Uomo sull’acqua

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Uomo sull'acqua

Commedia in tre atti e sei quadri di Enrico Bassano

PERSONAGGI

SIRENA

MARIANNE

MICHELE

PIETRO

NOSTROMO MARIO

GIOSUÈ

BARABAN71

dell' equipaggio della " speranza

IL PAGLIACCIO

IL CAPITANO RED

ANKER

PIT

POPY

IL GANIMEDE

IL FIDANZATO

LA FIDANZATA


ATTO PRIMO
QUADRO PRIMO

Prima dell'aprirsi del velario giunge al pub­blico il suono di una marcetta eseguita da uno sfiatato organino da baraccone, accom­pagnato da colpi di gong. Poi la musica cessa, e si ode la rauca voce del Capitano, che imbonisce il colto e l'inclita: « Entri­no, signori, favoriscano. Qui non si tratta del solito spettacolo da fiera, delle solite tur­lupinature al pubblico colto e pagante. Qui si osserva allo stato naturale, il più grande fenomeno del nostro secolo: la vera, l'au­tentica, la sola Sirena vivente! La Sirena marina, terrore dei pesci e dei marinai. La bella fra le belle, il mostro fra i mostri. Uni­co esemplare vivente: metà donna, metà pesce... Ai buoni posti, ai buoni posti. Lo spettacolo è per cominciare. Una lira gli adul­ti, cinquanta centesimi bambini e militari. Approfittino! (suono di marcia e di gong )

Si apre il velario

La scena rappresenta l'interno della baracca « Alla Sirena »; cartelloni vistosi alle pareti di tela, lume ad acetilene al centro, riflet­tente la sua luce sulla Sirena.La Sirena è ficcata fino al busto nel mezzo di una tavola mascherata da un tendaggio.Dietro al suo corpo, e posato sul piano della tavola, vi è una coda dì tela dipinta: la coda della Sirena.

Sirena                     - (indossa una camicetta rossa ab­bondantemente scollata; un fiore tra i ca­pelli; trucco vistoso, marcato, quasi violen­to. Mischia con gesto meccanico un mazzo di carte).

Il Ganimede           - (vecchiotto, con pretese di eleganza, guanti, bastoncino, capelli e baffi finti) Sempre ciui, signorina bella, in mezzo a questo mare di cartone... E... (a bassa vo­ce) quando finisce per voi questa tortura?

Sirena                     - (con voce volutamente attonita) Quale tortura, signore?

Ganimede              - Ma questa: starvene di conti­nuo ritta in mezzo a codesto trespolo, con la coda a molle nella tinozza...

Sirena                     - (seria) Mai, signore. Io vivo sem­pre così.

Ganimede              - (ride stridulo) Ah! questo, poi... Sentiamo (abbassando la voce, e appressandosi ancor più a Sirena) Se vi of­frissi di venire stasera a cena con me, accet­tereste ?

Sirena                     - Volentieri. Però non ve lo con­siglio. Ci fareste una figura buffìssima, voi, così elegante, con una donna come me sotto braccio: metà donna, metà pesce: la coda, la tinozza...

Ganimede              - Eh! via... non crederete ch'io beva le bubbole di quell'uomo... Siete una donna come tutte le altre.

Sirena                     - (civettando) Ne siete certo?

Ganimede              - Certissimo. Tanto è vero che ripeto l'invito: volete stasera, venire a cena con me?...

Sirena                     - Vi ho già detto: non sono la compagna che faccia per voi. Un uomo, quando porta al braccio una donna lo fa un po' per se, ma molto per gli altri. Che cosa penserà la gente, se vi farete vedere sotto-raccio di una povera Sirena spaesata?

Ganimede              - E dalli. Ma chi volete che ab­bocchi, al vostro trucco? Ma nemmeno più i ragazzini di cinque anni, ci vogliono cre­dere. Solo un pazzo, o un mezzo svampito,può lasciarsi imbottire il cranio di quello che dice, di là, il vostro capitano, ed entra­re per restare a bocca aperta innanzi a que­sta coda di cartone. Io non sono più un ra­gazzino, e nemmeno mi sento svampito. Mi piacete, vi offro la possibilità di dare un cal­cio alla baracca e al trespolo. In confidenza: ho dei quattrini, io.

Sirena                     - Oh! questo l'avevo già capito.

Ganimede              - Si vede, no, che sono « qual­cuno » ?

Sirena                     - Di prim'acchito. Appena siete entrato, mi sono detto: Toh! ecco un visita­tore che prima di uscire dalla baracca mi farà delle proposte concrete.

Ganimede              - Ah! sì, sì, vero? Lo avete capito subito. Siete intelligente, voi.

Sirena                     - Per esser donna soltanto a metà...

Ganimede              - E... dite, dite, che cosa e che vi ha fatto pensare... così, così e così?

Sirena                     - Gli occhi, signore. Lo sguardo. Ho imparato a giudicare gli uomini che cnfrano qui, prima ancora di vederli in viso. Sento il loro sguardo, capite?

Ganimede              - E il mio sguardo, allora?

Sirena                     - Ecco. Quando entrano i tipi come voi, io sento salirmi lungo la schiena, sulle spalle, qui alla nuca, un...

Ganimede              - (avvicinandosi, a bocca semi­aperta, sorriso ebete, mani tremanti) Un, un...

Sirena                     - (con voce pacata, entro cui trema un senso di disprezzo) Un grosso lumacone viscido senza guscio, signore, di quelli che in campagna, dopo gli acquazzoni, escono di sotto i muri, traversano strade e viotto­li, lasciando un solco lucido...

Ganimede              - (schizzando un salto indietro) Oè, dico, non mi pare che il vostro para­gone sia dettato dalla buona creanza...

Sirena                     - Può darsi. Però è sincero.

Ganimede              - Vi perdono, piccola birba che non siete altro, e vi rinnovo la mia offerta. Incominciate con il venire a cena con me, stasera. Non ve ne pentirete.

Sirena                     - Ma vi siete fissato a voler per­dere, per colpa mia, la vostra reputazione di uomo elegante e di buon gusto. Figura­tevi, tra l'altro, che io non mangio che pesci crudi...

Ganimede              - ...e mosche (rìde).

Sirena                     - (irosa) Questo lo dice il capitano, nel suo sproloquio al pubblico; ma le mo­sche le mangia lui, quando stringe di due buchi la cintola.

(Qualcuno del pubblico ride, staccandosi dai cartelli e venendo a Sirena).

Ganimede              - (ridendo a cascatellà) Ah! Ah! Il capitano mangiamosene.

Il Cap.                    - (che ha udito, affacciandosi da un lembo della tenda sollevata) Che c'è? (Av­vicinandosi a Sirena, sottovoce) Che hai da ridere? Alle mie spalle... al solito. Bada, bada. (Stringe lo scudiscio, rabbiosamente). Se non la smetti ti accarezzo le spalle.

Sirena                     - (sfidando) Provati. Fallo subito, se ne hai il coraggio...

Capitano                - (allarmato, cerca distrarre il pubblico, per tema che sorprenda le parole dì Sirena) La nostra Sirena e bravissima nel gioco delle carte; con solo cinquanta cente­simi si può conoscere l'avvenire senza fallo: il futuro svelato!

Sirena                     - (mischiando le carte, con gesto au­tomatico, e scandendo le battute con voce fredda e lontana) La buona ventura della Sirena: amore, affari e fatti di famiglia; na­scite e matrimoni; guadagni e ricchezze; guardarsi dai nemici e dai falsi amici; ricer­ca della donna del cuore; il domani svelato con la magìa delle carte.

Ganimede              - (sborsando al Capitano 50 cen­tesimi) Eccovi la moneta. Sentiamo quel che dicono le carte.

Sirena                     - (mentre il Capitano esce, incomin­cia a disporre le carte innanzi a sé; ha as­sunto un aria strana, assente, irreale. La sua voce è senza echi) Buona ventura per la persona che mi sta innanzi. C'è una via la­stricata d'oro che accompagna i suoi passi. Un uomo — forse fratello — che gli vuol molto bene. E c'è una donna. Aspettate. Ancora non vedo il viso di questa donna... (trasalendo sinceramente).

Ganimede              - (ridendo) Picche?

Sirena                     - (seria) Non ridete. Non bisogna ridere delle carte: dicono sempre la verità.

Ganimede              - Storie. Questa donna?

Sirena                     - Vi farà del male, se non l'abban­donerete, o, se ancora non l'avete conosciuta, non saprete sfuggirle subito... Una donna malvagia. Io la vedo. Perfida; ha in mano un serpe, e un altro serpe attorcigliato sul cuore... Una donna che vi farà molto male...Guardatevene...

Ganimede              - (scompigliandole le carte) Me ne infischio, io, di queste buffonate. (Piano) Mi piacete voi, e basta. Non avete serpi in­torno...

Sirena                     - Chissà...

Ganimede              - (avvicinandosi ancor più, e ten­tando una carezza al seno di Sirena) Al­lora? Accettate?

Sirena                     - (fa l'atto di appioppargli un cef­fone) Bada, brutta scimmia... Se mi tocchi ti faccio ingoiare la dentiera.

Ganimede              - (va alla porta d'uscita e urla inviperito) Maleducata! non metterò mai più piede in questa lurida baracca... (esce).

Capitano                - (entrando) Che cosa è succes­so?... Che nuovo guaio mi hai combinato?

Sirena                     - (indifferente) Un vecchio maiale che mi annoiava. Gli ho detto due paroline.

 Capitano               - Così ti fai i clienti, vero? Son queste le maniere per attirare il pubblico, no? Bada! (la minaccia con lo scudiscio).

Sirena                     - (ravviandosi i capelli) Io sono qui per fare la Sirena, dire la buona ventu­ra, comunicare la scossa elettrica con la ma­no. Non c'è altro in contratto. 11 resto è af-far mio.

Capitano                - È affare tuo portarti chi ti pia­ce in carovana, per esempio?

Sirena                     - (provocante) Mio. Mio.

Capitano                - (iroso) E io non conto, vero? Che cosa sono io, qui?...

Sirena                     - Sci il capitano, con la frusta e le medaglie. Sei il padrone della Sirena. Di questa    - (accenna) con la coda, le carte, il trespolo. Non di quell'altra, che esce tutta donna, e fa quel le pare, in carovana e fuo ri... (ride stridula). Non garba al capitano, questo?

Capitano                - (a denti stretti) Ti frusterei, a sangue...

Sirena                     - (calma) L'hai già fatto.

Capitano                - Ancora, ancora. Fino a piegar­ti schiena e orgoglio. Farti diventare un'agnella.

Sirena                     - Perché il lupo mi possa mangiare meglio, no? Ma preferisco rimanere Sirena. A incantare gli uomini, e Ì capitani, per giunta.

Capitano                - (quasi supplichevole) Ho fat­to molto, per te...

Sirena                     - Mi hai sfruttata e mi sfrutti.

Capitano                - Non è vero, tu sai che non è vero...

Sirena                     - Sfrutti me, come hai sfruttato mio padre, quando dirigevate il Circo. E io pago. Senza essere capace di ribellarmi, di piantare te e la tua sudicia baracca, per sem­pre. Sono inchiodata qui, a queste prigioni di tela, dove sono nata e vissuta, per mia di­sperazione. (Con intenzione) Ma un giorno o l'altro...

Capitano                - Che farai, un giorno o l'altro?

Sirena                     - Nulla. Lo so io  - (risolino).

Capitano                - (alzando la frusta) Che cosa minacci, tu? Ti capisco sai.

Sirena                     - Non puoi capire. Non capirai mai nulla.

Capitano                - Mi vuoi mandare in rovina. Piantarmi. Ma bada. Se mi scappi, ti saprò raggiungere. Ma non sfuggirai, canaglia che sei! (Le lascia cadere lo scudiscio sulle spal­le).

Sirena                     - (getta un grido) Ah! Vigliacco!

Capitano                - Guai a te se ti muovi, guai a te se gridi.

Sirena                     - Sono stanca, maledetto. Ne ho abbastanza di te e della baracca. Basta.

Capitano                - Vuoi tornartene in mare, con la coda e la tinozza? Un giorno ti ci man­derò davvero, a far compagnia ai pesci. Ve­drai che bella lezione di nuoto.

Sirena                     - (dopo un silenzio ravviandosi i ca­pelli) Ho già imparato a nuotare da me. Vedrai. (Ride).

Capitano                - (mordendosi le mani) Se non vo via mi rovino. Sei una perfida maledetta. E maledetto il giorno che mi sei capitata fra i piedi. (Esce).

Sirena                     - (risolino canzonatore. Incomincia a disporre le carte per un solitario. Suono di campane: giunge la voce del Capitano che imbonisce).

Voce del Cap.        - Entrino, signori, ai buoni posti. Nel nostro padiglione potranno am­mirare la Sirena adescatrice dei marinai, la cantatrice meravigliosa che col suo canto at­tira gli uomini e li tramuta in pesci...

Sirena                     - (durante l'imbonimento ha conti­nuato a disporre le carte davanti a sé. Ad un tratto trasalisce, afferra una carta con gioia, quasi fa l'atto di baciarla. Poi incredula, crolla il capo, la rimette con le altre).

Michele                  - (sollevando un lembo della ten­da rossa, compare sui gradini dell'ingresso. È giovane vent'anni - ma non ha la flori­dezza del beato ragazzone: viso scavato e un poco patito; veste un camiciotto ampio, sul tipo della blusa marinara, in ruvida stof­fa blu, e pantaloni ampi, della stessa stoffa; in capo un berretto a sghembo, con la scritta sul nastro « Speranza ». Si ferma un istante. Guarda nell'interno con aria attonita e so­spettosa).

Voce del Cap.        - Che cosa si paga, per ve­dere allo stato naturale questo fenomeno mondiale? Ho vergogna di dirlo: la misera moneta di cinquanta centesimi. La più grande curiosità del secolo alla portata di tutti. Mezza lira. Ai buoni posti. (Campana, gong, marcetta dell'organino sfiatato).

Michele                  - (discende lentamente i tre gra­dini dell'ingresso, s'avvicina impacciato, gof­fo, incuriosito al trespolo della Sirena. Ma rimane ad una certa distanza, senza fiatare).

Sirena                     - (lo osserva trasalendo. Poi gli fa con la mano un cenno: avvicinarsi).

Michele                  - (non capisce: si guarda alle spalle).

Sirena                     - (ridendo) No, no. Dico proprio a lei. Mi venga più vicino.

Michele                  - (fa due passi innanzi).

Sirena                     - Più vicino. Ha paura?

Michele                  - Questo poi! (Le va accanto spa­valdo).

Sirena                     - Bravo. Ce n'è voluto. Vuol darmi la mano?

Michele                  - O perché?

Sirena                     - Le faccio sentire la forza elettri­ca delle onde marine...

Michele                  - (ridendo canzonatorio) Ma senti. La forza elettrica delle onde... (Ride). Questa è buffa, sai.

Sirena                     - Non rida. (Gli afferra la mano).

Michele                  - (facendo un salto) Accidenti. Ma che ci hai, lì dentro?

Sirena                     - Ha sentito? Ho il corpo carico di elettricità marina. Adesso non ride più.

Michele                  - Che c'entra? Non ho mica paura.

Sirena                     - Lo credo bene: un marinaio co­me lei.

Michele                  - (con orgoglio) Della « Speran­za ». Conosci?

Sirena                     - No.

Michele                  - Un barco da re, corpo... Ha più vele che scafo. Fila come un demonio (Pau­sa. Timido) Vuoi vederlo?

Sirena                     - Magari. Ma non posso lasciare la baracca; con questa coda.

Michele                  - Via, non fare anche con me la burletta.

Sirena                     - Quale burletta? Sono nata, così. È il mio destino, vivere nell'acqua. Metà donna, metà pesce.

Michele                  - O via! (Deciso, fa l'atto di af­ferrare la coda).

Sirena                     - (con voluta esagerazione) Bada! Puoi rimanere fulminato.

Michele                  - (dà un balzo indietro, con comi­co spavento) Oè, dico, fai sul serio?

Sirena                     - (con tutta serietà) Provati. Non saresti il primo a fare questa fine.

Michele                  - (allunga una mano, poi la ritrae) È buffa, questa storia. Me la raccontava il Mattarana, un vecchio marinaio barbogio, del mio paese. Diceva di averle vedute tan­te volte, le Sirene, nelle notti di cippa bian­ca. Spuntavano sulle onde, diceva il Matta-rana, come cavalli marini. Sotto la luna, in­cominciavano a girare intorno al barco, can­tando, ridendo, spruzzando acqua addosso ai marinai che s'affacciavano dal bordo, con le mani tese a ghermirle. Ma se un uomo ca­deva in mare, non si salvava più. Le sirene f;li erano subito intorno, lo afferravano per a giubba, lo trascinavano giù, giù, sempre più giù, nei loro covi di corallo. (Quasi, nel racconto. Michele ha creduto alle sue paro­le. Una pausa. Si distoglie con una risata). Sciocchezze di vecchi marinai rincitrulliti dal gran girare intorno al mondo. Io ero bambino, quando il Mattarana mi racconta­va queste favole. E ci credevo. E le sognavo anche di notte. Adesso...

Sirena                     - Non credi più vero? Hai torto. Intanto io son qui e puoi vedermi, no?

Michele                  - Ma tu sei una donna come tut­te le altre, via. È tutto un imbroglio, questo. (Pausa, poi, con semplicità). Sei più bella delle altre, però.

Sirena                     - Toh! Già te ne sei accorto?

Michele                  - Ti conoscevo, io. Da tre giorni.

Sirena                     - Sei venuto qui altre volte? Non ti ho mai veduto.

Michele                  - Ti guardavo da quella fessura. Avevo... Ecco. Avevo vergogna, di entrare qui dentro. Un marinaio, farsi canzonare da quell'uomo che racconta un sacco di fesse­rie... Ma da quando la « Speranza » è in porto, io sono venuto ogni giorno al Luna Park. Mi piace stare qui dentro, in mezzo a questo mondo alla rovescia. Mi mettevo là a spiarti... Ho visto tante cose... Sei proprio bella, ecco.

Sirena                     - Come lo dici bene.

Michele                  - No, che c'entra? Non te lo dico per complimento. Io, quando penso una cosa, la dico. Per questo il nostromo mi chiama sempre « tonno »... Se tu fossi brut­ta...

Sirena                     - Me lo avresti detto sul muso, no?

Michele                  - Non sarei entrato per vederti da vicino. Sono stato delle ore, là, davanti all'ingresso, a sentire parlare quel bestione, e a far ballare nella tasca i cinquanta cente­simi. Non mi riusciva di decidermi. Avevo i piedi inchiodati.

Sirena                     - Hai viaggiato molto?

Michele                  - Sono in mare da tanto tem­po... Mi sembra d'esserci nato.

Sirena                     - Così giovane. Un ragazzo.

Michele                  - Ho cominciato a dieci anni, da mozzo. Avrei potuto fare carriera, se fossi andato sui grandi piroscafi. Preferisco la ve­la. Lo « Speranza » è uno dei pochi barchi che rimangono, della marina a vela.

Sirena                     - E la tua casa?

 Michele                 - Sulla « Speranza ». Tutto là. Non ho più nessuno, a terra.

Sirena                     - Nessuno?

Michele                  - (soffiando sul palmo della mano) Così.

Sirena                     - Nemmeno una piccola fidanzata?

Michele                  - Niente. Non mi piacciono le donne dei porti. Sono carne di tutti. E non mi piacciono neppure le ragazze del mio pae­se, brutte e sgraziate, con le mani rosse come salsicciotti... Le prendevo, sì, quando ne ave­vo voglia, ma poi mi vergognavo di me stesso... Vorrei una donna... (guardandola, franco, con semplicità). Come te, ecco.

Sirena                     - Ma guarda. Ti piaccio?

Michele                  - Tanto. Come nessun'altra don­na. E sì che ne ho vedute delle donne, io. Di tutti i colori. Ma come te, mai. Hai qual­che cosa... Non ti so dire. Ho fatto con te come fa il nostromo col vento: ti ho sentito prima di vederti. Così, al fiuto. Poi ho im­parato a conoscerti, di là, dallo spiraglio. So che quell'uomo ti batte. Che sci stanca. Che vuoi piantare lui e la baracca.

Sirena                     - Non è vero.

Michele                  - Non dire bugie, adesso. Guasti tutto. È così bello essere sinceri.

Sirena                     - Ma è diffìcile.

Michele                  - No. Basta che tu pensi a que­sto: io sono schietto, con te. Perché non do­vresti fare altrettanto tu, con me?

Sirena                     - Già. Così è molto più facile. (Pausa). Sai, qui dentro, è come se fossi alla berlina. Conosci il gioco? Ognuno dice la sua. E io lì ad ascoltare tutti. Per forza si arriva ad inventare bugie. Per difendersi.

Michele                  - Lo credo bene. Ma non lo me­riti, tu, di vivere a questo modo. Sei una brava ragazza, tu.

Sirena                     - Meno di quanto credi.

Michele                  - Me ne intendo, io. E' la vita, che è una cosa sporca. Magari uno è nato per fare del bene... Vedi, a bordo, per esempio, ai più buoni, giù sul groppone tutti i avori grossi, tutte le grane, tutti gli imbro­gli di trinchetto da rimettere in sesto. Fin­ché uno, dalli e dalli, si ribella, sfascia qual­che zucca con un colpo di bossello, e da quel momento tutti incominciano a rispettarlo. (Semplice) Io ho fatto così, e me ne trovo bene.

Sirena                     - Sei un uomo. Puoi fare quello che vuoi, andare, venire, girare il mondo, prendere tutte le donne che ti piacciono, pian­tarle, riprenderle. Libero, come l'aria. Io so­no una chiava. Di tutti. Sempre inchiodata a terra, in qualsiasi luogo ove mi trovo, ca­tene ai polsi e alle caviglie. Prigioniera.

Michele                  - (semplice, senza esitare) Senti, se tu lo vuoi, ti libero io. Subito. Domani tu sei libera.

Sirena                     - Che ragazzo, sci. Credi di poter

tutto, tu.

Michele                  - (esaltandosi) Dimmi di sì. Vie­ni via. Ti porto in un paese che conosco io, piccolo come una scodella, tutto sul mare. Io troverò del lavoro a terra, in qualche fab­brica, a qualche mestiere. Ti sposo, dì. Giu­ro: ti sposo.

Sirena                     - Che matto! Ma lo sai quello che dici? Hai bevuto?...

Michele                  - Non un goccio. Guardami ne­gli occhi: sono da ubriaco? So quello che dico. Vedi, prima di entrare, qui, ieri, ieri l'altro, io già lo sapevo, che se ti avessi po­tuto parlare sarei arrivato a questo. (Piano) Non si può stare soli, al mondo. Non c'è scopo. Io, te l'ho detto, sono solo. Anche tu lo sei. Vedrai.

Sirena                     - Matto. Matto. Un uomo di mare come te, che ad un tratto pianta le zampe a terra, e in mare non ci torna più... Non ti ci vedo, bello mio. Dopo un mese malediresti me e la buona stella che mi ti ha portato accanto. Vi conosco. E so quel che ci vuole, per voi. Una gran sgroppata, che vi cavi tutti i grilli. Poi doccia fredda, e via fischiet­tando senza voltarvi indietro. Dì, è così?

Michele                  - Non mi conosci. (Risoluto). Adesso chiamo quell'uomo dalle medaglie.

Sirena                     - (con un grido) Ma che ti salta? Che vuoi da lui?

Michele                  - Ho deciso. Gli dico che ti la­sci libera. Se acconsente, bene. Se no (inco­mincia a rimboccarsi le maniche) prima lo addormento con due iniezioni di sonnifero marca « Speranza » (accenna a un « dop­pio ») poi dò fuoco alla baracca e si fila di galoppo.

Sirena                     - Ma sei così ragazzo?

Michele                  - Non ho più tempo per ra­gionare. (Togliendo da una tasca aperta sul petto un fazzoletto) Qui dentro ci son quat trini. Pochi, che in sei giorni di terra i ri­sparmi se ne sono andati. Ma basteranno per raggiungere il paese che ti ho detto. Si fan­no subito le pubblicazioni...

Sirena                     - Quali pubblicazioni?

Michele                  - Per sposarci. Ti sposo. Sai, non voglio mettere al mondo bastardi. A bordo c'è un compagno che non sa nulla di madre ne di padre. Ci piange su, come se la colpa fosse sua. I nostri figliuoli...

Sirena                     - (s'intenerisce. Ma per non darlo a vedere, ride sguaiata, coprendosi la bocca con una mano aperta) Che buffo, che buffo che sei! Nemmeno mi conosce, non sa nulla di me, del mio passato... E lui sposa, mette ca­sa, semina figli... Ma guardami, vieni qui. (Lo fissa sotto la luce, gli passa una mano tra i capelli, quasi ha voglia di abbandonar-glisi sul petto, ma si trattiene) Si vede che sei un buon ragazzo: hai gli occhi buoni, tu. E che bei capelli fini. Non se ne vedono so­vente, dei marinai come te. Devi piacere a tutte le donne che incontri, no?

Michele                  - (crolla le spalle).

Sirena                     - (come tra sé) Bisogna acconten­tarlo. Buffo.

Michele                  - (impaziente) Adesso chiamo il Capitano.

Sirena                     - Non fare lo sciocco, adesso. Se quello capisce il tiro, lo vedi che ti combina. Chiama la forza, ti fa arrestare, e tutti i tuoi bei disegni finiscono in guardina. Se proprio Io vuoi...

Michele                  - (afferrandole una mano e bacian­dola) Ti sei decisa? Vieni con me?

Sirena                     - Aspetta. Non sono abituata a fare i conti prima, ma con un tipo come te bisogna davvero stendere i patti.

Michele                  - Tutto quello che vuoi tu. (E-saltandosì) Purché tu non torni più indie­tro, con questa decisione! (Facendo due pas­si di danza, e stringendosi il capo tra le ma­ni) Vieni con me, vieni con me. Mia, mia. Ci credi? Ballerei, dalla gioia. È da giorni che mi rimugino qui dentro questo pensie­ro. Oh! se avessi saputo prima che mi avre­sti detto di sì, a quest'ora...

Michele                  - (supplichevole) Resta con me...

Sirena                     - È inutile. Dovresti lasciare la tua » Speranza ». Piantare il tuo viaggio... non si può, non si deve. (Gettandosi supina sul letto).

Michele                  - Si può, se si vuole.

Sirena                     - Non bisogna volere. (Pausa). Dì, dove andate?

Michele                  - Alle Isole della Fortuna.

Sirena                     - Lontano?

Michele                  - Molto. Tanto mare. (Esaltan­dosi). Sono isole bellissime. Un paradiso, dicono i mici compagni. Tutte verdi, piene colme di fiori strani. Un gran profumo. De­ve sembrare un sogno.

Sirena                     - Lo vedi, come sei già lontano? Voialtri, uomini di mare, non si riesce mai a capirvi. Quando siete là in mezzo, con tutta quell'acqua intorno, smaniate per la terraferma, sognate montagne e prati, non vedete Torà di arrivare al primo porto per mettere le radici sulla banchina, e scendete pestando forte i piedi, come se voleste far la terra tutta vostra. Poi, dopo un po' di tempo che siete qui, vi piglia la smania dell'acqua. E girate per la casa come mosche senza ca­po, e fantasticate di viaggi e di lontananze, e morite dalla voglia sulla punta dei moli, mordendovi le mani ad ogni nave che passa. Si è mai visto gente più strana? (Pausa). Va. I tuoi compagni saranno già a bordo.

Michele                  - Non ancora. Erano tutti giù nella taverna, quando siamo entrati, io e te. C'era il nostromo, che mi ha fatto l'occhiet­to. (Ride). È un bel tipo il nostromo. A bordo sembra un orco, tanto è severo, urlo­ne, cattivo. A terra diventa un ragazzo, come noi, peggio di noi. Beve, canta, ride, poi fa a cazzotti con tutti. Certe volte bisogna por­tarlo a bordo di peso. E Pietro? È il mio migliore amico: un fratello. Sai, una sera, a San Domingo, nelle grandi Antille, mi ha salvato la vita. Tornavamo a bordo dopo una notte di bisboccia: (esaltandosi) canta­vamo come matti; ad un tratto, a capo di una viuzza, un gruppo di negri più matti di noi ci circonda e giù botte. Stelle e saette da tutte le parti. A un certo punto un negro, alto come una montagna, mi prende di mira con un coltellaccio e me lo scaglia contro. Pietro, che ha visto, mi dà una spinta del diavolo, e si busca la lama lui, qui, tra una costola e l'altra. Due mesi d'ospedale. Poi dì nuovo per il mare, di qua, di là... Ah! bella vita!

Sirena                     - Come sei già lontano... Sei già in mezzo al mare.

Michele                  - Sono qui, qui, vicino a te. A te.

Sirena                     - Lo dici male. Senza fuoco. (Pau­sa). È passato tutto.

 Michele                 - Non è vero, ti giuro, non è vero. Perché non mi vuoi più credere, ades­so? (Si bussa all'uscio, violentemente).

Michele                  - Chi è là?

Voce                      - La polizia, aprite!

Michele                  - La polizia?

Sirena                     - Non abbiamo nulla da temere: apri.

(Michele apre la porta: entrano, facendo un baccano del diavolo, il Nostromo, Pietro, Mario, Giosuè, Baraban: tutti marinai del­la « Speranza »).

Nostromo               - (ridendo da orco) Ah! ah! La polizia! (Rifacendo la voce) «La polizia, aprite!». Ah! E lui apre. Il solito « tonno ».

Pietro                     - (a Sirena, che si è messa a sedere tranquillamente sul letto, e si accende una si' garetta) E qui, guardate, c'è il contrabban­do. Accidenti, genere privato. Ha buon gusto, il nostro Michele! (Tenta un ganascino).

Sirena                     - Giù le zampe, scimmione. (Fa l'atto dì appioppargli uno schiaffo).

Nostromo               - È fiera la ragazza. Bel bocco­ne, Michele! (Gli batte sulle spalle). Tutti così, quelli della « Speranza ». In ogni por­to, piazza pulita. E gli altri si leccano le labbra, come il gatto sulla porta della cam­busa.

Mario                     - Viva quelli della « Speranza ».

Tutti                       - (sollevando i berretti) Hcp! hep! hcp!

Giosuè                    - E Michele, con quell'aria da san­tino... Andatevi a fidare.

Michele                  - Mi avete annoiato. Filate via. Fo quel che mi pare e piace. Se non fosse perché temo di dare delle noie a lei, lo ve­dreste...

Nostromo               - (afferrandolo per la collottola) Ragazzo, non fare lo scemo. Tra poco si parte.

Pietro                     - (inchinandosi comicamente innanzi a Sirena) Scusateci, bella ragazza, ma vogliamo troppo bene a Michelaccio nostro per asciarlo a terra, fra le vostre morbide brac­cia.

Sirena                     - Stavo proprio per spedirlo a bor­do, il vostro cherubino.

Nostromo               - Ah! Ah! Il cherubino. Buona, questa. La metteremo in salamoia...

Michele                  - (seccato) Ma si può sapere che cosa volete da me? Chi vi ha chiamato?

Nostromo               - Pietro     - A bordo, caro: si parte. Resti a terra, tu?

Mario                     - A fare il pascià?

Giosuè                    - H cherubino?

 Baraban                 - (che è muto, gli rivolge alcuni segni, come a dire; se non vieni noi ce ne andiamo senza di te, hai capito?).

Michele                  - Andate. Verrò poi. Vi raggiun­gerò.

Nostromo               - (afferrandolo sottobraccio) Non fare il « tonno »: conosco come vanno a finire queste storie. Tu perdi l'imbarco. E mi tocca denunciarti, sporcare un sacco di scartoffie, andare dal console, farti sgnacca­re dentro. Niente. Via. Dalle un bel bacino e arrivederci mai più.

(Tutti vociando, afferrandolo, gli son intor­no. Pietro lo prende sottobraccio).

Michele                  - (risoluto) Non parto più.

Pietro                     - Non fare il tonno davvero. Ma che ti salta? Per una femminetta... Dì, hai preso un colpo di sole?

Michele                  - (tentando svincolarsi) Lasciami.

Pietro                     - Nemmeno se ti metti a fare le capriole come i delfini.

Michele                  - Lasciami. (Tenta liberarsi, ma anche il Nostromo lo afferra).

Pietro                     - (a Sirena) Diteglielo voi, di non fare lo scemo.

Sirena                     - (pacata) Glie l'ho già detto. S'è fissato.

Pietro                     - Lo senti? È lei che te lo dice.

Sirena                     - Se ve ne andate tutti fuor dai piedi mi fate un gran regalo.

Nostromo               - Ah! Questo sì, che si chiama ragionare. Hai sentito?

Michele                  - Dice a voi. (Cercando di svin­colarsi). E lasciatemi.

Pietro                     - Niente. Si va?

Nostromo               - (afferrando Michele per la col­lottola, e portandolo accanto a Sirena) Va'; dalle il bacio dell'addio!

Sirena                     - (difendendosi) Andate, brutta gente della malora.

Michele                  - (si scioglie, strappa dal berretto il nastro della « Speranza », lo getta a Si­rena) Ci rivedremo presto!

Nostromo               - Sì; domani siamo di ritorno, con il diretto delle 11,40. Vieni alla stazione, bambolina!

Michele                  - Arrivederci! (Lo trascinano via, tra nuovi urlacci, risate, scrolloni). (Pausa. Il vociare si allontana. Sirena è ri­masta seduta sul letto, le gambe penzoloni. Ha il nastro del berretto tra le mani).

Sirena                     - (legge, compitando faticosamente) S-p-e... S-p-e-r-a-n... Spe-ran-za! (Pausa. Sollevando lo sguardo, stiracchiando braccia € gambe, gettando la testa indietro). Però, che stupido, quel ragazzo...

(Si chiude il velario)

ATTO SECONDO
QUADRO TERZO

La cameretta dell'equipaggio a bordo della « Speranza »; i marinai entrano passando at­traverso una botola aperta in alto, e scen­dendo una scaletta. Cuccette. Un lume appe so al centro. Coricati in cuccetta Mario. Giosuè, Baraban; Pietro rammenda una camicia, sotto la lampada. Luce fioca intor­no. Un lungo silenzio. Si ode lo sciabordìo dell'acqua contro ì fianchi del veliero.

Giosuè                   - (svegliandosi e stirando le braccia con un grugnito) Che ora è?

Pietro                     - Le dieci.

Giosuè                    - Precise?

Pietro                     - Quasi. Mancherà un quarto.

Giosuè                    - (scendendo dalla cuccetta e gettan­do uno sguardo attraverso la botola) Sempre bonaccia bianca. Non c'è una bava d'a­ria. Se continua di questo passo, tra un an­no, saremo ancora qui, a lappare.

Pietro                     - Se avevi fretta, dovevi imbarcarti sui transatlantici di lusso. Là si corre. Si par­te e si arriva con gli orari. Una bellezza.

Giosuè                    - Puah! Io voglio fare il marinaio sul serio, non l'impiegato di ferrovia sui l'acqua.

Pietro                     - Allora sei a posto, e goditela. Qui non si sa mai quando si parte, meno ancora quando si arriva.

Giosuè                    - Però mi annoio. Ci vorrebbe un po' di navigazione ballerina.

Pietro                     - S'eri con noi l'altro viaggio, te ne saresti levata la voglia. Quindici giorni di fila a ballare. E perdemmo il timone, e il trinchetto, e i velacci. Una bellezza. Tutta la galletta a mare, ai pescicani. E noi a stringere le cintole. Baraban, dalla fame, mangiò due lecche di sapone, e di notte russando, mandò fuori le bolle dal naso. Bel divertimento, neh? Ma tu non c'eri...

Giosuè                    - Facevo il fesso a terra, in offi­cina. (Pausa). Ma adesso l'ho vinta. Sono qui. Ci sto bene.

Pietro                     - Te ne stuferai, come Michele.

Giosuè                    - Michele ha il cervello storto. Chi ci capisce più niente, in quel tipo lì?

Pietro                     - Scenderà dalla guardia, tra poco. Ci racconterà che di lassù ha veduto le sire­ne a sciami, che lo chiamavano...

Giosuè                    - (sghignazzando) Come le donne dei porti: psss, moretto! psss, biondino!

Pietro                     - E lui a tapparsi le orecchie, per non udire.

Giosuè                    - Ti dico io. Ma è sempre stato così?

Pietro                     - Macché. È dall'ultimo porto. Fu quella ragazza delle baracche. L'ha stregato.

Giosuè                    - E lui a dire: non so nulla, non voglio dirvi nulla! Dì; sul letto, era lei; con le gambe penzoloni e le braccia nude. E Mi­chele con il berretto in testa, e la blusa allac­ciata fino al mento. « Non so nulla, non vi dico nulla»! Gran contessa, da salvarle la reputazione. Come tutte le altre, puah!

Pietro                     - Questo non si può sapere. Ci so­no certi tipi che con un Michele qualunquesaltano il fosso senza pensarci su due volte, e poi sono capaci di fare le schizzinose ai signoroni con i brillanti grossi come Pova di gallina. Con Michele...

Giosuè                    - Sì, è vero? E con uno di noi... Con me o con te, niente, vero? Ma va! (Incomincia a prepararsi per la guardia, in­fila la blusa, si dà una sciacquata nell'acqua d'un catino). Con lui sì, e con me no? Ti dico io. Con uno scudo c'era da farla ballare per una settimana. Senti: non le posso sof­frire certe smancerie. Quando si torna a quel porto, vo a cercarla nel baraccone, e le man-io anche la coda di cartapesta. E lui, ve-rai, con tanto di naso... (S'avvia su per la scala). Con due soldi di castagne e mezza allctta, voglio comperare la contessa delle aracche... (Scompare).

(Silenzio. Pietro riprende a rammendare, sotto la lampada. Poi va alla sua cuccetta, ritorna con un cofanetto, incomincia a cer­carvi dentro: ne trae una vecchia lettera;

(legge)

Michele                  - (discende lentamente la scala,arriva accanto a Pietro, siede a terra. Af­franto) Quando tocca a te?

Pietro                     - Dopo. Dò il cambio a Giosuè.

Michele                  - Sarà l'alba. E intanto adesso non si può dormire. C'è un chiarore, fuori, che mi è entrato nel cervello, e non se ne va più. Questa luna.

Pietro                     - Bambinate. E vuoi preoccuparti della luna, del chiarore, dell'alba... Ma che uomo sei? Ti pare che noi s'abbia il tempo di pensare a queste piccolezze? Coi monsoni che ti possono agguantare da un momento all'altro, e mandarti a preparare la zuppa d'uomo ai pescicani?

Michele                  - Me ne infischio, io, dei mon­soni.

Pietro                     - A parole.

Michele                  - Vorrei arrivassero di schianto, senza neppure darci un segno d'avviso.

Pietro                     - (facendo corna) Sci scemo! O che ti è entrato in quella testacela? Ma lo sai che sei buffo forte?

Michele                  - (avvicinandosi ancora a Pietro) Non ne posso più, Pietro.

Pietro                     - Eh! Lo vedo bene. Ma che ci posso fare, io?

Michele                  - (risoluto) Al primo porto, sbarco e me ne torno...

Pietro                     - ... a casa, a far la pappa...

Michele                  - Smettila. (Piano) Torno da lei.

Pietro                     - Bravo. Idea magnifica. Un'idea da brodo, come dice il nostromo. (Guardan­do fisso Michele, e piantandogli un dito in fronte). Sei scemo, lì...

Michele                  - (appressandosi) Ascolta, Pietro. Tu mi devi aiutare. Sei Punico, qui, al qua­le io mi possa confidare. Ricordi, da ragaz­zo, quando mi difendevi dalle sassate dei compagni? Quando mi nascondesti in casa tua, il giorno delle regate? Adesso ho biso­gno di te, come allora. Vedi: non posso pen­sare da solo. Mi fa paura. È come se avessi una buona carta in mano, sai, e fossi già si­curo, prima di giocarla, di perderla. Tu sei il mio compagno, al gioco. Aiutami a farla fuori. (Pianissimo).

 Pietro                    - Ti dico io! (Guardandolo). Colpo di sole. Qui ci vuole il comandante, con un salasso, una purga, una pignatta d'acqua fredda in testa. (Pausa). Matto sei. A salti. come il delfino.

Michele                  - (afferrandolo ad un braccio) Smettila di scherzare. Parlo sul serio. Bi­sogna che tu ti sforzi d'intendermi. (Pausa). Non posso stare senza di lei. È come un male che non dà tregua. Notte e giorno. Sempre qui, davanti agli occhi. Lassù, in coffa, di guardia, la vedo spuntare dalle ac­que, intorno. A mano a mano che la nave si allontana, che il mare mette tutta questa acqua tra me e lei, il mio tormento aumenta senza scampo. Non vivo più senza di lei. (Abbassando la voce, per timore di essere udito dagli altri). Sai, in queste notti, mentre sono lassù di guardia, in mezzo a tutta quel­l'acqua nera, ho ragionato parecchio, sul mio malanno, e ho capito questo. Noi uomini siamo figli della terra. Abbiamo le radici, in terra, siamo impastati di terra. Si va per i! mare, si passano mesi e mesi, sul mare. ma la terra ci chiama, ci manda incontro il suo odore portato dal vento, ci fa sentire il suo richiamo ad ogni ora, ad ogni minuto. Ma... la donna è più terra di noi; è fatta di sugo di terra più di noi. Ha i piedi sempre piantati nella terra, lei, mentre noi si corre di qua e di là, senza sapere quello che si vuole... Ma la donna, la tua donna, la mia donna, qualunque donna, non importa qua­le, buona, cattiva, purché ci sia entrata nel sangue, quella, sì, vedi, conta. È la vita stessa. Senza giudicarla. È quella. Non se ne può più fare senza. Io non avevo nessu­no, nemmeno la madre, tu lo sai. Ho trova­to lei, Sirena, senza cercarla. Mi è entrata nel sangue, qui     - (accenna il cuore), nel cer­vello. Bisogna che la raggiunga, se no im­pazzisco. £ non dovevo partire; non dove­vo partire... (Si chiude il capo tra le mani). Tutta quest'acqua, Dio, mi soffoca, mi chiu­de qui, alla gola, mi leva il respiro...

Pietro                     - Ti credevo più uomo. Mi fai pena.

Michele                  - Se tu fossi buono, con me... Senti: se tu potessi capire, per un solo mi­nuto, che cos'è, adesso che le sono lontano, quella donna, per me...

Pietro                     - Una donna, per tutti i diavoli. Una donna, come le altre. Due occhi, un naso, una bocca. Carne. Che si prende, che si stringe, che si mastica un po'. E via. L'hai incontrata, le hai parlato, quella è sta­ta tanto buona da darti subito quello che volevi...

Michele                  - (interrompendo) No. No. (Chiudendosi il capo tra le mani) No. Nien­te di quello che credi tu?

Pietro                     - Ma dì; guardami in faccia. Per chi mi pigli? Ma vai a contarla a Baraban, che è muto, e almeno non ti potrà risponde­re a dovere (ride). Ti dico io! O in quella camera, allora? Dì, ti abbiamo veduto tutti, con questi occhi, no? Che cosa ci eravate andati a fare? A contar favole?

Michele                  - (serio) Pietro. Mi devi credere. Guardami: non l'ho voluta. Ti giuro.

Pietro                     - E bravo! Ma perché?

Michele                  - Così. Non saprei spiegarti me­glio. Non mi sarebbe bastato il suo corpo, capisci? Quasi, allora, non aveva importan­za. Mi sembrava di non vederlo neppure. (Pausa). Una cosa strana. Se non avesse a-vuto corpo, l'avrei amata Io stesso. Forse di più. Invece, adesso...

Pietro                     - Te ne penti, eh? Sempre così, succede. Quando una cosa ce l'hai, passa via, te la metti sotto i piedi. Quando ti man­ca, ti spaccheresti in quattro per averla. Mai contenti. Lo stesso a bordo, vedi! Pasta e fagioli; e nossignore, si vorrebbe il baccalà. Ti danno il baccalà? Nossignori, hai voglia matta di stufato con l'alloro. Gusti. Io al tuo posto...

Michele                  - So, so, Non dire.

Pietro                     - Perché no? Anzi, ti farà bene, per un'altra volta. (Piano, golosamente). Me ne sarei fatto una spanciata. Da saziarmi per un mese, fino a quest'altro porto. Roba re­galata: ma che scherziamo? Buttarla via... Si fa peccato, si fa. In più la figuraccia.

Michele                  - Ma va. Se non mi ha capito...

Pietro                     - O che vuoi che abbia capito, po­vera figlia? Ci sarà rimasta male, per di più. E forse avrà pensato che tu... Mi secca, perché sei dell'equipaggio della « Speranza », un barco di uomini che fanno piazza pulita in tutti i porti dove arrivano. Il nostromo, vedi, ci ha una donna in ogni porto, e in­torno alla donna un branco di pulcini. Que­sta è propaganda, caro. Ma con i tuoi si­stemi...

Michele                  - (infastidito) Smettila, mi sec­chi. Non capisci nulla, ho fatto male a par­lare con te.

Pietro                     - Hai fatto male ad agire in quel modo, dì piuttosto! E adesso te ne penti. Adesso ti brucia il sangue. La vorresti vicino a te, in cuccetta, o lassù, sul ponte. E ti gratti. E non dormi. E smani, come le ra­gazzine che si fanno pigliare dal prurito di primavera... Un tonno da museo, sei tu. Un tonno da baracca, anche tu: entrino, signo­ri, il più grosso tonno del mondo!

Michele                  - (piano) La baracca...

Pietro                     - (imitandolo) La baracca...

Michele                  - (alzandosi e afferrando Pietro per le mani) Mi ha rasentato la fortuna, ed io non ho saputo afferrarla per i capelli, fer­marla. (Pianò). La donna che può dare la felicità, per tutta la vita. E io l'ho lasciata sfuggire. Non potrò averla mai più. Mai più, capisci? Ma lo intendi che tormento è il mio? L'ho qui, nel sangue, guarda. Qui, nei polsi: qui. La sua voce batte col mio sangue. Notte, giorno. Giorno, notte. È passata. (Con un lampo d'ira). La colpa è vostra, è tua. Se non venivate a cercarmi, io non sarei partito. Adesso Sirena sarebbe mia, mia...

Pietro                     - Bell'acquisto, ti dico.

Michele                  - Non puoi sapere, non la co­nosci nemmeno, tu.

Pietro                     - Alla baracca della Sirena...

Michele                  - (iroso) E con questo?

Pietro                     - (gesto) Chi entra, chi esce.

Michele                  - Cosa vorresti dire?

Pietro                     - Una donna da quarto d'ora! Ma non lo capisci? Ci vuol altro, per noi. Sai che corna, mentre noi si spasseggia per mesi e mesi su e giù pel marer Corna da albero maestro, da metterci le sartie di rinforzo.

 Michele                 - (balzando) Sei un vigliacco, se dici questo.

Pietro                     - E tu un povero scemo. Più ti al­lontani da lei, più la vedi con il binocolo della lanterna magica. Tutto rosa. Ieri pote­va essere l'amante; oggi la donna di tutta la vita; domani la Madonna. Dì? Mettiamo Ij sua fotografia al posto dell'immagine del­la Madonna del carabottino?

Michfxe                 - (serrando i pugni) Se parli an­cora, ti fracasso la bocca.

Pietro                     - (schizzando in piedi, pronto alla lotta) Ih, bamboccio. Provati!

(i due giovani si azzuffano. Mario e Baraban, risvegliati, spingono il capo dalle cuc­cette e balzano a dividerli).

Mario                     - Fermi, Cristo, che vi fate mettere ai ferri!

Baraban                  - (mugolando, abbraccia Michele per le gambe e tenta immobilizzarlo).

Michele                  - Riprovati ad aprire bocca, se ne sei capace.

Pietro                     - A quest'ora sfondi la plancia con una cornata.

Michele                  - (afferrando uno sgabello) Ah! la vedrai.

Mario                     - (urlando) Fermi, fermi. Qui c'è ferro e galletta marcia per tutti.

Nostromo               - (affacciandosi) Cosa succede, mondo cane? (Vede la scena, scende a precipizio, balza in mezzo ai due, li divide con la sua figura gigantesca). Corde da forca che non siete altro. S'ha da vedere di queste por­cate, a bordo della «Speranza » ? Due ami­ci come fratelli, scannarsi in questo modo? (Li agguanta per il petto, li scrolla). Si può sapere il perché, scimmie? Donne? Eh! don­ne. Le solite. Le donnacce di tutti i porti. Accidenti a loro e a voi. Ferri, ci vogliono. Eh! sì, ferri duri. (Chiedendo) Chi è di guardia?

Mario                     - Giosuè.

Nostromo               - A chi tocca rilevarlo?

Pietro                     - (con un grugnito) A me, tocca.

Nostromo               - Fila, e mandalo giù. (Pietro esce. A Michele) E tu ai ferri. Senza tante smorfie, signorina. (Michele esce, il Nostro­mo lo segue. Restano Mario e Baraban).

Mario                     - Hai visto? Sporco mondo! Per una donna che non esiste. Un'ombra. Un ricordo. Due amici come fratelli si azzuffano, tirano a rompersi la testa... (Sputando) Puah!

Baraban                  - (mugola, fa con le mani gesti co­me a dire che lui, donne, niente).

Mario                     - (ritornando in cuccetta) Bravo, Baraban: tu, a scanso di equivoci, donne, manco l'ombra, vero?

Baraban                  - (ancora mugolando, fa cenno di sì, ma... a pagamento. E poi, tela).

Mario                     - Eh! lo so. Hai ragione. Di qui l'amore. Da quest'altra i quattrini. Contabi­lità. Ma lo sai com'è quando uno perde la scotta? Tutte le donne gli sembrano contes­se e marchese. (// discorso s'ingarbuglia, nel sonno che sopravviene; e Baraban forse già dorme). Mentre c'è una sola donna degna veramente di rispetto: la madre che ci ha fatti. Quella sì, vedi. Tutte le altre... Puah! Non valgono i vermi della galletta... E quei due: cazzotti sul muso, sgabelli sulla testa, ferri ai polsi... Vacci a capire... (S'addormen­ta ronfando. Giunge ancora lo sciabordìo dell'acqua).

(Si chiude il velario per riaprirsi al più pre­sto sul Quadro quarto).

QUADRO QUARTO

L'interno di una taverna per marinai, alle Isole Fortuna. Ambiente classico, reperibile attraverso i film americani. Rozzi tavoli con sgabelli, uscio a sinistra verso la sala da bal­lo, banco a destra; comune al centro. Luce discreta, sbavante da lampade appese al sof­fitto. Cartelli reclamistici alle pareti: « Old Tom Gin » « White horse » « Blach John-ny » « Life of sailor » ecc.

All'aprirsi del velario, il pianoforte suona un ballabile tipicamente americano. Si balla, nel locale a sinistra. Giungono risate, tramestìo di zampe in movimento. Al banco il vecchio Red rossiccio, irsuto, tipo di canaglia. Ad un tavolo Marianne, ragazza del locale. Marian-ne ha gli occhi fissi a terra, una bamboletta da cotillon in grembo. È una giovane donna non ancora del tutto sciupata dalla grama vita. Scialle vistoso sulle spalle. Qualche pre­tesa di eleganza adatta ai gusti dei marinai di ogni paese. Un fiore tra i capelli. Può, specie per la foggia delle vesti e dell'acconciatura, richiamare alla mente Sirena).

(Lungo silenzio. Marianne è immobile).

Red                        - (che si è combinato una mistura con molta cura e molti ingredienti, la beve con evidente soddisfazione; a Marianne) Senti, fiorellino malinconico; al primo marinaio che ti paga da bere, chiedi un « torcibudel­la rosso ». Vedrai che torna il buon umore.

Marianne                - (spallucce: resta immobile).

Red.                       - Voialtre scozzesi della malora ce l'avete nel sangue la malinconia. Dev'essere il vostro sporco paese che vi riduce così. Sei di Edimburgo, tu? o di Leith?

Marianne                - (infastidita) Non sono di Edimburgo, Red, e non sono neppure di Leith; ve l'ho già detto un centinaio di vol­te. Sono dei laghi. Nata a Rowardenan, sul­le sponde del Lomond.

Red                        - Nebbia, eh! Nebbia, nebbia. Lo so. Ne ho tenuta un'altra, scozzese come te. È morta di malinconia, come una scimmia. È il destino di chi nasce nella nebbia. Sogna il sole, per anni e anni. Poi, quando lo tro­va, s'immalinconisce, si consuma come una candela, crepa. Destino. (Pausa. Poi dà un pugno sul banco, e urla) Ma tu ti devi com­binare un'altra faccia, cara la mia ragazza. Io ti ho ingaggiata, ti pago, ti sfamo, ti al­loggio perché tu metta in allegria i clienti. Cosi, fai il tuo lavoro? Di là si balla, qui mi combini il mortorio. Oè, dico, non crede­rai di farla franca così. Lo conosci il tuo debito?

Marianne                - Lo conosco. Non abbiate pau­ra: non scappo.

Red                        - Ma che scappare. Non voglio che tu te ne vada nei verdi pascoli del Signore prima di avermi saldato il debito. (Traendo un libercolo dal cassetto). Senti qui. Sei ar­rivata da due anni, piovuta da chissà dove. Con tanta fame arretrata, che a cavartela so io quel che c'è voluto. Ti ho vestita da capo a piedi... (sbirciandola) e bene, da si-gnorona. Tutti ti scambiano per la moglie del Governatore dell'Isola... E tu, che mi hai dato in cambio? Poca voglia di lavorare, schizzinosa peggio davvero di una Governatoressa... Poi, ti sei innamorata di quel cretino della malora, che ti ha sfruttata...

Marianne                - (veemente) Badate!

Red                        - ... e piantata. (Uscendo dal banco, venendole con le mani sotto il naso, e il libercolo aperto) Ragazza, a Red non la si fa. Ci vuol altro che un muso di scimmia come il tuo, per chiudermi nel sacco. O ti metti a lavorare di buona voglia, e fai ballare e consumare come si deve questi marinai del­la malora, o t'imbarco su certo vaporetto che so io, e allora il conto me lo paghi tutto in una volta. E ci si rivede a Singapore, nella strada dell'allegria, dietro le inferriate, con le negre, le tartare, le persiane e le circasse. (Pausa). Ti va il programma?

Maiuanne               - (china il capo, passando una mano sui capelli della bambola).

Red                        - (infuriato) E smettila, con questo stupido giocattolo sempre in grembo. (Fal’atto di afferrare la bambola).

Marianne                - (con un grido, la serra tra le braccia) No, badate! Guai se la toccate. Fa­rò tutto quello che vorrete. Lasciatemi. La­sciatemi.

(La musica è cessata. Rientrano i ballerini. Il Nostromo e Mario della « Speranza », le ragazze Pit e Popy. Siedono al tavolo ac­canto a quello di Marianne).

Nostromo               - Bestione di un suonatore. Ha in coro l'animacela del diavolo. Lo fa appo­sta, quando ballo io, a stonare come una carrucola. Una volta o l'altra gli buco la pancia. Vedremo quel che c'è dentro.

Mario                     - Salterà fuori un altro pianoforte, nostromo.

Pit                          - (al Nostromo) Cambiamo bottiglia, farfallino. La birra ti fa male. Diventi cattivo.

Popy                       - Se fai il matto, a bordo non torni più. C'è una severità, qui nell'Isola... Ad ogni arrivo qualcuno va a finire in gatta­buia.

Nostromo               - In gattabuia io? O ragazza, tu non mi conosci. Ce ne vogliono cento, per portarmi al fresco.

Pit                          - Proviamo il sidro. Quello rinfresca.

Nostromo               - Il sidro, dì! (Dà di gomito a Mario). Della sporca acqua di mele a quelli della « Speranza »! Ma per chi ci avete pre­so? Per dei mozzi da culla?

Mario                     - Acqua e zucchero a noi. Abbia­mo la faccia da acqua e zucchero?

Red                        - (dal banco) Non date retta alle ra­gazze, giovanotti. Sono pollastre novelline. Volete del rum da far tossire i pescicani? Guardate! (Fa vedere una bottiglia, la ba­cia). Guardate qui. Roba da principi. A bor­do, lo bevono i maragià indiani.

Nostromo               - Fuori, testone di carota.

Red                        - (viene a servire) E' un'occasione. Di questa forza, compari, non ne berrete mai più. (Alle ragazze) Fateli bere, gazzelle. Se no son dolori. (Al Nostromo) E i vostri compagni? Non si vedono?

Nostromo               - Ce ne sono ancora a bordo. Li abbiamo lasciati che si facevano belli. Ve­drete, ragazzine, che campioni. Roba da acquolina in bocca. Verranno: c'è Michele, che sogna ad occhi aperti, a braccio di Pie­tro, l'amico inseparabile. Si cazzottano da assaettati, quei due, ma sono sempre fratel­li. Va a capire il segreto dell'amicizia...

Anker                     - (entra dalla comune; è un marinaio norvegese. Veste la divisa. Biondo, già trabal­lante, ha una lettera tra le mani: è traso­gnato. Siede a un tavolo, accanto a Marian­ne. Voce rauca, impastoiata. Legge ancorauna volta la lettera, mentre gli altri taccio­no. Poi dà un gran pugno sul tavolò) Gin, birra.

Red                        - Gin e birra?

Anker                     - (alzandosi, verso il banco) Birra e gin. Non vi piace la mistura? A me, sì. Una bottiglia di gin, una di birra, e un solo bicchiere. Vi va?... (pugno sul banco) o deb­bo servirmi da me?...

Red                        - Vai al tavolo, ragazzo. Non fare scene.

Nostromo               - (piano) Fra un quarto d'ora quell'anticristo sarà fulminato.

Mario                     - Amen. Questi norvegesi sono be­stioni, che non meritano altra fine.

Anker                     - (va a sedersi, rilegge ancora la let­tera, cupo).

Nostromo               - Be'. La ragazza l'ha piantato. E lui s'avvelena con gin e birra. Se avessi dovuto fare io lo stesso, tutte le volte che qualche morosa mi lasciava...

Mario                     - A quest'ora, nostromo, sareste scoppiato come una botte di sego sotto il sole.

Anker                     - (altro pugno) Birra e gin.

Red                        - Eccoti. E crepa senza sfasciarmi i tavoli, testone.

Anker                     - (versa dalle due bottiglie, gin e birra in un bicchierone. E giù. Poi ancora. Pausa. Guardandosi intorno) Adesso va meglio.

Red                        - (a Marianne) Tiengli compagnia. Senza smorfie.

Marianne                - (si alza, faticosamente, va a se­dersi al tavolo di Anker) Una sigaretta?

Anker                     - (leva dalla tasca un pacchetto, lo getta sul tavolo) Capstain. Non ho altro.

Marianne                - Bene. (Prende, accende). (Il piano si rimette a suonare nella camera accanto).

Nostromo               - Riattacca, il tricheco. Si va? (Le ragazze si alzano, Mario pure, entrano nella stanza da ballo. Scalpiccio, suono. Red è tornato dietro il banco).

Marianne                - Non mi offri nulla?

Anker                     - Questa roba non fa per te. Or­dina ciò che vuoi.

Marianne                - (a Red) Cognac.

Anker                     - Anche tu hai da digerire un osso duro?

Marianne                - Anch'io.

Red                        - Pronto. (Serve, ritorna al banco).

Marianne                - Sei arrivato oggi?

Anker                     - (non risponde).

Marianne                - Viaggio buono?

Anker                     - (c. s.).

Marianne                - Non sei espansivo, caro. È difficile fare amicizia con te. (Pausa). Non mi vuoi? Non ti piaccio?

Anker                     - (cupo) Si farnetica di donne lun­go tutto un viaggio, mesi e mesi. Poi, quan­do è arrivato il momento, capita un acci­dente che ti fa rimanere tutto in gola. (Col­po sul tavolo). Goddam!

Marianne                - Non bestemmiare. (Piano) Sente, lassù.

Anker                     - Sente? Chi sente, lassù? Non c'è nessuno lassù. Te lo dico io.

Marianne                - (stringendosi al seno la bambo­la, come impaurita) Non dire queste cose. Non è vero.

 Anker                    - Se ci fosse, qualcuno... (a Ma­rianne, con ira subitanea) E lasciami quieto. Non parlarmi. Se no fila.

Marianne                - (remissiva) Come vuoi tu. (Si rannicchia sulla sedia, facendosi in disparte).

Anker                     - (dopo un silenzio, rilegge la let­tera, cupo: poi si morde i pugni, mugolan­do, e si versa da bere, più volte).

(Entrano Michele, Pietro e Baraban).

Pietro                     - I nostri compagni? (a Red).

Red                        - Sono di là. Ballano. Se volete...

Pietro                     - Quell'orso di un nostromo. Bal­la sempre.

Baraban                  - (va alla porta, guarda, ride, fa cenno agli altri. Poi entra nella sala da ballo).

Michele                  - (si è accorto di Marianne. La guarda fisso, estatico. Intanto Anker, chi­nata la testa sulle braccia incrociate sul tavo­lo, dorme o rimugina chissà quali pensieri. Afferrando un braccio dì Pietro) Guarda, Pietro.

Pietro                     - Chi è?

Michele                  - Non so: guardala.

Pietro                     - Be'. Nulla di eccezionale. Una ragazza.

Michele                  - (a voce bassa) Come le somi­glia!

Pietro                     - A chi?

Michele                  - (estatico) A Sirena. Lo stesso viso, gli stessi occhi...

Pietro                     - E dagli. Se in ogni porto ne vedi una, il mondo sarà presto tutto pieno di Sirene. E tu finirai al manicomio dei marinai.

Michele                  - Una rassomiglianza stranissi­ma, credi...

Pietro                     - Vedi, a me, per esempio, non pare affatto. Eppure gli occhi ce li ho an­ch'io.

Michele                  - (piano) Ci guarda.

Pietro                     - Sfido. Capisce che si parla di lei. Offrile da bere.

Michele                  - Verrà?

Pietro                     - Ma che razza di stupido! È qui per questo. Il suo uomo dorme, vedi. Fatti sotto. E non fare lo scemo anche con que­sta, dì... (S'allontana verso la sala dove si continua a suonare e ballare).

Michele                  - (va a sedersi al tavolo dove era­no i compagni. Guarda Marianne. Timida­mente a bassa voce) Il vostro compagno non mi pare molto allegro... Se volete...

Marianne                - (alzandosi) Ha bevuto gin e birra. Si è addormentato. Fanno sempre co­si, questi norvegesi. Bravi ragazzi, ma te­stardi, nel bere. Li conosco bene.

Michele                  - Siete di qui?

Marianne                - Ma vi pare? Sono negra forse?

Michele                  - (ridendo) Già. Quanto sono sciocco.

Marianne                - Scozzese.

Michele                  - Scozzese? Guardate qui... (Trae di tasca gli oggetti) Questa borsa di tabacco, questa pipa: le comprai a Leith, l'anno scorso, quand'andammo a caricare macchine da cucire. La stiva ed il ponte zeppi di macchine. E noi si aveva gli abiti stracciati. Durante il viaggio una cassa si sfasciò, e venne fuori il macchinario. Ci pro­vammo un po' tutti, a cucire con quella dia­voleria, ma riuscimmo solo a bucarci le di­ta. (Ride).

Marianne                - Poveri ragazzi.

Michele                  - (pausa) Dovete essere molto buona voi. Come vi chiamate?

Marianne                - Marianne. E voi?

 Michele                 - Michele.

Marianne                - Mi-che-le! (Ride) Un nome buffo. Non l'ho mai udito.

Michele                  - Mai? Fu un gran Santo, sape­te? Con la spada...

Marianne                - Sì? Ma quello è un'altra cosa. (Ridono entrambi).

Michele                  - È da molto tempo che siete qui?

Marianne                - Due anni.

Michele                  - Vita buona?

Marianne                - Si vive. I giorni passano, le notti pure. È già molto.

Michele                  - Come per noi, quando si navi­ga. Però, là, in mare, il tempo passa perché si aspettano i porti, la terra, gli sbarchi. Voi aspettate?

Marianne                - Nulla. Nessuno.

Michele                  - Oh! E come fate?

Marianne                - Così. È semplice. Ci si abitua. Sui primi tempi la vita pare molto vuota. Fatta d'aria. Poi...

Michele                  - Non un amico, un fratello, un parente...

Marianne                - Nessuno.

Michele                  - Come me.

Marianne                - Anche voi...

Michele                  - Anch'io.

Marianne                - (gli passa una mano sulla spai la, con gesto semplice e fraterno)

Michele                  - (a bassa voce) Avevo una don­na, laggiù, in un porto lontano. Ma è come se fosse morta. Non la rivedrò più.

Marianne                - Lo stesso per me. Un mari­naio, come voi. È stato un gran fuoco. Sem­brava dovessimo restare insieme tutta la vi­ta. Poi un giorno è partito... Non ho saputo più nulla. Sono passati quattro mesi, ormai...

Michele                  - Non vi ha scritto?

Marianne                - Non scrivono, i marinai, alle ragazze dei porti. Qualche volta una carto­lina, da un porto con un nome strano... Ma è raro.

Michele                  - (con gli occhi fissi a terra) £ vero. (Pausa).

Anker                     - (alza il capo dal tavolo, punta il mento sulle mani poi fruga in tasca, tira an­cora fuori la lettera, la scorre. Una bestem­mia gli sfugge dalle labbra, si vuota un bic­chiere di gin e birra, rimette la testa sulla braccia, e le braccia sul tavolo).

Marianne                - Questi norvegesi sono duri. La ragazza lo ha piantato, e lui beve. Prima di domattina sarà uno straccio zuppo di birra e di gin. Povero figlio.

Michele                  - (come risvegliandosi da un soli­loquio) Sentite: voi somigliate molto a una donna. Appena vi ho veduta, l'ho detto a Pietro, al mio amico. Una strana somi­glianza. Anche la voce lo stesso timbro, lo stesso tono. Sapeste che impressione, per me, questo incontro! (Piano) A Pietro non pare, ma voi somigliate alla mia ragazza. E di cervello grosso, Pietro, e certe sottigliezze non le può avvertire. Ride di me, qualche volta ci si cazzotta: ma poi si torna più amici di prima... Sentite: posso fare qual­che cosa per voi?

Marianne                - E perché?

Michele                  - Non so.

Marianne                - Perché somiglio a quell'altra?

Michele                  - Forse.

Marianne                - Le volete molto bene.

Michele                  - Tanto. L'ho nel sangue. Da due mesi. In ogni porto le compro dei regali, che non mi riuscirà mai di darle. Guardate:          - (ti­rando fuori di tasca il fazzoletto col nodo) due collane, un braccialetto, orecchini di gra­nati, questo anellino con una pietra azzurra. Tutta roba per lei. Roba fine, sapete. Costa cara. Qui c'è tutta la paga di questo viaggio, e un debito con Pietro, in soprappiù. (Pausa). Scegliete. Se vi piace qualche cosa, non fate complimenti. Poi io la ricompro, in qualche porto.

Marianne                - (seria) No, questo non si fa. Voi avete comperato tutta questa roba, pen­sando a lei, alla vostra ragazza. Come potrei accettare, io? È male.

Michele                  - (confuso) Scusate. Credevo di farvi piacere, lasciandovi un piccolo ricordo.

Marianne                - Vi ho detto: è roba sua. Gliela darete presto...

Michele                  - (riannodando il fazzoletto) Non ne parliamo più. (Pausa). Sentite: volete bal­lare?

Marianne                - (piano) Non posso.

Michele                  - Oh! via. Siete in collera, adesso.

Marianne                - Vi giuro.

Michele                  - Ma se siete qui per questo.

Marianne                - (supplicando) Non è per me. Michele  - Avete fatto voto?

Marianne                - (accennando al grembo, piano) Per lui.

Michele                  - Lui chi? (Ridendo) La pupat­tola ?

Marianne                - (seria) No. Un altro. Che c'è già, ma è ancora lontano. Lo sento solo io...

Michele                  - (la guarda fissa in viso, poi fa scendere lo sguardo lungo il corpo di lei).

Marianne                - (guardandosi il grembo) Sì. (Esaltandosi). E' per questo che non voglio ballare, capisci? Per questo. Ma nessuno lo sa. Nemmeno le mie compagne. L'ho detto a te, chissà perché. Forse mi capisci.

Michele                  - Non vuoi ballare?

Marianne                - (accennando) Per lui. Può far­gli male, nei primi mesi. Cerco tutte le scu­se, con quel bestione là     - (accenna a Red).

Michele                  - Adesso capisco il perché del bambolotto che tieni in braccio. Mi pareva una cosa tanto buffa. Adesso capisco.

Marianne                - È come fosse già la mia crea­tura. Me l'ha lasciata lui, prima di partire. E non sapeva, come non sapevo io. Anche le mie compagne, Pit e Popy, dopo essersi bur­late qualche giorno di me, hanno voluto un bambolotto ognuna, come questo. Ma non è la stessa cosa. Loro non sanno.

Michele                  - E lui?

Marianne                - Via, per il mare. Non saprà mai, nemmeno lui. Non conoscerà mai la sua creatura. Ma non importa. È mia. Tutta mia.

Michele                  - (torcendosi le mani) Bisogna tornare, bisogna tornare!

Marianne                - Anche tu hai lasciato una ra­gazza, così?

Michele                  - No. Ma è come se fosse. Sentoche è come se fosse così. Bisogna tornare, aqualunque costo, in qualunque modo.(Pausa). Quando un uomo incontra unadonna, non la deve lasciare più. È l'ancora, capisci? Guai, se non si dà fondo, in qual­che punto del mondo. Non si può vivere soli, sull'acqua. Ci vuole la terra sotto i piedi, e la donna accanto. Se non ritorno adesso, non ritorno più. Lo sento. Ci vorreb­be un miracolo. Sai, uno di quei miracoli che accadono alla gente di mare, e poi i pit­tori ci fanno un quadro, che viene portato alla Madonna dei Marinai...

Marianne                - Io credo, ai miracoli.

Michele                  - Anch'io. Una volta, da una tempesta d'inferno che ci prese proprio sul Capo di Buona Speranza, e non c'erano più alberi, né vele, né timone, ci salvò l'imma­gine che avevamo nel carabottino. La por­tammo su, tra scrosci d'acqua, e ondate che spazzavano il ponte, e saette che foravano la tolda e uscivano dalla chiglia. Un finimon­do. Il « Santa Maria » colava giù, come una casseruola bucata. Davanti al quadro, che legammo al troncone dell'albero di maestra, ci mettemmo tutti i ginocchio, aggrappati alle murate, con le unghie ficcate sul tavo­lato. Pregammo. Sai, ognuno a modo no­stro, senza storie, ma convinti, sicuri, tran­quilli come se quello lassù fosse davanti a noi, e ci dicesse: - Be', ragazzi e adesso che cosa volete da me? Sai come andò? Quando ci alzammo, il ciclo s'era fatto sere­no, il mare calmo, con certe onde lunghe che ci cullavano come la mamma con la sua creatura, e il barco galleggiava. Ci salvam­mo.

(Entrano da sinistra il Nostromo, Mario, Pietro e Baraban, Pit e Popy. Hanno bevu­to e ballato. Sono allegri e rumorosi).

Nostromo               - (a Marianne) Non dar retta a Michele. È una gatta morta. Fa così con tut­te le ragazze dei porti. Ti ha detto che li vuole sposare?

Marianne                - Abbiamo parlato d'altre cose. Non puoi indovinare tu. Sci troppo grosso. Se gli uomini fosse tutti come te...

Pietro                     - Nostromo, a forza di girare il mondo vi conoscono dappertutto.

Nostromo               - Sono trasparente come un bic­chierino d'acqua, io. Vero bambine? (a Pit e Popy).

Popy                       - (stringendogli un braccio) Sci un bravo ragazzo. Ricordati che mi hai promes­so il cappellino.

Pit                          - E a me le scarpette.

Nostromo               - Piaccio alle donne, io. Dove vado, a sciami, intorno a me. (Sbirciando Marianne) Meno le schizzinose. Quelle si attaccano ai cervellini a ventola.

Michele                  - (fa un gesto d'impazienza).

Pietro                     - (toccando Michele) Scherza. Non fare lo scemo, adesso. Guasti tutto. (A un tavolo hanno preso posto i nuovi ve­nuti: Nostromo, tra Popy e Pit, con Ma­rio è Baraban; Marianne è rimasta a quello di Michele, ed a loro s'è unito Pietro. Anker dorme sempre, al terzo tavolo).

Nostromo               - Testone di carota, abbiamo la gola asciutta. Quel tuo pianista ci ha rovi­nati.

Red                        - (venendo al tavolò) È il Paderevvsky dell'Isola, nostromo. Ma per un altro viaggio vi farò trovare l'orchestra del Metropo-itan, va bene?

Pietro                     - (a Marianne) Dì la verità, sei già innamorata di lui? (Indica Michele).

Marianne                - Perché dovrei esserlo?

Pietro                     - Perché lui dice che tu somigli a una certa ragazza... volevo vedere se le somi­gliavi davvero. Lo sai? È molto innamo­rato.

Marianne                - So. Mi ha detto.

Michele                  - Smettila, Pietro.

Pietro                     - Che c'è di male? Mi pento io di non esserlo, di non esserlo mai stato. Non mi riesce. Mi piacciono le cose svelte. E se debbo pensare a una donna due volte di se­guito, mi viene in mente mia madre. È buffo.

Marianne                - Adesso lui vuol tornare da quella ragazza. Si può?

Pietro                     - A piedi. Sull'acqua. È un mira­colo, ma lui forse lo può compiere.

Marianne                - Io sento che tornerà. Non so come... (Pausa). Se quello di lassù vuole...

Nostromo               - (battendo un gran pugno sul tavolo, e stringendosi le ragazze tra le brac­cia) Cristo. Sono i vecchi come me che debbono dare il buon esempio, oggi. Guarda­te la gioventù, che barile di acciughe ma­linconiche. Oè, dico, bisogna muoversi, bere, far qualche cosa, no? Si ha da morire d'ine­dia, adesso che abbiamo messe le zampe a terra, o crepare di malinconia?

Mario                     - Bene! Questo è ragionare. Bere!

Baraban                  - (si associa, con larghi gesti e mu­gola)

Anker                     - (al baccano si è risvegliato, rialza la testa, si passa una mano tra t capelli, primo pensiero è quello di vuotarsi un altro bicchiere di birra e gin).

Pietro                     - Chi è?

Marianne                - Chissà. Un norvegese. È pio­vuto qui, non si sa di dove. Ci ha un dispia­cere d'amore, da grattarsi. Ogni poco legge la lettera della ragazza. E poi soffia come una foca.

Michele                  - Poveretto. Digli di venire al nostro tavolo.

Marianne                - Non ascolta nulla. Prima di domani, vedrete che avrà preso a zuccate i muri.

Nostromo               - (a gran voce) Ballare! Voglia­mo ballare ancora. Testone di carota, di all'orchestra di suonare.

(il pianoforte, nella sala da ballo, ricomincia a straziare).

                               - (Nostromo, Mario, Baraban, Pit e Popy entrano nella sala da ballo, ridendo e vocian­do).

Anker                     - (tira fuori ancora una volta la let­tera, dà un'occhiata, la lascia sul tavolo, nella busta. Ancora un pugno. Improvvisamen­te a Marianne) Ballare! Voglio ballare con te! (Si alza, fa per afferrarla).

Marianne                - (con orrore) No, no, lascia­temi.

Anker                     - (imbestialito) Eri al mio tavolo. Sei passata a quello, senza neppure dirmi una parola. È un'offesa questa. E adesso non vuoi ballare con me? Andiamo.

Marianne                - (ritraendosi) Non voglio.

Michele                  - (balza di fronte ad Anker) Sen­tite, la ragazza non si sente bene. Per que­sto...

Anker                     - Via di mezzo, tu.

Pietro                     - Bada, Michele. (Lo afferra per un braccio).

Michele                  - Ti dico che la ragazza non può ballare.

Red                        - (venendo fuori dal banco) Questa è bella. Chi è qui il padrone? Avanti, tu, non fare la sciocca.

Marianne                - Vi dico che non posso, Red. Mi sento male. Molto male.

(Red strappa di mano alla ragazza la bambo­la, ma Michele, di un balzo, gliela toglie, e resta con il giocattolo tra le mani. Poi lo ficca nella blusa).

Anker                     - (prende Marianne per un braccio, la trascina verso il ballo. Michele con un balzo libera Marianne, e si trova di fronte ad Anker. È la lotta. I due si avvinghiano, roto/ano in terra, accorrono i compagni; ma prima che questi si possano mettere in mezzo, ed immobilizzare Anker, questi ha afferrato uno sgabello, e colpito fortemente Michele al capo. Il Nostromo e Mario sal­tano su Anker, inebetito, e lo trascinano fuori dal bar. Michele è a terra. Pietro, Baraban, Red, Pit e Popy gli sono intorno. Marianne è in piedi, immobile, contro un ta­volo).

Nostromo e Mario  - (portando fuori Anker) Adesso faremo i conti fuori, con te. Tienlo forte. Stai attento che non faccia uscire il coltello di tasca.

 Pietro                    - Michele, Michele... Ti senti male? Qui? Qui?

Michele                  - (balbettando) Quanta acqua, quanta acqua!

Pit e Popy              - Muore, muore.

Red                        - Zitte, sceme! È un colpo un po' for­te, ma ci vuol altro per spedire un marinaio come questo.

Pietro                     - Bisogna portarlo via. Se no qui si finisce in galera.

Red                        - È la cosa migliore che possiate fare.

Nostromo               - (entra riassettandosi, con l'aria soddisfatta di chi ha messo a posto una fac­cenda che gli stava a cuore) Adesso a que­sto. (Chinandosi su Michele) Su, ragazzo!

Pietro                     - È svenuto.

Popy                       - Delira.

Pit                          - Vede acqua, tanta acqua.

Nostromo               - Se fossi io, al suo posto, ve­drei soltanto vino. È questione di punti di vista. Su, portiamolo a bordo. Aiutatemi.

(Nostromo, Baraban, Pietro alzano Mi­chele inerte).

Michele                  - (balbettando) Lei... vedo lei...

Pietro                     - Zitto. Tra poco starai meglio. Non affaticarti.

Nostromo               - (gettando delle monete a Red) Piglia, e fattele bastare, carota. Se no si la­scia anche a te un ricordino. (Escono).

Red                        - Maledetta gentaglia!

Pit                          - Che uomo, però!

Popy                       - Farsi ammazzare per una ragazza che neppure conosceva...

Marianne                - Non era per me. È come se io fossi stata un'altra. Lontana. Per questo mi ha difeso. Per lui avevo un altro nome, un altro viso... (Piano) Sarebbe stato troppo bello.

Popy                       - E il norvegese ha lasciato qui la lettera. (La prende).

Red                        - Quel bestione. Chissà dove l'hanno cacciato. E non mi ha pagato né la birra, né il suo gin maledetto. Accidenti a lui.

Marianne                - (prende la lettera, la scorre) Red, gli è morta la mamma, al norvegese.

Glielo dicono qui. (Pausa). Se lo avessi sa­puto, avrei ballato con lui.

(Si chiude il velario)

ATTO TERZO
QUADRO QUINTO

La stessa scena del Quadro terzo: la came­retta dell'e qui Gaggio, a bordo della « Spe­ranza ». La disposizione delle luci, verso il finale di questo quadro, dovrà essere tale da conferire all'ambiente un clima visibile di irrealtà. Michele è coricato in cuccetta, con il capo fasciato da bende: intorno gli stanno Pietro e Baraban. Pietro gli tiene una mano tra le proprie, fraternamente.

Giosuè                    - (entrando dalla botola e cammi­nando goffamente in punta di piedi) Diavo­lo di scarponi. Adesso me li tolgo. (Si toglie le ciabatte di legno e resta a piedi nudi). Ho finito la guardia. Sono sceso subito. Come va?

Pietro                     - Non si muove. È da un pezzo che non apre neppure gli occhi. Ma respira.

Giosuè                    - Mi ha preso una cappa di malin­conia, lassù. Cristo. Mi sembrava di vedere il nostro Michele... Be', insomma, già bell'c spacciato.

Pietro                     - Bestione che sei. Sono discorsi da farsi, questi?

Baraban                  - (mugola, agitandosi e prole stando).

Giosuè                    - Lo so. Ma non mi riusciva di le­varmelo dagli occhi, credete. Mi pizzicavo per distrami... Niente. Quel che fa rabbia è questa bonaccia bianca, che non ci fa fare un nodo all'ora. C'è un cielo di alluminio, li la fosforescenza che brucia l'acqua. Fermi. Come un barco di cemento in un giardino. Ah! porca vita, porco mare, porco tutto! (Sputa in terra, con disprezzo).

Pietro                     - Eri tu, che volevi fare il mari­naio sul serio? E che sognavi la navigazione ballerina e i monsoni, e bestemmiavi la vita da fesso a terra? Adesso sei in mare. Godi­telo.

Giosuè                    - Ma questo non è mare: è in­ferno.

Pietro                     - Così, sempre così, caro. Se non c'è la bonaccia, c'è la tempesta che ti butta tutto all'aria. Se non c'è il colera, c'è la gal­letta marcia. E stavolta, per buona misura. Michele in questo stato.

Giosuè                    - Vivrà?

Pietro                     - E chi può dirlo? Quel dottorino biondo, della missione americana, dopo aver lo visitato un bel po' si è levato gli occhiali, li ha puliti per benino, poi ha detto «fine », cioè « bene ». Dio lo strafulmini.

Giosuè                    - E nient'altro?

Pietro                     - Ha parlato col nostromo. Se non crepa - gli ha detto - può rimanere come un bambino. Come se avesse perduto l'età e la memoria, i ricordi, il tempo. Tutto.

Giosuè                    - Ma come è possibile?

Pietro                     - Così. Tutto è possibile. Una cosa sola, però, non ha certo dimenticato. Quella maledetta della baracca. Lo vuoi credere? Io gli ero accanto, là, nell'ospedale, quando si è risvegliato. Ha aperto gli occhi adagio, adagio, a fatica. Mi ha agguantato una ma­no, come adesso, con la sua tutta coperta di sudore freddo, che pareva quello dei morti. Appena ha potuto parlare ha detto un nome: Sirena. Poi altre parole, ingarbuglia­te, tirate fuori a stento: baracca, capitano, andare, presto, presto...

Giosuè                    - Povero Michele. Darei un brac­cio, vedi, per farlo tornare come prima. Ah! si c'ero io, là dentro...

Pietro                     - E sì, perché noi siamo stati con le mani alla cintola! Ma lo dovresti sapere come avvengono queste cose. Un attimo. Se il norvegese aveva il coltello, a quest'ora, addio...

Giosuè                    - Tutto per una donna qualun­que...

Pietro                     - (Piano) Perché somigliava a quel­l'altra...

Giosuè                    - Ma va!

Pietro                     - Ti dico. Appena entrato, subito, me l'ha detto. E quasi tremava, come un ragazzino. Poi hanno parlato a lungo, lui e la ragazza, mentre noi si ballava. E il nor­vegese del diavolo dormiva con la testa sul­la tavola. Poi si sveglia, sempre ubriaco fra­dicio di gin e birra, e vuol ballare con la ragazza. E quella no. Fa la schizzinosa. 11 norvegese l'agguanta, e Michele salta in mezzo, a difendere il povero angioletto in­nocente. E giù il colpo di sgabello. Finito.

Giosuè                    - Ma io capisco buscarle per la ma­dre, la sorella, la moglie, l'amante... Ma per una donna qualunque, che non s'è mai vista, che fa la schizzinosa per farsi dare qualche corona di più dai marinai... via...

Pietro                     - Come si fa a giudicare noi? Adesso sì, che quasi mi riesce di capirlo, quel­lo che può essere quella donna della barac­ca, per Michele. Tutto. Non sai come, ma è così. Come la madre, la sorella, la ragazza del cuore. Per noi è un'altra cosa. Ma Mi­chele è migliore di noi.

Giosuè                    - Non ho mai incontrato un compagno come lui. È vero. Mi dispiace vederlo così, Cristo! (Piano) Per me, è come se fosse già morto.

Pietro                     - Zitto! Ti può sentire.

Baraban                  - (insorge mugolando, facendo cenno che Michele non è morto, no, ma dorme, e poi...).

Nostromo               - (scende dalla botola) Dorme sempre?

Pietro                     - Così. Non apre occhio. Mi tiene stretta una mano, come se avesse paura di rimanere solo.

Nostromo               - Corpo! Per fortuna che è sen­za forze. Se io fossi al suo posto, e avessi Li possibilità di capire il mio stato, già mi sarci buttato in acqua dieci volte, per farla finita. Sul « Manetta », tanti anni fa, suc­cesse al secondo, un fatto simile. Era un brav'uomo, anche quello. Accidenti. A me, per esempio, è andata sempre liscia.

Giosuè                    - Se provassimo a destarlo?

Pietro                     - Ho già tentato. Inutile.

Nostromo               - (grattandosi la nuca) A terra non potevamo lasciarcelo. Partita la nave americana, anche senza dottore. Lasciarlo crepare a tante miglia dalla terra? Meglio tentare, no?

Giosuè                    - Almeno si camminasse. Se si riuscisse a filare, potremmo farlo entrare nell'ospedale del primo porto, con buoni dot­tori...

Nostromo               - Credi ai dottori, tu? Bel tonno. Quelli ti ammazzano del tutto. È destino. È venuta la tua ora? Si parte. Sen­za far tante storie.

Pietro                     - Questo non è vero, nostromo. Ci si può sempre difendere. I dottori ci sono apposta. Poi... (Esitando) Ci sono anche quelli che credono a...

Nostromo               - A chi?

Pietro                     - Qualcuno c'è, che ci vede...

Nostromo               - Sei un bestione. Ma pensa se ci può essere davvero qualcuno - come dici tu - che di lassù ci sta a guardare notte e giorno, e tiene il giornale di bordo, e sta attento a dire: ci, tu, crepa, che qui accanto al tuo nome c'è la data d'oggi e un frego nero... oppure, perché ti sei lasciato rompere la testa da un porco di norvegese ubriaco, ti dice: be', per stavolta te la lascio passare li­scia, e ti permetto di vivere. Ma un'altra volta... Sei un tonno gigante.

Giosuè                    - Bravo, nostromo! Anch'io la penso così. Cristo e tutti i santi li puoi chia­mare e bestemmiare quanto vuoi: tanto, quando è la tua ora, c'è poco da raccoman­darsi. Dì, che lo facciano tornar sano         - (indica Michele) con la testa come era prima, se son capaci.

Pietro                     - Non dite queste cose. Mi pare debbano portargli sfortuna, adesso ch'è più di là che di qua. (Come tra sé) Eppoi biso­gna credere.

Nostromo               - Credere nei testoni come te. Va', fai alzare il vento, adesso, per far giun­gere la « Speranza » più presto in porto. Provati.

(Dalle labbra di Michele sfugge un lamento)

Pietro                     - Sssss! Lo disturbate. (Chiaman­dolo) Michele? Michele?

(Tutti si chinano trattenendo il respirò).

Nostromo               - (cercando di parlare sottovoce; con un buffo, ma insieme commovente, tono di tenerezza) Come ti va quella zuccata? Ti duole ancora?

Giosuè                    - Vuoi un po' di acquavite? Un sorso ti farà bene.

Michele                  - (risponde con un cenno: non vuole nulla. Solo essere lasciato in pace).

Pietro                     - Gli togliamo l'aria. Ha bisogno di riposare.

Nostromo               - E mangiare? Che cosa mette in corpo, in questi giorni?

Pietro                     - Nulla. Qualche sorso d'acqua.

Nostromo               - Buona, quella. Una cura ma­gnifica. (Borbottando) Già, voi ragazzi sie-te fatti di un'altra stoffa. Ai miei tempi si guariva tutto col vino. Una volta quand'ero sul « Caterina Madre », al nostromo cadde addosso una bragata di tavole, e restò tra­mortito per tre notti e tre dì. Già gli stavamo preparando l'amaca per seppellirlo in mare, che quello aprì gli occhi, chiese un sorso di vino, il comandante gli fece portare un bari­lotto di madera che aveva in serbo in cabina,e il mezzo morto giù giù giù se lo bevve d'un fiato. Poi s'alzò, fece un paio di rutti che gonfiarono le vele, e se n'andò a rilevare la posizione del barco. Quelli sì che erano uomini.

Pietro                     - Vecchie storie, nostromo. Le ho già sentite raccontare tante volte, al mio pae­se. Sempre eguali.

Nostromo               - Sempre eguali, giusto. E sai perché? Perché sono vere. Vorrei provare con questo uccellino. Un fiasco di quello buono e una catinella di caciucco fatto a quel Dio. Più una bella cicca sugosa, per la digestione. Vedreste. (S'incammina). Accidenti ai pivelli. 11 primo che mi arriva a bordo lo ricaccio in acqua a pedate nel mappamondo. (Voltando­si) Ci stai tu, Pietro, accanto a quel tonno lì?

Pietro                     - Sì, nostromo. Tanto ora sono franco di guardia.

Nostromo               - Tieni gli occhi aperti. E quan­do tocca a te, avvertimi. Ti ci vado io, in coffa. È da anni, che non torno lassù. E... se c'è qualche cosa di nuovo, mandami a chiamare. Accidenti a voi tutti. (Via).

Giosuè                    - Vado a cacciarmi in cuccetta. E speriamo si alzi un vento qualunque, magari il monsone. Ma muoversi, perdio. (Va alla sua cuccetta, si sdraia. Baraban è andato .< coricarsi nella propria, dopo aver guardato a lungo Michele).

(Un silenzio. Pietro è accanto a Michele. Non l'abbandona mai con lo sguardo. Poi, lentamente, reclina il capo sul petto, si as­sopisce).

A questo punto, attutita, lontanissima, si ode la marcetta gracidata dall' organino della « Baracca della Sirena ». Poi la voce del Capitano, che imbonisce: « Entrino, signo­ri, favoriscano, alla baracca della Sirena, fe­nomeno mai visto»; e, infine, quella di Si­rena: «Sono la schiava di tutti. Sempre inchiodata a terra; in qualsiasi luogo dove mi trovo, catene ai polsi e alle caviglie. Pri­gioniera. Da quanto tempo mi sei lontano. Da troppo tempo. Ti aspetto: senz'accorger­mene, senza saperlo, forse senza neppure vo­lerlo, aspetto te. Notte e giorno. Aspetto te. Aspetto te. Aspetto te. (Pianissimo) La mia liberazione. (La voce tace, smorzata).

Michele                  - (con un grido) Sirena, Sirena!

Pietro                     - (svegliandosi con un balzo) Mi­chele, Michele, sono qui.

Giosuè e Baraban   - (accorrono accanto a Michele).

Michele                  - Presto, presto. Bisogna correre. Correre di più. Debbo arrivare presto.

Pietro                     - Delira.

Giosuè                    - Siamo alla fine. È pallido come un morto.

Michele                  - L'ho veduta. Ho sentito la sua voce. (Accennando) Là, là. E la musica. E la voce del Capitano maledetto. (Urlando) L'uccide, stavolta l'uccide. Sono qui io, Si­rena. Tra poco sarò da te. Per sempre, ve­drai. Bisogna camminare di più. Chi coman­da qui, il diavolo, che vuol tenermi legato? (/ compagni lo trattengono).

Pietro                     - Sta calmo, Michele. Arriverai, arriverai presto. Stai tranquillo.

Michele                  - Siete tutti diavoli scatenati. Voglio arrivare da solo. Arriverò prima di tutti. Sentite? (In ascolto) Mi chiama, per dio, mi chiama. Debbo arrivare là. (Con vo­ce implorante). Fatemi arrivare presto, ve nescongiuro. Poi non vi chiederò più nulla. Sa­rò felice, accanto a lei, tanto felice. Presto, più presto! Ah! perdio! (Tenta gettarsi fuo­ri dalla cuccetta).

Pietro                     - (ai compagni) Forse sarebbe dav­vero questa l'ultima salvezza. Poterlo tenere in vita fin là... Ma ci sono ancora troppi giorni di navigazione. E non ci si muove di un nodo all'ora.

Giosuè                    - (stendendo il pugno) Maledetta la cippa bianca. Non arriveremo più, se continua così. E questo cristiano muore più dal crepacuore che per la ferita.

Pietro                     - (ha un istante di incertezza, come assorto iti un pensiero. Poi, risolutamente, va alla sua cuccetta, prende una cassetta, vi rimesta dentro, tira fuori un quadretto. Chia­ma Baraban a sé, lontano da Giosuè. Gli dice, concitato, con voce malferma, quasi gli facesse chissà quale rivelazione) Voglio Fare una prova. Senti, prendi questo quadro - e bada, se ridi, te la fo pagare - vai su in coperta, arriva fino alla gabbia di trin­chetto, legalo bene all'albero con due colli stretti. Poi scendi giù. E bada che nessuno ti veda. (Pausa). Me l'ha dato mia madre, quando m'imbarcai da mozzo. Io, sai, non ci credo. Però di guai gravi non me ne sono mai capitati. Va. E non farti vedere.

Baraban                  - (ha ascoltato attentamente. Poi prende l'immagine quasi con timore, la ficca sotto la giubba. Sta per andare).

Pietro                     - (richiamandolo, e piantandogli gli occhi in viso) E bada: se ridi di me, e par­li con i compagni, ti rompo il muso. Va'.

Baraban                  - (esce di corsa).

Pietro                     - (è ritornato accanto a Michele) Si è di nuovo assopito.

Giosuè                    - (crollando il capo) Non lo vede, il fanale verde e rosso del porto. Ci vuol poco a capirlo.

Pietro                     - E zitto, gufaccio che non sci al­tro. Le ferite alla testa, l'ho sempre sentito dire, sono le più facili a guarire.

Giosuè                    - Ma questo non è ferito alla testa soltanto. È malato dentro, dove non c'è dottorone che possa ficcarci il naso. Sono ma­lattie da miracoli, credi a me. Ma vacci a credere, a certe faccende.

Baraban                  - (ritorna, fa un cenno a Pietro come a dire: « fatto »). E s'accascia in umile posa. Un silenzio.

Dopo pochi istanti, incomincia a giungere, prima incerto e poi distinto, il sibilo di un vento gagliardo tra il sartiame della « Spe­ranza ». Poi lo scricchiolìo del fasciame, in­dicante la velocità assunta dal barco. Pietro, Baraban e Giosuè si guardano l'un l'altro, increduli).

Giosuè                    - (balzando in piedi) Accidenti! Qui filiamo a venti nodi all'ora. Senti che maestrale s'è levato tutto ad un tratto.

Pietro                     - (senza parlare, s'alza lui pure, e rimane fermo estatico, mentre Baraban, an­cor più rannicchiato a terra, lo guarda di sotto in su).

Nostromo               - (entra sbuffando, stravolto) Ragazzi, ragazzi! Qui succede qualche cosa di grosso. Mai visto un fatto simile, in trent’anni di navigazione. (Pausa come per rac­cogliersi). Avevo visto poco prima le vele pender vuote, e intorno il mare piatto come una lastra di marmo. Sento ad un tratto scricchiolare le pareti come se calassimo a fondo. Salgo su di corsa... Cristo! Che cosami tocca vedere. Intorno, a venti metri, non c'è una bava di vento, non una bava, e le vele della «Speranza » sono gonfie di mae­strale, e il barco corre come un demonio... Questo è un malefizio, vi dico. Navighiamo come il Veliero Fantasma, quello dell'Olan­dese Maledetto...

Giosuè                    - (quasi urlando) Non dite queste cose, perdio!

Mario                     - (affacciandosi) Nostromo, il pri­mo vi cerca. Salite su.

(Colpi di fischietto. Voce: Tutti i franchi in coperta).

Nostromo               - Dio mi fulmini. Non ho mai avuto paura eli nulla. Né di Dio, né del dia­volo. Ma questi scherzi non li posso dige­rire, no e poi no.

Giosuè                    - Bisogna andare, adesso.

Pietro                     - (con voce calma) Verrò anch'io, con voi, e verrà anche Baraban. Adesso il nostro posto è su, per esser pronti tutti alle vele.

Nostromo               - E lui? (Accenna a Michele).

Pietro                     - Sta meglio, adesso. Vedete? Dor­me, è tranquillo (A Baraban) Su andiamo.

Nostromo               - Come sci calmo, dì. Te ne sono accaduti molti, di questi fatti?

Pietro                     - No. È il primo. Ma non mi stu­pisce.

Nostromo               - Non ti stupisce? Ti vuoi pren­dere gioco di noi?

Pietro                     - No, nostromo. (Avviandosi) P. perché io so che cos'è...

Giosuè                    - (come stringendogli si accanto) Sai che cos'è?

Nostromo               - Dì Pietro  (incominciando a salire, scandisce le parole con una strana voce pacata e sere­na) C'è qualcuno, tra noi, che merita più degli altri di essere aiutato. E c'è chi l'ha visto e lo vuole aiutare. Da chissà dove. E adesso lo aiuta. È così semplice, no? (Esce).

Baraban                  - (lo segue).

Nostromo               - (grattandosi la testa) S'è mai sentito Pietro parlare così? Non sembra lui.

Giosuè                    - Nemmeno la voce, sembrava la sua.

Nostromo               - È possibile che Pietro abbia parlato così, come non fosse lui?

Giosuè                    - (impaurito) Ma che diavolerie state inventando anche voi, nostromo?

Nostromo               - (con comica stizza) Che Dio mi strafulmini se... (Arrestandosi) Questo di bestemmiare sempre, sì, vedi, è un viziac-cio maledetto. Quante volte me l'ha ripetuto quella santa donna di mia madre. Ma sai, com'è? Lo si fa per abitudine, quasi per cercare una compagnia... Non per offende­re, ti pare? (Escono).

(Appena usciti Nostromo e Giosuè, il fischio del vento cresce di intensità e una strana luce azzurra, tenera invade la scena mentre si chiude il sipario).

QUADRO SESTO

La stessa scena del primo quadro: l'interno della « Baracca della Sirena ». Prima del­l'alzarsi del velario giunge ancora una volta il suono della marcetta della « Baracca ». Come sfondo sonoro è individuabile il poli­cromo tessuto musicale del « Luna Parl( » durante la notte di Natale: organini, campane; fischi, urli, trombette, colpi di gran cassa, squilli di trombe, imbonimenti vari. L'interno del padiglione non è mutato gran che. Sirena è sempre al centro del suo tre­spolo, e fa le carte ad una coppia di giova­nissimi fidanzati che le stanno innanzi, stret­ti teneramente l'uno all'altro. Unica nota nuova: l'interno della baracca e addobbato di lampioncini e festoni di carta colorata, gli ingenui segni festivi delle fiere e dei balli strapaesani.

Sirena                     - (deponendo le carte una dietro l'al­tra) La buona sorte è con voi. Due o tre piccoli contrattempi sono facilmente supera­ti. (Pausa; guardandoli). Vi volete molto bene.

Fidanzata               - (stringendosi ancor più al brac­cio del Fidanzato) È verissimo. (Al Fidan­zato) No?

Fidanzato               - (dandole un bacio furtivo sui capelli) Cara.

Sirena                     - (abbassa gli occhi) Quasi tutte le carte di cuori sono apparse nel primo giro: non mi era mai accaduto.

Fidanzata               - Le avete mischiate bene?

Sirena                     - (seria) Non trucco mai, io. Ci credo troppo, a queste, per trattarle mala­mente. Si rivolterebbero.

Fidanzata               - (ansiosa) E poi?

Sirena                     - (scoprendo altre carte) Vi spose­rete presto.

Fidanzata               - (al Fidanzato ridendo) Lo spero bene!

Sirena                     - Senza contrarietà. Neppure una picche. Guardate qui. È addirittura miraco­loso.

Fidanzato               - ...E bambini?

Fidanzata               - (dandogli di gomito) Ma va...

Sirena                     - (seria) Anche auesto si può sape­re. (Rivoltando altre carte) Due. Maschio e femmina. Biondo lui.

Fidanzata               - Come me!

Sirena                     - Bruna lei.

Fidanzato               - Come me! (Quasi si abbrac­ciano).

Sirena                     - (guardandoli) Vivrete felici. Le carte non ingannano mai.

Fidanzato               - (al colmo della gioia, fa l'atto di darle altre monete) Tenete. Per voi.

Sirena                     - (rifiutando) No. Perché? Avete pagato alla porta. Io non c'entro. Sono le carte.

Fidanzata               - Grazie. Vi manderemo i con­fetti.

Sirena                     - (fa un cenno della mano, come di­re « addio »).

(i due Fidanzati escono tenendosi stretti stretti).

Sirena                     - (è assorta, poi si scuote, incomincia a fare le carte per se stessa. Ad un tratto, scoprendo una carta, trasalisce. La porta al petto) Lui. Lui. Sempre lui.

Pagliaccio               - (entra da sinistra, sollevando un lembo di tela. È ancora truccato. Ampia giacca, maniche e calzoni enormi; ai piedi un paio di scarpe grandissime. Parrucca co­lor carota. Naso finto. Berrettuccio in testa. Guancie rosse. Arriva accanto a Sirena, ii lascia cadere su di uno sgabellettó) Auf! Anche questa è liquidata!

Sirena                     - Finito?

Pagliaccio               - Finito. Sci spettacoli. Venti porte ». Trenta « entrate ». L'ho guada­gnata anche oggi la zuppa. E tu?

 Sirena                    - Così.

Pagliaccio               - Poca gente, qui.

Sirena                     - Non un cane. È furibondo. Dice che la colpa è tutta mia. (Ride).

Voce del Capitano - Attenzione. Atten­zione. Attenzione. Poco tempo manca alla cerimonia solenne. Ricordarsi. Stasera alla mezzanotte in punto, tutti alla baracca della Sirena, per assistere al grande avvenimento. Il matrimonio della giovane e affascinante Sirena, la maliarda incantatricc di uomini, con il celebre digiunatore Tantalo El Sik, che proprio allo scoccare della mezzanotte avrà terminato il suo secondo mese di digiu­no. Avvenimento mondano al Luna Park. Il matrimonio della Sirena! Tutti alla Sirena! Tutti alla Sirena! (Piatti, gong, marcetta).

Sirena                     - Hai sentito? Annuncia il mio ma­trimonio col digiunatore...

Pagliaccio               - E tu credi che questo trucco possa servire a qualche cosa? Neppure per sogno. Anche noi, Tanno scorso, in un mo­mento che le cose andavano a rotoli, ricorremmo a qualche cosa di simile: il battesi­mo del figlio del domatore, nella gabbia dei leoni. Fu un disastro... Intanto il pastore, anche con la promessa di una buona elemo­sina alla chiesa e della fotografia su tutti i giornali, non volle saperne di entrare nella gabbia. E la moglie del domatore si barricò in carovana; sembrava una belva, e minaccia­va chi voleva portarle via la creatura. Ti di­co, un disastro. All'ultimo momento, dato che la vendita dei biglietti non era poi da but­tarsi vìa, dovemmo truccare in pieno, e man­dare nella gabbia un boemo travestito da pastore, e un Augusto mascherato da balia, con un fantoccio in braccio...

Sirena                     - E come andò a finire?

Pagliaccio               - Come tutte le cose di questo nostro mondo di tela e di trucchi: in risatacce d'inferno. (Crollando il capo) Qui den­tro tutto è permesso. Quello che non ho mai capito è il carnevale di stanotte, della notte di Natale; il pubblico, che viene qui da noi in una notte come questa, e si scoppia le go­te soffiando nelle trombette di latta, e urla, e fa voci di falsetto, ed entra ed esce dalle baracche come se temesse di non poter ve­dere tutte le nostre buffonate. (Scrolla il capo).

Sirena                     - (sottovoce) Perché Lui non nasce qui dentro. E nemmeno ci vede.

Pagliaccio               - (togliendosi uno scarpone, in­comincia a guardarlo, palparlo, rigirarlo; tutta la battuta verrà detta con l'enorme scar­pe fra le mani) Non è vero. Vedi, è da an­ni, ormai, ch'io vivo nel Luna Park. Ne ho viste di notti come queste, qui dentro. (Sot­tovoce) Nasce qui come altrove. Ho senti­to, capisci? che anche per noi arriva, Lui. Da tanti segni. Per me, che lo aspetto con le gote tinte di rosso, i capelli carota che, lo vedi?, si rizzano (eseguisce) come per una paura tremenda, il naso che si illumina (eseguisce)t le scarpe immense... Arriva per tutti. Basta aspettarlo con fiducia. (Piano) Se ci credi, arriva. Se ci credi, c'è. (Sempli­ce) Bisogna credere. Credo io, che non ho fatto altro che buffonate in tutta la vita... E forse, chissà, qualche volta sarò riuscito a far ridere anche Lui, che mi guardava dall'al­to della tenda, proprio di lassù in cima, do­ve i trapezisti fanno il salto della morte...

Sirena                     - Vorrei credere davvero. Forsecredo. Ma mi vergogno di pensare Lui, qui dentro.

Pagliaccio               - Perché? Io credo che lo si possa pensare in purezza da qualunque luo­go. Provati. Allora, in quel momento, è come ss tu uscissi di qui, da questo trespolo, da queste tende, e te ne andassi per un bel prato fiorito, sotto il sole, vicinissima al cic­lo. Non bisogna aver paura. Anche se si ha molto vissuto. Anche per me, sai, arrivano i momenti di malinconia. Quando penso alla mia vita d'oggi, alla mia vecchiaia stenta, dopo aver fatto ridere re e imperatori, dopo essere stato amico di poeti e di artisti, dopo aver posseduto una casa principesca sulla Zabroic Szelo, a Pietroburgo, e l'equipag­gio più ammirato dopo quello dello Zar! E malinconico, ragazza mia. Credi, è veramen­te triste la sorte del vecchio pagliaccio. Qua­si quanto quella delle donne che furono bel­lissime, ammirate, corteggiate. Meglio una bella morte, là, al centro della pista, mentre entri fra gli applausi, gridando: «Adesso lavoro io». Molto meglio. Eppure continuo a credere, e a sperare. (Si rimette la scarpa).

Sirena                     - Ma tu, almeno, l'hai goduta la tua vita. Guarda me. Sono nata e cresciuta qui dentro. Nelle case con le ruote che van­no, vanno come dannate, senza poter trova­re mai un punto della terra in cui fermarsi e far radici, come le vere case. E in queste baracche di tela, che il vento butta in aria quando vuole, e tutti gli occhi che ci si fic­cano dentro, a scrutarti, a sorprendere i tuoi gesti, la tua vita, i tuoi pensieri. È vita que­sta? Non si può, credi, vivere così. Bisogna ancorarsi, da qualche parte. Bisogna mettere radici, per vivere. È come essere sull'acqua, vedi? Occorre la terra, sotto i piedi, no? per camminare. Così per vivere. Ancorarsi. Comunque. Trovare un punto saldo, senza scegliere. (Quasi con tenerezza) Per noi don­ne può bastare un braccio, a cui appoggiar­si. Un viso, a cui guardare con fiducia. Ma lo vedi, com'è la nostra vita? Siamo fatte di carta anche noi. Come tutto, qui dentro. Non ne posso più. È da anni, ormai, che vi­vo questa vita. Ma sento che non posso più durarla a lungo. Anche se non ho più !a forza di ribellarmi. Di scappare. Di farla finita. (Pausa). Eppure sento che mi baste­rebbe così poco...

Pagliaccio               - Non hai mai trovato un com­pagno, un uomo che ti portasse lontano di qui?

Sirena                     - Forse l'ho incontrato, un giorno, un uomo. Ma era della mia, della nostra razza. Un uomo d'acqua, capisci? Un mari­naio. E sull'acqua è come qui: non ci si àncora, sull'acqua. Non si costruisce. (Pausa). Eppure basterebbe così poco... Vuoi crede­re? Ho accettato quasi con gioia la buffona ta che ha inventato quella canaglia di là: il matrimonio con il digiunatore. Uno scher­zo da fiera, un trucco quasi vergognoso. Ep­pure, a immaginarlo come vero, mi dà qua­si un senso di speranza, una forza. Perché so, non è che un trucco. Ma immagino ci sia un fondo di verità. Vedi, a che cosa sono ri­dotta? Tutto questo, che per un'altra donna sarebbe una vergogna, per me diventa quasi uno scopo di vita. È tutto un trucco, lo so; ma è come se un po' di terra, di terra fer­ma, mi giungesse sotto i piedi. Vivo anco­ra, ecco. Ho motivo per vivere ancora.

Pagliaccio               - Ti capisco. Sei una povera creatura, anche tu. Come me. È la sorte ditanti. Di chi non sa costruire sul solido. Io he sempre fatto ridere fino alle lacrime, fingendo di togliermi questo dito (eseguisce il giochetto con il pollice), ingoiandolo, fa­cendolo riapparire. La vita non è fatta di queste sciocchezze. La vita. La vita vera è fatta di cose molto più serie. Me ne accorgo troppo tardi. Adesso pago.

Capitano                - (entra battendosi rabbiosamente lo scudiscio sui gambali) Addio spettacolo! Tutto va a monte, proprio adesso, un quar­to d'ora prima della mezzanotte, dell'ora fissata per lo spettacolo! È una maledizione, questa.

Pagliaccio               - (alzandosi) Che cosa c'è?

Capitano                - C'è che i dottori hanno fatto interrompere l'esperimento del digiunatore, hanno strappato i sigilli dell'urna di vetro, hanno fatto arrestare quell'idiota!

Pagliaccio               - Si è scoperto il trucco?

Capitano                - In pieno. Lo hanno sorpreso mentre succhiava brodo di gallina da una cannuccia introdotta nella cassa. Farabutto. Altro che durarlo due mesi, il digiuno. Ci sto un anno intero, io, a far nulla notte e giorno, dormire come un pascià e buttar giù barili di brodo ristretto.

Sirena                     - E adesso?

Capitano                - Siamo a terra un'altra volta. Dove lo pesco un cretino come quello, che venga qui per pochi soldi a farti da marito? Maledetto il destino. (Furente) Ma quando esce dalla guardina gli rompo il muso, a quel truffatore! C'era gente così, nella sua baracca. S'è giocato una posizione, brutto vigliacco.

Pagliaccio               - Vediamo se posso aiutarti. Cerchiamo al Circo, se c'è qualcuno da poter ingaggiare... (Esce con il Capitano).

(Sirena resta sola. Ed ecco che, ad un tratto, tutte le voci, tutte le musiche del Luna Park cessano d'incanto. Un grande silenzio).

Sirena                     - (estatica, sillabando) Se ci credi, arriva. Se ci credi c'è.

Michele                  - (entra dalla porticina d'ingresso. È a capo scoperto, stringe un fagottino sotto il braccio. Non è più il Michele di prima. Smunto, emaciato. Occhi quasi senza sguar­do. La sua voce è senza echi, afona, lontana. Muove pochi passi, rimane fermo immobile, gli occhi vaganti intorno. Poi, improvvisa­mente, s'accorge di Sirena. E uno strano sorriso ebete gli spacca la maschera gelata).

Sirena                     - (volgendosi, lo vede. Quasi non lo riconosce. Poi ha un gesto ingenuo: si porta le mani al cuore) Tu? Sei tu?

Michele                  - (le va lentamente accanto; le sfiora una mano con un gesto timido, fanciullesco).

Sirena                     - (quasi senza voce, tenendosi sem­pre le mani congiunte, sul petto) Sei qui, sei qui... Ti ho aspettato tanto... Temevo di non poterti vedere mai... Sei tornato... Sei proprio tu...

(Timidamente, goffamente, lo tocca alle spalle, sul petto, azzardando una carezza sui capelli).

Michele                  - (guardando in alto, accennando ai festoni di carta colorata) Bello! Tutto bello, qui. Ballare, bisogna ballare. (Ride).

Sirena                     - (con improvvisa disperazione) Ma senti, guardami, guardami negli occhi... Sei tu, proprio tu? Mi riconosci? Sai chi sono?

 Michele                 - (guardandola fissamente, com­piendo uno sforzo per ricordare) Si... Si... Mia, soltanto mia...

Sirena                     - Il mio norne; ricordi il mio nome?

Michele                  - (tenta pronunciare il nome, ma dalle labbra gli esce un balbettìo infantile).

Sirena                     - Sirena, Sirena; ricordi?

Michele                  - Si-re-na. (Fermo) Sirena, Si­rena.

Sirena                     - (traendo dal seno il nastro della « Speranza » donatole da Michele nella camera d'albergo) E questo, ricordi questo?

Michele                  - Questo...

Sirena                     - Me l'hai lasciato tu, in tuo ricor­do... Il nome del tuo veliero « Speranza ».

Michele                  - Speranza... Sì. (Pausa). Mare, tanto mare. (Improvvisamente) Bisogna camminare di più... Correre, correre... Voglio arrivare da solo, prima di tutti... Correre...

Sirena                     - (torcendosi le mani) Dio, Dio...

Michele                  - (porgendole un involto) Ecco. Tua. E questo... (Trae dalla blusa il fazzo­letto annodato, con i doni).

Sirena                     - (tira fuori dall'involto la bambo-letta di Marianne) Mia?

Michele                  - Tua. Mia.

Sirena                     - Nostra. Dì, nostra?

Michele                  - (ridendo) Sì. Sì.

Sirena                     - Ma i tuoi compagni? Dì, i tuoi compagni, la tua nave?

Michele                  - (come se volesse compiere uno sforzo per ricordare) Non so...

Sirena                     - E Pietro, il tuo amico?

Michele                  - (c. s.) Pietro... Non so. Cammi­nare, correre... Tanta acqua... acqua.

Sirena                     - Ma chi ti ha accompagnato fin qui?

Michele                  - (pausa) Non so. (Seguendo un filo di ricordo) Mano... Una mano...

Sirena                     - Ti hanno condotto per mano? Fin qui? Come un bambino?

Michele                  - (con gioia improvvisa, battendo le mani) Sì... per mano.

Sirena                     - (prendendogli una mano) Così?

Michele                  - (rabbrividendo) No. Un'altra.

Sirena                     - Un'altra mano... (Abbandonan­dola) Più leggera, più ferma. Non la mia.

Michele                  - (afferrandogliela ancora, con spa­simo) Così, sempre così.

Sirena                     - (traendolo a sé, con voce dolcissi­ma, come parlando a se stessa) Ecco tutto quello che io posso avere di te. Che cosa ti è accaduto? Lo saprò mai? Non importa, non cerco... E che cosa posso essere io per te? (Passandogli una mano sui capelli) Una madre, ci vorrebbe. Con una mano più leg­gera, più calda, più ferrna della mia.

Michele                  - (stringendosele improvvisamente accanto, spaurito, tremante) Qui, vicino n te. Non mandarmi via.

Sirena                     - (come tra sé)- Qui con me. (Guar­dandolo con tenerezza) Sono già mamma. Senza sapere come. Senza aver sofferto nella carne. Si può esserlo, senza aver sofferto?...

Michele                  - (afferrandole una mano, bacian­dola, cade in ginocchio accanto a lei, formando corpo con il trespolo e la persona di Si­rena) Qui, per sernpre, con te...

Pagliaccio               - (entra seguito dal Capitano. Vede la scena. Si ferma un istante) O que­sto? Chi te l'ha mandato tra i piedi?

 Capitano               - Un quadro bellissimo: l'illu­strazione vivente della Sirena e del marinaio incantato!

Sirena                     - (con un grido) Non mandarlo via. È una povera creatura come me, solo, che non chiede che di rimanere qui.

Capitano                - (ridendo) Un tuo spasimante.

Sirena                     - (implorando) Compi un atto di bontà, il primo, nella tua vita. Tienlo qui. Gli farai fare tutto quello che vorrai. Non chiede nulla...

Pagliaccio               - Può servirti, proprio stasera. Ha il viso patito abbastanza, per poter rim­piazzare il digiunatore...

Capitano                - Bravo! L'idea è buona. (A Mi­chele) Vuoi fermarti qui, stasera?

Michele                  - Sempre.

Capitano                - Non t'impegnare, ragazzino. Ma se vuoi rimanere qui, senza paga, veh! una scodella di minestra ci sarà anche per te.

Michele                  - (cercando di afferrargli una ma­no) Grazie!

Capitano                - Aspetta a ringraziarmi. (Al Pagliaccio) Non li lascio muovere da quella posizione lì, che te ne pare?

Pagliaccio               - Perfetti.

Capitano                - Il matrimonio è già bell'e combinato. (Vedendo la bomboletta tra le mani di Sirena) Toh! E qui c'è pure il cagnolino: tienlo in braccio, così (Le colloca il bamboletto in braccio, e Sirena lo trattie­ne con un gesto stranamente puro e materno) La Sirena addomesticata: davvero non ii riconosco più.

Pagliaccio               - Per una notte come questa è un'attrazione più forte dell'altra. È nata una creatura anche qui dentro. Anche qui sopra e passata una stella.

Capitano                - Magnifico! Hai un'inventiva eccezionale, tu.

Pagliaccio               - (con voce pacata) Meno di quanto tu credi...

Capitano                - Svelti, adesso. (Al Pagliaccio) Aiutami a fare porta. (A Michele e Sirena) Non vi movete. Se no, tu fili attraverso la tenda, capito? E tu... C'intendiamo, no? (Al Pagliaccio) È mezzanotte. L'ora buona. Si crede a tutto, a quest'ora... (Esce, giungono colpi di campana e gong; e il nuovo imboni­mento).

Voce del Capitano - Alla Sirena, alla Si­rena. Avvenimento sensazionale; una fami­glia modello nella baracca della maliarda. Tutti a vedere il terzetto bene assortito: Si­rena, il marinaio e la loro creatura! Il mo­stro marino ha generato! Avvenimento mai visto! La famiglia della Sirena!

Pagliaccio               - (che è rimasto accanto a Sire­na, le mormora, mentre giungono le parole di imbonimento del Capitano) Ha detto: si crede a tutto, a quest'ora... Crederanno anche loro (indica il pubblico) come noi.(Piano, semplice) Se ci credi, c'è. (Pian piano, allontanandosi in punta di piedi) Se ci credi, c'è... (Via).

Sirena                     - (prende una mano di Michele, di­ce, con semplicità) Sei contento, adesso?

Michele                  - (estatico) ... Con-ten-to... (Sulla battuta di Sirena, la marcata acqui­sta la lievita di una musica giocata su di una tastiera d'organo).

TELA