se ne rende ancora conto? Il capitano col sergente nel cuore? Fa tenerezza.

EMILIA                   - E che altro intendevo? Questi militari! Non puoi lasciarli soli un momento. Incapaci di resistere alla tentazione di andar a letto assieme.

DESDEMONA       - Però, ci vanno, materialmente, di raro. Rimane solo una manfrina dell’amicizia.

EMILIA                   - Sta ben lì la loro ipocrisia.

DESDEMONA       - Sarà questo che li rende tutti isterici.

EMILIA                   - Vorrai dire vigliacchi.

DESDEMONA       - Beh, sai, mica possono scriverlo a casa alla moglie, siamo giuste.

EMILIA                   - Anche questo è vero.

DESDEMONA       - (una subita riflessione) … E, adesso, del fazzoletto che ce ne facciamo?

EMILIA                   - Che vuoi fartene? Come tutti i fazzoletti, ci si soffia il naso… Presto, se non vogliamo perdere l’ultima proiezione. Chissà che, a quest’ora, qualche bel fusto in congedo non lo si rimedi anche noi. In fondo, a tener aperti gli occhi e la pelle in allegria, alcuni vantaggi la pace li offre ancora.

FINE