Vestire gli ignudi

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Dramma in tre atti

di Luigi Pirandello

(1922)

PERSONAGGI

Ersilia Drei

Franco Laspiga, già tenente di vascello

Il Console Grotti

Il vecchio romanziere Ludovico Nota

Il giornalista Alfredo Cantavalle

La signora Onoria, affittacamere

Emma, cameriera.

A Roma. — Oggi.

ATTO PRIMO

La scena rappresenta lo scrittojo del romanziere Ludovico Nota. È un'ampia stanza d'affitto, con vecchi mobili scom­pagni, comperati di combinazione: alcuni, più volgari, di proprietà della signora Onoria; altri, del romanziere. Nella parete di fondo, un grande scaffale di libri; in quella a de­stra, tra due finestre guarnite di vecchie tende ingiallite, una scrivania alta, da scrivervi in piedi, col palchetto sotto­stante ingombro di grossi dizionari. Nella parete a sinistra, un divano d'antica foggia ricoperto di stoffa chiara a fiorami, con merletti appuntati sulla spalliera e ai bracciuoli, forse per nascondere il sudicio; poltrone, seggiole imbottite, un tavolinetto con ninnoli: tutto nel riquadro d'un vecchio tap­peto scolorito. In questa parete, presso il proscenio, è la comune. Nella parete di fondo, dopo lo scaffale, è un uscio con tenda che immette nella camera da letto del Nota. In mezzo alla stanza, una tavola ovale con  libri, rassegne, giornali, portafiori, portasigarette, qualche statuetta, e, da­vanti a questa tavola, una greppina con molti cuscini. Appesi alla parete di sinistra e a quella di destra parecchi quadretti di scarso valore artistico, doni di pittori amici. La stanza, benché fornita di due finestre, è piuttosto cupa, quasi in pe-nombra, per la strettezza della via e l'altezza delle case di­rimpetto che la opprimono. La via, sotto, è molto rumorosa e i rumori di essa si udranno nelle pause, ai luoghi indicati: rotolio di vetture, di carri; campanelli dì biciclette; trombe d'automo­bili, stantuffare strepitoso di motociclette, schiocchi di frusta, fischi, suono confuso di voci, grida di qualche venditore ambu­lante o d'un giornalajo, baccano di qualche rissa improvvisa.

Al levarsi della tela, la scena è vuota. Le due finestre aperte lasciano entrare, per un pezzo, i rumori della via. S'apre la comune, a sinistra, ed entra col cappellino in capo Ersilia Drei, come una che non sappia dove. In­dossa un abitino celeste, decente, sciupato un po' dal­l'uso, da maestrina o da istitutrice. Ha poco più di ven­t'anni, ed è bella, ma — cavata or ora di mano alla mor­te — è molto pallida e ha gli occhi come smarriti nel livido delle occhiaje. Guarda in giro la stanza, restando in piedi, in attesa di  qualcuno che deve ancora entrare; accenna di sorridere mestamente a quel che vede; ma, contrariata dai rumori della via, aggrotta penosamente le ciglia. Entra alla fine, nell'atto di rimettersi nella ta­sca in petto il portafogli, Ludovico Nota: bell'uomo, ancora prestante benché abbia di già passato la cinquan­tina. Occhi acuti, lucenti, e sulle labbra ancora fresche un sorriso quasi giovanile. Freddo, riflessivo, privo af­fatto di quelle doti naturali che conciliano facilmente la simpatia e la confidenza, non riuscendo a simulare alcun calore d'affetto, si studia di parere almeno affabile; ma questa affabilità, che vorrebbe essere disinvolta e non è, anziché rassicurare impaccia e qualche volta scon­certa.

Ludovico.   Eccomi   qua!   Comoda,   comoda...   Dio mio, queste finestre

si precipita a chiuderle

sono una vera dannazione! Ma se per poco non ten­go aperto, si rifà qua dentro un tanfo cosi acre di rin­chiuso... Casacce vecchie. Si levi, si levi il cappellino!

Ersilia eseguisce.

Entra dall'uscio in fondo, con sotto il braccio un fagotto di biancheria da letto da mandare al bucato e nell'altra mano una granata, la signora Onoria sui quarant'anni: tozza, goffa, ritinta e pettegola.

Onoria.       Con permesso.

Ludovico    (che non se l'aspetta). Oh, lei era di là?

Onoria        (masticando). Ho rifatto il letto, per come mi ha lasciato scritto questa mattina nella saletta.

Ludovico    (imbarazzato). Ah già.

Onoria        (subito). Ma guardi che se deve servire per...

Guarda Ersilia e s'interrompe.

Ecco, aspetti, è meglio intenderci: vado a lasciare di là questa roba —

Ludovico.   — che non è decente...

Onoria        (subito inviperita). E me lo dice lei, scusi, che non è decente?

Ludovico    (cercando di sorridere). Eh, mi pare! Sente lei stessa il bisogno di sbarazzarsene...

Onoria.       Sissignore.  Ma di «tutto», anche;  non di questa roba soltanto!

Ludovico    (alterandosi). Che intende dire? Sentiamo!

Onoria        (tenendogli testa). Ma di codesta signorina, per esempio, che lei mi porta in casa! Se le par decente...

Ludovico.   Ah, perdio! Parli con rispetto, o —

Onoria.       — o che mi vuol fare?Io le voglio parlar chiaro, infine! Vado a lasciare questa roba, e torno.

Via di furia per la comune.

Ludovico    (accennando di lanciarlesi dietro). Brutta pettegola arrabbiata!

Ersilia        (afflitta, sbigottita, trattenendolo). No, no, per carità! Me ne lasci andare...

Ludovico.   Ma nient'affatto! Quest'è casa mia, e lei resterà qua!

Onoria        (rientrando subito). Sua? Che sua» Camera d'affitto, non è sua! E si ricordi che lei abita in casa di una signora per bene!

Ludovico.   Chi, lei, per bene?

Onoria.       Io, io,sissignore!

Ludovico.   Ne sta dando una prova, difatti!

Onoria.       Sissignore! Difatti! Perché non le permet­to di condurmi donne in casa a dormire!

Ludovico.   Lei è una villana insolente!

Onoria.       Badi come parla!

Ludovico.   Una villana, una villana che non discerne con chi ha da fare!

Ersilia.       Sono una povera malata che esce in questo momento dall'ospedale.

Ludovico.   Ma non si confonda a dare spiegazioni a costei!

Onoria.       Se lei è malata...

Rumore d'un carro pesante che fa tremare i vetri delle finestre.

Ludovico.   Basta, le dico! Lei non può proibirmi di cedere per qualche giorno il mio alloggio.

Onoria.       Ah, no no! Lei non può! Io le camere le ho affittate a lei!

Ludovico.   E se arriva una mia sorella? una mia parente?

Onoria.       Se ne vanno all'albergo!

Ludovico.   Ah; non sono padrone d'alloggiarla qua per qualche notte?

Onoria.       Ma la signorina non è  una sua parente! A chi vuol darla a intendere?

Ludovico.   E che ne sa lei? Se me ne vado io a dormire all'albergo?

Onoria.       Me ne dovrebbe chiedere, a ogni modo, e con garbo, il permesso.

Ludovico.   Anche il permesso?

Onoria.       Sissignore, e con garbo! E se sente qua tutto questo tanfo insopportabile, scusi, perché non se ne va? Magari mi lasciasse le stanze libere!

Ludovico.   Gliele lascerò difatti, e subito! Intanto la prego di levarmisi dai piedi!

Onoria.       Mi lascia le stanze?

Ludovico.   Fra qualche giorno, sì. Alla fine del mese.

Onoria.       Ah, allora va bene! Non dico più niente.

Ludovico.   E dunque, se ne vada!

Onoria.       Me ne vado, me ne vado. Si figuri! Non dico più niente.

Via per la comune.

Ludovico.   Ma guarda che pettegola! — Scusi tanto, signorina. Appena entrata, questa bella scena.

Ersilia.       Oh niente! Mi duole piuttosto che, per causa mia...

Ludovico.   No; combatto già da un anno con questa strega: legato, che so! come da un incubo da tutte queste cose lerce qua. Lei forse s'immaginava... la casa d'uno scrittore...

Ersilia.       No, io niente, per me. Ma certo è triste che lei, con tanta fama...

Ludovico.   Avremo per la fine del mese un quartie-rino quieto, su al Macao: in via Sommacampagna, tra i giardini. Andremo a visitarlo domani, insieme. E compreremo insieme la mobilia nuova; e lei si comporrà con le sue mani il suo nido...

Ersilia.       Dio mio, ma per me...

Ludovico.   Dovevo, no — mi dovevo levar di qua: a qualunque costo! Sa, sono... sono come uno che ha sempre da cominciare. Ma sono così contento d'aver avuto quest'estro, di scrivere a lei; e di cominciarla con lei, adesso, una nuova vita. — Stagno: mosche: afa. Tutt'a un tratto si rifiata: aaàh! — Che cos'è? — Niente: s'è levato un po' di vento! — La mia vita è così.

Ersilia.       Non so  proprio come  ringraziarla.

Ludovico.   Ecco... dovresti cominciare a dire, se mai, « ringraziarti »; ma non è il caso, perché debbo io al contrario ringraziar te d'aver accettato il po­co che...

Ersilia.       No, è tanto! tanto! per me è tanto!

Ludovico.   Ecco, per te. Voglio dire per quello che tu lo farai diventare, questo poco che posso of­frirti.

Ersilia.       Ma non lo dica nemmeno!

Ludovico    (con un sorriso, correggendo). «Non lo dire».

Ersilia.       Bisogna che mi abitui. Sono, se sapesse, così mortificata!

Ludovico.   Mortificata di che?

Ersilia.       Ma di questa fortuna...

Ludovico.   Eh via! Perché sono uno scrittore;

Ersilia.       Che il racconto delle mie disgrazie, letto in un giornale, il mio atto disperato, abbiano po­tuto attirare la considerazione, la pietà —

Ludovico.   L'interesse, l'interesse!

Ersilia.       — d'un uomo come lei

correggendosi subito, con un sorriso penoso

... come te!

Ludovico.   Sì, mi sentii prendere, leggendo quel gior­nale, proprio come quando in un fatto che, così per caso, si viene a sapere, o ci è narrato, avvertia­mo subito, che so!, per una scossa interna, per una improvvisa simpatia, d'aver trovato, senza cer­carlo, il germe... il germe d'una novella, d'un romanzo —

Ersilia.       — che forse lei pensò —

c. s.

...cioè — che tu forse pensasti di scrivere?

Ludovico.   No! Intendimi bene! Non credere che sia stato per una curiosità d'artista! Ho recato un paragone, per farti capire come m'interessai subito.

Ersilia.       Ma se la mia povera vita, tanta miseria e tri­stezza di casi, tante sofferenze servissero almeno a questo —

Ludovico.   — a farmi scrivere un romanzo?

Ersilia.       Perché no? Ne sarei contenta, orgogliosa. — Tanto!

E sorridendo con una grazia che tenta d'avvivarsi, ag­giunge:

Veramente.

Ludovico    (la guarda, e poi dice). Mi fai cader le braccia!

Ersilia.       Perché?

Ludovico.   Perché, senza volerlo, mi dici vecchie.

Ersilia        (subito confusa). Io?   Ma no, dico...

Ludovico.   Un romanzo, cara, o si scrive o si vive. T'ho detto che mi sentii prendere tutto, ma non per scriverlo: per viverlo! Ti tendo le braccia; e tu invece di porgermi, che so!, la bocca, mi porgi la penna, perché scriva?

Ersilia.       Ma è troppo presto   —

Ludovico.   — la bocca — capisco. — O troppo tardi?

Ersilia.       No...

Ludovico    (notando l'impaccio cagionato dalla sua sover­chia disinvoltura). Guarda com'è diverso quello che avviene in me e quello che avviene in te. Io mi son sentito offeso, che il mio interesse ai tuoi casi potesse essere inteso da te come una curiosità di scrittore; e tu invece t'offendi... o per lo meno, via, non sei lieta, se ti dico che lo scrittore, se voleva far opera di scrittore — essendo, diciamo esperto per non dire vecchio — non aveva bisogno né di farti quella profferta né di venire a prenderti adesso all'uscita dall'ospedale, perché il romanzo — io — leggendo su quel giornale i tuoi casi, l'immaginai da me, tutto, da cima a fondo.

Ersilia.       Ah... come? così subito?

Ludovico.   In un momento. Con tanta ricchezza di situazioni, di particolari... Oh, bellissimo! — l'O­riente... quella villetta vicino al mare, con quella terrazza... tu là, istitutrice... quella bambina che precipita dalla terrazza... il tuo licenziamento... il viaggio... l'arrivo qua... la triste scoperta... — Tut­to, tutto... — così, senza vederti, senza conoscerti.

Ersilia.       Immaginandomi... E come, come? così... come sono?

Ludovico, sorridendo, fa segno di no col dito.

E come allora; Me lo dica

c. s.

...dimmelo.

Ludovico.   Perché vuoi saperlo?

Ersilia.       Perché vorrei essere come tu mi hai immaginata.

Ludovico.   Ma no! Perché tu mi piaci molto, molto di più così. Dico, per me; non per quel romanzo.

Ersilia.       Ma allora... quello che era il mio romanzo, tu l'hai fatto di un'altra?

Ludovico.   Eh, per forza; di quella che avevo immaginata.

Ersilia.       Molto diversa da me?

Ludovico.   Un'altra.

Ersilia.       Oh Dio, ma allora... non capisco, non capisco più   —

Ludovico.   Che non capisci?

Ersilia.       — il tuo interesse... come possa essere per me.

Ludovico.   E per chi vuoi che sia?

Ersilia.       Ma se io non sono quella... se i miei casi, le mie disgrazie... tutto ciò che, leggendo il giornale, t'ha interessato   — dico   — se non t'ha interessato per me... se l'hai visto come di un'altra che non sono io...

Resta come smarrita, sospesa.

Ludovico.   Ebbene?

Ersilia.       Ioallora me ne posso andare.

Ludovico    (ridendo e trattenendola quasi per ischerzo). Ma nient'affatto, cara! Tu, no!  Se n'andrà via quella del romanzo, che non sei tu!

Ersilia        (adombrata, diffidando). Come non sono io? Tu non credi, allora?

Ludovico    (c. s.).Ma sì, credo, credo! — Ora però io ti voglio immaginare invece in una nuova vita: quale sarà, quale potrà essere d'ora in poi, con me. E voglio che anche tu te la immagini, quest'altra tua nuova vita, senza più memoria di tutte le cose tristi che ti sono accadute.

Ersilia        (con un sorriso di pena). E allora — non quel­la... non questa  — ancora un'altra?

Ludovico.   Un'altra, già, per come puoi essere.

Ersilia        (voltandosi, meravigliata). Io?

Scotendo il capo, e con un atto appena appena delle mani, che tiene sulle ginocchia.

Non ho potuto esser mai niente.

Ludovico.   Eh via! Come niente?

Ersilia.       Niente... mai...

Ludovico.   Ma se sei, scusa!

Ersilia.       Che sono?

Ludovico.   Ma prima di tutto una bella ragazza.

Ersilia        (con tristezza, stringendosi nelle spalle). Che bel­la, no. E poi, se non ho saputo approfittarne...

Ludovico.   Eh, quando non si sa: è vero. Può anche venire in mente, per disperazione... all'ultimo, pri­ma di prendere un'estrema risoluzione, là, buttarsi allo sbaraglio...

Ersilia        (fosca, voltandosi a guardarlo). Oh Dio... che dice?

Ludovico.   Nono — dico perché l'immaginai, l'im­maginai di « quella »... nel romanzo. Con la dispe­razione di non sapere più come fare... verso sera... guardandosi allo specchio tetro dell'alberguccio... una risoluzione improvvisa: tentazione da folle... Senza più nulla, o con qualche lira appena nel­la borsetta... e l'albergatore che voleva pagato il conto...

Ersilia        (sbalordita, con terrore e con ansia). Ma tutto questo  non era scritto  nel giornale?

Ludovico.   No, l'imma'...

S'interrompe, sorpreso, e subito le domanda, chinan­dosi su lei:

Perché forse è vero?

Ersilia        (nascondendo il volto tra le mani e tremando dal­l'onta e dal ribrezzo).  Si...

Ludovico    (quasi tra sé, in fretta, compiaciuto). Ah, guar­da... guarda com'ho intuito giusto!

Poi di nuovo, addolorato, ansioso:

Scendesti di sera nella strada?

Ersilia        (c. s.).   Sì...   Sì...

Ludovico    (c. s.).E fu... così, con uno della strada» con uno... con uno qualunque che passava?

Ersilia        (senza scoprir la faccia). E... e dopo... non sa­per come fare, dopo...

Ludovico    (subito). Come fare a chiedere?

E poiché Ersilia non risponde, risponde lui, come se lo sapesse:

Nulla, eh? Ah, come è vero! com'è vero! E fu lo schifo, allora, il raccapriccio di quel vano, laido tentativo... Perfetto! Perfetto!

Ersilia scoppia in singhiozzi.

No... Piangi? E perché ormai?... No, no...

Fa per abbracciarla, per confortarla.

Ersilia        (alzandosi, avvilita, mortificata). Mi lasci... Me ne lasci andare adesso...

Ludovico.   Come! Che dici? Perché?

Ersilia.       Ora che sa questo...

Ludovico.   Ma se già lo sapevo! lo sapevo!

Ersilia.       Come lo sapeva?

Ludovico.   Perché  me  l'ero  immaginato!  Non  hai visto?  Intuito  perfettamente...   È  così giusto!

Ersilia.       Ma io ho tanta vergogna...

Scoppia a questo punto un frastuono improvviso e vio­lento giù nella via. Come per un investimento. Fracasso di carri,  baccano, grida minacciose, grida d'impreca­zione, fischi, bestemmie.

Ludovico.   Ma no, che ver...

S'interrompe, per volgersi verso le finestre.

Ma che diavolo avviene?

Ersilia.       Gridano... Forse qualche disgrazia...

Il baccano cresce. Si grida: « Ajuto! Ajuto!» — Entra a precipizio, spaventata, la signora Onoria.

Onoria.       Hanno investito un povero vecchio, un po­vero vecchio; schiacciato contro il muro! Qua sotto le finestre!

Corre ad aprire una delle finestre. Ludovico ed Ersilia si affacciano all'altra.

Come le finestre sono aperte, il baccano della via invade la scena per qualche minuto. Un'automobile e una carrozza si sono scontrate: l'automobile, sterzando, ha schiacciato contro il muro un vecchio che non ha fatto in tempo a scansarlo. Il vecchio è moribondo, o già morto: è sollevato da tanti, tra la confusione, le grida; cacciato in una vettura, che parte di corsa per l'ospedale. La scena esterna risulterà evidente attraverso le grida confuse e scomposte della folla, tra le quali, dopo un grande urlo e le prime acutissime esclamazioni:

— «Ah! ah! Dio! Dio! Ajuto! Ajuto!»

 possono emerger queste:

 «Pove­retto!» — «Schiacciato!» — «Da' addietro!» — «Ecco che scappa!» — «È scappato!» — «No! No! Afferralo! Afferralo! » — « È morto! » — « È un vec­chio! » — « Correte! Correte! » — « Tenetelo! » — « Schiacciato! » — « È morto! » — « Ho sterzato! Ho sterzato!» — «No, lui: me venuto addosso!» — «Non è vero!» — «È stato lui! lui!» — «In gale­ra!» — «Fucilarli!» — «Largo! largo!» — «No, no! Non è morto!» — «Uh, poveretto!» — «Corri, corri!» — «Alla Consolazione!» — «Meglio a S. Giacomo!» — «Il cappello, oh!, il cappello!» — «Povero vecchio!» — «Assassini! assassini!» —

Sulla scena l'agitazione della folla sottostante si riper­cuote nelle mosse e nelle esclamazioni dei tre affac­ciati.

Onoria.       È morto... è morto... Oh poveretto... Uh, tenetelo, tenetelo... Voleva scappare... Che faccia! E si difende, oh!... L'ha schiacciato come una ra­nocchia!

Ersilia        (allontanandosi con orrore dalla finestra). Dio, che spettacolo, che spettacolo!

Ludovico    (richiudendo  la finestra).  Sarà  qualche  povero vecchio impiegato. — Signora Onoria, chiu­da, chiuda, perdio!

Onoria.       Se lo sono portato! Sarà morto!

Ludovico.   Se non è morto, non arriverà all'ospedale.

Onoria.       Vado giù, vado giù a domandare! Che di­grazia! Che disgrazia!

Via in fretta per la comune.

Ludovico.   Per un budello così lercio, che nei giorni di pioggia non si sa più come camminarci, un traffico indiavolato di carrozze, di carri, d'automo­bili. E ci fanno anche il mercato! Hanno il corag­gio di farci anche il mercato!

Ersilia        (dopo una pausa, con gli occhi fissi, impauriti). La strada... Che orrore!

Ludovico.   E che scuola per chi scrive! Si libera degli impedimenti volgari, l'immaginazione. Come se si campasse sulle nuvole! Ma la strada c'è con la gente che vi passa, i rumori della vita; la vita degli altri, estranea ma presente, che frastorna, interrompe, intralcia, contraria, deforma... Noi vogliamo stare insieme, comporre insieme una bella favola? Si, e supponi che fossi stato io, per caso, giù nella strada, investito. Che staresti a fare più qua, tu? Ma già t'avvenne d'avere interrotta la vita così, da un caso imprevisto; la caduta di quella bambina dalla terrazza.

Pausa.

Ersilia        (assorta, tentennando lievemente il capo). Servi­re... obbedire... non potere esser niente... Un abito di servizio, sciupato, che ogni sera si appende al muro, a un chiodo. Dio, che cosa spaventosa, non sentirsi più pensata da nessuno! — Nella strada... — Vidi la mia vita, non so, col senso che non esistesse più, come sognata... con le cose che mi stavano attorno, le rare persone che passavano per quel giardino di mezzogiorno, gli alberi... quei sedili... — e non volli, non volli esser più niente...

Ludovico.   Ah no — questo — vedi? — questo non è vero.

Ersilia.       Come non è vero? Mi volli uccidere!

Ludovico.   Già! Ma creando tutto un romanzo —

Ersilia        (di nuovo adombrata).  Come, creando:   Credi che abbia inventato?

Ludovico.   Nono; dico in me, che lo creasti in me, inconsapevolmente, raccontando i tuoi casi.

Ersilia.       Quando mi raccolsero in quel giardino —

Ludovico.   — sì; e poi all'ospedale. Scusa, come non volesti essere più niente, se fosti la pietà di quanti lessero codesti tuoi casi in quel giornale? Tu non sai la commozione che si diffuse in tutta la città alla narrazione di essi, l'interesse che suscitasti. Ne hai una prova in me!

Ersilia        (con ansia che nasce da quella diffidenza). E ce l'hai ancora?

Ludovico.   Che cosa?

Ersilia.       Quel giornale!  Vorrei leggerlo, vorrei leg­gerlo. Ce l'hai ancora?

Ludovico.   Credo, sì.  Devo  averlo  conservato.

Ersilia.       Cercalo, cercalo! Fammelo vedere!

Ludovico.   Ma no! Perché vuoi tornare adesso a turbarti?

Ersilia.       Fammelo vedere, per piacere! Voglio legge­re, voglio leggere quello che scrissero.

Ludovico.   Ma quello stesso che dicesti tu, suppongo.

Ersilia.       Non ricordo più bene quello che dissi in quel momento, capirai!  —  Voglio  vedere.  Cercalo!

Ludovico.   Chi sa dove l'avrò messo! Col mio disor­dine... Lascia. Poi lo cercheremo insieme.

Ersilia.       Raccontava tutto, a lungo?

Ludovico.   Uh, più di tre colonne di cronaca. D'e­state, capirai, i giornalisti — capita un caso come il tuo — una bazza: riempiono il giornale.

Ersilia.       E di lui, di lui, che dicevano?

Ludovico.   Mah, che ti aveva ingannata.

Ersilia.       No, dico di... di quell'altro!

Ludovico.   Del console?

Ersilia        (vivamente contrariata). Diceva il console?

Ludovico.   Il nostro console a Smirne.

Ersilia        (c. s.).Oh Dio mio, anche il nome della città? M'avevano promesso di non dirlo!

Ludovico.   Oh sì! I giornalisti...

Ersilia.       Ma che bisogno ce n'era? Il fatto restava tal quale anche senza la determinazione del luogo e della qualità delle persone. Ma che dicevano?

Ludovico.   Che dopo la caduta della bambina dalla terrazza —

Ersilia        (coprendosi il volto con le mani). Povera piccina mia! Povera piccina!

Ludovico.   — s'era dimostrato d'una crudeltà feroce.

Ersilia.       Non lui! La moglie, la moglie!

Ludovico.   Anche lui, dicevano.

Ersilia.          Ma no! La moglie... — Dio mio!

Ludovico.   Perché gelosa di te. — Eh, me l'immagino! — Un gendarme —

Ersilia.       No! Che! Piccola — magra ruvida gialla — un limone!

Ludovico.   Oh guarda! Io... Ma sai come la vedo viva: così, alta, nera, con le ciglia giunte: potrei dipingerla!

Ersilia.       Ma tu vedi tutto il contrario! Chi sa come allora vedevi anche me! No no: è invece come ti dico io.

Ludovico.   Già, ma è che a me, veramente, serviva un donnone, perché vedo la bambina gracile gracile.

Ersilia.       Ma che gracile! Oh Dio, la mia Mimmetta!

Ludovico.   IoTitti difatti la chiamavo.

Ersilia.       Ma che  Titti, Mimmetta!  Mimmetta!  Un fiore, ti dico. Traballava tutta su quelle gambottole rosee! A ogni passino le sobbalzavano perfino le guance e tutte quelle boccole d'oro! Voleva bene a me, a me soltanto!

Ludovico.   E anche di questo, naturalmente, lei sarà stata gelosa.

Ersilia.       Eh, altro! Di  questo soprattutto! E fu lei, sai? lei, quando venne quell'altro, in crociera —

Ludovico.   — il tenente di vascello?

Ersilia.       — sì; lei, lei a crearmi attorno, quella notte — apposta — l'incanto che mi doveva perdere; là, sola, in quel giardino, come inebriata, con quelle palme, gli odori... quegli odori...

Ludovico.   È bella, è bella, perché sa così di mare, di sole, di notte orientale, la tua storia!

Ersilia.       Se non l'avessi sofferta —

Ludovico.   — con quella strega: me l'immagino! — Ma è la perfidia, capisci, di chi non ha mai goduto, e sa che il godimento apparecchiato insidiosamente a un'altra sarà presto scontato col più amaro disin­ganno... — Bellissimo!

Ersilia.       L'avessi vista... — Materna! — Perché lui ave­va formalmente chiesto la mia mano a lei e al con­sole, a cui ero affidata. — Uh, tutte le larghezze! — E poi, quando lui parti... Dio, come si fa a cambiare tutt'a un tratto, da così a così? — Una vessazione che non ti dico; niente più che le andasse bene: av­vilirmi minuto per minuto. E alla fine, incolpata della disgrazia —

Ludovico.   — mentre era stata lei a mandarti fuori di casa per non so che servizio!

Ersilia        (subito voltandosi impressionata e contrariata). Chi l'ha detto?

Ludovico.   Era scritto nel giornale.

Ersilia.       Anche questo?

Ludovico.   L'avrai detto tu...

Ersilia.       Ma no... io non ricordo... non credo...

Ludovico.   Possibile che l'abbia immaginato io, allora? O l'avrà forse inventato il giornalista per colorir meglio la crudeltà di quel licenziamento su due piedi, senza neanche volerti pagare il viaggio di ritorno. Questo è vero!

Ersilia.       Questo sì! questo sì!

Ludovico.   Quasi avessi dovuto tu, invece, pagar loro la figlia!

Ersilia.       E me ne minacciò, difatti; si: me ne avrebbe accusato come d'un delitto, se non avesse temuto che sarebbero venute fuori certe cose —

Ludovico.   — sul conto di lei? — Ah, dunque vedi che è vero?

Ersilia        (turbata). No... non voglio dire... non voglio dire... Mi dispiace anzi, se hanno stampato che fu lei a mandarmi fuori. — Non vorrei pensare più a nulla, adesso, di quanto avvenne là. — Penso al viaggio, a quello che soffersi. Sono sicura che se ne venne con me, su quei piroscafo, la bambina morta, per non restare là coi suoi cattivi genitori. — Ho questa impressione: che la perdetti, quando scesi dall'albergo, quella sera.

Ludovico.   Ma appena arrivata qua, scusa, non andasti a cercar lui?

Ersilia.        l'indirizzo. Gli scrivevo fermo in posta. Andai al Ministero della Marina. Mi dissero che non era più in servizio.

Ludovico.   Ma dovevi rintracciarlo, perché ti desse conto dell'inganno, del delitto, perdio, che aveva commesso!

Ersilia.       Non mi son saputa mai far valere.

Ludovico.   T'aveva promesso di sposarti!

Ersilia.       M'avvilii. — Come mi dissero ch'era alla vigilia del matrimonio, l'impressione di questo tra­dimento, così crudo, inaspettato, fu tanta, che — m'avvilii. Non avevo più neanche due lire nella borsetta; e... andare come una mendicante...

Si porta il fazzoletto agli occhi. Poi, fissando il vuoto:

Nel giardino, stringendo nella mano quelle com­presse di veleno, ripensai alla bambina e mi feci co­raggio col pensiero di lei, che avendola perduta la sera avanti, sarei andata a ritrovarla.

Ludovico.   Via, via, via! Non bisogna più pensare a codeste cose, adesso! Su, animo!

Ersilia         (dopo  una pausa, con   un  sorriso  mestissimo). Sì, ma almeno — almeno  fammi esser «quella»!

Ludovico.   Quella, chi?

Ersilia.       Quella che tu immaginasti. Dio mio, se fui, almeno una volta, qualche cosa, per come tu hai detto, voglio essere io, nel tuo romanzo; io « que­sta», come sono! — Mi pare un tradimento, scusa, che tu ci debba vedere un'altra.

Ludovico    (ridendo). Oh, bella! Come un'appropria­zione indebita, ti pare?

Ersilia.       Ma sì, dei miei casi, della mia vita; io che non volli più viverla; io che ne soffrii fino alla di­sperazione, scusa, ho diritto, mi pare, di vivere al­meno nel racconto che tu ne farai — che sarà bello, oh bello come quell'altro tuo romanzo che ho letto... — aspetta... com'è intitolato?... ah, «L'Esclusa», ecco,  «L'Esclusa».

Ludovico.   «L'Esclusa»? Eh no, carina: sbagli. «L'E­sclusa» non è un romanzo mio.

Ersilia        (restando). Non è tuo?

Ludovico.   No.

Ersilia.       Oh guarda! Mi pareva...

Ludovico.   È di Pirandello: scrittore, che io anzi par­ticolarmente non posso soffrire.

Ersilia        (mortificata, si copre il volto con una mano). Oh Dio...

Ludovico.   Ma no, ma no! Non te ne curare. Avrai confuso.

Ersilia        (con la mano ancora sul volto si mette a piangere).

Ludovico.   Ma dici sul serio? Ne piangi? Eh via! Che vuoi che me ne importi, se hai sbagliato, attribuen­domi un brutto romanzo che non ho scritto?

Ersilia.       No... è che... tutto è così nella mia vita... Non mi... non mi riesce mai nulla...

Si sente picchiare alla comune.

Ludovico.   Chi è? Avanti.

Entra la signora Onoria tutta miele, goffamente intenerita.

Onoria.       Permesso?

Cerca con gli occhi Ersilia.

Dov'è?

Resta, e batte le mani pietosamente vedendola nell'atto di asciugarsi gli occhi.

Oh, piange?

Ludovico    (stupito, non comprendendo quel cambiamento improvviso). Che cos'è?

Onoria.       Ma me lo poteva dire, santo Dio, che la si­gnorina era quella del giornale! La signorina Drei, Ersilia Drei, non è vero? Oh poverina, poverina! Sono tanto contenta, sa? che lei sia guarita, e che sia qua.

Ludovico.   Come l'ha saputo, lei? scusi?

Onoria.       Oh, bella, e non ho letto il giornale?

Ludovico.   No, dico, che sia lei, come l'ha saputo?

Onoria.       Ah, perché è venuto — guardi

gli porge un biglietto da visita

— il giornalista che ha raccontato la storia.

Ludovico.   Qua?

Ersilia        (turbata, di scatto). Il giornalista?

Ludovico.   E che cosa vuole da me?

Onoria.       Dice che ha da domandare spiegazioni urgenti alla signorina.

Ersilia        (c. s.). Spiegazioni?

Ludovico.   Ma basta, ormai, perdio!

Ersilia        (smarrendosi sempre più nel turbamento). Che spiegazioni?

Ludovico.   E chi gli ha detto poi che la signorina si trovava qua?

Onoria.       Ionon lo so.

Ersilia        (subito, a Ludovico). Neanch'io! Non sapevo neppure, quando parlai con lui, che sarei venuta qua... da lei...

Ludovico    (quasi tra sé). Ah, ho capito! ho capito! Sarà stato quel chiacchierone... —

A Ersilia:

Che vuoi fare? Vuoi che passi?

Ersilia.       Ma no... io non so... che spiegazioni debbo dargli?

Ludovico.   Vado io a sentire.

Esce per la comune.

Onoria.       Oh povera figliuola, se sapesse che pianto, che pianto ho fatto leggendo nel giornale tutta la sua storia!

Ersilia        (con grande ambascia, senza darle ascolto, guar­dando verso l'uscio). Ma che vorranno, adesso?

Onoria        (confusa). Ma, forse... chi sa...

Ersilia        (disperandosi). Oh Dio, io non posso più reg­gere a nessuna sorpresa.

Onoria.       Si sente male?

Ersilia.       Ma sì, tanto! — Qua...

Accenna la bocca dello stomaco.

Soffoco! — Mi hanno salvata; ma... chi sa che male mi sarà rimasto qua. Non mi posso neanche toccare. E alle reni, poi, uno spasimo, così fitto, fitto...

Smania e geme.

Oh Dio mio...

Scatta d'improvviso e viene su dalla via il suono sguajato d'un organetto.

Onoria. Si slacci, si slacci...

Ersilia. No, no...

Urtata, offesa dal suono dell'organetto.

Ah, per carità, lo faccia andar via!

Onoria.       Sì, subito!

Caccia in tasca la mano per prendere il portamonete.

Subito!

Corre alla finestra; l'apre; chiama giù il sonatore am­bulante, gli fa segno che se ne vada; ma quello seguita a sonare; e allora lei, buttandogli una manciata di soldi, gli grida:

Ci sono malati!

e ripete il gesto: « Andate via!». Il suono s'interrompe a un tratto. Ella chiude la finestra e ritorna a Ersilia:

Ecco fatto, ecco fatto! Dia ascolto a me, si slacci...

Ersilia.       No... E come? Bisogna che mi tenga su... Ho tanta paura che neanche questo duri...

Onoria.       Che cosa?

Ersilia.       Sono così disperata, se sapesse... così dispe­rata... Non mi posso reggere... Questa fascetta — ah

se la stira

— non la sopporto.

Si sente dalla comune la voce di Ludovico che invita qualcuno a entrare.

Ludovico.   Nono, avanti; passi.

Entra il giornalista Alfredo Cantavalle, seguito da Lu­dovico Nota. Il Cantavalle è un giovanottone napole­tano che vorrebbe essere elegante, tanto che porta perfino il monocolo, e Dio sa con quanto stento. Buon figliuolo. Fronte bassa e molti capelli, ma ancora come di ragaz­zaccio di scuola; viso lungo e grasso e rubicondo; grosse gambe di forma feminea su cui i calzoni pigliano su­bito il grinzo.

Cantavalle. Permesso? — Oh, cara signorina mia: mi riconoscete?

Ludovico    (presentandolo). Il giornalista Alfredo Cantavalle.

Ersilia.       Sì, ricordo.

Cantavalle. M'ha riconosciuto!

Notando la signora Onoria.

E... la signora? Parente?

Ludovico. No. È la padrona di casa.

Cantavalle. Ah, piacere!

S'inchina.

Perché so che la signorina non ha nessun parente. — Voi avete avuto qua sotto, ho saputo, un grave investimento, eh?

Ludovico.   Sì, d'un povero vecchio.

Onoria.       Proprio qua sotto le finestre! Che spavento!

Cantavalle. È morto.

Onoria.       Ah, è morto? è morto?

Cantavalle. Sissignora. Prima d'arrivare all'ospedale.

Onoria.       E chi era? chi era?

Cantavalle. Ancora non si sa.

Rivolgendosi a Ersilia:

Signorina, mi permettete che io mi compiaccia — non solo con voi, del vostro scampato pericolo — ma un poco anche con me? Eh sì, della bella fortuna che ho avuto, e che è ridondata in tanto vostro favore: dico d'aver commosso con la mia povera prosa, raccontando la vostra storia pietosissima, un illustre scrittore!

A Ludovico:

Ma che pazzia, Maestro, va dicendo quel vostro amico? Voi avete commessa la vostra più bella azione!

Rivolgendosi di nuovo a Ersilia:

E non vi potete immaginare, signorina, il piacere che ne ho!

Ersilia.       Sì, è stata veramente per me una fortuna.

Ludovico.   Lasciamo andare, lasciamo andare!

Cantavalle. No, Maestro! Per tante ragioni! Una fortuna, perché possiamo avere adesso la vostra te­stimonianza. Vi par poco? Ora vi dirò... Se posso parlare qua davanti alla signora...

Accenna alla signora Onoria.

Onoria        (contrariata). Mi ritiro, ma... badi che la si­gnorina in questo momento...

Ludovico.   Ti senti male?

Onoria.       Si sente molto male!

Ludovico.   Che ti senti?

Ersilia.       Non so... non so: sudo freddo. Ho qui una smania...

Onoria.       Ma venga, dia ascolto a me; venga con me di là...

Accenna all'uscio in fondo.

Ersilia.       No, no...

Onoria.       Ma sì, sì metterà a letto...

Ludovico.   Vai, vai, se ti senti così male.

Onoria.       Si slaccerà, a letto...

Ersilia.       No, grazie: mi lasci stare. Posso, posso resistere per ora.

Cantavalle. Le conseguenze del veleno, si sa! Ma vedrà che, adesso, con le cure —

Ludovico.   — e la tranquillità!

Onoria.       Iosono a sua disposizione, figliuola mia: si serva di me, come vuole... Se ha bisogno, mi chiami.

Ersilia.       Sì, grazie, signora.

Onoria.       E allora mi ritiro...

Cantavalle. Riverisco, signora.

Onoria        (piano, andandosene, a Ludovico). Non la fac­ciano parlare! Un po' di considerazione! Non ve­dono che faccia ha, povera creatura?

Via per la comune. Ludovico si reca a chiudere l'uscio.

Cantavalle. Sono dolente del disturbo...

Ludovico    (seccato). Vi prego, caro Cantavalle, di far presto!

Cantavalle. Due minuti, due minuti, caro Maestro!

Ludovico.   Ma insomma, si può sapere che diavolo vuole ancora codesto signor console?

Ersilia        (sbalordita, atterrita). Il console?

Ludovico.   Lui, lui, già.

A Cantavalle:

Bisogna metterlo a posto!

Ersilia        (c. s.).Ma che forse è qua;

Cantavalle. Qua, sì: è venuto jeri a far l'ira di Dio al giornale, signorina mia!

Ersilia        (tra sé, disperandosi). Oh Dio... oh Dio...

Ludovico.   E di che cosa vuole una smentita?

Cantavalle. Ma di tutto, dice.

Ersilia        (a Cantavalle). Vede, vede il male che io non volevo, e che lei m'aveva promesso di non fare?

Cantavalle. Io? Male ; Che male?

Ersilia.       Ma sì, di stampare il nome della città, la qualità delle persone!

Ludovico.   Ah, dunque una smentita generale? E come sarebbe?

Cantavalle. Perdonatemi, Maestro, rispondo alla signorina: — Il nome, signorina mia — nome co­me  nome — io  veramente non l'ho  stampato.

Ludovico.   Ma avete fatto benissimo a smascherare —

Cantavalle. — no; io ho detto: «Il nostro console a Smirne ». Che volete che sappia il pubblico che legge. chi sia questo nostro console a Smirne? Non lo sa­pevo neanche io; come non lo so neanche adesso. Tutto mi potevo figurare, tranne che mi dovesse jeri piombare come un fulmine in redazione!

Ersilia        (di nuovo tra sé disperandosi). Dio mio... Dio mio...

Ludovico.   Ma è dunque venuto a Roma per questo ;

Cantavalle. Non per questo, no! È venuto per la disgrazia della figliuola (che noi abbiamo raccon­tato) — e perché la moglie, dice, è come impazzita. Non si può più vedere, là, dove avvenne la disgra­zia, dice — e si capisce!

Ersilia.       Sì, lo diceva, lo diceva...

Cantavalle. Per chiedere un trasferimento, insom­ma, mi spiego ; Ha letto il giornale:

si bacia la punta delle dita

un guajo, Maestro mio!

Ludovico.   Ma perché?

Cantavalle. Come, perché; Ha una posizione uf­ficiale delicatissima da difendere, voi capite: console! Minaccia una querela al giornale, per diffamazione.

Ludovico.   Una querela^ Ma che diceva il giornale, infine, di lui?

Cantavalle. Un sacco di bugie, sostiene, a suo danno!

Ludovico.   Bugie?

Ersilia.       Ionon so ancora che cosa lei abbia scritto su lui, sulla moglie, su quella disgrazia.

Cantavalle. Vi posso giurare, signorina mia, che ho scritto fedelmente quello che m'avete detto voi, né più né meno. Col calore, sì, della commozione che ho provato, ma senza alterare d'un punto né i dati né i fatti. Potete vederlo voi stessa, del resto, leggendo il giornale.

Ludovico    (che s'è recato a frugare tra le carte della scri­vania). Devo averlo... devo averlo...

Cantavalle. Non ve ne curate, Maestro, ve lo manderò io.

A Ersilia:

                           

Dovete vedere, scusate, signorina, l'attenzione che ho voluto avere per voi. Sono venuto qua per sapere come debbo regolarmi contro il reclamo e la minac­cia di questo signore.

Ersilia        (balzando in piedi, con uno scatto convulso d'ira e d'indignazione, dice quasi a denti stretti): Ma non ha nulla da reclamare, nulla da minacciare, lui!

Cantavalle. E tanto meglio, allora! tanto meglio!

Ersilia        (subito abbattendosi sulla greppina). Ah Dio... Come mi sento male... come mi sento male!

Presa da un pianto fitto, improvviso, scatta rabbrividen­do di tratto in tratto come in brevi nitriti, che pajono anche risa, e infine s'abbandona priva di sensi.

Ludovico    (correndo a lei, premuroso, col Cantavalle, a sostenerla, a confortarla). Ersilia, Ersilia! No!

Cantavalle (c. s.).Signorina! Ma no! Per carità! State tranquilla!

Ludovico.   Che hai? No! Non piangere così!

Cantavalle. Non ce n'è ragione, signorina!

Ludovico.   Oh Dio, sviene! — Chiami, chiami la signora!

Cantavalle (correndo alla comune). Signora! Signora!

Ludovico    (gridando). Signora Onoria!

Cantavalle. Signora Onoria! Signora Onoria!

Esce.

Ludovico.   No, no, Ersilia! Dio mio! Sii buona, sii buona... Non è nulla!

Rientra Cantavalle con la signora Onoria che reca in mano una fialetta di acqua antisterica.

Onoria.       Eccomi! Eccomi! Oh, povera figliuola! Le reggano la testa. Ecco, così! Povera figliuola!

Le fa annusare l'acqua antisterica.

Lo dicevo loro di non farla parlare, di non turbarla!

Cantavalle. Ecco, ecco che rinviene!

Ludovico.   Bisogna portarla di là, a letto!

Onoria.       Aspetti, aspetti!

Ludovico.   Ersilia!

Onoria.       Su, su, figliuola mia! Ecco che è passato tutto! Su!

Ludovico.   Su, su, coraggio, Ersilia!

Cantavalle. Non è niente, non è niente, signorina!

Ersilia        (con voce quasi allegra, di stupore bambinesco). Oh Dio, sono caduta?

Ludovico.   No, perché? Ma ci hai fatto prendere uno spavento!

Ersilia.       Non sono caduta?

Ludovico.   Ti dico di no!

Onoria.       Provi, provi se può levarsi in piedi!

Ludovico.   Ecco, sì: piano piano!

Ersilia.       Perché? — M'è parso di cadere... Come se tutt'a un tratto, non so, fossi diventata di piombo...

Guarda anche il Cantavalle, ma subito, appena lo vede, ne ha come un terrore nervoso e balza in piedi.

Oh Dio, no! no!

Vacilla, è per cadere; subito Ludovico e la signora Ono­ria la sorreggono.

Ludovico.   Ma no, via, Ersilia, che cos'è?

Ersilia        (Si ripara, convulsa, dalla vista del Cantavalle e tenta di fuggire). Via! Via! Via!

Onoria        (c. s.).Sì, via, andiamo di là...

La conduce con Ludovico verso l'uscio in fondo.

Ludovico.   Sul letto, sì! Ecco, ti sorreggiamo noi...

Onoria.       Piano! piano! E io starò con lei... Si stenderà...

Ludovico.   Un po' di riposo... e tutto sarà finito...

Ersilia.       Non posso vedere... non posso sentire più nulla...

Onoria        (davanti all'uscio, a Ludovico). Lei resti qua, resti qua! Ci bado io!

Via con Ersilia per l'uscio in fondo.

                           

Ludovico. Mi pare che si potrebbe finire di tormen­tare questa disgraziata!

Cantavalle. Non lo dite a me, che ne sono tanto ad­dolorato, caro Maestro! Ma questo è niente! C'è purtroppo un altro guajo, che la signorina ancora non sa!

Ludovico.   Un altro guajo?

Cantavalle. Eh sì! È meglio che ve ne avverta. È venuto a dirlo in redazione lui stesso, il console.

Ludovico.   Ma mandatelo al diavolo!

Cantavalle. Aspettate! Non me ne dovrei vantare, ma colossale, Maestro mio, è stato veramente co­lossale l'effetto del mio « pezzo ». Pare che la fidanza­ta del giovanotto, indignata dall'inganno fatto qua alla signorina, abbia mandato a monte il matrimonio, capite?

Ludovico.   Ah sì?

Cantavalle. Colossale, come effetto! Tanto più che, scoperto l'altarino, non solo l'indignazione della fi­danzata, ma pare abbia fatto nascere anche il rimorso in lui, nel giovanotto, capite? Per la commozione generale del suicidio come l'ho raccontato io! — Ha perduto la testa!

Ludovico.   Quel tenente di vascello?

Cantavalle. Lui. Si chiama... aspettate... mi pare, Laspiga. Totalmente la testa! — È venuto a dircelo il console.

Ludovico.   E come lo sa, lui?

Cantavalle. Ma perché pare che sia andato a trovar­lo al Ministero degli Esteri il padre della promessa sposa, che gliel'ha detto.

Ludovico.   Ah, è un bellissimo imbroglio!

Cantavalle. Già! Anche per voi, Maestro, che vi ci trovate in mezzo.

Ludovico.   Io?

Cantavalle. E io, come no? eh! Mi ci trovo in mez­zo pure io, minacciato d'una querela...

Ludovico.      Ma questo padre della fidanzata?

Cantavalle. Fa il diavolo a quattro! Perché la figlia, sì, sulle prime s'è indignata; ma poi — capirete — alla vigilia delle nozze — pianti, convulsioni, dispe­razione — uno scombussolamento... — Siccome il console conobbe questo Laspiga là a Smirne, ed ebbe là la signorina come istitutrice —

Ludovico.   — è andato a chiedere informazioni a lui?

Cantavalle. Pare!

Ludovico.   E figuriamoci come gliel'avrà date! La incolpano anche della morte della bambina!

A questo punto, dalla comune rimasta aperta si pre­cipita in iscena esagitato, sconvolto, col pallore e il tre­more di chi non dorme da tante notti e ha quasi perduto la testa, Franco Laspiga. Ha ventisette anni, è biondo, alto, smilzo, veste con eleganza.

Franco.       Permesso? Scusino! — Ersilia? — Dov'è? dov'è? È qua? Dov'è?

Ludovico    (sorpreso col Cantavalle dall'irruzione im­provvisa). Ma come? Chi è lei?

Franco.       Sono Franco Laspiga. Quello, per cui...

Cantavalle. Ah! Il signor Laspiga! — Eccolo qua!

Ludovico.   Qua anche lei?

Franco.       Sono stato all'ospedale: era uscita! Sono corso al giornale, dove ho saputo...

S'interrompe per rivolgersi a Cantavalle:

Chiedo perdono: lei è lo scrittore Ludovico Nota?

Cantavalle. No! Io? Eccolo!

Franco.       Ah, è lei?

Ludovico    (seccatissimo). Io. Ma perdio, com'è? Lo sanno tutti, allora?

Cantavalle. Eh, Maestro, voi vi scordate chi siete!

Ludovico    (con stizza, alzando le braccia). Ma fatemi il piacere!

Cantavalle. Il vostro gesto ha fatto chiasso!

Franco        (stordito, confuso). Che gesto? Dio mio, mi dicano! Non è dunque qua?

Ludovico    (quasi inveendo contro Cantavalle). Non mi sono mica inteso di metterla in piazza, io, e di mettermi in piazza con lei!

Cantavalle.             Ma no! Che dite?

Ludovico    (furioso). Dico che mi sono seccato di tutto questo chiasso!

A Franco:

Lei può credere che la signorina è qua da appena un'ora.

Franco.       Ah, è qua? E dove? dove?

Ludovico.   Sono andato a prenderla io all'uscita dal­l'ospedale. Non sapeva dove andare e le ho offerto ricetto in casa mia; pronto questa sera ad andarmene a dormire all'albergo.

Franco.       Iole sono grato...

Ludovico    (scoppiando, al colmo della stizza). Perché m'è grato? Perché non sono più un giovanotto? Per que­sto m'è grato! Finiamola! Che cosa vuole lei qua?

Franco        (subito, con foga). Io? Riparare, signore, ripa­rare! gettarmi ai suoi piedi, farmi perdonare!

Cantavalle. Alla buon'ora! Bravo! Questo è da galantuomo!

Ludovico.   Avrebbe potuto pensarci prima, mi pare!

Franco.       Ha ragione, sì, non pensavo... avevo vo­luto, voluto scordarmene... Ho passato giorni... Ma dov'è? Di là? Me la lascino vedere!

Ludovico.   Ma non vorrei che in questo momento...

Franco.       No; mi lasci parlare con lei, per carità!

Cantavalle. Sarebbe forse meglio prevenirla.

Ludovico.   È a letto.

Cantavalle. Perché forse, la gioja...

Franco.       Ma sta ancora male? Sta ancora male e

Ludovico.   È svenuta, poco fa.

Cantavalle. E l'emozione, capirete, potrebbe...

Franco        (farneticando). Non pensavo, non credevo che quel sogno... Dio mio, questa fine... — D'un colpo, attraverso la mia vita... Me l'ha spezzata... Tutte quelle grida di giornalai... Mi sono sentito come af­ferrare e gettare a terra... Grida, grida... La mia fi­danzata, il padre di lei, la madre... Anche per la scala, gli inquilini... Corsi subito subito all'ospedale... Non me la lasciarono vedere... Che male, che male ho fatto a tutti! Vedo che tutto il mondo è pieno del male che ho fatto. Me ne sento schiacciare. Debbo riparare, debbo riparare!

Cantavalle. Ma sì, sì, bravo! Non ci vuol altro! È la soluzione migliore, e io ne sono felice, Maestro! Felice!

Viene fuori a questo punto dall'uscio in fondo con le ma­ni per aria la signora Onoria facendo cenno di tacere. Subito richiude l'uscio e si fa avanti.

Onoria.       Zitti! Zitti, per carità, che ha sentito tutto!

Franco.       Che ci sono qua io?

Onoria.       Appunto, sì, e trema tutta, si contorce! Mi­naccia di buttarsi dalla finestra, se lei entra!

Franco.       Come! Perché? Non mi perdona?

Cantavalle (contemporaneamente). Ma come! Anzi... dovrebbe...

Onoria.       No!  È un angelo!  Dice che non vuole!

Ludovico.   Che cosa non vuole?

Onoria        (a Franco). Dice che lei deve ritornare dalla sua fidanzata!

Franco        (subito, forte, reciso). No! È finito! È finito tutto con quella!

Onoria.       Non vuole che adesso per lei sia fatto male a un'altra ragazza!

Franco.       Ma no! A chi? Se è lei, lei, adesso, la mia fidanzata!

Onoria.       Non vuole più saperne!

Franco.       Ma se sono venuto qua per farmi perdonare, per compensarla di tutto il male che le ho fatto!

Onoria.       Per carità, parli piano! Non si faccia sentire!

Franco        (a Ludovico). Vada, vada lei a dirglielo! A persuaderla!

Ludovico.   Ma sì, è la riparazione giusta!

Franco.       Le dica che non pensi più a nulla; che io sono qua per lei; che il mio dovere prima di tutto è verso di lei; e che non faccia nulla, per carità, contro questa fortuna di poter riparare a tempo! Vada, vada!

Ludovico entra nella camera in fondo.

Onoria        (ostinata). Lo fa per quell'altra!

Franco        (di scatto, con irritazione). Ma se già è sconcluso tutto con quella! Tutto finito!

Onoria.       Non vuole! non vuole!

Franco.       Ma come non vuole? Io ormai non posso più tornare indietro! Per me, per me stesso non posso! Perché tutto, ora, m'è rivenuto avanti.

Cantavalle. Il passato! Eh già! La rievocazione!

Franco.       Una cosa che, Dio mio, non so come, mi pareva tanto lontana, tanto lontana! Come sognata! Tanto   che, non so, come se non fosse stata vera quella notte li, quella promessa... — le promesse che si fanno, perché... si, perché allora si devono fare —

Cantavalle. E poi passa tutto...

Franco        (seguitando con foga) — credetti, credetti di non dover più farmene scrupolo; e che lo potessi, nono­stante le lettere che ricevevo da lei e che distruggevo come cose non serie. È incredibile, incredibile come abbia potuto mentire, mentire a me stesso; fare quello che ho fatto — mentre per lei la mia promessa valeva, era tutto vero, vero, e non quasi un sogno, come già per me! Tanto vero che, arrivata qua, il mio tradimento — adesso lo capisco — è stato, è stato per lei come per me, che l'ho toccata fra tutte quelle grida d'un colpo, la durezza della realtà che riviene d'un tratto avanti, e schianta, annienta!

Rientra Ludovico, serio, turbato, risoluto.

Ludovico.   Niente. No. Per il momento non è possibile.

Franco.       Come non è possibile? Ma che dice?che dice?

Ludovico.   Mi ha promesso che la vedrà domani.

Franco.       Oh Dio, ma io questa notte impazzisco! No!

Ludovico.   Non è possibile, le dico! In questo momento non è possibile!

Franco.       Non dormo da tre notti! Me le lascino dire almeno una parola, per carità!

Ludovico    (fermo, quasi con durezza). Inutile insistere!

Attenuando:

Sarebbe peggio per lei, creda!

Franco.       Ma perché?

Ludovico.   La lasci riflettere questa notte. Io le ho parlato; le ho detto...

Franco.       Ma perché non vuole? Se dice per quell'altra, è tutto finito! Ma scusi, se ha voluto uccidersi per me, perché non vuole?

Ludovico    (perdendo la pazienza). Vorrà! Vorrà! Ma aspetti, santo Dio, che si calmi!

Cantavalle. E si calmi anche lei!

Franco.       Non posso... non posso...

Ludovico    (rabbonendosi di nuovo). Dia ascolto a me! Io ho fiducia che domani si persuaderà!

Alla signora Onoria:

Vada, vada lei, intanto, la prego! Non la lasci sola! Onoria (accorrendo). Sì, sì, eccomi, eccomi... Ma ac­cendano, non ci si vede più!

Via per l'uscio in fondo. Ludovico gira la chiavetta della luce.

Ludovico.   Noi intanto andiamo via.

Franco.       Ma non debbo neanche vederla?

Ludovico.   Domattina la vedrà, le parlerà.  Ci sarò anch'io. Adesso andiamo!

Gli fa cenno d'avviarsi per uscire.

Cantavalle. Vedrà che per forza riconoscerà che è la soluzione migliore.

Ludovico    (avviandosi anche lui). Per adesso bisogna la­sciarla tranquilla: soffre, si dibatte... Venga, venga.

Franco        (davanti alla comune). Ma io credevo che, anzi, con la mia venuta...

Ludovico    (a Cantavalle, spingendolo a uscire). Avanti, avanti.

Cantavalle. Grazie, Maestro.

Esce.

Ludovico (a Franco c. s.). Passi. — La sua venuta, anzi...

Via, con Franco, richiudendo dall'esterno la comune. La scena rimane per un momento vuota. Si sentono i ru­mori della via. Poi l'uscio in fondo s'apre, ed entra agi-tatissima nell'atto di riagganciarsi ancora il busto Ersilia, seguita dalla signora Onoria. La scena seguente va recitata con estrema concitazione.

Ersilia.       No, no, voglio  andarmene,  voglio  andarmene!

Onoria.       Ma dove, dove vuole andarsene?

Ersilia.       Non lo so! Andarmene!

Onoria.       È una pazzia!

Ersilia.       Sparire, sparire! Giù per la strada! Non lo so!

Prende il coppellino per rimetterselo.

Onoria        (trattenendola). No, no; io non glielo lascerò fare!

Ersilia.       Mi lasci, mi lasci! Non voglio più restare qua!

Onoria.       Ma perché?

Ersilia.       Perché non voglio più sentire, non voglio più vedere nessuno!

Onoria.       E vuol dire che domani lei non lo vedrà!

Ersilia.       No, no, nessuno! Mi lasci andare, per carità.

Onoria.       Nessuno! nessuno! Lo dirò io al signor Nota! Non dubiti!

Ersilia.       Che colpa ho io se mi hanno salvata?

Onoria.       Lei, colpa? Ma che dice, colpa?

Ersilia.       M'accusano! m'accusano!

Onoria.       No! Chi l'accusa?

Ersilia.       Tutti, tutti! Non ha sentito?

Onoria.       Ma no! Se è venuto per farsi perdonare!

Ersilia.       Che perdonare! Ho parlato di lui, perché credevo di dover morire! Ora basta, ora basta!

Onoria.       E va bene! Basta! Lei lo dirà domani al signor Nota...

Ersilia.       Volevo restare qua in pace...

Onoria.       E perché non può restare, se vuole?

Ersilia.       Perché vedrà che lo faranno seccare, stancare!

Onoria.       Il signor Nota?

Ersilia.       L'ha detto!

Onoria.       No, non credo! Ha un po' la testa per aria; ma è buono, vedrà che è buono in fondo, il signor Nota.

Ersilia.       Ma c'è quell'altro... quell'altro...

Onoria.       Chi?

Ersilia.       Quell'altro, ch'io non volevo neanche nomi­nare! Ha già minacciato una querela al giornale!

Onoria.       Il console?

Ersilia.       Lui! Non mi lascerà più in pace; —

Di nuovo, insorgendo, disperata:

Oh Dio, oh Dio! Me ne lasci andare! Me ne lasci andare!

Onoria.       Ma no! Si calmi, Dio mio! Ci penserà il signor Nota a tenerlo a posto, quest'altro! Che vuole che le faccia, infine, dopo il modo con cui l'ha trattata? Si calmi, via; si calmi...

Ersilia s'abbatte, sfinita, su una seggiola.

Vede che non si regge neanche in piedi?

Ersilia        (disperatamente). È vero, è vero... Oh Dio, come devo fare?

Onoria.       Ritorni a letto, sia buona! Le porterò qual­che ristoro. Poi riposerà tranquilla...

Ersilia        (piano, timida, voltandosi a lei per una di quelle intime confidenze sottintese che si fanno tra loro le donne). Ma lei capisce che... che sono così come m'ha veduta, e...

Onoria.       E...?

Ersilia.       Non ho nulla... nulla, con me... Avevo all'albergo, dov'ero scesa, una valigina: non so che ne sia più. L'avranno sequestrata.

Onoria.       Penseremo domani a ritirarla. Non si dia pena. Manderò, o andrò io stessa.

Ersilia        (c. s.).Già, ma ora... ora sono nuda.

Onoria        (subito, amorevole e premurosa). Ma penserò io, penserò io a tutto! Lei vada a letto, che ci sono qua io! Vada, vada, che io torno subito; faccio presto...

Via per la comune.

Ersilia resta un po' seduta, si guarda intorno come smarrita, poi reclina il capo da un lato, disperatamente stanca. Ma respira male; si passa una mano sulla fronte ghiaccia: ha paura di sentirsi di nuovo mancare; si alza; va ad aprire una finestra. I rumori della via, col soprav­venire della sera, si sono prima diradati, poi son quasi cessati del tutto. Una frotta di giovinastri passa, schia­mazzando; uno canta sguajatamente una canzonetta sentimentale: "Mimosa"; ma il canto a un tratto si spezza tra sghignazzate e urla. Ersilia che è tornata a sedere presso la tavola, aspetta che la frotta di quei gio­vinastri s'allontani e che i rumori sguaiati giù cessino; e dice con gli occhi sbarrati, quasi senza voce:

Ersilia.       La strada...

TELA


ATTO SECONDO

La stessa scena del primo atto, la mattina seguente.

Entrano dalla comune, seguiti da Emma, Franco Laspiga e Ludovico Nota. Ludovico ha il cappello in capo. Franco posa il suo sulla prima seggiola accanto alla co­mune. Poco dopo anche Ludovico poserà il suo.

Ludovico    (a Emma). La signora Onoria?

Emma.          È di là,

indica l'uscio in fondo:

con la signorina.

Ludovico.   Sapete com'è stata la signorina stanotte?

Emma.          Ah, male! Ha sofferto tanto! Credo che non abbia dormito mai. E neanche la signora.

Franco.       Se avessi potuto parlarle jeri sera!

Ludovico     (a  Emma).  Entrate  piano  piano, e  dite alla signora Onoria che ci sono qua io.

Emma.          Sissignore.

S'avvia per l'uscio in fondo.

Ludovico.   È arrivata posta?

Emma           (voltandosi). Sissignore. Lì sulla scrivania.

Apre senza far rumore l'uscio in fondo; esce.

Ludovico    (andando a prendere la posta sulla scrivania, a Franco). S'accomodi, intanto, s'accomodi.

Franco.       No, grazie. Non posso star seduto.

Ludovico    (sbuffando). Oh Dio, apro un po'!

Apre una delle finestre, e si mette a sfogliar la posta, che è solo di giornali. I rumori della via si fanno più distinti, misti a quelli del mercato della mattina. A un certo punto, urtato, richiude e s'avvicina a Franco con un giornale e un dito per segno su una notizia della cronaca.

Guardi qua; legga, legga qua.

Gli dà il giornale.

Franco        (dopo aver letto). Una smentita?

Ludovico.   Già. Dice che la pubblicheranno domani.

Entra per l'uscio in fondo la signora Onoria, seguita da Emma che se ne va dalla comune.

Franco        (vedendola entrare, ansioso). Ah, ecco, ecco...

Onoria        (agitando in aria le mani). Che nottata! Che nottata!

Franco.       E che fa? Non viene?

Onoria.       Se potrà. Sa che c'è anche lei; l'ha suppo­sto; ma non la turbi, per carità! S'era un po' assopita in mattinata.

Ludovico.   E con questo fracasso della via...

Onoria.       No. È entrata la donna a dir che c'era lei con un altro signore, e s'è svegliata. Ho temuto tanto che s'opponesse come jer sera.

Franco        (come a scongiurare). No! No!

Onoria.       No, difatti; ha detto che le vuol parlare.

Franco.       Ah! bene! Si sarà persuasa!

Ludovico.   Ma sì! E se non è ancora persuasa, vedrà che la persuaderemo noi.

Onoria.       Hoi miei dubbi su questo. Ieri sera, come se ne sono andati via loro, se ne voleva  scappare.

Ludovico.   Scappare?

Franco.       E dove? Perché scappare?

Onoria.       Chi lo sa? Via! — Ho dovuto tanto lottare per trattenerla! Ma io non so, non so come l'ab­biano fatta uscire dall'ospedale: non è ancora guarita!

Ludovico    (un po' seccato, con freddezza). Ma veramente, quando è stata con me...

Onoria.       No, che! Ha sofferto pene d'inferno a sor­reggersi, a non far parere che soffriva. Teme tanto che lei si stanchi!

Ludovico.   Io? Ma no... Ora piuttosto...

e accenna a Franco.

Franco.       Sì, sì, la guarirò io! la curerò, la curerò io!

Onoria.       Io  vado  di là un momento  a  riposarmi: non ne posso più: casco dal sonno! Oh ma se ci fosse bisogno di me...

Ludovico.   Sì, vada vada.

Onoria.       Mi facciano chiamare!

S'avvia per la comune, ma torna indietro, rivolgendosi a Ludovico:

Oh, guardi che la poverina non ha più nulla con sé. Le hanno sequestrato la valigia; all'albergo, non so, o in questura. Bisognerebbe incaricarsi di ritirarla!

Ludovico.   Sì, sì, ci penseremo.

Onoria.       Ma presto, oggi stesso! È...

Sta per dire:  nuda, si trattiene; esclama:

Dio mio, e si deve pur comparire! Ci pensa lei?

Franco.       Ci penserò io, ci penserò io!

Onoria.       Credo che sarebbe meglio ci pensasse lei, signor Nota.

Ludovico    (di nuovo seccato). E va bene!

Riprendendosi, con altro tono:

Aspettiamo adesso che lei dica...

Allude a Ersilia.

Onoria.       Per carità, sia buono!

Ludovico    (con stizza).  Ah,  mi  piace! È  lei, ora, a raccomandarmela; lei che jeri...

Onoria.       Ma io jeri non sapevo! Mi pare, Dio mio, come  quando  per istrada  si vede  tra una frotta di   canacci   capitare  sperduta  una  bestiolina,  che tutti — non si sa perché — più è mansa, e più le saltano  addosso e  la addentano, la strappano.  È così smarrita, avvilita, poverina!

Ludovico    (c. s.).Ma anche a me, capirà, pare adesso un'altra cosa.

Onoria.       Chi? Lei?

Allude, con pena, a Ersilia.

Ludovico.   Ma tutta questa storia, che m'ero imma­ginata finta, e così diversa! Non si può dar di peggio. Prima, il giornalista con la sua cronaca; ora qua il signore

indica Franco;

e poi quel signor console, ancora tra i piedi, che protesta...

A Franco:

Ha visto nel giornale?

Franco.       Ma il console Grotti è dunque qua?

Ludovico    (con vivacità per dare ragione della sua stizza). Qua, qua anche lui, qua tutti! E pare che il padre della  sua  fidanzata  sia  anche  andato   a  trovarlo.

Franco        (stupito, turbandosi). Il padre della mia fidanzata? E perché?

Ludovico.   Ma, non so, per avere informazioni!

Franco        (indignato). E che cosa pretendono ancora? Dopo avermi chiuso la porta in faccia! Ah dunque, anche il console Grotti s'è messo  contro  di  lei?

Indica   l'uscio   in fondo,   alludendo  a  Ersilia.

Onoria.       Eh, tutti contro di lei!

Ludovico.   Pare. Anzi, è certo. Capirà, io vivo qua assorto in quello che scrivo.

Franco        (quasi tra sé, con rabbia). Vorrei sapere per qual ragione, il console Grotti...

Ludovico.   Ma lo saprà lui! Per conto mio, le dico, m'ero interessato a un caso di vita: cose, persone; naturalmente come me l'ero immaginate. Ora, tutto questo strascico, tutto questo arruffio, sì, di­co... — ecco, m'ha guastato, m'ha guastato tut­to. — Ma per fortuna, c'è qua ora lei.

Franco.       Sì, sì! Ci sono io, ci sono io!

Onoria.       Basta. Io allora vado.

Congiungendo le mani, per raccomandarsi:

Vedano un po'!

Via per la comune.

Franco        (risoluto, con foga). Penso di riportarmela lontano. Ho modo, ho modo, con le mie aderenze. Ah, lontano, lontano!

Ludovico.   Ma non si esalti troppo! Vede che cosa capita?

Franco.       Già! Ma, e lei?

Allude a Ersilia.

Ludovico.   Eh, mi pare che ne sia la prova più disgraziata. La vittima.

Franco.       Sì, ma perché? Perché io, appunto per « non esaltarmi troppo », come lei dice, l'ho tra­dita, tradendo prima di tutti me stesso! Ho la­sciato il mare, il mare, per affogare così, qua, nel pantano della vita ordinaria.

Ludovico.   Eh, purtroppo, a un certo punto...

Franco        (con crescente foga). No! No! quando ci la­sciamo persuadere che non è possibile vivere come s'è sognato, e che è difficile, inattuabile quello che nel sogno ci pareva facile. Facile, tanto che si toccava!

Ludovico.   Già! Ma perché in certi momenti, caro signore, l'anima si libera di tutte le miserie comuni.

Franco.       Ecco, sissignore!

Ludovico.   Balza su dai piccoli ostacoli dell'esistenza quotidiana; e non ne avverte più i minuti bisogni e si scrolla d'addosso cure meschine e mediocri doveri.

Franco.       Benissimo! E così sciolta, così libera, re­spira, palpita in un'aria fervida, infiammata, ove anche le cose più difficili, le dicevo, diventano facilissime.

Ludovico.   E tutto è fluido e agevole, come in un'eb­brezza divina. Sì. Ma sono momenti, caro signore!

Franco        (subito con forza). Perché l'animo nostro cede, non sa resistere: ecco perché!

Ludovico    (sorridendo). No no. Perché lei non sa che bei tiri le giuoca e che scherzi le combina, che gra­ziose sorprese intanto le prepara la sua anima, respirando, palpitando nell'aereo fervore di quei momenti, sciolta d'ogni freno, destituita d'ogni ri­flessione, accesa, abbagliata in quella fiamma di sogno. Lei non se n'accorge: ma un bel giorno — un brutto giorno — si sente tirato giù.

Franco.       Ecco! Sì! Ma non bisogna cedere! Appunto! Non bisogna lasciarsi tirar giù! E perciò le dico che voglio ritornarmene là, lontano; riportarmela dove lei seguitò a vivere, aspettandomi, lieta, fi­dente, in quella luminosa felicità di sogno, che a me, per un oscuramento di tutto — dello spirito, della coscienza — è parsa come una follia, di cui fossi rinsavito, compiacendomene, come se avessi dato a me stesso una prova di... di saggia disin­voltura, ecco! Ma ora sento, sento che mi si è rifatto quell'animo: mi sono ritrovato! E lo debbo a lei!

Ludovico.   Non si esalti! Vedrà com'è caduta.

Franco.       La rialzerò! La rialzerò!

S'apre l'uscio in fondo: appare Ersilia.

Ah, eccola!

Appena la vede, smorendo, quasi tra sé:

Dio mio...

Ersilia, entra, infatti, coi capelli cascanti, disfatta, pal­lidissima, e va, disperatamente risoluta, verso Ludovico.

Ersilia.       Ci rinunzio, ci rinunzio, signor Nota! Non volevo neanche questo! La sua proposta... No, no, non è possibile! Rinunzio a tutto, a tutto! Ludovico. Ma che dice? Guardi chi c'è qui!

Indica Franco.

Franco.       Ersilia! Ersilia!

Ersilia.       Lei... chi chiama? Vede chi sono? come sono?

Franco        (avvicinandosi a lei con passione). Vedo che ti sei ridotta così; ma sei la mia Ersilia, la mia Ersilia!

Fa per abbracciarla.

Ritornerai ad essere la mia Ersilia!

Ersilia        (arretrando con orrore). Non mi tocchi! Non mi tocchi! Mi lasci!

Franco.       Ma come? Mi dài del lei? Tu che devi essere mia, mia, come già fosti mia?

Ersilia.       Ah, questo è uno strazio veramente insop­portabile! Come devo dire, Dio mio, come devo far capire che per me doveva essere tutto finito?

Franco.       Ma se non è finito! Vedi che non è finito, se io sono qua di nuovo con te?

Ersilia.       Quello che lei fu per me, là — non può più essere ora!

Franco.       Ma sì! Ma sì! Perché sono lo stesso! Sono lo stesso!

Ersilia.       No! Anche per la ragione — glielo dico — che io, io  (e Dio mio, se ne potrebbe accorgere) io non posso più essere la stessa!

Franco.       Ma non è vero! Ti volesti uccidere per me — lo dicesti! E allora?

Ersilia        (fosca, con estrema risoluzione). E allora — non è vero!

Franco.       Come non è vero?

Ersilia.       Non è vero. — Non per te! Se non venni neanche a cercarti... — Ho mentito!

Franco.       Hai mentito?

Ersilia.       Sì! Dissi una ragione... l'ultima, che in quel momento era vera; e ora non più.

Franco.       Non più; perché non più?

Ersilia.       Perché io, per mia disgrazia, ora vivo, sono viva ancora!

Franco.       Per tua disgrazia? È una fortuna!

Ersilia.       Ah no, grazie! Bella fortuna! Mi vorreste condannare a essere quella che io volli uccidere? No, no, basta, quella! — O lasciatela stare con la ragione che disse allora, quella! e che ora non vale più, né per me, né per te! — Basta!

Ludovico.   Ma perché non vale più, scusi?

Franco.       Se per quella ragione volesti morire...

Ersilia.       Ecco!  Appunto!  Morire!  Finire!  —  Non sono morta: non vale più!

Franco.       Come se io non potessi rimediare... Posso!

Ersilia.       No! No!

Franco.       Come no? E allora quella che era per te ragione  di   morire,  dev'essere  al  contrario,  adesso, ragione di vivere, mi pare!

Ludovico.   È così!

Franco.       Sono qua per questo!

Ersilia        (con altra voce, improvvisa, recisa, sillabando, con l'indice e il pollice delle mani congiunti per accompagnare col gesto le sillabe). Stento finanche a riconoscerti.

Franco        (restando). Tu — me?

Ersilia        (stravolge di scatto in aria le mani, e va a sedere, tra lo stupore dei due, che la mirano, come si mira qualcuno che, inopinatamente, ci si scopre del tutto diverso da quel che ci eravamo immaginato prima. Dopo una pausa ella dice): Non mi fate impazzire.

Altra pausa. Poi col tono di prima:

Non stenti forse anche tu a riconoscere me?

Franco        (sommesso, addolorato). Ma no, no... Perché ti pare così?

Ersilia.       Oh, tanto che, sai? se t'avessi visto prima, non avrei più proprio, proprio potuto dirlo...

Franco.       Che cosa?

Ersilia.       Che m'uccidevo per te. Non è vero! — Ma neanche la voce... gli occhi... — Mi parlavi con codesta voce? Mi guardavi con codesti occhi? — Io ti vedevo... — chi sa come ti vedevo!

Franco        (gelando). Tu m'allontani, Ersilia... Mi... mi fai dubitare di me... di te...

Ersilia.       Perché non puoi capirla, tu, questa cosa or­ribile, d'una vita che ti ritorna, così... come... co­me un ricordo che invece d'esserti dentro, ti vie­ne... ti viene, inatteso, da fuori... così cangiato, che stenti a riconoscerlo. Non sai più trovargli po­sto in te, perché anche tu sei cangiato, e non riesci più a risentirti vivo in esso, pur vedendo che si, era vita tua, come tu forse eri — ma non per te! — come parlavi, come guardavi, come ti movevi nel ricordo di quell'altro, senza essere tu.

Franco.       Ma sono io, Ersilia! io che torno a esser quel­lo, che voglio di nuovo esser quello per te!

Ersilia.       Non  puoi.  Dio  mio,  non  capisci?  Perché ora, vedendoti, sono certa che non sei stato mai quello!

Franco.       Io?

Ersilia.       Perché ti meravigli? Mi sono accorta che or ora anche tu sentendomi parlare, hai avuto la stessa impressione.

Franco.       Sì, è vero; ma perché ora dici cose...

Ersilia.       Che sono vere! Perché non te ne vuoi ap­profittare?Tutti ne possono approfittare. Io sola, no! — Per te non è colpa.

Franco.       Ma che cosa, Dio mio, non è colpa?

Ersilia.       Quello che hai fatto a me.

Franco.       Ma come non è colpa, se sono qua per questo?                                                                        

Ersilia.       Nella vita, eh, nella vita, si fa! Si può fare!

Franco.       Ma ne vengono rimorsi, come quello ch'io sento, che è un vero rimorso, sai?, non un semplice  dovere ch'io riconosca verso di te!                              

Ersilia.       Ma se vieni a sapere che non sono quella che credevi e che t'eri immaginata...

Franco        (disperandosi nel sentirla parlare così). Oh, Dio mio, ma che dici?

Ersilia.       Anche lei, signor Nota — un'altra! Ma le giuro che avrei fatto di tutto, io, per essere quella che lei s'era immaginata! — Per lei sì, per lei sì, potevo: perché si trattava di vivere nella finzione, della sua arte! — Ma nossignori, la vita — ecco qua — la vita che m'ero tolta, vede?, non mi vuole lasciare:   m'ha  preso  coi  denti, e  non  mi  vuole? lasciare.  Eccoli qua  tutti, ancora, addosso  a me! — Dove me ne debbo andare?

Ludovico    (piano a Franco). Gliel'ho detto. L'animo della signorina bisogna che a poco a poco si ricomponga, e...

Ersilia.       Mi vuole tormentare anche lei, adesso?

Ludovico.   Iono — al contrario!

Ersilia.       Ma se lei lo sa, che non è più possibile!

Ludovico.   Perché no, scusi?

Ersilia.       Ah, per lei che lo aveva intuito così bene, può non esser nulla; è stato anzi un piacere in­tuirlo! Ma pensi che quello che lei suppose d'una immagine della sua mente, io lo soffersi nelle mie carni vive, che subirono l'onta, il ribrezzo!

Ludovico.   Ah, per questo?

Ersilia.       Glielo dica, glielo dica quello che ho fatto, perché se ne vada!

Ludovico.   Ma nient'affatto! Perché nessuno le può far colpa di questo!

Ersilia.       E allora glielo dico io! — Sappia che mi sono offerta per la strada al primo  che  passava!

Ludovico    (subito, con impeto, a Franco che si copre il volto con le mani). Per disperazione! Alla vigilia del suicidio! Ha capito?

Franco.       Sì, sì! Oh, Ersilia...

Ludovico.   La mattina dopo s'avvelenava in un pub­blico giardino, perché non aveva nella borsetta neanche tanto da pagare il conto dell'albergo! Ha capito?

Franco.       Ma sì! E questo fa crescere il mio rimorso, l'obbligo per me di ricompensarti di tutto il male che t'ho fatto!

Ersilia        (con un grido, esasperata). Ma no, tu!

Franco.       Io! Io! E chi altri?

Ersilia        (con estrema esasperazione). Mi volete proprio far dire tutto — tutto? Anche quello che nessuno confida neanche a se stesso?

Si ferma un momento per contenersi; e poi dice ferma, recisa, guardando innanzi a sé con occhi da pazza:

Misurai freddamente lo schifo provato, per vedere se avrei potuto resistervi! Mi passai la cipria sul viso, prima d'uscire dall'albergo, col veleno nella borsetta dentro un tubetto di vetro. Ne avevo tre di  quei  tubetti, nella valigia.  Istitutrice.  Mi  ser­vivano, a un bisogno, per disinfettare. Inciprian­domi, mi guardai — proprio come lei ha suppo­sto  — nello  specchietto  a  bilico  dell'albergo  sul canterano. Non prima soltanto, ma anche dopo quella prima prova, uscendo per uccidermi. Si! Ma sul sedile  di  quel  giardino, fino  a un momento prima, io non lo sapevo, non volevo saperlo, che l'avrei fatto.  Avrei  potuto,  invece,  come  niente, ritentare la prova; se il caso lo avesse voluto; se fosse passato qualcuno a cui fossi piaciuta o che mi fosse piaciuto. Io non lo so, se mi sarei più uccisa. — La cipria me l'ero data, e anche un po' di ros­so alle  labbra; e m'ero messo apposta quest'abitino celeste. —

Balza in piedi.

Ma se ora sono qua, del resto, scusate, che vuol dire? Vuoi dire che l'ho vinto quello schifo, dopo averlo paragonato con la morte. Non sarei qua con uno che m'ha scritto, senza conoscermi, offrendomi ricetto.

Franco        (con improvvisa risoluzione). Senti! Io lo so, lo so perché parli così, perché provi codesta voluttà di dilaniarti!

Ersilia        (subito violenta). Io? Voialtri!

Franco.       Ah! Vedi? Lo sai dire! La senti come una crudeltà degli altri? E perché vuoi che uno almeno di questi altri, a cui s'è ridestata la coscienza, non ripari a codesta crudeltà?

Ersilia.       Come? Infliggendomela ancora?

Franco.       Ma no...

Ersilia        (martellando le frasi). Io ti dico che finsi, ti dico che non è vero, ti dico che ho mentito, e te lo ripeto! Non sono stati gli altri! Non sei stato tu! — La vita, è stata! Questa vita che mi dura — Dio che disperazione! — senza che mi sia potuta mai, mai consistere in qualche modo! — Ma che altro debbo dirti per allontanarti?

Si sente picchiare forte alla comune.

Ludovico.   Chi è? Avanti!

L'uscio s'apre: entra Emma.

Ludovico.   Che cosa volete?

Emma.          C'è il signor console Grotti.

Ersilia        (con un grido). Ah, eccolo! Me l'aspettavo!

Ludovico.   Vuol parlare con me?

Franco.       Ci sono qua anch'io!

Emma.          No. Chiede di parlare con la signorina.

Ersilia.       Sì, sì, lasciatemi, lasciatemi parlare con lui, vi prego!

A Emma:

Fatelo entrare!

Emma via.

È meglio, è meglio che gli parli. Quanto prima, tanto meglio!

Entra il console Grotti. Bruno, solido, un po' avanti sul­la trentina, veste di nero, e ha negli occhi, in tutto il vol­to,  un'espressione  di  fosca  durezza  contenuta.

Ersilia.       Venga avanti, signor Console.

A Ludovico, facendo la presentazione:

— Il signor console Grotti.

Poi, al Grotti:

Il signor Ludovico Nota —

Grotti         (inchinandosi). Conosco di fama.

Ersilia        (seguitando) — che ha avuto la bontà di volermi con sé.

Indicando Franco:

Il signor Laspiga, lo conosce.

Franco.       M'ha conosciuto in ben altro  tempo!  — Ma ora io sono qua —

Ersilia        (subito interrompendolo). Per carità, non parli!

Franco.       No!

A Grotti:

Guardi!

gli mostra Ersilia,

guardi quella che io, là, le chiesi in moglie!

Ersilia        (fremente). La prego di non aggiungere altro!

Franco.       Non aggiungo altro!

A Grotti:

Le basterà questo sdegno, lo stato in cui la ritrova, per spiegarle le ragioni per cui mi trova qua!

Ersilia        (c. s.,esasperata). Ma lasci il mio stato! Le ho detto che lei non ha nessuna ragione di stare qua;  e  mi piace  ripeterglielo  ora davanti  a  lui, e che lui sappia che il mio sdegno è appunto per codesta sua ostinazione a non volerlo capire!

Franco.       Sì, ti piace ripetermelo, perché sai che il padre della mia fidanzata è andato a trovarlo?

Ersilia        (restando). No! Io non lo so!

Guardando smarrita in un violento turbamento il Grotti e stentando a dominarsi:

Ah... e lei... lei gli ha parlato di me?

Grotti         (freddo, composto). No, signorina: gli ho promesso che sarei venuto a parlare a lei.

Franco        (subito, con forza). Ah, è inutile, sa!

Ersilia        (con scatto imperioso di sdegno). Mi lascino parlare da sola col signor Console!

Immediatamente, con altro tono a Ludovico:

Io la prego, signor Nota...

Ludovico.   Eh, per me...

e fa per avviarsi.

Franco        (a Ludovico, risoluto, trattenendolo). No, no!  Aspetti!

A Ersilia, con rigida fierezza:

Io me ne vado;

a Grotti:

ma voglio dir prima qua al signor Console perché lo riferisca a chi vuol saperlo, che è inutile; inutile, perché non deve dirlo lei

indica Ersilia,

ma devo dirlo io! —

E questo lo sostengo — e fermamente — anche da­vanti a te! — Finora ho pregato, ho supplicato, mi sono rassegnato a sentirti dire, straziandomi, le cose più crude; ma ora basta; ora ti parlo anch'io diversamente! — Tu sei padrona d'allontanarmi, ma questo non vuoi dire che io debba ritornare a chi, dopo aver provato giustamente, come chiun­que, leggendo la tua storia disgraziata, sdegno e vergogna della mia condotta fino a chiudermi la porta in faccia, ora si pente e manda qua ambasciatori!

Grotti.        Ma no! Io non sono qua per questo!

Ersilia.       E io le ho detto che la sua condotta a mio riguardo non è stata affatto la causa di quel mio atto disperato!

Franco.       Non è vero!

Ersilia.       Come! Qua c'è il signor Nota testimonio...

Franco.       Ah, che tu l'abbia detto, sì!

A Grotti:

Le cose più orribili m'ha detto di sé, quelle che « nessuno confida neanche a se stesso! » — Ma io ho la mia coscienza; anche se la tua, per il male clic puoi avermi fatto, t'impone di respingermi! E la mia coscienza, per qualunque cosa egli

indica il Grotti

possa dirti o che tu possa dirgli mettendovi d'ac­cordo nell'interesse d'altri, non cangia! Ecco, volevo dirti questo. —

E ora andiamo. Io so che lei è con me e m'approva. — A rivederla, signor console!

S'avvia verso la comune.

Grotti         (chinando appena il capo). A rivederla.

Ludovico    (che s'è accostato a Ersilia, le dice piano, con tono d'amorevole conforto). Io andrò intanto a occu­parmi di quella sua valigia. Spero di riportargliela tra poco.

Ersilia        (commossa). Sì, grazie. E mi scusi, signor Nota.

Ludovico.   Ma non dica! —

A Grotti:

A rivederla.

Grotti.        La riverisco.

Via per la comune Ludovico e Franco. Subito, appena la comune si richiude, Ersilia fa come per rannicchiarsi e trema tutta, sogguardando con paura il Grotti che si volta brusco a fulminarla con gli occhi, sdegnato e fre­mente. Non resistendo a questo sguardo, ella si copre il volto con le mani, restringendosi in sé, con le spalle alza­te, come si sentisse incombere addosso la furia di lui.

Grotti         (appressandosi minaccioso, dice piano, quasi fi­schiando tra i denti). Stupida! stupida! stupida! Mentire così puerilmente!

Ersilia        (geme spaventata, da sotto il gomito ancora alzato a riparo). Ma uccidermi davvero!

Grotti         (inveendo). E perché? Mentendo poi? Perché farti anche quest'altro rimorso?

Ersilia        (pronta per difendersi). No! Non è per me; non  hai inteso? Dice che non lo fa per me! Gliel'ho gri­dato in faccia; ti giuro che gliel'ho gridato in faccia d'aver mentito, quand'ho detto che m'uccidevo per lui!

Grotti         (con sdegno e con ira). Ma se non ci crede! Non vedi che non ci crede?

Ersilia        (rilevandosi, sdegnosa). E che posso farci io? Non glielo fa credere il rimorso, che deve avere anche lui!

Grotti         (sprezzante). Hai il coraggio di parlare dei rimorsi degli altri, tu?

Ersilia.       E che credi, che debba averne più di tutti, io? Io meno di tutti, ne ho! sì! sì! — Ah, lo so: tu non l'ammetti, perché il coraggio d'uccidermi, io l'ho avuto, e tu no!

Grotti.        Io? Uccidermi?

Ersilia.       No, stai tranquillo: perché non sono stati i rimorsi, neanche per me! Tu, i tuoi, te li puoi so­stenere. Hai da mantenerti, tu. Io mi sono trovata in mezzo alla strada; nuda, io. E allora, sai?, è più difficile; quasi impossibile! M'assali nella dispera­zione, quello della bambina, e dopo aver provato l'ultimo avvilimento: per questo potei farlo!

Grotti.        E non potesti fare a meno di mentire neanche allora?

Ersilia.       Quasi senza volerlo! — Ma perché era pur vero ch'egli s'era promesso a me, là.

Grotti.        Sì, per ischerzo!

Ersilia.       Non è vero! Ma quand'anche, doppiamente vile allora: perché poi, senza saper nulla di quanto avvenne là, dopo la sua partenza, tra te e me, qua s'era fidanzato con un'altra e stava per sposarla.

Grotti.        Ma tu? Tulo sapevi quello che era avvenuto tra te e me: e hai mentito!

Ersilia.       E non era peggio quel che stava per fare lui, che senza sapere nulla della mia indegnità, mi tradi­va, qua, tranquillamente, sposando un'altra?

Grotti.        Ma se questa è la prova che lui, là, non aveva fatto sul serio!

Ersilia.       Non è vero! L'ha detto! E non sarebbe così ora, come tu stesso l'hai veduto! Ma tu lo dici per te, perché ti conviene supporlo, per trovarvi una scusa a quello che facesti là, dietro le sue spalle, appena partito!

Grotti.        E tu hai fatto tutto questo chiasso, ora qua, per impedire ch'egli sposasse un'altra?

Ersilia.       No! Non ci ho pensato nemmeno! L'ho detto quando credevo di dover morire! Non ho voluto impedir nulla, io! E non voglio! Non voglio!

Grotti.        Ma se non avessi trovato qua il suo tradimento, se lo avessi trovato libero e disposto a mantenere la promessa?

Ersilia        (con orrore). No, no! Mai! Non lo avrei ingan­nato! Ti giuro sull'anima della bambina che non lo avrei ingannato! Non andai nemmeno a cercarlo: te lo può dire lui stesso! E fu per questo suo tradi­mento — che da parte sua è stato un vero e proprio tradimento — che io potei dire quella menzogna, che m'uccidevo per lui.

Grotti.        Non andasti a cercarlo?

Ersilia.       No!

Grotti.        E come sapesti allora del suo prossimo matrimonio?

Ersilia.       Ah, sì... andai... andai... là... al Ministero della Marina...

Grotti.        Lovedi, se non andasti a cercarlo?

Ersilia        (con contenuto furore di disperazione; minacciosa). Tu devi ringraziarmi!

Grotti.        Di che? D'essere andata a cercarlo?

Ersilia.       No! — che mi sentii cadere ogni tentazione di vendetta, appena mi dissero là del suo prossimo matrimonio, e che non era più in marina. Tu credi di cogliermi in fallo, con un'intenzione d'inganno, salendo le scale di quel Ministero? Tu non sai con. quale animo io salivo quelle scale, arrivata qua, sperduta, scacciata da tua moglie in quel modo, dopo la sorpresa, in quel terribile momento, tra le grida della gente che avevano raccolto la bam­bina precipitata dalla terrazza. — Ero disperata. Come una mendica, ero, che non veda più altro scampo che nella morte, o nella pazzia. E come una pazza andavo a lui per dirgli tutto, tutto!

Grotti.        Di noi due?

Ersilia.       No! Di te! di te che, dopo la sua partenza, ti approfittasti —

Grotti.        — io solo?—

Ersilia.       — sì; di com'ero rimasta! — Bada che posso dir tutto, io, adesso — quello che nessuno ha mai osato dire — tocco l'ultimo, l'ultimo fondo, io — la verità dei pazzi, grido — le cose brute di chi non pensa di rialzarsi più — di coprire la sua più intima vergogna! — Tu m'atterrasti ancora calda del fuoco che m'aveva acceso lui nelle carni, quando, una vol­ta toccata, non potevo più stare! E nega che ti morsi! Nega che ti sgraffiai il collo, le braccia, le mani!

Grotti.        Oh vigliacca! Tu m'aizzavi!

Ersilia.       Non è vero! Non è vero! mai! — Fosti tu!

Grotti.        Prima, sì! Ma dopo?

Ersilia.       Mai! Mai!

Grotti.        M'afferravi il braccio di nascosto!

Ersilia.       Non è vero!

Grotti.        Non è vero? Bugiarda! M'hai perfino punto con l'ago, una volta, alla spalla!

Ersilia.       Perché lei non mi lasciava tranquilla!

Grotti.        Oh guarda! Lei dice adesso!

Ersilia.       Ioero la serva!

Grotti.        E dovevi ubbidire?

Ersilia.       La carne, la carne ubbidiva! il cuore no, mai! Io  sentivo odio!

Grotti.        Piacere, piacere, sentivi!

Ersilia.       No, odio! Odio, quanto più mi davi piacere, sì! Dopo, t'avrei sbranato, come la mia stessa onta! Non consentii mai col cuore che mi sanguinava, do­po, di prenderne lo stesso piacere, tradendolo, traden­dolo, il mio cuore, come una ladra svergognata! Mi guardavo le braccia nude, e me le mordevo! Ce­devo, cedevo sempre; ma sentivo dentro di me che il mio cuore, no, non si concedeva! — Ah, infame! Mi levasti col vizio l'unica gioja della mia vita — che quasi non mi pareva vera — la felicità di sentirmi promessa —

Grotti.        — mentre qua lui stava per sposare un'altra.

Ersilia.       Lovedi, dunque? Canaglia tutti! E mi vieni a dire in faccia che sono io? Io, perché non ho mai avuto la forza di essere qualche cosa... Dio mio, neanche una cosa... che so, di creta, impastata con le mani, che se ti casca, si spezza, e per terra i rottami almeno ti dicono che era una cosa, che ora non è più! — La mia vita... un giorno dopo l'altro... e nessuno che abbia potuto mai essere mio... Io tutte le cose, come m'hanno voluta, alla ventura... senza potermi mai raccapezzare... strappata di qua e di là... dilaniata... e mai niente che mi facesse dire: Ci sono anch'io!  —

Cangiando tono improvvisamente e rivolgendosi come una bestia fustigata:

Ma tu che vuoi ora? Perché mi comparisci davanti?

Grotti.        Perché hai parlato! Ecco perché! Per quello che hai detto! per quello che hai fatto! Hai voluto morire —

Ersilia.       Mi dovevo star zitta, lo so! Una pietra sopra, e addio!

Grotti.        Una pietra. — L'hai buttata invece con fra­casso, come su un rigagnolo, la pietra; e l'acqua e il fango, schizzando, ha imbrattato tutti; ce l'abbiamo tutti addosso —

Ersilia        — e il fango non scorre più!

Grotti.        Ti s'è fatto come un pantano attorno!

Ersilia.       E volete che vi affoghi io sola, per rimettervi a scorrere, voi, nella vita di tutti i giorni: lui, dopo scoperta la mia vergogna con te, ritornando alla sua fidanzata; e tu agli affari del tuo consolato?

Grotti.        Ma a tutta la mia vita, che tu, maledetta, hai impigliata per un momento, confondendomi! Ma che credi? Che io sia tutto in quella stupidaggine d'ozio, d'un po' di vizio, che ho speso con te; Che mi doveva costar tanto! L'infelicità di tutta la mia vita: la morte della mia bambina!

Ersilia.       Fosti tu! Fosti tu! Io ho sempre davanti, sem­pre, quella seggiola, che non mi desti tempo di ri­portarmi giù dalla terrazza, dov'ero salita con la bambina.

Grotti.        E perché c'eri salita? Il tuo posto era lì accan­to alla stanza dove mia moglie dormiva, malata; per essere pronta ad accorrere, se lei t'avesse chiamata. Che te n'andasti a fare sulla terrazza?

Ersilia.       Iolavoravo, e la bambina giocava.

Grotti.        No! Ci andasti apposta, perché io venissi a cercarti!

Ersilia.       Oh vile! Tu saresti venuto a cercarmi anche nella stanza lì accanto a tua moglie.

Grotti.        No, no.

Ersilia.       Negalo! Come se non lo avessi fatto altre volte! E allora, tanto, non sentendomi riparata neanche lì...

Grotti.        Perché volevi anche tu! Perché volevi anche tu!

Ersilia.       No! Perché avrei finito, dietro le tue tenta­zioni infami e le tue insistenze, per volerlo anch'io — ecco, così devi dire! — Esasperata, per non farlo sentire, di là, a tua moglie... — Ah, sono certa, ora, sono certa che una voce mi parlava dentro, mi di­ceva di quella seggiola, di non lasciarla li, perché la bambina che giocava con le sue cosine sul terrazzo, avrebbe potuto montarci e precipitare dalla ringhie­ra! — Non le potei dare ascolto, a quella voce, perché tu — ti ricordi? — come un bruto, dalla por­ticina del terrazzo insistevi, insistevi! E ora me la sogno, me la sogno sempre — la vedo — là — quel la seggiola — nel sogno ne ho l'incubo — non faccio mai a tempo a levarla...

Scoppia in pianto. Pausa.

Grotti         (assorto, come per un bisogno di veder la sua vita fuori di quell'orrore, mentre Ersilia seguita a piangere, convulsa, sommessamente). Io lavoravo... io ero... ero come lontano da me, sempre... tutto per gli altri... non pensavo che a lavorare; per colmare il vuoto che sentivo nella mia vita, della casa come la sogna­vo e che non avevo potuto avere, per la donna in cui m'ero incontrato, triste, infermiccia, sgarbata. Venisti tu... Come ti trattai, dapprima, come ti trattai?

Ersilia        (teneramente, tra il pianto). Bene.

Grotti.        Perché avevo bisogno, quanto più mi sentivo angosciato da tutta la tristezza della mia vita, di far bene agli altri, di prendermi io tutto il peso, perché gli altri vi respirassero leggeri, nella vita. Per que­sto bisogno di renderla bella agli altri, almeno, per­ché io potessi goderne: io che non potevo. E come ti dipinsi agli occhi di lui, là, quando venne in cro­ciera? che cosa non gli dissi di te, per farti bene, perché egli si innamorasse! Fui anche più affettuoso che mai, allora, verso mia moglie, perché anche lei fosse contenta, e disposta a favorire il vostro innamo­ramento, la buona riuscita di quel mio disegno per la tua fortuna, fatto solo per il piacere che mi sareb­be venuto dall’avertela procurata io, quella fortuna.

— E quando vi vidi tutt'e due innamorati... No, no —  non fu perché compresi che v'eravate abbando­nati troppo, che tu t'eri data a lui... — (questo indignò mia moglie, non me: le fece perdere ogni stima di te.) —

Ersilia.       Ma non m'ero mai data ad altri, io, prima! Fu una vertigine, una vertigine, là... La sera prima ch'egli ripartisse!

Grotti.        Lo so!Compatii... Non pensai neppure di fartene una colpa. E non me ne sarei mai approfittato, se tu —

Ersilia.       — io? —

Grotti         (subito) — non che l'abbia voluto! Ma... non so... come mi guardasti una sera nel levarci di tavola... Perché tu non credevi! Sentii che tu non credevi che io avessi potuto essere così buono unicamente per fare la tua felicità. Ecco, ecco... E per non credere questo, guastasti tutto! Perché avevo più che mai bisogno, io, che tu credessi, per mantenermi, per vincere ogni tentazione —

Ersilia        — ma non mia! non mia! —

Grotti         — no, mia stessa! Ma se tu avessi creduto al mio disinteresse, alla mia bontà, che era pur vera, il bruto non si sarebbe destato in me, all'improvviso, con tutta la sua fame disperata. E anche ora che ti rivedo, dopo che hai seminato la morte, la discordia insanabile tra me e quella donna...

le si fa addosso, con odio, minaccioso:

No, sai?

Ersilia        (arretrando, spaventata). Che vuoi?

Grotti.        Voglio che tu pianga, che tu pianga con me, con me, il male che abbiamo fatto!

Ersilia.       Più di quanto l'ho pianto?

Grotti.        Non voglio essere solo a sentire lo strazio della morte della mia bambina, e che tu debba rimetterti con lui, come se questa cosa orribile non fosse stata!

Ersilia.       No, no! Questo non sarà mai! Ne puoi esser sicuro: mai! Io resterò qua, con chi m'ha accolto —

Grotti.        Non ti sarà possibile! Perché egli è già d'ac­cordo con quello, non hai veduto? Sono andati via insieme. — Si sarà a quest'ora seccato di te, e non gli parrà vero di credere che sarebbe una follia, se tu non accettassi ora il pentimento di lui e la riparazione ch'egli ti offre!

Ersilia.       Ma se gli ho detto che non la voglio!

Grotti.        Sì; come una tua ostinazione irragionevole, che né l'uno né l'altro possono accettare! La vera ragione per cui non vuoi, non gliel'hai detta!

Ersilia.       Ebbene, se occorre, gliela dirò!

Grotti.        E allora gli parrà così laido quello che hai fatto, la menzogna che hai detto, lo scompiglio che hai portato con essa, un matrimonio troncato alla, vigilia, lo scandalo, la pietà carpita, la commiserazione di tutti —

Ersilia        (accasciata, quasi venendo meno). È vero... è vero... ma io... io non volevo questo... L'ho detto anche a lui che ho parlato, che ho mentito, perché credevo che tutto fosse finito. — Non sono cose che si possano dire! Troppo brutte! Sì, laide. — Ce le siamo potute dire noi — così, ora — perché ver­gogna comune. — Come puoi volere tu e perché vuoi che si scopra?

Grotti.        Iomi son sentito rivoltare dalla tua menzo­gna, e come ho saputo da quel padre ciò che essa aveva cagionato, l'indignazione di quella fidanzata, il rimorso di lui, il proposito di riparare, non so come abbia fatto a contenermi davanti a quel vec­chio; son corso al giornale a smentire per quel che mi riguardava! E non sai il furore che s'accese nell'anima di mia moglie, leggendo quel giornale; vo­leva correre li in casa della fidanzata di lui per sve­lare tutto, perché eri stata scacciata di casa, come eravamo stati sorpresi da lei! Le ho dovuto promet­tere, assicurare, che quel tuo inganno sarebbe stato comunque sventato, e che almeno a quella famiglia sarebbe stata ridata la pace. — Capisci?

Ersilia        (c. s.). Capisco... capisco...

Pausa. Sta a guardare un po' innanzi a sé, fosca, e dice:

Sta bene.

Si alza: altra pausa; e aggiunge:

Vattene. — Sarà fatto.

Grotti         (la guarda smarrito). Che vuoi fare?

Ersilia.       Mi dici che bisogna farlo. — Lo farò.

Grotti         (dopo una pausa, seguitando a mirarla). Sei più disperata di me... Come ti sei ridotta... come ti sei ridotta...

Va a lei, fa per abbracciarla.

Ersilia... Ersilia...

Ersilia        (di scatto, fierissima, scostandolo). Ah no, perdio, lasciami!

Grotti         (tornando a lei, abbracciandola, frenetico). No, no... senti, senti...

Ersilia        (dibattendosi). Lasciami, ti dico!

Grotti         (seguitando c. s.). Stringiamo insieme la nostra disperazione!

Ersilia        (con un grido per farsi lasciare). La bambina! la bambina!

Grotti         (subito, staccandosi, riparandosi con le mani la testa, come fulminato). Assassina!

Pausa. Trema tutto, convulso.

Ma io perdo la testa...

Le si riaccosta:

Ho bisogno di te, di te... Siamo due infelici...

Ersilia        (correndo  perso una delle finestre).   Vattene... Vattene... Grido...

Grotti         (seguendola). No... No... Senti...

Ersilia        (aprendo la finestra). Apro e grido! — Ecco!

I rumori della strada invadono allegri la scena. E allo­ra ella accompagnando col gesto la parola, gli impone:

Vattene!

TELA


ATTO TERZO

La stessa scena, lo stesso giorno, verso sera.

La signora Onoria è a una delle finestre, da cui entrano i soliti rumori della via, che a mano a mano si vanno attutendo col declinare del giorno. Affacciata a una delle finestre delle case dirimpetto, si suppone ci sia qualche vicina, con cui la signora Onoria conversa: mentre Emma finisce di spolverare e rassettare lo studio.

Onoria.       Eh sì, poi le dirò...

Pausa.

Fino a mezzogiorno, ma sa com'è? non è mai il sonno della notte...

Pausa.

Come dice? Non sento...

Pausa.

Ah, sì, ora è uscita, col signor Nota... Sì, per la valigia. A lui non han voluto darla.

Emma.          E vedrà che non la daranno neanche a lei.

Onoria        (seguitando a parlar fuori). Eh, non s'è potuto prima.

Emma.          Non sarà mica ogni giorno così, si spera!

Onoria        (voltandosi a Emma). Che brontoli e Non mi fai capire!

Emma.          Ma dico, di rifar le camere a quest'ora. È sera!

Onoria        (tornando a parlar fuori). Il signor Nota sarà uno... Che vuole?

Si mette a ridere.

Pare che voglia tenersela con sé...

Pausa.

Ma no, non vuole più saperne di quello... L'avrà abbracciata lui...

Pausa; poi precipitosamente:

No, no! Non è possibile! Avrà travisto: non è possibile!

Pausa; poi s'inchina e saluta con la mono.

Sì, a rivederla, a rivederla!

Chiude la finestra.

Ma che! Dice che ha visto qua tre uomini, e che l'hanno abbracciata tutti e tre.

Emma.          Anche quel console?

Onoria.       Ma che! Ha travisto! Non è possibile.

Emma.          Li ho sentiti tanto gridare tutti e due, quando sono rimasti soli!

Onoria.       E non hai... non sei riuscita a capire?

Emma.          Oh! non sono stata mica a origliare. — Passando per la saletta, ho sentito che gridavano, e basta. Ma più lei che lui.

Onoria.       Sarei curiosa di sapere che altro pretende da questa poverina, e che cosa è venuto a fare qua; dopo che è andato a protestare contro di lei al gior­nale, minacciando una querela.

Emma.          Non vorrà che rifaccia pace col fidanzato.

Onoria.       E con qual diritto lo può pretendere lui? È lei purtroppo, a non volerlo; e per me fa male!

Emma.          Preferire di restare qua con un vecchio mezzo matto —

Onoria        — che s'è seccato! che s'è seccato! — E credo che già gliel'abbia fatto capire.

Emma.          Forse sarà meglio per lei; si persuaderà così ad andare con l'altro.

Onoria.       Forse, sai cos'è? non si fiderà più del giovine. Benché ora veramente a me pare proprio pentito.

Emma.          Anche a me.

Onoria.       Ma si fa scrupolo di quell'altra, che egli abbandonerebbe ora per lei.

Emma.          Ah, io per me non me lo farei, questo scrupolo! È stata per morirne!

Onoria.       Eh, ma lei sa bene che cos'è vedersi abbandonata! Era detto così bene nel giornale! — Le sarà nato l'odio, adesso. E deve aver capito che qua, il signor Nota...

Fa una smusata.

L'ho vista quand'è uscita con lui. M'è parso che avesse negli occhi, non so, come un velo: guardava e non vedeva; non poteva più parlare, né alzare una mano. Le ho domandato come si sentisse, m'ha fatto un certo sorriso che m'ha gelata; e la mano fredda fredda...

Si ferma a un tratto e sta in orecchi; poi, con altra voce:

Oh senti! mi pare che gridi il mercantino: sì, vai, vai per quella cordellina — due metri e mezzo, co­me t'ho detto. Lo chiamo di qua.

Emma,  via di  corsa per  la  comune.

La signora Onoria corre a una delle finestre; la apre; si sporge a guardar giù nella via e fa un cenno al mercan­tino di fermarsi; poi resta affacciata. Nel mentre, dalla comune, entra Franco Laspiga: fosco: stravolto.

Franco        (tra i rumori che salgono dalla via, domanda dalla soglia della comune, due volte). Permesso?. Permesso?

Onoria        (voltandosi e richiudendo la finestra). Oh, lei, signor Laspiga? S'accomodi, s'accomodi. Il signor Nota starà poco a tornare con la signorina.

Piano, insinuante:

Insista, insista, che la spunterà!

Franco        (la guarda, prima, come uno che non abbia inteso; poi, con rabbia contenuta, ironico). Sì, sì! Vedrà! Ora vedrà come insisterò!

Onoria        (confidenzialmente). L'ha messo a posto a do­vere, sa? deve averlo messo a posto a dovere, quel signor console; glielo dico io.

Franco        (tra i denti). Miserabile... farabutto...

Onoria.       Ha ragione, ha ragione! Povera signorina!

Franco        (di scatto, irrefrenabilmente). Ma che signorina! Non dica signorina! Sa cos'è quella? una sgualdrina è, una sgualdrina!

Onoria        (quasi traballando). Oh Dio, no! Che mi dice?

Entra a questo punto dalla comune col cappello in capo Ludovico Nota.

Ludovico    (vedendo Franco). Ah, lei già qui?

A Onoria, alludendo a Ersilia:

Non è ancora ritornata?

Onoria        (si volta a guardarlo sbalordita: poi, senza rispondergli, si rivolge a Franco). Ma possibile?

Ludovico    (che non capisce). Che cos'è?

Franco        (risoluto, fiero, vibrante). È che la moglie del console Grotti, saputo che lui questa mattina è venuto a trovare qua la sua ganza —

Ludovico    (di scatto, stordito). Chi?

Onoria        (c. s.).Lei? Del console?

Franco.       La ganza, la ganza, sissignori! La moglie è andata questa mattina a casa dei parenti della mia fidanzata a denunziare la tresca!

Ludovico.   Della signorina Drei col marito?

Onoria.       L'amante del marito?

Franco.       Sissignore! E non so ancora se prima o dopo ch'io gliela chiedessi in moglie, là. Voglio saper questo! Sono qua per questo!

Onoria.       Ma come?... Ma dunque?... Oh Dio mio... Mi pare davvero d'andar via col cervello!

Franco.       E sanno come, quando, la moglie scoprì la tresca? Mentre la bambina precipitava dalla terrazza.

Onoria        (con un grido; coprendosi la faccia con le mani). Oh Dio!

Franco.       Li sorprese insieme, e la scacciò come un'as­sassina, perché tutt'e due avevano lasciato la bambina sola sulla terrazza.

Onoria.       Assassini, ah! assassini davvero!

Franco.       Se non era compromesso anche lui, in gale­ra doveva andare! In galera! E dopo aver fatto questo, capisce?  —

Onoria.       — già, ha avuto il coraggio —

Franco.       — di venire a sconvolgere me!

Onoria.       Ma tutti, con la pietà!

Franco.       Ma capiscono che cosa ha fatto a me?

Ludovico    (quasi tra sé). Pare incredibile...

Onoria.       Con quell'aria di santa martire... Impostora!

Franco.       Tutto per aria... La vergogna pubblica... Il vituperio della mia fidanzata... M'è parso d'im­pazzire! Come non sono impazzito, non lo so!

Onoria.       Eccoperché, ecco perché se ne voleva scap­pare! Com'ha visto lei, com'ha saputo che l'altro era qua! L'impostora! Ha previsto che la menzogna si sarebbe scoperta!

Cangiando tono, con stizza:

Gliene voglio per tutte le lagrime che m'ha fatto piangere!

A Ludovico, di scatto:

Ah, sa! Via! Via! Non la voglio più in casa! Non voglio di queste vergogne, io, in casa mia!

Ludovico    (infastidito, sbuffando). Aspetti... aspetti...

Onoria.       Nono no no! Che aspetto! Via! Non la voglio! Non la voglio!

Ludovico.   Ma si stia zitta, perdio! Io ancora non mi raccapezzo. —

A Franco

Scusi un po': come va che il console...?

S'interrompe.

Lo sa che è stato proprio lui, il console, a protestare per il primo contro il giornale?

Franco.       Ma è chiaro!

Ludovico.   No. Come chiaro? Dovevano essere d'accordo, mi pare: amanti!

Franco.       Ma perché c'era qua la moglie con lui! La moglie, di cui ella aveva osato far dire infamie in quel giornale!

Ludovico    (ricordandosi). Ah, già. — Sì sì. E difatti, sì... — ecco perché si turbò tanto, sapendo che nel giornale era detto —

Onoria.       — che quella povera signora l'aveva spedita per un servizio.

Franco.       Dev'essere stata la moglie a imporre a lui almeno questa smentita.

Ludovico.   È allora tutta un'impostura —

Franco.       — vilissima! vilissima! —

Ludovico.   — che abbia tentato di uccidersi per lei?

Onoria.       Ma come si può fare, io dico, a mentire così spudoratamente!

Ludovico    (quasi tra sé, pensando). Eh sì... difatti... Per questo s'è ostinata a non voler da lei nessuna riparazione.

Franco.       Avrei voluto vedere anche questo per giunta!

Onoria.       Ma già, povero signore!

Ludovico    (urtato sempre più dalla sguaiataggine di Onoria, che lo trae a mettersi anche contro Franco). No, scusi: bisogna riconoscere che almeno una resipiscenza l'ha avuta.

Franco.       Ma quando? Quando m'ha visto qua pronto a riparare ciò che credevo una mia colpa.

Ludovico.   Capisco, capisco —

Franco.       E questo, badi, nel migliore dei casi! Voglio dire che fosse diventata l'amante di quello, dopo! Che se fosse prima, io avrei patito — lei se l'imma­gina? — l'inganno più ignominioso da parte di tutt'e due!

Ludovico.   No! Questo —

Franco.       — sono qua, le dico, per accertarmi di questo!

Ludovico.   E che vorrebbe  fare?Non può negare, scusi, d'essersi trovato qua di fronte alla più recisa e violenta opposizione da parte di lei.

Franco.       Ma io dico prima! L'inganno di  prima!

Ludovico.   Eh no, scusi, lei — in ogni caso — non avrebbe patito mai nulla.

Franco.       Ah no? E come? Io —

Ludovico    (fermo). — nulla! neanche prima! — Se stava per sposare qua un'altra, scusi!

Franco.       Ma no, aspetti!

Ludovico.   Mi lasci dire! Lei le aveva già reso il cam­bio, mi pare, anche prima di conoscere l'inganno che loro le avevano fatto!

Franco.       E il mio, se mai, escluderebbe il loro?

Ludovico.   No, certo! Ma non le può più dare il di­ritto di chiederne conto a nessuno. Abbia pazienza!

Franco        (con forza). Sì che me lo può dare! Me lo può dare! Perché loro, il tradimento, lo commisero, lo compirono; mentre io, invece, ho mandato a monte il mio matrimonio e sono accorso qua!

Ludovico.   Quand'ha saputo che ella aveva tentato d'uccidersi —

Franco        (c. s.). — ma non per me! E l'ha confessato lei stessa! Oh bella! Lei rinfaccia a me il mio tradimen­to, quasi che per quella là, il mio, potesse più essere un tradimento!

Ludovico.   No, no — guardi — non rinfaccio nulla io — voglio soltanto dimostrarle che lei ha ragione per una cosa sola: che ella cioè abbia mentito, di­cendo — senza averne più il diritto — che s'uccide­va per lei. E veramente io non riesco a capire il perché di questa menzogna, e proprio in punto di morte! Possono essere utili per la vita, non per la morte, certe menzogne. E per la vita è certo che lei stessa l'ha riconosciuta inutile.

Franco.       Ma lo dice lei, inutile!

Onoria.       Se non vuole tener conto dei fatti!

Ludovico.   Ah, ecco, questo sì! Questo è vero! È il mio difetto, questo. Non riesco mai a tener conto dei fatti.

Onoria.       Meno male che lo confessa lui stesso! E i fatti, sa quali sono? Che è stata salvata: numero uno!

Franco.       E che la menzogna le è stata utile! Sissignore, utile — se non per me — che sarebbe stato il colmo — utile perché ha trovato qua uno come lei.

Onoria.       Figuriamoci: uno scrittore!

Ludovico.   Già: un imbecille.

Franco        (subito). Non dico questo!

Ludovico.   Ma sì, dica pure, dica pure!

Onoria.       Lopuò ben dire, se se lo dice da sé!

Franco.       Certo che sarà stata lusingata — uh! — di vedere accolta, assunta nel regno dell'arte la sua im­postura: questa storia romantica del suicidio per amo­re, narrata non più da un giornalista; ma da uno scrittore come lei!

Ludovico.   E sì, difatti; voleva.

Franco.       Lovede?

Ludovico.   S'è anche avuta per male, che ci vedessi un'altra, diversa.

Onoria.       Bella coppia avrebbero fatta! Lei che le diceva, le bugie, e lui che le scriveva!

Ludovico.   Le bugie — già! — che si chiamano anche storie. Ma non ha mica nessuna colpa, sa? di non esser vera, questa storia. Importa assai che non sia vera; se poi è bella! Sarà riuscita male a lei, nel fatto; ma ciò non toglie che possa riuscire bene a me, scri­vendola. E le dico di più; che così, è più bella! Oh, molto, molto più bella! E sono contentissimo che sia venuta in chiaro!

Indica a Franco Onoria:

Guardi: che questa signora qua, per esempio, pri­ma tutta sdegnata, furiosa, e poi tutta miele, e ora tutta fiele —

Onoria        (insorgendo). Sfido!

Ludovico    (subito approvando). Ma sì, sì, ha ragione! Però è bellissimo, non neghi!

Rivolgendosi a Franco:

E che lei, prima, jeri, così esaltato —

Franco        (insorgendo). Ma gliel'ho detto io stesso!

Ludovico    (c. s.). Sì, sì, ed è giusto! giustissimo! E appunto per questo, bellissimo! — Ma scusate, voi credete che io debba far qui la figura dell'imbecille No, ecco! Mi diverto allora a farvi vedere quant'è bella — bella—bellissima — questa commedia d'una bugia scoperta —

Franco        (di nuovo insorgendo, addolorato). — Bella, lei dice?

Ludovico    (subito, compenetrandosi del dolore di lui). Ap­punto perché lei ne soffre e ne ha sofferto così! Oh, comprendo, sento in me — non creda! — le sue sofferenze; e non dubiti che saprò rappresentarle al vivo, se ne farò un romanzo o una commedia.

Onoria.       E che niente niente vorrebbe farci entrare anche me?

Ludovico.   Se ne faccio una commedia, sì.

Onoria.       Ah, non s'arrischi di mettermi in commedia, sa!

Ludovico.   Che sarebbe? Si metterebbe a gridare che non è vero?

Onoria.       Che non è vero! che non è vero! Che lei è un impostore da fare il pajo con quella!

Ludovico    (ridendo).  Ma lo direbbero i critici, stia tranquilla, che non è vero!

Staccando:

Com'è intanto che ancora non ritorna? A quest'ora dovrebbe già esser qui... — Le ho dato un po' di denaro...

Onoria        (subito). Denaro, a lei? Ah, bravo! E allora, figuriamoci!

Ludovico.   Per pagare il conticino dell'albergo e ritirare la valigia.

Onoria.       Ma se le ha dato del danaro, non torna più! non torna più! Addio, commedia! Posso star tranquilla davvero!

Ludovico.   No, per questo — veda — c'è sempre modo d'immaginare una fine concludente, anche se un fatto nella vita non conclude!

Franco.       Teme che non debba più davvero ritornare?

Ludovico.   Ecco: secondo. Se lo scopo della sua men­zogna era nei « fatti », come voi dite, ho paura che non ritornerà più. Ritornerà soltanto nel caso che il suo scopo — come a me pare — era sopra e fuori dei fatti. E allora io farò la commedia. — Ma la farò anche se ella non ritorna.

Franco.       Senza tener conto dei fatti?

Ludovico.   I fatti! I fatti! Caro signore, i fatti sono come si assumono; e allora, nello spirito, non sono più fatti: ma vita che appare, così o in altro modo. I fatti sono il passato, quando l'animo cede, — lo diceva lei stesso — e la vita li abbandona. Perciò non credo ai fatti.

Entra a questo punto dalla comune Emma, ad annunziare:

Emma.          C'è il signor console Grotti che chiede della signorina o di lei, signor Nota.

Ludovico.   Ah, viene qua lui, invece.

Franco        (fiero e minaccioso, accennando di muoversi per andargli incontro). E viene a proposito!

Ludovico    (calmo e fermo, ponendoglisi davanti). Lei mi farà il piacere di star tranquillo, in casa mia; e le ripeto che non ha da chiedere conto a nessuno!

Franco        (c. s.). Io me ne posso anche andare!

Ludovico.   No! Lei si fermerà qui. Andrò io da questo signore.

Si presenta sulla soglia, in ansia e agitatissimo, il console Grotti. Emma si ritira.

Grotti.        Permesso? La signorina Drei?

Onoria        (allarmata, irritata, impaziente). Ma non c'è! Se n'è andata!

Franco.       E forse non ritornerà più!

Grotti.        Oh Dio, ma sanno... — mi rivolgo a lei, signor Nota —

Ludovico.   Lei s'introduce in casa mia, senza averne il permesso.

Grotti.        Chiedo perdono! Ma mi preme di sapere se la signorina Drei è a conoscenza che mia moglie —

Franco        (subito) — è andata dai parenti della mia fi­danzata a denunziare —

Grotti         (subito con fierezza, gridando) — la sua pazzia!

Franco.       Ah, lei dunque nega?

Grotti         (c. s.con furia e con sdegno). Ma io non ho niente né da affermare né da negare a lei!

Franco.       Ah no! s'inganna! Perché lei mi deve rispondere —

Grotti.        — di che vuole che le risponda? Della pazzia di una donna? — Sono pronto a risponderne, quando lei vuole!

Franco.       Sta bene!

Grotti         (subito rivolgendosi a Ludovico). Mi preme soltanto di sapere, signor Nota, se la signorina Drei ne è a conoscenza!

Ludovico.   No, io non credo.

Grotti.        Ah, sia lodato Dio, sia lodato Dio!

Ludovico.   È stata con me: l'ho lasciata perché doveva recarsi all'albergo.

Grotti.        E non lo sapeva neanche lei;

Ludovico.   No; l'ho saputo ora dal signor Laspiga che ho trovato qua.

Grotti.        Ah bene, bene! Perché nella disperazione in cui è, quest'altro colpo...

Ludovico.   Ma il fatto è che — la aspettiamo — e ancora non ritorna.

Franco.       Se non lo sa, è più che probabile che se l'aspetti! E poiché il signor Nota le ha dato un po' di denaro, forse avrà preso il volo.

Grotti.        Dio volesse che fosse così! Ma purtroppo temo —

Franco.       Ah, dunque lei ora ammette?

Grotti.        Ionon ammetto nulla!

Franco.       Già, per cavalleria!

Grotti.        Ma non capisce che a me non importa af­fatto che lei, caro signore, creda o non creda? Lei può credere quello che vuole e che le fa comodo!

Franco        (di scatto, fiero). Io? Quello che mi fa comodo? Io voglio sapere quello che è vero, non credere quello che mi fa comodo!

Grotti.        E poi? Quando le avrò detto che non è vero? Ma non vuol comprendere che è stato lei, proprio lei, a ridurla alla disperazione?

Franco.       Io?

Grotti.        Sì! Lei!

Franco.       Ma se fu scacciata innocente, da sua moglie, senza neanche colpa della disgrazia della bambina —

Grotti         (subito, reciso). Questo no!

Franco.       È menzogna, questa?

Grotti.        Sono andato appunto a protestare per questo, al giornale — contro questa menzogna!

Franco.       E poi è venuto a mettersi qua d'accordo con lei?

Grotti         (fremendo, quasi avventandosi e contenendosi). Mi scusi, signor Nota...

Poi, a Franco:

Sono venuto qua perché pregato dal padre della sua fidanzata, e ho trovato che ella — del resto, alla sua stessa presenza, e di tutti — si disperava perché lei —

Franco        (subito con forza stringente) — perché io vo­levo riparare al male che le avevo fatto! Perché se ne dispera — vorrei sapere — se questo male che io le avrei fatto, è vero?

Grotti.        Ma perché ella non vuole la sua riparazione! Oh bella! Non la vuole! Non la vuole! Gliel'ha det­to! Ripetuto! È una bella ostinazione, perdio!

Franco        (c. s.).Ma non può credere che mi faccia co­modo! Questo no! Lei vorrebbe escludermi, con la scusa di questa disperazione, per fare facilmente, qua, la sua parte davanti al signore

indicando Ludovico

dandogli a credere che non è vero niente! — Ma io sono qua, non per piacere, ma perché lei, lei stes­sa, dichiarò pubblicamente che s'era uccisa per me!

Grotti.        E non le ha già confessato d'aver mentito?

Franco        (subito, con violenza, sempre più stringente). Una seconda menzogna! E due! — L'ho costretta io, forse, a mentire?

Grotti.        E chi lo sa, se non ha detto di no, per questo?

Franco        (c. s.). Dunque sarebbe vero che ha tentato d'uccidersi per me?

Grotti.        Ionon lo so, perché l'ha fatto.

Franco        (c. s.). Se è come lei dice, l'ha fatto per me, per il mio matrimonio! Non vedo altra ragione, perché l'avrebbe fatto!

Ludovico.   Se non fu forse, per come disse a me —

Franco        (voltandosi di scatto). Ma no, scusi, lei poc'anzi ha detto che non ne vedeva nessuna, neppure lei!

Ludovico.   No, ecco, che s'avvilì... per istrada... come una mendicante...

Franco        (con ironia). Già! quando si offri, di sera, al primo che passava...

Grotti         (infoscandosi). Disse anche questo?

Franco        (forte, con foga, venendo avanti). Anche questo! anche questo! E avrebbe fatto anche questo per col­pa mia, per il mio tradimento! E lei vorrebbe che io, ammettendo questo, non m'ostinassi a preten­dere, con tutta la forza della mia coscienza, che ella accettasse la mia riparazione? Ma io sono pronto a pretenderlo anche ora, se lei mi da la sua parola d'o­nore che sua moglie ha detto il falso, denunciando che è stata la sua amante!

Accorre a questo punto Emma, dalla comune, gridando spaventata:

Emma.          Signora! signora! Dio mio... signora...

Onoria.       Che cos'è?

Ludovico.   Lei?

Emma.          Sissignore... è tornata...

Grotti.        E dov'è?

Onoria.       Dov'è?

Emma.          Come una morta... Appena ho aperto... è caduta, con la valigia...

Ludovico.   Il veleno... ah Dio, nella valigia aveva il veleno...

Mentre fanno per accorrere, appare Ersilia dalla comune: cadaverica, ma calma, dolce, quasi sorridente.

Onoria        (arretrando, con gli altri). Oh... eccola...

Grotti         (prorompendo). Ersilia... Ersilia... che hai fatto?

Franco        (quasi tra sé). Ecco che s'è tradito!

Ludovico    (accorrendo, come per sorreggerla). Signorina... signorina...

Onoria        (con raccapriccio, quasi tra sé). Oh Dio... di nuovo?

Ersilia.       Niente. Zitti... Questa volta, niente...

Fa segno col dito davanti alla bocca.

Grotti         (con un grido). No! No... Dio, Dio! Bisogna darle ajuto subito! Portarla via, subito!

Onoria        (spaventata). Ma sì! Subito, subito!

Ludovico    (accorrendo a lei). Sì, sì... venga, venga...

Ersilia        (schermendosi). No: non voglio! — Basta! Per carità...

Grotti         (accorrendo anche lui). Ma sì! Vieni, vieni con me! Ti condurrò io!

Ersilia        (c. s.).Non voglio, ti dico...

Ludovico    (c. s.). Ma sì, si lasci persuadere, si lasci condurre, signorina!

Onoria.       Mando per una vettura!

Ersilia.       Per carità, basta, vi dico... Sarebbe inutile!

Grotti.        Ma chi lo dice? Non bisogna perder tempo piuttosto!

Ersilia.       È inutile! Non c'è più rimedio. Zitti, per carità. Lasciatemi tranquilla. Se lei, signor Nota, e lei, signora... — non sarà subito, purtroppo... ma spero presto...

Ludovico.   Dica, sì... — che desidera?che desidera?

Ersilia.       Il suo letto.

Ludovico.   Ma sì, subito, venga!

Onoria.       Venga, venga!

Grotti         (di nuovo prorompendo con violenta commozione). Che hai fatto? che hai fatto?

Ludovico.   Poteva pensare, signorina, che c'ero io! poteva restare qua, con me!

Ersilia.       Se non l'avessi fatto, nessuno mi avrebbe più creduta.

Franco        (con orgasmo, commosso). Ma che cosa, che cosa dovevamo credere?

Ersilia        (pacata). Che non mentii per vivere. Questo.

Franco.       E perché allora?

Ersilia.       Ma per morire. Ecco. Vedi? — Te lo gridai che, quando dissi quella menzogna, per me doveva essere tutto finito, e che la dissi appunto per questo. Tu non l'hai voluto credere; e hai ragione, sì, perché non pensai a te — proprio per nulla — hai ragione, non pensai che t'avrei turbato, sconvolto così... — Ma mi disprezzavo tanto!

Franco.       Ma come? M'accusavi...

Ersilia.       No.

Franco.       Come no?

Ersilia.       No, no... È così difficile dirlo... — figurati, crederlo. — Ma ora ti dirò. Mi disprezzavo tanto, che non credetti che t'avrei cagionato tutto questo danno. — Puoi credermi. Vedi, ho voluto acqui­starmi prima, apposta, questo diritto d'esser creduta: per dirtelo. T'ho cagionato tutto questo sconvol­gimento, e anche alla tua fidanzata, e sapevo, sapevo di non doverlo fare; che non avevo più nessun di­ritto di farlo, perché...

Guarda verso il Grotti, poi si rivolge di nuovo a Franco:

L'hai saputo? — Da sua moglie, è vero?

Franco        (quasi senza voce). Sì.

Ersilia.       L'ho preveduto. E lui è venuto qua a negare, è vero?

Franco        (c. s.).Sì.

Ersilia.       Ecco, vedi?

Lo guarda e fa un gesto di sconsolata pietà, aprendo appena le mani: gesto che dice senza parole la ragione per cui l'umanità martoriata sente il bisogno di mentire. Dolcissimamente aggiunge:

E anche tu...

Franco        (commosso, con impeto di sincerità, intendendo il gesto). Sì, anch'io, anch'io!

Ersilia        (sorridendo, quasi d'un sorriso lontano). Hai detto il sogno... non so... cose belle. — E sei accorso qua per riparare. — Sì, come lui — per riparare — ha negato.

Il Grotti scoppia in violenti singhiozzi. E allora ella turbandosi e facendogli cenno di frenarsi e di smettere:

No, no, per carità! — È che ciascuno, ciascuno vuol fare una bella figura. — Più si è... più si è...

vuol dire « laidi », ma ne prova schifo e insieme ancora tanta pietà, che quasi non le viene di dirlo.

—  e più ci vogliamo far belli, ecco.

E sorride.

Dio mio sì, coprirci con un abitino decente, ecco.

— Io non ne avevo più nessuno per ricomparirti da­vanti. Ma seppi che anche tu... sì, t'eri strappato quell'abito bello di marinajo. E allora mi vidi... mi vidi per la strada, senza più nulla... — e...

s'infosca al ricordo di quella sera per la strada, uscita dall'alberguccio

—  sì, ancora un altro pugno di fango addosso, a fi­nire d'insudiciarmi. — Dio, che schifo! che nausea!

—  E allora... e allora volli farmela per la  morte, almeno, una vestina decente. — Ecco, vedete perché mentii? Per questo, vi giuro! — Non avevo potuto averne mai una per la vita, da poter figurare in qual­che modo, che non mi fosse strappata dai tanti ca­ni... dai tanti cani che mi sono saltati sempre addos­so, per ogni via, che non mi fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e più vili — me ne volli fare una — bella — per la morte — la più bella — quella che era stata per me come un sogno, là — e che mi fu strappata subito, anch'essa — quella di fidanzata; ma per morirci, per morirci, per morirci e basta — ecco — con un po' di rimpianto di tut­ti, e basta. — Ebbene, no! no! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No! Morire nuda! Scoperta, avvilita, e spregiata! — Ecco qua: siete contende E ora an­date, andate. Lasciatemi morire in silenzio: nuda. Andate! Lo posso ben dire, ora, mi pare, che non voglio più vedere, che non voglio più sentire nessu­no? Andate, andatelo a dire, tu a tua moglie, tu alla tua fidanzata, che questa morta — ecco qua — non s'è potuta vestire.

TELA