Il figlio del mare

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IL FIGLIO DEL MARE

Ovvero

GLI SMEMORATI

Di Carlo Terron

COMMEDIA IN TRE ATTI

PERSONAGGI

LAURA

LERICE

SELVA

MOLA

MARCO

LIDIA

Alcuni aitanti camerieri sordi e muti, fra i quali l’atletico

VITTORIO    

La settimana scorsa, a Roma.

Che bella casa. Magari un po’ impennacchiata, se vogliamo, da gente che ha il gusto in passerella; ma piena di rarità inservibili, collocate nei punti strategici, di tappeti milionari da farsi riguardo a metterci sopra le suole delle scarpe, di scale a vista, scomode, che fanno giri oziosi e celebrano matrimoni difficili fra il legno e l’alabastro. Mettiamo che scoppi una rivoluzione populista, niente di meno improbabile coi tempi che corrono. Affacciarsi sulla soglia e decidere di passare a fil di spada i proprietari è questione dai cinque ai dieci minuti, saltando a piè pari ogni formalità giuridica. Avrebbero torto? È più facile dirlo che dimostrarlo a chi, generalmente, ha fretta di occupare il posto altrui. Bisognerebbe, prima, stabilire il grado di utilità sociale di un’industria di cosmetici di lusso, e se e fino a qual punto, l’invenzione di una cipria vitaminica miracolosa, con grasso di tartaruga e polvere di oppio, capace, oltre a tener allegra la pelle, di far concorrenza alla plastica facciale, risponda alle effettive necessità del popolo. Può costituire attenuante la circostanza di pagare la tassa sul reddito in quattro paesi diversi? No? Non si metta a verbale e si proceda. Si diceva: gente; ma poi, in fondo, ci si riduce a una sola persona: “ Lady LAURA”. Nome d’arte beninteso, garantito da copyright, famosa ditta in tutto il mondo; e case di rappresentanza, simili a codesta di Roma, ne possediamo una a Parigi, una a Londra, una a New York; sarebbe nostra ancora anche quella di Pechino se non ce l’avesse tolta il Mao per farla sede di vacanze premio per le masse del Tonchino; ma si sta già pensando di compensar la perdita aprendone una a Tokio, tenuto conto che le giapponesi, essendosi occidentalizzate per via dell’incidente di Hiroshima, gli scambi commerciali si sono decuplicati. Insomma, si viaggia e l’aereo personale è uno dei rari casi che non sia un lusso da turismo. Al presente, la fantastica signora è a Roma; però, prima, è passata da Milano. Per affari, non per nostalgia, benché là sia nata, figlia di un manovratore dell’ A.T.M. e di una simpatica cartolaia di corso Magenta in fondo: pennini, quaderni, carta Fabriano e gomma da cancellare. Niente paura, quegli onesti proletari non verranno a macchiare l’eleganza del quadro. Padre, madre, nonno di mamma e nonno di papà, una zia col diabete e tre fratellini: Bruno, Edda e Benito – eh sì, fin che non fece sparare il cannone, Mussolini piacque in famiglia – compresi la gatta sempre gravida e una coppia di canarini sempre muta: tutti restati secchi sotto le macerie dei bombardamenti, col vantaggio di risparmiar le spese della sepoltura, una spruzzata d’acqua santa sopra e tutti in purgatorio dove, salvo trasferimenti dell’ultimo momento, devono trovarsi ancora. Lei ha da ringraziare la scarlattina che l’aveva spedita all’ospedale il giorno prima. Quando fu dimessa, non le mancò la consolazione delle suore: “Sono stati ben fortunati – non la smisero di ripeterle – morti sul colpo senza neanche accorgersene e assolti di tutti i loro peccati. Pensa, cara, se fossero sopravvissuti, magari mutilati e col rancore nell’anima, a rischio di giocarsi il paradiso! Noi non avremo questa fortuna”. Opinioni cristiane. È, da lì, cominciò la sua spettacolosa carriera. Prima manicure di guerra poi massaggiatrice di pace – e perse la verginità, inconveniente connaturato alla professione – quindi visagista e via. Osservazione banale del solito furbo navigato che crede di saper tutto: “Fin che un bel giorno, un amico le aperse un modesto istituto di bellezza e su”. Niente affatto. Tutto sbagliato. Gli uomini li detesta. Non tanto per onestà innata, incomodo che, prima o dopo, una bella donna finisce sempre, fortunatamente, col superare; quanto per un blocco psichico – ma non soltanto psichico – che le accadde vent’anni fa, quando non ne aveva che diciannove e fu gravido di conseguenze, come si vedrà. Fattasi tutta da sé. Si comprenda nel “da sé” anche una vincita di cinque milioni al totocalcio, che costituì il primo mattone dell’edificio, dopotutto la schedina se l’era compilata lei stessa. Il risentimento, ecco il motore della sua vita. E, forse, ritiene venuta l’ora della rivalsa covata quattro lustri esatti, scaduti il sedici agosto di quest’anno. Ma stiamo scrivendo un romanzo o una commedia? Dunque basta rubar notizie al dialogo per regalarle alle didascalie e si cominci come dice il Tonio dei Pagliacci. Ah, un’avventura per l’arredatore. Ci sta preparata, che splendore! una tavola che non finisce mai, un gioiello lungo non meno di quattro metri, con cinque coperti, in uno sfolgorio di cristalli, trine e candelabri, che il primo pensiero a presentarsi in platea è che il regista sia stato Lubitsch, ma, purtroppo, no. Nella migliore delle ipotesi, è un giovanotto uscito dall’ Accademia di Arte drammatica, e ce ne volle a persuaderlo, trattandosi di un copione non “impegnato”, ma nemmeno l’ombra.

ATTO PRIMO

Stanno lì, coll’aria di esserci capitati per caso, due tali dall’aspetto, in diverse guise, egualmente autorevole. Ciò comporta, si capisce, un’età a mezza strada fra i quaranta e i cinquanta. Il primo ad aprir bocca comincia arrabbiato come si fosse già alla metà del secondo atto; ma poi si rende conto che non si è che al principio del primo e si calma, accontentandosi di un andante mosso.

SELVA               - Cultura? Chi ha detto cultura?

MOLA                - Siamo qui in due soli. Non posso negare di essere stato io. Domando scusa, mi è scappata.

SELVA               - Scappano troppe cose nel nostro paese.

MOLA                - Trova?

SELVA               - Quando sento parlar di cultura, il primo impulso è di tirar fuori la rivoltella.

MOLA                - Si vuole suicidare, onorevole?

SELVA               - Non è contro di me che la vorrei usare.

MOLA                - L’avevo sospettato, ed ora sono, forse, in grado di indovinare a che partito appartiene.

SELVA               - Non mi dica che non lo sapeva.

MOLA                - Non sapevo nemmeno che fosse un onorevole, se il cameriere, introducendolo, non avesse detto, si accomodi onorevole. Ma lo è veramente o è un ex? Sa, in Italia, gli onorevoli perdono il posto ma non il vizio del titolo.

SELVA               - Mariano

SELVA, deputato al parlamento e niente ex. Io il posto non lo perdo di sicuro.

MOLA                - (evidentemente ora ne sa meno di prima) Ah...! Onorevole a vita.

SELVA               - Da tre magistrature.

MOLA                - Congratulazioni. Si vede che s’è fatto voler bene. Volevo dire: s’è fatto notar poco.

SELVA               - Ho solo compiuto il mio dovere.

MOLA                - Banane, tabacco, sanità, ricerca scientifica, aeroporti, niente, proprio niente?

SELVA               - Nemmeno sfiorato!

MOLA                - Un bel caso. Per questo nessuno sa chi sia. Onorevole Mariano

SELVA. Nome d’arte?

SELVA               - Che nome d’arte?! Sono forse una soubrette? Il cognome è quello di mio padre e il nome di mio nonno. Antica famiglia veneta. E nemmeno una contravvenzione in cinque secoli.

MOLA                - E prima?

SELVA               - Un antenato, squartato e bruciato, i pezzi in piazza, per aver sterminato, a colpi di forcone, tutta la prosapia, tranne uno che aveva fatto tardi a tornar a casa, per la nebbia.

MOLA                - Un bel colpo.

SELVA               - E fu, bisogna dirlo, un repulisti utile, perché la famiglia poté rinascere nuova, su basi morali tutte diverse che durano tuttora. S’era salvato il migliore. Quando si dice il dito della Provvidenza! Ci mettiamo una breve pausa?

MOLA                - Be’?

SELVA               - Be’ che?

MOLA                - Non sia tanto avaro di notizie, tanto già prima che sia finita, il pericolo di farci conoscere lo dobbiamo correre fino in fondo. Per esempio: sotto che bandiera milita?

SELVA               - Ah, andiamo bene. Un uomo importante come lei...

MOLA                - Abbia pazienza, perdoni se la interrompo. Come fa a sapere che io sono un uomo importante?

SELVA               - Come faccio a saperlo? Un certo colpo d’occhio me lo riconoscerà, voglio sperare.

MOLA                - No.

SELVA               - Oh bella! È qua e sta parlando con me. Per forza deve essere un uomo importante.

MOLA                - Data la dichiarazione di principio con cui ha cominciato, non lo deve sapere. Lei tira a indovinare. Ci siamo incontrati per la prima volta, qui, cinque minuti fa, nessuno ancora è venuto a presentarci, come fa a sapere che sono un uomo importante?

SELVA               - E lei come fa a sapere che io non lo sono?

MOLA                - Non ho detto questo. Oggi sono più numerosi gli uomini importanti di quelli comuni.

SELVA               - Ma si comporta come se non lo fossi.

MOLA                - Ha idea?

SELVA               - Non conosceva nemmeno il mio nome. Vuole di più?

MOLA                - Però ho indovinato il suo partito.

SELVA               - E le pare sufficiente?

MOLA                - Vede, signore, la caratteristica dei nostri uomini politici è di lasciar capire subito, appena aprono bocca, a che partito appartengono, senza riuscir mai a capire che razza di uomini sono. Escluso naturalmente il caso che finiscano in tribunale per uno dei soliti scandali, che, allora, si riesce a farsene un’idea subito. In un certo senso, i nostri uomini politici acquistano una personalità solo come imputati.

SELVA               - (dopo averci pensato un po’ su) Qui, su due piedi, non mi rendo mica conto, sa, se questo sia un complimento, oppure un’offesa.

MOLA                - Confidenza per confidenza, non me ne rendo conto nemmeno io.

SELVA               - E allora, come si fa?

MOLA                - Di solito, in questi casi, si cambia discorso.

SELVA               - Va bene. Come vuole. E si chiude in un crucciato silenzio.

MOLA                - Permette?

SELVA               - Dica dica.

MOLA                - Per lei, cambiar discorso vuol forse dire tacere?

SELVA               - E’ proprio necessario parlare?

MOLA                - Allo scopo di guadagnar tempo, in attesa che arrivi qualcuno a chiarire le ragioni perché ci si trova qui, sarebbe gentile, oltre che vantaggioso, sparpagliare, senza parere, qualche notizia che serva, se non altro, ad evitar equivoci. Non trova?

SELVA               - Faccia lei.

MOLA                - In mancanza di meglio e in attesa di un’ispirazione più originale, che ne direbbe, per esempio, di terminare la sua battuta?

SELVA               - Quale battuta? Parla come se stessimo recitando una commedia.

MOLA                - Ma certo, proprio così. Aveva cominciato col dire: Ah, andiamo bene, un uomo importante come lei... E poi ha lasciato lì il periodo zoppo su una gamba sola. Vogliamo metterci almeno una stampella?

SELVA               - Non mi viene in mente. Parola d’onore, non mi viene in mente.

MOLA                - Si concentri.

SELVA               - (pare che si concentri) Macché!

MOLA                - Si sforzi.

SELVA               - Ecco. Ci sono. Ah, andiamo bene, un uomo importante come lei – ammettiamo che sia importante – ignora tutto di coloro che rappresentano il paese in Parlamento. Le pare degna di una nazione civile la vergogna di questa deplorevole mancanza di coscienza politica?

MOLA                - Dovreste chiamarvi fortunati. Una mano sulla coscienza, onorevole: se gli italiani possedessero una vera coscienza politica, quanti di voi sarebbero al posto in cui sono?

SELVA               - Le posso fare un’osservazione?

MOLA                - Tutte quelle che vuole.

SELVA               - Lei è un disfattista. Glielo devo dire: lei è un disfattista.

MOLA                - Ma, poi, di che si lamenta? La mia incultura in argomento la dovrebbe, se non altro, salvaguardare da quegli impulsi omicidi a mio riguardo. Mi segue?

SELVA               - Come se la politica appartenesse alla cultura!

MOLA                - Appunto. Non posso che darle ragione.

SELVA               - (gli scappa) Io ho sempre ragione.

MOLA                - Lei ha il gusto delle citazioni, onorevole, altroché!

SELVA               - Non capisco.

MOLA                - Mi capisco io.

SELVA               - Scusi lei, adesso. Perché ha parlato di impulsi omicidi?

MOLA                - Non ha forse detto che, solo sentir pronunciare la parola cultura, il suo primo impulso è di sparare?

SELVA               - Confermo. È più forte di me. Tutti noi, dal più al meno.

MOLA                - Tutti chi?

SELVA               - Quelli del partito mio. L’altro si mette a tacere di proposito. Perché ha fatto una pausa?

MOLA                - Perché coloro che ascoltano possano riflettere su questa verità. Altro breve momento di mutismo. E il porto d’armi ce l’ha?

SELVA               - Non vuole?

MOLA                - Viaggia armato?

SELVA               - Naturalmente. Il giorno che si dovrà passare all’azione non deve trovarci impreparati. Silenzio di tomba. Adesso è lei che si è messo a tacere.

MOLA                - Preferisco non correre pericoli.

SELVA               - La cultura, vede, se ci pensa, è la causa di tutti i nostri mali. Nessuno escluso. Ieri, ci ha fatto perdere la guerra, oggi ci fa perdere la pace e domani ci farà diventare tutti comunisti. Positivo!

MOLA                - Cosa intende, se è lecito, con perdere la pace?

SELVA               - Puramente e semplicemente essere il paese rinunciatario e imbelle che siamo. A rimorchio metà dell’America e metà della Russia.

MOLA                - Forse penseranno che tirano meglio due buoi che uno solo.

SELVA               - Badi a me: la tragedia dell’Italia è che ormai non tira più niente.

MOLA                - Sempre per colpa della cultura, suppongo.

SELVA               - Naturalmente. La cultura distrae la mente, infiacchisce il corpo, corrompe lo spirito e arricchisce soltanto gli editori progressisti. Rende la gioventù cinica, sovversiva ed effeminata.

MOLA                - E adesso dovremo anche lasciarci raccontare come si dovrebbe educare la gioventù. Se permette me l’ascolto stando seduto. A lei.

SELVA               - E’ presto detto: le tre C. e poi più.

MOLA                - Vale a dire?

SELVA               - Chiesa, caserma e casino.

MOLA                - E basta?

SELVA               - E basta.

MOLA                - Perché no? sotto un certo punto di vista, l’essenza del cattolicesimo può anche venir ridotta a questo.

SELVA               - Viceversa guardi cos’è successo: le prime sono vuote, le seconde le hanno degradate a veri e propri ostelli della gioventù e i terzi li hanno addirittura soppressi, quando, semmai, era l’unica industria che andava nazionalizzata.

MOLA                - Mi pare, sì, d’aver sentito che li hanno chiusi.

SELVA               - Non mi dica che non ne ha avvertita la mancanza!

MOLA                - Io rimedio in altri modi. Sono ammogliato.

SELVA               - E che vuol dire? Anch’io sono ammogliato. Ma quando aveva vent’anni?

MOLA                - Ne ho già quarant’otto.

SELVA               - E i suoi figli? Qui la voglio!

MOLA                - Non ho figli.

SELVA               - Io nove. Sa, per via di dover dare l’esempio agli elettori. E, tutti: papa, chiesa e papà.

MOLA                - Tutti maschi?

SELVA               - Tutti maschi, salvo la maggiore, per caso.

MOLA                - Capisco che è un pensiero.

SELVA               - Quale avvenire può avere una nazione ridotta in queste condizioni, senza nemmeno offrire alla gioventù la possibilità del servizio pubblico di uno sfogo naturale, sotto il controllo igienico e ad un prezzo accessibile? Lei non sa il costo di una libera professionista appena decente. Lo so io.

MOLA                - Eh già, mi figuro, adesso poi coll’inflazione.

SELVA               - Perché? Lei non lo sa?

MOLA                - Confesso, con rossore, di non essermi abbastanza interessato al problema.

SELVA               - Il solito assenteismo sociale, il solito indifferentismo economico: qualunquismo borghese, vecchia piaga.

MOLA                - Avevo commesso un errore.

SELVA               - Quale?

MOLA                - Credevo che fosse di un partito, capisco che è di un altro.

SELVA               - E da che l’avrebbe capito?

MOLA                - Dalle ultime due C.

SELVA               - Invece si sbaglia.

MOLA                - Ma a quale partito appartiene, in nome del Cielo?

SELVA               - A tutti e due, in un certo senso.

MOLA                - Non mi dica!

SELVA               - Sì. E’ il nostro drammatico dualismo: la duplice anima del partito di maggioranza. Ha mai sentito parlare della duplice anima del partito di maggioranza?

MOLA                - Non sono ancora riuscito a farmi un’idea dell’esistenza o no della mia anima personale, si figuri se ho tempo di occuparmi delle due anime del suo partito.

SELVA               - Non c’è bisogno che se ne occupi lei. È già stabilito irrevocabilmente: ne ha due e basta.

MOLA                - Ammetterà, però, che è uno spreco.

SELVA               - Oramai la spesa è fatta. Da noi è tutto doppio.

MOLA                - Come dire bianco e nero contemporaneamente.

SELVA               - Se è per questo, anche rosso. E rosa e azzurro, al bisogno.

MOLA                - Volevo ben dire. Ma, contemporaneamente o uno alla volta?

SELVA               - A scelta. E tutto con una tessera sola. Capisce la superiorità?

MOLA                - Vorrà dire la comodità.

SELVA               - La comodità è conseguenza della superiorità. Per cosa crede che raccogliamo tanti voti?

MOLA                - Misericordia!

SELVA               - Perché, non si può forse essere tutti e due?

MOLA                - Dica pure tutti e tre.

SELVA               - (ecumenico) I nostri poveri fratelli separati!

MOLA                - Scusi, ma ciò non vi crea un po’ di confusione?

SELVA               - Tanta! Ma è la confusione del mare che raccoglie e concilia le correnti, superando le tempeste.

MOLA                - E la parte del naufrago tocca a noi. I conti tornano. Sono gli unici conti che tornano con voi.

SELVA               - (rabbiosamente) Non faccia lo spiritoso. L’avete voluta la democrazia? Ora tenetevela. Ma lei, che non le va bene niente, in fin delle fini, a che partito appartiene?

MOLA                - Francamente, non lo so. Lo confesso con rossore, tra tanti che ce ne sono, non lo so.

SELVA               - (elettorale) E allora, cosa aspetta? Venga con noi, diletto figliolo. (Aprendo pastoralmente le braccia) Si troverà bene. Potrà fare quello che vuole. Tutti coloro che non sanno a che partito appartengono votano per il nostro. Venga con noi!

UNA VOCE       - (inaspettata) Se ne guardi bene.

SELVA               - (stupefatto) Un frate! È mai possibile che questo lo debba dire un frate? Non è che gli attori si siano sbagliati di battuta. È che ad intervenire è stato proprio un frate, che, da poco apparso, era rimasto ad ascoltare.

LERICE              - E’ che io sono un frate un po’ speciale. E infatti, così ambiguamente sorridente, nel fascino bianco dell’abito benedettino, sembra quasi finto.

MOLA                - Grazie, padre. È la provvidenza che lo ha fatto venire.

LERICE              - Molto meno, a dire il vero. Soltanto un invito della padrona di casa che, purtroppo, non ho ancora il piacere di conoscere di persona.

SELVA               - Anch’io.

MOLA                - Anch’io.

LERICE              - Meno male. Qualcosa in comune, almeno già lo possediamo. (Esibisce un cartoncino e ne legge una parte) “... Per una grave questione che la riguarda personalmente”.

MOLA                - (facendo lo stesso con un cartoncino uguale) “... Per una grave questione che la riguarda personalmente”.

SELVA               - (medesima manovra) E “... Per una grave questione che la riguarda personalmente”. Non ha nemmeno ritenuto opportuno cambiar le parole.

LERICE              - Si tratta, evidentemente, di un temperamento pratico e imparziale che va subito allo scopo.

MOLA                - Il problema è: quale scopo?

SELVA               - Non so loro, mi domando cosa ho a che fare io con questa sconosciuta.

LERICE              - Probabilmente è ciò che ci si domanda tutti. E proprio sconosciuta mi pare strano.

SELVA               - Sconosciuta, sconosciuta: sconosciutissima, sia ben chiaro.

LERICE              - Comunque, non noi sconosciuti a lei, e questo è ciò che conta. Il curioso è che su un semplice biglietto d’invito, sia pure vagamente minaccioso, siamo qui.

SELVA               - Cosa vuole insinuare? Sconosciutissima, le ripeto.

LERICE              - A tutti e tre, non c’è dubbio, l’abbiamo già fatto sapere; pure, nessuno è mancato.

MOLA                - E allora?

LERICE              - Chissà! Gli scherzi del subcosciente sono tanti e impenetrabili.

MOLA                - Il suo o il nostro?

LERICE              - Il suo no, se ha scritto.

MOLA                - Eggià!

SELVA               - A scanso di equivoci, che poi mi si voglia trascinare in un vicolo cieco: io non possiedo subcosciente.

LERICE              - Fortunato lei.

MOLA                - E come ci si trova senza subcosciente?

SELVA               - Benissimo.

MOLA                - Se lo è fatto togliere coll’appendicite o non lo ha mai avuto?

SELVA               - Mai saputo neanche cosa fosse.

MOLA                - Strano.

LERICE              - Lasci correre. Lui è nato senza. C’è tanta gente che nasce senza qualcosa.

SELVA               - E intanto, qui, fra un subcosciente e l’altro, non si va avanti di un passo e non ci si capisce una sverza.

MOLA                - Considerato il numero che siamo e la divisa che uno dei tre indossa, penso che si possa, senz’altro, escludere l’ipotesi di un convegno elegante.

SELVA               - Ma chi è, infine, questa Lady LAURA ? Oltretutto, ci vorrà l’interprete.

MOLA                - Se lo avesse domandato a sua moglie, prima di venir qui, questo dubbio, almeno, se lo sarebbe risparmiato.

SELVA               - Mancherebbe altro che andassi a chiedere informazioni a mia moglie, di una donna che mi invita a cena.

LERICE              - Vede che, fra tutte le interpretazioni possibili, aveva scelto la più peccaminosa.

SELVA               - Parliamoci chiaro: non possedendo un subcosciente come voi, quale altra dovevo scegliere?

LERICE              - Ma se non lo possiede, scusi, è proprio l’unica che non doveva scegliere, almeno palesemente.

SELVA               - E che ne so io cosa potrà volere? A un uomo politico ne capitano così di occasioni! Ci sono tante di quelle matte in giro!

LERICE              - Concedo che un uomo politico possa, perfino, non sapere chi fu Leonardo da Vinci, anzi, ciò è piuttosto normale e, direi, tutto considerato, da incoraggiare. L’ignoranza ha una funzione disibinitrice di primissimo ordine e rende i suoi detentori proficuamente estroversi. Ma ignorare l’esistenza di Lady

LAURA              - significa non aver mai gettato un’occhiata sugli ingredienti di toilette di una donna, a qualsiasi ceto sociale essa appartenga. E questa, me lo lasci dire, è una menomazione psicologica che può avere conseguenze imponderabili sull’elettorato femminile. Lei, stasera, ha un’occasione rara. Ne faccia tesoro. E poi, un invito a pranzo di questa signora non si discute. È un onore che lusingherebbe un re.

SELVA               - Adesso ne so meno di prima. Non le sembra che si sia tirato abbastanza per le lunghe?

LERICE              - Costei, onorevole, è titolare e proprietaria della più nota casa di prodotti di bellezza che esista al mondo. Con succursali in una mezza dozzina di capitali, sparse nei cinque continenti. Prodotti di bellezza che poi ne costellano uno solo come altrettanti pianeti intorno al sole: la famosa cipria Heros.

SELVA               - E io sarei stato invitato a cena da una cipria?

LERICE              - Nove vitamine diverse, grasso di tartaruga esterificato, epitelio di visone centrifugato e polvere di papavero officinalis.

MOLA                - Papavero?

LERICE              - Oppio, insomma. Fu la trovata geniale. Per il senso di euforia che conferisce alla pelle. Straordinaria, veramente. Scientificamente provato. Le basti che, durante il solo 1965, se ne smerciarono 3400 tonnellate.

SELVA               - Quasi quanto di farina bianca nel mondo.

LERICE              - Come vedono, una potenza economica può anche acquattarsi nel piumino da cipria delle nostre, pardon, delle vostre donne.

MOLA                - Ammetterà, padre, che se può essere normale che un uomo politico ignori Leonardo da Vinci, lo è molto meno che un frate conosca queste cose e con tanti particolari.

LERICE              - Nihil humanum mihi alienum. E poi, perché?

SELVA               - Ma, scusi tanto, se non altro la veste che indossa!

LERICE              - Ah già. Sono cognizioni che riguardano la mia professione precedente. Frate non si nasce. Si diventa. Vesto l’ordine dei benedettini da quattro anni soltanto.

MOLA                - Perfettamente coerente.

SELVA               - Ah, basta. Tutto ciò è estremamente sospetto. Ogni momento è sempre peggio. Se non ci vedo chiaro al più presto, io esco da questa commedia e me ne vado. E, se devo dire intero quel che penso, lei avrebbe dovuto cominciare a dare l’esempio restandosene nel suo convento.

LERICE              - Se non altro, mi sarà servito a fare un po’ di moto ed a conoscere una personalità interessante.

SELVA               - Si vede che i frati hanno del tempo da perdere.

LERICE              - Soltanto avendo del tempo da perdere ci si avvicina alla verità. Ha letto il Vangelo? Chi più ozioso di Nostro Signore?

MOLA                - Effettivamente, la nostra ospite comincia però ad esagerare.

LERICE              - E chi dice che tutto non sia stato preventivamente calcolato?

MOLA                - Per prepararsi un’entrata “a sensation”?

LERICE              - E’ una donna che può permetterselo. Devo aver letto, anni fa, che, dopo aver fatto attendere per tre giorni la Maharani del Giangipur, venuta a consultarla per le sue zampe di gallina note al mondo intero, le mandò a dire: spiacente di non riceverla, ma doveva correre all’aeroporto a prendere l’aereo per il Messico, onde assistere ad un incontro di pugilato valevole per il titolo mondiale. L’episodio è psicologicamente di qualche interesse, mi pare.

MOLA                - In che senso?

LERICE              - Codesta inequivocabile propensione agli spettacoli cruenti, dove gli uomini si pestano fra loro, potrebbe star a significare un’istanza sadica in direzione androfobica. E verrebbe a confermarla, se si vuole, la sua stessa professione. Che può voler dire, in ultima analisi, quel fornire alla donna nuove armi di seduzione specificatamente sul terreno della lotta dei sessi, se non l’oscuro impulso di opprimere, abbattere, conculcare il maschio?

SELVA               - Sì sì, buonanotte! Però, io continuo a trovare che esagera lo stesso.

LERICE              - Ma, signori miei, è anche regola di ogni buona commedia che la prima attrice debba entrare in scena solo dopo la metà del primo atto.

SELVA               - Io non frequento i teatri.

MOLA                - Non era necessario che lo dicesse.

SELVA               - (al frate) Lei ha una spiegazione a tutto.

LERICE              - Ce n’è anche un’altra, meno ipotetica e più allarmante.

MOLA                - E cioè?

LERICE              - Che abbia inteso di permettere a noi di prendere contatto. Ma a che scopo?

SELVA               - Bè ora lo si è preso. Cosa aspetta ancora? E poi, insomma, che vorrà? Tre persone che, più diverse, non avrebbe potuto metterle insieme!

LERICE              - Con la pazienza, vedrà che se ne viene a capo.

SELVA               - Ma che pazienza e pazienza! Le sembra logico, normale, verosimile tutto questo?

LERICE              - L’essenziale non è quello che sembra a noi. È quello che sembra a lei.

MOLA                - Confessi, padre, che lei la conosce.

LERICE              - Su questo petto consacrato, le assicuro di no.

SELVA               - Per ciò che mi concerne, questa signora, già mi sta antipatica e poi chissà nemmeno se esiste. Quanto a loro due che sembrano andar tanto d’accordo, nonostante quell’aria rispettabile, potrebbero, si fa per dire, essere anche dei gangsters camuffati, pagati dai miei nemici politici per compromettermi.

MOLA                - E perché, già che ci siamo, non addirittura, per farla fuori?

LERICE              - Eh, teoricamente non è da escludersi.

SELVA               - Non ho alcuna voglia di scherzare.

MOLA                - Non le sembra di sopravalutarsi?

LERICE              - Suvvia, un po’ di modestia, onorevole.

SELVA               - Son disposto a diventar modestissimo. Ma solo dopo aver saputo ciò che si vuole da me e soprattutto con chi ho a che fare.

LERICE              - Se non è che per questo: Andrea

MOLA.

SELVA               - (tendendogli la mano) Oh, finalmente. Piacere. (Cortesissimo) Deve scusare, ma sa, per le presentazioni io vado un po’ all’inglese. Ci tengo.

LERICE              - No. Non io: lui. (Indicandogli il terzo) E’ lui a chiamarsi così.

MOLA                - (sorpreso piacevolmente) Conosce il mio nome?

LERICE              - E anche il suo viso, con tutte le fotografie che pubblicano. È più difficile che facile ignorare un letterato che fa tanto parlare di sé.

SELVA               - Come ha detto?

LERICE              - Letterato.

SELVA               - Ah, uno che scrive. La mia diffidenza era ben giustificata. E si tratterà, magari, di romanzi.

MOLA                - Eh sì. Deve aver pazienza.

LERICE              - Dieci romanzi e due volumi di novelle in vent’anni di carriera, mi corregga se sbaglio. Dimenticavo un premio Viareggio nel ’58 o ’59 che sia stato.

MOLA                - Ma è stupefacente?

LERICE              - Che un religioso conosca la letteratura del proprio paese?

MOLA                - Che le devo dire? Sono confuso.

LERICE              - Non precisamente. Lei voleva dire che ne è lusingato. Una piccola inibizione che, però, fa la spia ad un vago complesso di inferiorità. Questa insicurezza si nota, se permette, già in talune aggressività di compensazione dei suoi scritti e in un certo esibizionismo della sua vita.

MOLA                - Trova?

LERICE              - Una certa accentuazione erotica, ad esempio... la curiosa ostentazione di virilismo dei suoi protagonisti. Frustrazioni.

MOLA                - Vorrebbe dire?...

LERICE              - Così. Impressioni. Lei ha figli?

MOLA                - No.

LERICE              - Naturalmente. Be’, fermiamoci qui.

MOLA                - Ma no, mi interessa.

LERICE              - Non vede, il nostro amico ci guarda sempre più preoccupato. Quanto a me, onorevole: Corrado

LERICE.

MOLA                - Nooo!

LERICE              - Sì.

MOLA                - Il celebre psicanalista?

LERICE              - Ex.

MOLA                - Proprio colui che, a un congresso, dichiarò che, se il prete conosce il suo mestiere, non esiste praticamente alcuna differenza fra una confessione e un trattamento psicanalitico...?

LERICE              - ...Col vantaggio che la prima porta via meno tempo, è più economica e meno esposta alle bugie del paziente.

MOLA                - E, di conseguenza, coerente fino in fondo, annunciò che si sarebbe fatto frate.

LERICE              - Come vede, è stata una promessa mantenuta. Uno scandalo per la scienza e un miracolo per la religione. Due sbagli. Cosa vuole, a forza di cercare il diavolo nell’animo dei malati, per poco che uno sia curioso, finisce con lo scoprire Dio nel proprio. L’inconveniente è che, quando, da scienziati, si è stati turbati dalla religione; poi, da religiosi, si rischia di venir disturbati dalla scienza. È una specie di bigamia. E così un psicanalista eretico è stato sostituito da un frate eccentrico. Tanto per non lasciar in pace le coscienze, quando ci si mette, Nostro Signore è capace di scherzi, da far rizzare i capelli.

SELVA               - E poi si trova strano che uno perda la calma!

LERICE              - Vorrà dire la fede! Il fascino del cattolicismo consiste proprio nel resistere alla continua tentazione di uscirne. Ma nessuno, qui, s’è ancora fatto vivo ad offrire un aperitivo?

MOLA                - All’arrivo, ci è stato detto che i liquori stanno là e di servirci pure.

LERICE              - E allora, approfittiamone. È da tanto tempo che non assaporo un whisky, e, in questa casa, deve essere ottimo. Sta già trafficando alle bottiglie. Per tutti e tre?

MOLA                - Grazie, sì.

SELVA               - A me niente.

MOLA                - Cos’è? Teme, per caso, di venir narcotizzato, per, poi, essere rapito e strapparle dei segreti di Stato?

SELVA               - Ormai, tutto è possibile. Mi sembra di essere caduto in un dramma giallo. Va bene che è l’unico genere di letteratura che riesco a sopportare, ma non come protagonista.

UNA VOCE FEMMINILE Eppure, lei, onorevole, deve avere il complesso del protagonista. Dico bene, padre? È lei! Se Dio vuole, finalmente, eccola.

LERICE              - Son poche le persone di una certa importanza che non abbiano il complesso del protagonista. Mi sa che qui siamo tutti in buona compagnia, lei non esclusa, signora. E, infatti, basta darle un’occhiata. Essendo stata il Pigmalione di sé medesima, deve dirsi soddisfatta del risultato. Può essere che, avendole regalato un aspetto da dieci anni meno di quanti ne ha, vi abbia contribuito la sua arte cosmetica, anzi, senz’altro; dopotutto, nel suo caso, la propria persona costituisce la miglior pubblicità. Ma può permettersi perfino il lusso raro e il piacere più raro ancora di una volontà di ferro espressa da una carezzevole femminilità e di una energia tigresca rannicchiata sui cuscini della più morbida gentilezza. Che se, poi, ogni tanto, dovesse manifestarsi qualche durezza della sua indole, qualche brutalità della sua origine e qualche veleno del suo rancore, ciò che conta è la prima impressione; e l’effetto, per dirla con estro decadente, sarà una vampa di colore, accesa nella sfumata tavolozza di un tenue acquerello. Però, alla larga! Quando Rosalba Carriera si mette a far da alibi a Francisco Goya c’è da toccar ferro.

LAURA              - Le dispiace versare, anche a me, un po’ di quella roba?

LERICE              - Con piacere.

LAURA              - Sto ammirando il taglio della sua tonaca, professore. Non c’è che dire, fra tutti i vari ordini religiosi, s’è scelto quello della divisa più elegante.

LERICE              - Bontà sua, signora. Ma credo di non averlo fatto apposta.

LAURA              - Che ci sarebbe stato di male, un uomo di gusto come lei? Sa che, quattr’anni fa, quando i giornali riportarono la notizia della sua inaspettata conversione, sul momento ne fui contrariata?

LERICE              - Oh, guarda!

LAURA              - In un certo senso, veniva a scombinare i miei progetti.

SELVA               - (che non ne può più e non ne ha neanche tutti i torti) Perché non gliel’ha fatto sapere? Probabilmente ci avrebbe rinunciato.

LAURA              - (senza rilevare la villania altro che con una fugace occhiata) Ma, poi, pensai che questo, in fondo, non cambiava niente, anzi avrebbe conferito alla situazione una nota piccante.

LERICE              - (galante) Peccato non essere, per così dire, più in servizio attivo.

LAURA              - Si sarebbe trattato, comunque, di un piccante di tutt’altro genere.

LERICE              - Che balordo sono! Dove si dimostra che, anche sotto un saio, la più dura a venir soffocata è la vanità.

LAURA              - Peccato veniale, penso.

LERICE              - Mica tanto. È la fessura di molti altri inconvenienti. (Come chi getta, cauto, una sonda) Evidentemente, i suoi erano progetti a lunga scadenza.

LAURA              - Lunghissima.

LERICE              - Che bella virtù la pazienza!

LAURA              - Sì. Ma è anche quella che fa invecchiare più di ogni altra.

MOLA                - (ne approfitta per introdurci una galanteria) Lei è l’ultima a doverlo dire.

LAURA              - Caro lei, io posso dire d’avere addirittura le rughe della pazienza. (Ora è la volta dell’onorevole) Lei no, non mi stupì per niente di apprendere che era diventato deputato. Me ne sentii, anzi, rassicurata. Dopo aver ascoltato un paio dei suoi comizi, pensavo che sarebbe stato terribile se non lo diventava. Chissà perché? Non son mai riuscita a venirne a capo.

MOLA                - Be’, qualcosa avrebbe pur dovuto diventare anche lui.

LAURA              - Già, forse per questo. Ma non ha importanza. A lei, invece, oh, mica gran cosa, però credo di esserle stata perfino grata di offrirmi l’occasione di leggere i suoi romanzi.

MOLA                - Oh grazie. Le son piaciuti?

LAURA              - No. Li trovavo, prima troppo simili a quelli che si stampavano in America; e poi troppo simili a quelli che si pubblicavano in Francia.

MOLA                - (tanto per salvar la faccia) Evviva la franchezza.

LAURA              - Ma era il periodo della mia ascesa e ritenevo necessario farmi una cultura... Ciò che, naturalmente, fa sussultare il nostro uomo politico. Tempo perso. Mano a mano che aumentavano le rendite, ne diminuiva la necessità. Però in quella illusione, i suoi libri mi erano utili. Anche mio malgrado, ho sempre provato una certa gratitudine verso ciò che è utile. Conseguenza, penso, della mia origine plebea e proletaria. Il frate le si è avvicinato e le ha offerto il bicchiere.

LERICE          -   A lei.

LAURA          -   (il dito verso l’onorevole) Facciamo il brindisi col morto?

SELVA           -   Grazie, io sono astemio.

LAURA          -   Non me lo dica.

SELVA           -   Certo che glielo dico.

LAURA          -   Ne è sicuro?

SELVA           -   Sicurissimo.

LAURA              - Mai?

SELVA           -   Mai.

LAURA          -   Ci pensi su. Non si sbaglia?

SELVA           -   Ci ho pensato su. No.

LAURA          -   Proprio mai?

SELVA           -   Proprio mai, le dico.

LAURA          -   Mi suona nuovo.

SELVA           -   Che posso farci?

LAURA              - Nemmeno anni fa?

SELVA           -   Nemmeno anni fa. E il signore non beve?

LAURA              - Quando era giovane?

SELVA               - No!

LAURA              - Giovane giovane. Da studente, per esempio?

SELVA               - Le dico di no. Non insista.

LAURA              - (come una carezza) Bugiardo.

SELVA               - Oh, senta!...

LAURA              - Non s’arrabbi. E mi creda se le dico che non è possibile.

SELVA               - Che ne so? Da studente può darsi che abbia assaggiato qualche aperitivo. Chi si ricorda?

LAURA              - Così va bene. Diciamo intemperanze di gioventù. Vede che non mi sbagliavo? Suvvia, una volta tanto, conceda una deroga alla sua proverbiale austerità, alzi anche lei il suo bicchiere e brindiamo a questo nostro incontro. Ci tenevo tanto!

SELVA               - E va bene, come vuole lei, pur che se ne venga a capo.

LAURA              - Grazie. Il frate, divertito perché è interessato, aveva già provveduto a preparare l’occorrente e lo ha già offerto al collega. Alla salute, dunque. Un mezzo minuto per trapassarli con lo sguardo, uno per uno. Proprio il medesimo quadro. In tono molto più giù, ma cominciò così.

MOLA                - Quale quadro, se è lecito?

LAURA              - Un lontano caso. Inevitabilmente i personaggi sono un po’ invecchiati, però la scena è proprio la stessa. Anche allora, uno esordì dicendo: alla salute!

MOLA                - E’ l’esordio di tutti i brindisi, signora.

LAURA              - Già, con questa differenza: che non tutti i brindisi finiscono allo stesso modo.

MOLA                - A quanto vedo, lei predilige le messe in scena un po’ teatrali.

LAURA              - Forse non ha torto. Ma i miei spettacoli io li preparo a lungo. E quelli che coltivo sono, soprattutto, gli intervalli. (Altro tono) Be’, penso che le presentazioni non siano necessarie.

SELVA               - Anzi, più che mai: necessarissime, secondo me.

LAURA              - Come si saran resi conto, io conosco bene loro. Fra un viaggio e l’altro dei miei affari, non li ho mai persi di vista. Tre carriere superbe, almeno all’apparenza. Loro, penso, non fosse altro che per l’ossessione del mio nome stampato sulla Colonia e sugli spazzolini da denti che usano ogni mattina, conoscono abbastanza me. Già fatto, no?

SELVA               - Le pare?

LAURA              - A lei no? (Gentilmente brutale) Faccia conto di essere ospite di un’erede Rockefeller. È una garanzia sufficiente per rassicurarla che, durante la cena, non le sarà chiesto un prestito, o le rilascio un impegno scritto? La mia firma vale quanto quella di Elizabeth Arden, se non di più. Non è immodestia, è la verità.

MOLA                - (diplomatico) Il nostro amico non voleva dire questo.

LAURA              - Ma certo. Ne sono persuasa. Mancherebbe altro. Vorrei vedere la faccia di chi venisse ad insultarmi in casa mia!

LERICE              - Tuttavia, credo di esprimere lo stato d’animo di tutti, manifestando il desiderio di una maggiore chiarezza sullo scopo per cui ci è toccato l’onore di questo invito.

LAURA              - Quando si dice l’antico uomo di mondo! (Tagliando corto) A tavola si discorre meglio, signori. Prima di pronunciare le ultime parole, ha suonato un campanello, o, per carità! se al regista sembra più efficace, dia pure una martellata a un gong; per noi, può anche sparare il cannone. Non sarà questo che comprometterà l’esito della vicenda. Ciò che impressiona è che, prima che essa abbia finito di pronunciarle, già si sono fatti avanti quattro aitanti camerieri in livrea, rigidi e disciplinati come dragoni; e si sono posti di guardia dietro alle sedie disposte lungo il tavolo. In seguito, qualcun altro, o loro stessi, se la compagnia vuol risparmiare, uscendo ed entrando a tempo, provvederanno alla distribuzione del menù. Ai loro posti! Dice, dopo essersi assisa al centro della mensa e facendoseli sedere uno a destra, l’altro a sinistra e il frate a un capo della tavola, restando inoccupato, benché apparecchiato, l’altro capo. Non facciamo caso al posto vuoto. È riservato all’ospite che dovrà arrivare, alla conclusione del nostro discorso.

SELVA               - Oh, finalmente si potrà conoscere quel che lei desidera da noi.

LAURA              - O quel che, alla fine, loro desidereranno da me. Generalmente io non ricevo: dò.

LERICE              - Anche questa volta?

LAURA              - Soprattutto questa volta. E, francamente, confesso che si tratta di un regalo che né faccio di mia spontanea volontà, né mi fa piacere.

LERICE              - Perché?

LAURA              - Farebbe meglio a dire per chi. Ma ci sono scadenze e doveri, nella vita di una donna, che non possono essere disertati. Certo il mio compito sarebbe stato più facile, se, in alcune persone, la memoria fosse un po’ meno labile. Però sarebbe stato anche meno divertente.

MOLA                - Come vede, tutto finisce per compensarsi a questo mondo.

LERICE              - (all’erta) A chi si riferiva precisamente, parlando di memoria labile?

LAURA              - Una constatazione generale che può valere anche in particolare. A loro, per esempio. Ma vorrei, prima, farle una domanda, lei che è, o, almeno, è stato un competente.

LERICE              - A sua disposizione.

LAURA              - E’ possibile che delle persone che si sono conosciute, che hanno compiuto anche qualche impresa insieme, incontrandosi a distanza di anni, possano aver totalmente dimenticato di essersi mai perfino viste?

SELVA               - (perentorio) No!

LAURA              - Non l’ho chiesto a lei.

LERICE              - Dipende dalle persone, dagli anni e dalle imprese.

LAURA              - Persone, in un certo senso sopra il livello comune. Anni? Facciamo una ventina. Imprese? Diciamo goliardiche.

LERICE              - Se la loro conoscenza non è stata profonda, direi che è piuttosto la regola che l’eccezione.Guai se la mente umana dovesse conservare i ricordi di tutta la gente incontrata e di tutte le cose fatte nella vita. Rischierebbe di autodistruggersi. Essa è una selezionatrice severa ed accorta. Nove decimi, almeno, di ciò che registra vengono igienicamente cancellati. Trattiene ciò che giova e respinge ciò che nuoce alla coscienza; o, se vuole, alla buona coscienza.

LAURA              - Eh, già, bisogna dire che sia proprio così.

LERICE              - Montagne di crimini obliati stanno nel buio, dietro alle spalle anche del più giusto degli uomini.

LAURA              - Lo dice la Bibbia, immagino.

MOLA                - Cos’è che non dice la Bibbia?

LERICE              - Il grave è che lo dice anche la scienza.

LAURA              - Non sia troppo severo con sé stesso, professore.

MOLA                - Ma, oddio, con ciò, non vorrà farci intendere che noi, qui, ci si è già conosciuti?

LAURA              - Proprio questo.

LERICE              - Era evidente.

LAURA              - E s’è fatto anche qualcosa insieme.

SELVA               - Cosa? Cosa si sarebbe fatto insieme? E gli va di traverso un soufflè di funghi, da rischiar di morire soffocato e far prendere tutta un’altra direzione alla storia.

LAURA              - Cerchi di non strangolarsi, onorevole. In fondo, fu una cosa piacevole. Almeno per ciò che riguarda loro, spero.

MOLA                - Ma no!

LAURA              - Ma sì.

SELVA               - Cosa, cosa, in nome di Dio?

LAURA              - E cosa pensa possano fare tre studenti universitari con una giovane manicure, in vacanza, in una notte d’estate, al mare, su una barca al largo, sotto il chiaro di luna, dopo averle fatto ingerire una quantità di alcool sufficiente per... come fa la parola giusta, professore?

LERICE              - Disinibirsi, suppongo.

LAURA              - Grazie. Mi sfugge sempre. Ci sarà mica sotto qualcosa?

LERICE              - E’ probabile.

MOLA                - Ecco spiegata la ragione del brindisi.

SELVA               - (abbandonando il suo posto) Escluso, escluso!

LERICE              - Abbia pazienza, non vorrà pretendere, onorevole, di ricordare tutte le donne con le quali è stato a letto.

SELVA               - Sicuro che lo pretendo.

MOLA                - Adesso, non mi dica che è arrivato al matrimonio vergine.

SELVA               - Che c’entra la verginità con la memoria? Io non ho mai fatto l’amore in barca.

LAURA              - Smemorato.

SELVA               - Ma se non so nemmeno nuotare.

MOLA                - A quel che mi par di capire, non si trattò di una gara di nuoto.

LAURA              - Avvenne dentro, non fuori dalla barca.

MOLA                - Deve essere stato piuttosto scomodo.

SELVA               - Nego. Per quel che mi concerne, nego.

LAURA              - Bugiardo.

LERICE              - Cerchi di frenare la sua incontinenza emotiva, amico. Non farebbe che trascinarci fuori strada. La signora mi sembra quel che si dice un testimone attendibile.

SELVA               - A me fa piuttosto l’impressione di una parte lesa sospetta.

LAURA              - Le risulta di essere mai stato a Viareggio, onorevole?

SELVA               - Forse una volta, quand’ero ancora studente, per ferragosto, coll’auto-stop.

MOLA                - (dandosi uno schiaffo sulla fronte) Ma sicuro, Viareggio, come no?

LERICE              - La balera nella pineta!

LAURA              - Vedono che, con un po’ di sforzo, ogni tanto qualcosa la memoria riesce a recuperare?

SELVA               - (di scatto) Silenzio! Un po’ di prudenza. Questi discorsi davanti a quattro domestici dalla faccia, sicuramente, sovversivi! Misericordia, rischio di giocarmi la carriera politica.

LAURA              - Non si preoccupi, sono muti.

MOLA                - Muti come?

LAURA              - Muti dalla nascita.

SELVA               - Ma non sono sordi.

LAURA              - Sono anche sordi. Eccettuato il maggiordomo, tutto il resto dei miei domestici li ho sempre voluti sordomuti. Io amo il silenzio e detesto il pettegolezzo.

SELVA               - Non si direbbe.

MOLA                - Ma sì, evidentemente ci si incontrò quella sera per la prima volta. Sì, sì, ora mi viene in mente.

LAURA              - Il giorno dopo, naturalmente, ognuno era ripartito. E la memoria, come dice il professore, cominciò la sua igienica opera di epurazione.

SELVA               - Macché macché! Chissà cosa si nasconde sotto questa cabala. Mancherebbe altro credere cose simili sulla parola, dopo vent’anni! Senza scomporsi, essa apre la borsetta e ne tira fuori tre cartoline illustrate.

LAURA              - A questo mondo non si è mai abbastanza accorti. Per ciò che riguarda un nome e l’indirizzo di una pensione, almeno per quarantott’ore, il ricordo si era conservato. Il Colosseo (la consegna al frate) San Petronio (allo scrittore) e il Gattamelata a cavallo (all’onorevole). Tre firme, lo stesso pensiero tutti e tre. E io me ne tornai a Milano a curar le unghie alla gente. Riconoscono i loro autografi?

SELVA               - Carte in tavola: cos’è, un ricatto?

MOLA                - Onorevole, qui non siamo a Montecitorio!

LAURA              - Soltanto una commemorazione. Perché non festeggiare il ventennio?

MOLA                - Che classe! Ma sa che è spiritosamente entusiasmante tutto ciò? Questo sì, reclama un brindisi.

LAURA              - Più tardi, se ne avrà ancora voglia.

MOLA                - E così, queste tre vecchie cartoline stinte sono tutto ciò che rimane di una notte di gioventù. Tema niente male per un racconto.

LAURA              - Non soltanto queste, veramente, per ciò che riguarda me.

MOLA                - Che fantasia la vita. E poi dicono che l’immaginazione supera la realtà.

SELVA               - Si capisce: lei vede romanzi dappertutto. Quando può far della letteratura è nel suo brodo.

MOLA                - La compiango.

SELVA               - Io ho i piedi piantati per terra, caro lei.

LAURA              - E lei non dice niente, padre?

LERICE              - Constato soltanto che la sua memoria compensa abbondantemente la nostra smemoratezza.

LAURA              - E’ che io avevo qualcos’altro a tener vivo il ricordo.

MOLA                - E cioè?

LAURA              - Qualche capogiro. Un mese dopo, mi accorsi di essere incinta. Strano, quello che meno riesce a resistere al colpo è il settore politico.

SELVA               - ( a cavalcioni sulla soglia di un deliquio) Oh Dio, oh Dio! Qualcosa di forte da bere, presto! Mi vien male. Medico e frate: assistenza fisica e morale, chi meglio lo potrebbe soccorrere?

LERICE              - Su, su, animo, onorevole, una campagna elettorale era peggio. Pensi cosa dovrei dire io, con questa veste addosso.

SELVA               - Lei è forte, io no. Ho la pressione bassa, capisce; ho lottato tutta la vita contro la pressione bassa.

LERICE              - Coraggio, da bravo, non faccia sfigurare il Parlamento.

SELVA               - Ma è proprio per questo. M’è accaduto lo stesso quando è morto De Gasperi.

MOLA                - E s’è aspettato vent’anni a farcelo sapere?

LAURA              - La tentazione mia era di non farvelo sapere mai. A che scopo? Ma ahimè un figlio cresce e, a vent’anni, fa il suo ingresso nella maggiore età, che Dio la maledica. E qui entrano in gioco quei tali doveri e quelle tali scadenze che una buona madre non può disertare, altro che a prezzo di diventare una cattiva madre. Così almeno giudica la gente.

MOLA                - E, una volta tanto, non giudica poi male. Intanto, il frate sta sempre là, col polso dell’onorevole in mano.

LAURA              - Malissimo, invece. Figurarsi, ho avuto la fortuna di poter essere madre senza dover dipendere da un marito. Per mio figlio, ho messo su tutto quello che ho messo su e son diventata quel che son diventata; di che altro poteva aver bisogno? E tuttavia, per quanto abbia fatto, faccia e possa fare per lui, sarò sempre io in debito. Gli devo tutto. Egli è stato, per me, come il motore per un aeroplano.

LERICE              - E allora, benedetta donna, perché, dopo aver volato per vent’anni, compiere un atterraggio fortunoso come quello di stasera, falciando la tranquillità della coscienza di tre inconsapevoli ed inermi viandanti?

LAURA              - E come regolarsi quando un ragazzo di vent’anni al quale non si è mai negato niente, un martedì mattina socchiude improvvisamente l’uscio del bagno e, nudo come è stato fatto, gocciolante d’acqua, con la massima naturalezza ti dice: “Di’ un po’ su mamma, prima che mi dimentichi, non che sia indispensabile, ma, non fosse altro che per la regolarità del passaporto, dovresti cercar di farti venire in mente il nome di mio padre e, poi, se ci sarai riuscita, sapermelo dire”?... Si è rimesso l’onorevole?

LERICE              - Pare che resista. Proceda pure.

MOLA                - Stupefacente!

LAURA              - Capiscono? Qualcuno ha deciso, chissà quando e perché, che debba scattare automaticamente per chi diventa maggiorenne il diritto di conoscere il proprio padre, e per sua madre il dovere di dirglielo.

LERICE              - Non lo trova giusto?

LAURA              - Per niente. Lei sì?

LERICE              - Sì.

LAURA              - (un sorriso indefinibile) E, come vede, mi sono arresa.

MOLA                - E chi è? Uno di noi tre, naturalmente.

LAURA              - Senza dubbio alcuno.

MOLA                - Un figlio! Quale di noi?

LERICE              - Un momento. Il polso non si sente quasi più.

LAURA              - Al bisogno, in casa c’è canfora e digitale.

LERICE              - Ce la fa onorevole?

MOLA                - Ci ha torturati abbastanza, signora. Non ci tenga sulle spine. Dica.

LAURA              - Apprezzi la mia delicatezza. Cerco di guadagnare tempo per permettere all’onorevole di rimettersi.

LERICE              - Torna a battere. Via!

MOLA                - Chi, dunque?

LAURA              - Chi? Una parola. Non lo so. Se lo avessi saputo ne avrei convocato uno solo.

LERICE              - Buonanotte, se n’è andato di nuovo. Su su, sveglia!... E cerca di recuperarlo con sberle e pizzicotti.

LAURA              - E’ un infarto?

LERICE              - Ma no! cosa dice?

LAURA              - E allora, cosa sta a farci perdere tempo? Non facciamo scherzi, deve durarci fino alla fine del terzo atto!

MOLA                - Ma un sospetto, un indizio?

LAURA              - Nulla. Tabula rasa.

MOLA                - Lei mente per tormentarci. No è possibile. Una donna lo sa sempre.

LERICE              - E’ possibilissimo. Anzi, considerato come si son svolte le cose, non potrebbe star diversamente.

MOLA                - E allora?

LERICE              - Rinviene.

MOLA                - Ma non parlavo dell’onorevole.

SELVA               - (da lontananze astrali) Chi è, chi è dunque il padre di questo figlio del mare?

MOLA                - Non si sa ancora.

LERICE              - Non si agiti, cerchi di rilassarsi, glielo diremo in seguito, se si saprà.

LAURA              - Io rispondo della maternità. Per la paternità devono veder loro. Non esiste la voce del sangue? Intanto, qualcuno sta servendo il caffè.

MOLA                - Ecco! La voce del sangue. Non avevamo pensato alla voce del sangue.

LERICE              - Non credo che, sulla voce del sangue, ci dia da far molto assegnamento.

MOLA                - Esiste pure l’ereditarietà!

LERICE              - Certo. Ma non sempre si fa conoscere.

LAURA              - Molto ha preso da me.

LERICE              - Era prevedibile. Per il terzo, l’unica possibilità di partecipare alla conversazione continua a consistere in qualche gemito fra un brivido e l’altro.

LAURA              - Facendogli ingoiare un caffè, forse si tira su.

LERICE              - (ci prova. Cosa gli costa?) Onorevole: il caffè.

MOLA                - Somiglierà bene a qualcuno di noi! L’aspetto, il profilo, il naso, i modi, l’odore, le affinità morali, qualcosa su cui regolarsi. Se è mio, io sento che me ne accorgerò.

LAURA              - Questo è affar loro. Il mio dovere finisce qui. Il ragazzo è a loro disposizione. Beninteso, gli parleranno, lo conosceranno e Dio ispiri il loro sentimento paterno e aiuti la loro buona volontà. Si tratta, in diversi modi, di tre persone autorevoli, che, se non gli potranno giovare, non gli potranno nemmeno nuocere e, caso mai, son di sentinella io. La gara per l’assegnazione è aperta. La mia posizione è di assoluta neutralità. Per me, l’uno vale l’altro.

LERICE              - Lodevole imparzialità.

MOLA                - E dov’è questo povero orfano? Proprio mentre sta chiedendoglielo, arrivano, da fuori, due laceranti strappate di clacson.

LAURA              - Eccolo. Siamo fortunati. Questa volta non ha fracassato la macchina. In media sono tre al mese. Un momento ancora per tener su l’attesa e poi agile, disinvolto e bello entra MARCO, un ventenne d’oggi che, forse, fra poco, comincerà ad apprezzare Gide.

MARCO             - Ah, sono affamato, mamma. Chiedo scusa del ritardo. Quella solita demente: un’ora ad innaffiarmi la spalla, in macchina, scongiurandomi di farla diventar madre e così ingranarmi! Naturalmente, sua madre è già là a far quadro, tenendogli un braccio intorno alle spalle.

LAURA              - Dicano la verità, non è uno splendido ragazzo? Ho fatto, sì o no, le cose in grande?

MOLA                - Non si può contestare.

LAURA              - Esclusiva opera mia. (Un’occhiata alquanto pessimistica ai suoi tre collaboratori) Non so, altrimenti, cosa avrebbe potuto venir fuori.

LERICE              - Splendido come una vendetta!

SELVA               - (ancora mezzo balordo) E’ lui?

LERICE              - Sì, è lui.

SELVA               - Tutto vero, allora. Non era un sogno! E perde definitivamente i sensi, prima ancora di vederlo sedersi a tavola, naturalmente col suo sordomuto, dritto, dietro, a guardia del corpo.

MARCO             - E questi qui, chi sarebbero?

LAURA              - Uno di loro tre, tesoro, è tuo padre.

MARCO             - Sempre esagerata, tu, mamma. Me ne bastava uno. Hanno ragione di dire che tu mi vizi. Rimane un momento ad osservarli, col cucchiaio sospeso fra il piatto e la bocca. Mah, se devo dire quello che penso, non mi piace nessuno dei tre.

LAURA              - Caro!

LERICE              - Anche questo ha il suo vantaggio. Ora siamo tutti retrocessi sulla stessa linea di partenza.

LAURA              - Si accettano scommesse su chi arriverà primo al traguardo.

MARCO             - Ne parliamo. E ci dà dentro a cenare, senza badar più ad altro.

ATTO SECONDO

E’ arrivato il giorno dopo ed è mattina. Durante la notte, chi ha dormito e chi no. Madre e figlio, esempio, hanno fatto tutto un sonno, benché, in camera di lei, la luce sia rimasta accesa oltre il consueto, ma può anche aver voluto dire arrivare in fondo a un libro di fantascienza lasciato a metà nel pomeriggio. Degli ospiti coatti, il solo che, presumibilmente, sia riuscito a chiuder occhio per qualche ora potrebbe essere il frate, però non ce n’è la prova. Gli altri due, magari non per le stesse ragioni, è escluso. Ora son, tutti e tre, col viso appiccicato ad un’estesa parete di vetro, ad osservare qualcosa che sta accadendo nel giardino.

LERICE              - Ottimo. Avesse finora sbagliato una palla!

MOLA                - Non c’è che dire, gioca come un Dio.

LERICE              - Siamo giusti. Il compito gli è anche facilitato dall’avversario. Sembra che sia stato pagato per fargli far bella figura.

MOLA                - E che vuol dire? Sarebbe lo stesso con qualsiasi altro. Lei mi insegna che il giocatore di razza lo si riconosce subito, chiunque abbia di fronte. Sia che vinca, sia che perda.

LERICE              - Non sempre, non sempre, via.

MOLA                - Ma scusi, forse che Gardini, se giocasse con lei, cesserebbe di essere Gardini?

LERICE              - Prima di tutto Gardini non ha nessuna ragione di giocare con me. E, poi, non sia eccessivo come tutti i tifosi, non è da lei.

MOLA                - La verità è che, anche i migliori di noi, siamo sempre ingenerosi. Lo si vede dalle piccole cose. C’è là un ragazzo che gioca alla perfezione e vogliamo star a misurargli le lodi con la bilancia del farmacista. Che c’entrano i tifosi, dico io.

LERICE              - I tifosi sono sempre costituzionalmente degli ipocritici.

MOLA                - Non se ne abbia a male, ma in questo caso trovo che sia lei ipocritico.

LERICE              - Vuol dire?

MOLA                - Certo. Lei si intenderà di psicanalisi, saprà dir messa senza sbagliare una parola di latino, ma non dovrebbe essere tanto avventato e categorico nel parlar di cose di cui si deve intendere solo approssimativamente.

LERICE              - E lei, onorevole, che gliene pare?

MOLA                - Secondo me, anzi secondo lei, dovrebbe essere tifosissimo.

SELVA               - In fatto di tennis, io sono un totale analfabeta e me ne vanto.

MOLA                - Appunto!

LERICE              - Non ne vedo la ragione.

SELVA               - Che sia un analfabeta o che me ne vanti?

LERICE              - Scelga lei ciò che le fa meno dispiacere.

SELVA               - Mi fa piacere l’una cosa e l’altra, si figuri.

MOLA                - Ma si capisce. Qualsiasi forma di analfabetismo, lei non può che affascinarlo.

SELVA               - E’ uno sport da femmine!

MOLA                - Un po’ di coerenza. Abbia almeno la modestia di non condannare ciò che confessa e si vanta di ignorare.

SELVA               - Io non condanno niente. Dico solo che il tennis è uno sport da donne, come direi che il reggipetto non è un indumento da uomini, basta.

MOLA                - E sarà anche persuaso di essere spiritoso.

SELVA               - Molto no, ma abbastanza.

MOLA                - Contento lei...!

SELVA               - Fino al giorno che non mi si dimostrerà ciò che ci sia di maschio nel mandar avanti e indietro una pallottolina che, quando pesa tanto, peserà dieci grammi, resto del mio punto di vista.

MOLA                - Maschio! Non fa che riempirsi la bocca di quella parola: maschio!

SELVA               - Badi come parla!

MOLA                - Cosa intende, lei, per maschio, sentiamo, finalmente, su, visto che se ne è assicurato il monopolio.

SELVA               - Se non lo sa è anche inutile rischiar di farsi censurare discorrendone.

MOLA                - Certo, a lei andrebbe maggiormente a genio che si lanciassero in testa delle palle di cannone.

SELVA               - Non pretendo tanto. Per esempio, il calcio mi rassicurerebbe già molto di più.

MOLA                - E chi le dice che non sappia giocare anche al calcio?

SELVA               - E allora, lo faccia vedere.

MOLA                - Con tutte le aderenze che lei ha, perché non fa una telefonata e non gli fa venir qui la squadra della Lazio?

SELVA               - Io tifo per il Roma.

LERICE              - (ma vuol gettare olio sul fuoco?) Probabilmente, la specialità dell’onorevole sono le bocce.

SELVA               - Come fa a saperlo?

LERICE              - Un’intuizione.

SELVA               - Pensi che, nel ’54, a SELVA di Valsugana, per non aver avuto l’accortezza di lasciarmi vincere a bocce da De Gasperi, persi un sottosegretariato.

LERICE              - Una vera calamità per il paese!

MOLA                - Non sarà, certo, stato quello della Pubblica Istruzione.

SELVA               - Era quello, molto più importante, della Difesa.

LERICE              - Che, una volta, nemmeno a farlo apposta, si chiamava della guerra. Quando si dice la magia delle parole!

SELVA               - Farebbe meglio a dire l’involuzione dei tempi.

LERICE              - Giusto. Quella che un governo imperialista chiama sinceramente guerra, un governo democratico la deve, per forza di cose, chiamar ipocritamente difesa. È naturale.

SELVA               - Naturale o no, ciò che importa è che rimanga la stessa cosa.

LERICE              - Di questo può star sicuro.

MOLA                - (nuovamente incantato a guardar fuori) Bello, bello!

LERICE              - Il gioco o il giocatore?

MOLA                - La giovinezza, caro professore. Il meraviglioso spettacolo di vitalità e di eleganza della gioventù. E pensare, quanto? Venticinque anni fa, era, più o meno, la stessa cosa anche per noi. Non faccio per dire, ma pochi riuscivano a tenermi testa. Dacché faccio lo scrittore impegnato, non ci ho mai tenuto a farlo sapere, ma io vinsi perfino i littoriali di tennis.

LERICE              - (un suo ambiguo sorriso) Prego, nessun colpo sleale fra noi: l’avverto che non giocavo niente, ma niente male nemmeno io. Anzi, fino a quattro anni fa, il mio paio di partite alla settimana me le facevo ancora.

MOLA                - Significa?

LERICE              - Soltanto che la passione e l’abilità nel tennis non fanno ereditarietà.

MOLA                - Ma nemmeno, spero, la escludono.

LERICE              - Questo no.

MOLA                - E allora, punti pari.

SELVA               - (ai soci che, distratti dai loro discorsi fatui, in questo momento non guardavano fuori e lui sì) Fa parte delle regole del gioco anche scivolare e aver tutta l’aria di essersi storta una caviglia?

MOLA                - E’ mai scivolato lei?

SELVA               - Se devo scivolare, io scivolo su cose più importanti.

LERICE              - Che gli è successo?

MOLA                - Ma perché non si alza? Si sarà mica ferito davvero, per caso?

LERICE              - Vada a vedere.

MOLA                - E’ proprio quello che contavo di fare. Ed esce più svelto e sollecito di quanto ci si aspetterebbe.

LERICE              - (un’ironia dal palese margine patetico) Ovvero come sboccia il sentimento della paternità! Ma, da fuori, presumibilmente l’osservatorio di una finestra, altri devono essersi accorti dell’incidente. E chi? Occorre proprio nominarla?

LAURA              - (solo la voce) MARCO, MARCO!

MARCO             - (anche lui dall’esterno) Sì, mamma.

LAURA              - Ti sei fatto male, gioia? Aspettami, scendo.

MARCO             - E dài, smettila. Non sono di pastafrolla.

MOLA                - (pure da fuori) Non è niente, stia tranquilla. Una semplice scivolata.

LAURA              - Ora su, basta. Infilati un pullover che sei tutto sudato e rientra.

LERICE              - Evidentemente la lupa vigilava.

SELVA               - Trovo che, quando un ragazzo è fragile di ossa, non lo si dovrebbe esporre a dei pericoli.

LERICE              - Come fa a dire che è fragile di ossa?

SELVA               - Me ne sono accorto ieri sera, dopo essere rinvenuto, confrontando la sua costituzione con quella dei miei ragazzi. Nemmeno da paragonare.

LERICE              - (stessa espressione di prima) Ovvero, come lo stesso sentimento della paternità viene respinto.

SELVA               - Vorrebbe dire?

LERICE              - Cominciano già a delinearsi certe posizioni. Prevedibili, del resto. Non ha notato un certo antagonismo, fra noi, stamattina? Figurarsi se in una svolta del discorso che comincia ad essere delicata, lei non stava all’erta per intervenire! E, infatti, eccola, pronta, a metà dello scalone che porta al pianterreno.

LAURA              - E la sua posizione, professore?

LERICE              - Io non sono né suggestionato né prevenuto. Candido come una colomba e prudente come un serpente.

LAURA              - Perché non aggiunge anche: ed egoista come un uomo?

LERICE              - La sentenza biblica si ferma al serpente.

LAURA              - Mi domando se abbia fatto un buon affare a smettere di citare Freud per dover continuamente citare la Bibbia.

LERICE              - Tutto considerato, un eccellente affare.

LAURA              - Naturale. Lei aspetta l’ora della verità.

LERICE              - La verità è come un ladro di notte. Essa può giungere in tanti modi.

LAURA              - A patto di lasciar aperte le finestre.

LERICE              - E chi le chiude?

LAURA              - E, se poi non giunge né dalla porta né dalla finestra, uno se ne lava le mani. Come si chiama quel tale?

LERICE              - Ponzio Pilato, suppongo.

LAURA              - (percorrendo con un gesto significativo la veste del suo interlocutore dal collo alle caviglie) Proprio lei!?

LERICE              - No. Ponzio Pilato, no. Non ci si aspetti da me che mi getti nella mischia con furore. Ma non si tema nemmeno che debba rimanere uno spettatore inerte.

LAURA              - Chissà se questa non sia la posizione più pericolosa.

LERICE              - D’accordo. È certo la meno facile, e la più scomoda.

LAURA              - Non mi attendevo meno da lei.

LERICE              - L’avevo capito che le maggiori soddisfazioni se le pregustava da me.

LAURA              - E lei me le darà.

LERICE              - E’ possibile. In fondo, dato l’abito che porto, può essere giusto che io debba pagare più degli altri... Oh, poter fotografare il sorriso di lei! Per quanto forte sia la tentazione di lasciarla a bocca asciutta, quindi, non me ne sottrarrò. Ma sarà stato soprattutto...

LAURA              - Soprattutto?

LERICE              - Soprattutto perché c’è un rispetto da salvaguardare.

LAURA              - Cioè, cioè? Peccato che ad interrompere il discorso, soltanto rimandato, poiché dovrà essere ripreso, faccia la sua comparsa sull’uscio il protagonista della contesa. Il che, tutto sommato, sarebbe più che naturale. Lo è un po’ meno tenuto conto di alcune singolarità. E cioè: 1º: entra saltellando su una gamba sola; 2º: lo sostiene, tenendosene un braccio intorno al collo come un boa, il

MOLA                - con un viso da san Giuseppe prima di scoprire di aver avuto il rivale che aveva avuto; 3º: gli vien dietro, anch’esso in maglietta, pantaloncini, calze e scarpe bianche, portando le racchette e la rete con le palle da gioco, uno dei cosacchi sordomuti conosciuti ieri sera, evidentemente incaricato di tenerlo in esercizio. Dio del cielo, hai perduto l’uso di una gamba!

SELVA               - Visto se avevo ragione che ha le ossa fragili?

LAURA              - A proposito che non t’eri fatto niente!

MARCO             - Ti dico di no. E’ lui che vuole, ad ogni costo, tenermi su. E, siccome gli fa tanto piacere, non mi costa niente lasciarlo fare.

LAURA              - Piacere o non piacere, mi userai la sacrosanta cortesia di lasciarti mettere a letto e farti visitare da un medico.

MARCO             - Non essere ridicola, mamma.

LERICE              - Se posso servire, son qui io. (A MOLA) Lo adagi su quel divano. Ma il ragazzo s’è già svincolato e procede spedito, da solo, su tutte e due le gambe.

MOLA                - Attento! Non appoggiartici su.

LERICE              - Avvicinati e lasciati visitare quella caviglia, ragazzo.

MARCO             - Un altro che ci tiene a mettermi le mani addosso. A lei. Si pone seduto a filo su una sedia e allunga la gamba al frate che gli tasteggia la caviglia con perizia e diligenza, neanche si trattasse dei garetti di Ribot.

LAURA              - E dire che ho fatto istruire apposta quell’ebete di quel muto lì, per farti da allenatore e guardarti dagli incidenti, e poi ti lascia rompere le gambe.

MARCO             - Lui non ne ha colpa. C’era una pozzanghera sul terreno.

LAURA              - Non ci doveva essere.

MARCO             - Vuol dire che la prossima volta, quando piove, darà ordine al Padreterno di lasciar asciutto il campo da tennis e riempir la piscina.

LAURA              - Adesso mi sente.

MARCO             - Lascia correre. Se Dio non voglia, qualcuno, qui, conosce l’alfabeto dei sordomuti, perdi la reputazione.

LAURA              - Mi devo sfogare.

MOLA                - (al frate) C’è qualcosa di rotto?

LERICE              - Sto vedendo. Nel frattempo, lei non ha perso tempo e con eccezionale sicurezza, nonché stupefacente velocità, s’è messa ad investire il domestico, da muta a muto, con un fiorito discorso, sapete, tutto mani, dita, bocca, guance, anelli, uncini, e così via. Devono correre parole grosse, poiché si vede l’altro prima umiliato, poi impallidire, quindi arrossire, in seguito arrabbiarsi violentemente e, infine, risponderle per le rime sullo stesso tono; pare, perfino, farfugliando dalla collera, ma chi può garantirlo in quella lingua?

MARCO             - (che la tiene d’occhio e non ha perso un solo arabesco della girandola dei loro gesti) Questo non glielo devi dire, capito?

LAURA              - Gli dico quel che mi pare, gioia. E continua, sullo stesso metro, botta e risposta.

MARCO             - Non lo brutalizzare così. Non è uno schiavo. E non chiamarmi gioia.

LAURA              - Tu hai sempre avuto un debole per questo brigante. E se mi manca di rispetto, in parte è colpa tua.

MARCO             - (ora spaventato da ciò che sta mimando il domestico) Eh no, VITTORIO. Adesso, esageri tu, abbi pazienza, dovresti conoscerla.

LERICE              - Bada che, a voce, non capisce.

MARCO             - Ah, già. Gli ripete l’esortazione traducendogliela, anche lui, nella lingua dei sordomuti. Ora tutti e tre ci danno dentro a precipizio, rubandosi le battute – si fa per dire – che qui non si riferiscono per un riguardo agli spettatori al di sotto dei diciotto anni.

SELVA               - Ma insomma che discorso fanno?

MOLA                - Pagherei un occhio della testa per sentire la metà di quel che si dicono.

SELVA               - Almeno se ne potesse afferrare il senso!

MARCO             - (da interprete, fra un intervento e l’altro) Cose irripetibili, insulti da carrettieri. Lei, un pretesto lo trova sempre. Queste conversazioni mute, le danno modo di abbandonarsi a delle brutalità e a delle atrocità che, in lingua normale, la degraderebbero di fronte a una caserma di alpini. Dice che, così, risparmia i tranquillanti... VITTORIO, no, VITTORIO! Non alzar tanto la voce. Per la miseria. Usa prudenza almeno tu. Fallo per me... Un momento. Torna ad intromettersi, da paciere, nella tacita baruffa che si intuisce violentissima.

LAURA              - Taci, tu, che non c’entri! E riprende, muta, coll’avversario.

MARCO             - Buonanotte. Lei l’ha minacciato di licenziamento e lui l’ha mandata a dar... VITTORIO! Dài! Non siamo soli! Non s’ha idea, evidentemente, la libertà di espressione e la violenza di epiteti consentiti dal linguaggio dei muti. Gli rivolge, sembra un grave benché affettuoso rimprovero.

LAURA              - Vedi? Lo vedi? Guarda cos’ha il coraggio di rispondermi. La servitù d’oggi!

MARCO             - Ma non lo senti che tartaglia, pure, e sbaglia la sintassi, tanto lo hai malmenato? Adesso, mamma, ti sei scaricata. Il tuo trattamento rilassante, per oggi, lo hai avuto. Troppo ti farebbe male. Da brava, chiedigli scusa e che sia finita.

MOLA                - Che perla di figlio! Fin troppo saggio per la sua età. Lei si limita a una mimata stizzosa ed evanescente. Il ragazzo, invece, deve continuare con un discorsetto intimo e cordiale perché si vede, l’offeso, ammansirsi ed avviarsi verso l’uscio, rasserenato come un morbido agnello. Non prima però, d’aver manifestato una frase con le dita, che non deve essere di sola riconoscenza.

SELVA               - Che inconveniente non conoscere le lingue morte.

MOLA                - Vorrà dire mute.

LERICE              - Mi sa che si farebbe meglio parlar di fortuna.

LAURA              - (alla quale non è sfuggita una parola – per modo di dire – del colloquio tra figlio servitore) Ah sì? benissimo. Magari!... Se crede che mi metterò a pregarlo!... Sai che gli dico? E meno male che suo figlio le impedisce di corrergli dietro e le immobilizza le mani, come dire, nel caso particolare, la imbavaglia. Evitando che si rinnovi l’inqualificabile scenata.

LERICE              - (che qualcosa abbia capito?) Erro, o mi è sembrato che, andandosene, pronunciasse delle oscure minacce?

MARCO             - Le ha gridato che non le rivolgerà mai più la parola. Finisce sempre, più o meno, così.

LAURA              - (nuovamente gran signora) Ma poi non mantiene mai la promessa. Son dei tali chiacchieroni i sordomuti! Ah, ora mi sento più distesa... E tu, tesoro, quante volte t’ho pregato di non intrometterti nei miei discorsi con la servitù?!

MARCO             - Chiamali discorsi. Un giorno o l’altro, uno di loro ti fa fuori a coltellate. Lo sai pure che il VITTORIO, oltretutto, è epilettico.

LAURA              - Già, son le uniche volte che gli si sente uscir di bocca qualcosa che somiglia vagamente a un suono. E dunque, questa caviglia?

LERICE              - Una piccola storta da niente. Non occorre nemmeno una fasciatura.

MOLA                - Forse gli gioverebbero dei massaggi.

LERICE              - Se vuole farglieli lei...

LAURA              - Sarà. Però non è che, domani, una radiografia gli guasti l’appetito. Non se ne abbia a male, professore. Lei sarà anche stato un grande ortopedico del cervello, ma ne preferisco uno, più modesto, delle ossa.

LERICE              - Come crede. Non per altro, per rimediare alla comprensibile dimenticanza d’aver lasciato lì le racchette, è di ritorno il taciturno gigante appena ammansito. Strano, si presenta occupato a mimare, con esuberanza da dir partenopea, un suo indecifrabile soliloquio.

SELVA               - Cos’è che dice adesso?

MARCO             - Canta “Oh sole mio!”.

LAURA              - (naturalissima) Oltretutto, è stonato peggio di una pignatta rotta e ha una pronuncia napoletana orribile.

MARCO             - Ora non esagerare come al solito.

LAURA              - Occhio allo strazio quando arriva “Sta ’n fronte a te”... Stecca! Ci fosse una volta che prende la nota giusta! Deve farlo per dispetto. Bisogna, poi, sentirli quando fa i duetti con la cuoca.

MARCO             - Non le credano. È lei che lo confonde. Del resto, mammà è sempre eccessiva in tutte le sue cose. Per lei una storta diventa una frattura, un raffreddore una polmonite, la servitù un esercito da annientare, gli affari un impero da conquistare, la volontà degli altri un ostacolo da sbaragliare; e un figlio un tesoro da tener chiuso in cassaforte dopo aver buttato via la chiave.

LAURA              - Ora fammi anche passare per una madre tirannica.

MARCO             - Tirannica no. Ma soffocante hai voglia!

LERICE              - Ne ascolta spesso strapazzate del genere?

LAURA              - Ogni volta che si mette in testa di ottenere una cosa che non dovrebbe fare.

LERICE              - Vale a dire, piuttosto di frequente, immagino.

MOLA                - Scaltro, il ragazzo!

LERICE              - In fondo è una dimostrazione di indipendenza e di personalità.

LAURA              - Diversamente, non sarebbe mio figlio.

LERICE              - Più che giusto.

MARCO             - Tranquillizzati, va là. La sparata di stamattina ha la tua fisionomia. È anch’essa un’esagerazione. Ha il solo scopo di non sentirmi proibire, per via della caviglia, la mia giornaliera nuotata in piscina. Meno di così!... Mi spreco.

SELVA               - Probabilmente, ragazzo, questo tuo contegno insolente è la ricompensa d’averti sempre accontentato troppo.

MOLA                - Per carità, la sua teoria come educare la gioventù l’ha già esposta a me, onorevole.

MARCO             - (un bel fischio) Ah, onorevole?

SELVA               - Non lo sapevi?

MARCO             - No.

SELVA               - Ma è possibile che non lo sappia nessuno?

LAURA              - Benché onorevole, ha detto una cosa giusta.

SELVA               - Be’, qualche volta capita.

LAURA              - E’ vero, l’ho sempre accontentato troppo e questo convegno ne è una prova.

MARCO             - Giustissimo. Però lo sbaglio non sta nell’accontentare, sta nel troppo. Ti vien voglia di fare un figlio e impieghi tre uomini di cui un onorevole, per garantirti la riuscita dell’impresa. Ottenuto lo scopo, non ti curi di trattenerne prudentemente uno per marito. Tuo figlio ti chiede di fargli conoscere suo padre e gliene sbatti qui tre, come si trattasse di scegliere il paio di pantaloni che gli fanno meno pieghe addosso... Non ha fatto in tempo a finire, che essa gli ha lasciato andare un manrovescio.

MOLA                - Signora! Non si picchia un ragazzo di vent’anni.

SELVA               - (di tutto diverso parere) Altro, se si picchia!

MARCO             - (imperturbabile, offrendo, provocante, l’altra guancia) Attendo le altre due che mi spettano.

LAURA              - (affettuosamente dispiaciuta) Cialtrone!

MARCO             - (uno sberleffo, una risata) Reazione calcolata. Ora, per tutta la giornata, sono libero di fare quel che mi piace. Perché, non mi ha dato che una sberla, ma ne proverà rimorso come se mi avesse tirato una revolverata. Ci vediamo.

SELVA               - Ricattatore!

LERICE              - Che lenza!

MOLA                - Ehi MARCO. Piacerebbe anche a me farmi una nuotata, stamattina.

MARCO             - La piscina è abbastanza vasta per evitare gli scontri. E mia madre, al solito, mi ha fornito di un numero sufficiente di mutandine da bagno da mettermi in grado di prestargliene una. (Via).

MOLA                - Con permesso. A più tardi. (Lo segue).

LERICE              - Commovente.

SELVA               - Tolto l’ultimo schiaffo, trovo che è stato tirato su in maniera deplorevole.

LAURA              - Lei, avrebbe fatto meglio?

SELVA               - Credo di averlo dimostrato in un numero abbondante di esemplari. (Si avvia verso l’uscio).

LERICE              - Ha deciso di fare una nuotata anche lei, per insegnargli come si deve comportare?

SELVA               - Ho soltanto deciso di fare una telefonata a Montecitorio per non dover leggere sui giornali la notizia della mia misteriosa scomparsa. Posso?

LAURA              - In casa ci sono sei linee telefoniche a sua disposizione.

SELVA               - L’avrei giurato. Me ne basta una. Esce e speriamo che, per un po’, non si faccia più vedere. Antipatico, no?

LAURA              - Evidentemente, confonde se stesso con il presidente della repubblica. E si dispone a tener d’occhio i tuffi di suo figlio, fuori.

LERICE              - Parentesi seria, in una storia comica. Ci sta?

LAURA              - (senza nemmeno voltarsi) La trova comica?

LERICE              - Abbastanza.

LAURA              - Fuori, dunque, il lato serio.

LERICE              - Ebbi in cura, anni fa, un tale, un insegnante, che cadeva in convulsioni tutte le volte che doveva pronunciare la parola seno.

LAURA              - Figurarsi se lo avesse dovuto prendere in mano!

LERICE              - Non gli era mai accaduto.

LAURA              - Si trattava, evidentemente, di un uomo morale e riservato.

LERICE              - Il più riservato e morale che io abbia conosciuto. Pensi che, a quarant’anni, era ancora vergine.

LAURA              - Riuscì a guarirlo?

LERICE              - Dalle convulsioni sì, dalla verginità no.

LAURA              - E, magari, lui avrebbe preferito viceversa.

LERICE              - Le convulsioni l’avrebbero probabilmente ammazzato. La verginità lo rese soltanto nevrastenico. Ma la singolarità del caso non consisteva in questo. Egli s’era sobbarcata la fatica di imparare il dialetto di una tribù del centro dell’Africa, ancora totalmente sconosciuto in Europa...

LAURA              - E che se ne faceva, se nessuno lo poteva capire?

LERICE              - Qui sta il punto interessante. Gli serviva, con la scusa delle citazioni erudite, per abbandonarsi, ad alta voce, in mezzo alla gente, a fantasia morbose di un’oscenità rivoltante. Inimmaginabili senza lo schermo dell’indecifrabilità.

LAURA              - Il richiamo della foresta. E come andò a finire?

LERICE              - Andò a finire che, una volta, un negro di quella tal tribù, di passaggio da Roma, per farsi battezzare dal papa, assistette a una sua conferenza e, tanto si scandalizzò, che, per poco, non lo fece a pezzi. Cosa vuole? Il mondo è piccolo.

LAURA              - Quando si dice gli effetti della conversione!

LERICE              - Strane analogie.

LAURA              - Che analogie, scusi?

LERICE              - (diretto, pur conservando il tono frivolo) Chi le ha insegnato il pesante turpiloquio, vomitato addosso a quell’infelice ragazzo?

LAURA              - (s’è voltata di scatto) Non mi dica che conosce il linguaggio dei sordomuti.

LERICE              - Non ne ho perso una parola, se così si può dire. Da ragazzo, era uno dei miei giochi preferiti.

LAURA              - Ecco un caso in cui non può accusare la memoria di esserle stata avara.

LERICE              - Le succede spesso?

LAURA              - Dipende dall’umore, dal tempo, e dal domestico. Proprio quello lì, generalmente. Il più antipatico.

LERICE              - Vuol dire che ha trovato la sua valvola di sicurezza. Pensato e detto. È venuto fuori, in pochi minuti, più di quanto non si riesca a cavare in sei mesi di trattamento analitico. Peccato non esercitare ancora la vecchia professione, perché avrei scoperto un metodo sicuro e spedito per lo scarico del subcosciente.

LAURA              - Può sempre diffonderlo nel suo convento.

LERICE              - Non è un’idea da scartare. Un silenzio calcolato.

LAURA              - E poi?

LERICE              - E poi, a rissa terminata, soddisfatta e distesa come avesse fatto all’amore. Naturalmente col domestico più antipatico o, per meglio dire, più adatto.

LAURA              - Capita mai di dover essere costretti a prescrivere un trattamento psicanalitico al psicanalista?

LERICE              - Non è escluso.

LAURA              - Allora, non perda tempo a seguire il consiglio.

LERICE              - Purtroppo, credo che, la mia, non sia un’interpretazione lontana dal vero.

LAURA              - Ho idea che non tenga conto di un particolare che gliela manda per aria.

LERICE              - E cioè?

LAURA              - La presenza di MARCO, in grado di seguire il colloquio.

LERICE              - Direi, anzi, che ne sia la conferma, guardi un po’! Ed è, appunto, qui il grave.

LAURA              - Vuol dire?

LERICE              - Senz’altro! Lei ha bisogno di offrire quotidianamente a suo figlio lo spettacolo di quanto detesti e fino a che punto possa permettersi di calpestare il sesso cosiddetto forte.

LAURA              - Guarda guarda!

LERICE              - E il ragazzo l’ha, tanto incoscientemente quanto inequivocabilmente, capito, da reagire mettendosele contro. Con un’aggressività appagata solo quando poté fare altrettanto, umiliando e offendendo il sesso cosiddetto debole, vale a dire lei.

LAURA              - Dopo lo sforzo di questa titanica pensata, il meno che lei si possa aspettare è un applauso a scena aperta, penso.

LERICE              - Per carità, ordinaria amministrazione.

LAURA              - Superbia d’una modestia! Altro silenzio ugualmente calcolato.

LERICE              - Perché odia tanto gli uomini?

LAURA              - E’ una domanda retorica o un’accusa precisa?

LERICE              - Più la seconda che la prima.

LAURA              - Sincerità apprezzabile.

LERICE              - Non c’è merito.

LAURA              - Io, dunque, odio gli uomini?

LERICE              - Non c’è un atto della sua vita che non risponda a quest’unico scopo. La molla di tutto, in lei, è il rancore. E bisogna ammettere che, in un certo senso, ne ha anche avuto il diritto. È abbastanza comprensibile.

LAURA              - E allora, avanti, lei specialista in spiegazioni fantastiche, me ne indichi la ragione.

LERICE              - E’ superfluo. Per metà, se non interamente, lei già la conosce.

LAURA              - (le preme tagliar corto) Mi domando perché stia a perder tempo, ascoltando delle assurdità che sarebbero offensive se non fossero ridicole.

LERICE              - Si rende conto che, da cinque minuti, non riesce ad imbroccare una sola battuta che non sia stonata?

LAURA              - Tanto vale, quindi, che lei rinunci alla soddisfazione d’aver un contraddittore e prosegua, da solo, il suo monologo. E fa per andare, ma lui la ferma, trattenendola materialmente per un braccio.

LERICE              - La fuga, naturalmente. Inevitabile reazione di difesa. Mi delude. Non è degna di lei.

LAURA              - Mi dovrei mettere a crear di fantasia, anch’io, per far coppia in questi esercizi al trapezio di alta acrobazia mentale?

LERICE              - Tenti.

LAURA              - Non mi diverte.

LERICE              - Lo credo bene.

LAURA              - Perché non mi dà una mano? O si tratta di un salto mortale più imbarazzante per lei, per loro tre, che non per me?

LERICE              - Questo può essere vero.

LAURA              - E allora, alè, salto mortale senza rete: perché odio gli uomini?

LERICE              - Inventi. Inventi la sua verità. In certi casi, è il modo migliore per trovarla.

LAURA              - Me la inventi lei. Chi meglio in grado di farlo di lei, protagonista, spettatore e giudice? E, se non avrà cercato di barare, le prometto che la adotterò senza discuterla. O, proprio ora che l’iniziativa torna a me, si vuol tirar indietro?

LERICE              - Quella notte che vent’anni fa le ha dato un figlio, non le ha anche, per caso, reso impossibile di avvicinare più un uomo per tutta la vita? Può andare?

LAURA              - Lealtà per lealtà: sì. (Secca, una tonalità crudele) Facendomi diventar innaturalmente madre, mi è stato impedito di diventar naturalmente donna. Soddisfatto?

LERICE              - Dove ci si rende conto che si può essere gravemente responsabili pur senza essere colpevoli. Come vede, in questa storia, non s’è in pochi a non farci una bella figura.

LAURA              - Autocritica? Come parentesi seria, non è da buttar via.

LERICE              - Se ne provocano, sì, di guasti, anche senza volere e senza sapere!

LAURA              - Vent’anni. C’è prescrizione.

LERICE              - Generosa.

LAURA              - Altrimenti, staremmo recitando un dramma. Capisco che l’austera veste che porta ora, sarebbe il recipiente più adatto per un’elegante crisi di coscienza retroattiva, ma, ormai, avrebbe il sapore di una minestra risaldata. No no, assolti anche dall’ombra del rimorso.

LERICE              - Non però esonerati dal tributo alla vendetta.

LAURA              - Con lei si procede di scoperta in scoperta. Vendetta?

LERICE              - Comprensibile, quando si è vissuto vent’anni solo per quella, dopo essere stati mutilati di ogni possibilità di amare.

LAURA              - Che le devo dire? Si vede che la vendetta è un cibo che va assaporato freddo.

LERICE              - Altro che la scadenza della maggiore età, i doveri materni, lo scrupolo di appagare il desiderio del ragazzo...! E’ la vecchia ferita che sanguina. Lei si sta vendicando di noi su suo figlio. Cose che accadono quando l’inconscio sopraffà la coscienza.

LAURA              - Potrà dire, semmai, con mio figlio.

LERICE              - Nulla da eccepire se così fosse. Però, ne dubito. Anche se me lo augurerei. (Un momento, il solo, veramente severo) Lei scambia uno strumento con un complice. Ma lui è l’unico a non aver né colpe da espiare, né responsabilità da assumersi, né rancori da soddisfare. Ha soltanto, davanti a sé, la vita da vivere, sano e felice. E deve esserne lasciato fuori. Che le stavo dicendo quando fummo interrotti? C’è un rispetto da salvaguardare.

LAURA              - (un lampo di soddisfazione) Ed a quello sarà lei a montar di guardia. È chiaro. Come preludio di paternità, le dò atto che non è da buttar via. Per quanto nobile e commovente, mi sa, però, che sia anche il più ambiguo ed insidioso. (Calcolando sulle parole) Ma, soprattutto, il meno sicuro per arrivare ad una certezza. Una certezza certa, voglio dire. Sbaglio?

LERICE              - E non è proprio su ciò che lei fa affidamento? Per ognuno di noi è stata preparata una tagliola. Questa è la mia, ecco tutto. A ciascuno, il suo. Stia, però, in guardia. Non è detto che, prima della fine, non ne possa incontrare una, anche lei, sul suo cammino.

LAURA              - Nella mia, caro lei, io ho già cacciato i piedi a diciannove anni. Ormai, ci sto dentro comoda.

LERICE              - Chissà?...

SELVA               - Chissà che? È tornato l’onorevole e s’è già inserito di malagrazia nella conversazione.

LERICE              - Si parlava del tempo. Chissà se verrà a piovere, dicevamo.

SELVA               - Va bene. Avanti pure.

LERICE              - Finito qui.

SELVA               - Finito su un punto interrogativo?

LERICE              - Le risulta che la meteorologia conosca un’altra punteggiatura?

SELVA               - Nemmeno a un discorso sul tempo mi si ammette, dunque, a partecipare.

LAURA              - Si tratta di un argomento troppo aldisotto della sua importanza, onorevole.

SELVA               - Ah sì?!

LAURA              - Non è di questo parere?

SELVA               - Per niente. Inaspettato, squilla un telefono nella stanza. Una, due, tre volte e la padrona di casa come niente fosse.

LERICE              - Considerato come stanno a timpani e a corde vocali, penso che, chi sta all’altro capo del filo, non possa far troppo affidamento che venga un domestico a rispondergli.

LAURA              - Non se ne curi. È certamente una delle solite ragazze in fregola che fanno le bave per MARCO. Meglio lasciar perdere.

LERICE              - Perché gliele vuol tener lontane?

LAURA              - Preferisco che si faccia desiderare. Richiamerà. Richiamano sempre, quelle mignatte.

LERICE              - Non sarà, per caso, che voglia difendere l’innocenza dall’aggressione del maschio?

LAURA              - Mi sa che sia più lui da difendere che loro.

SELVA               - Da dove è spuntato fuori quel telefono?

LAURA              - E’ sempre stato lì.

SELVA               - Di bene in meglio. Vengo a scoprire, adesso, che c’era anche un settimo telefono in casa, e proprio in questa stessa stanza.

LAURA              - E’ grave?

SELVA               - Direi di sì.

LAURA              - Se offende il suo senso estetico, non ha che da dirlo e lo facciamo scomparire in mezzo minuto.

SELVA               - E’ il mio senso morale, piuttosto, che non resiste ai raggiri. Mi viene in mente di essere stato spedito a telefonare di là per togliermi dai piedi, guardi un po’!

LAURA              - E questa è la riconoscenza per la delicatezza di non aver voluto esser costretti ad ascoltare i discorsi certamente importanti che aveva da fare a pro della Nazione.

LERICE              - A proposito, tutto normale in Parlamento? Mica pericolo che la sua assenza possa mettere in minoranza il governo?

SELVA               - Io ho, piuttosto, un’altra idea in testa e, se non la butto fuori, scoppio.

LAURA              - Garantito che abbia che l’esplosione non farà saltar in aria la villa, dia pur fuoco alla miccia.

SELVA               - Che, loro due, siano d’accordo fin da principio. Mi hanno un’aria di intendersela che mi dà sempre meno affidamento. Loro convergono. Altro se convergono!

LERICE              - Quando si dice l’intuito!

SELVA               - Li sento a naso, certi rovesciamenti di alleanze, io. Ho troppa esperienza di maneggi politici perché mi si possa ingannare.

LAURA              - D’accordo su che, scusi?

SELVA               - E chi lo sa? È ben questo che mi scombussola. Una faccenda è certa: su qualcosa sono d’accordo; non so quale, ma sono d’accordo. E, se sono d’accordo, non possono esserlo che contro di me.

LERICE              - Logica di ferro. E perché?

SELVA               - Mah!... Sono sempre meno sicuro che la storia sia semplice come mi è stata prospettata.

LERICE              - Ah, perché; a lei, sembra semplice?

SELVA               - Occhi negli occhi. Non è la prima volta che mi si tendono delle imboscate. Dò fastidio, dò fastidio!

LERICE              - Non si alteri. Non è difficile crederlo.

LAURA              - E a chi?

SELVA               - Intanto, per incominciare, a tutti gli iscritti al mio partito. In politica, come altrove, non si può pretendere di avere degli amici. Al massimo, si può pretendere di avere dei nemici timidi. Ed è già tanto.

LERICE              - Ci spieghi, allora, perché votano per lei.

SELVA               - Non sono mica loro a votare per me. Sono quelli dei partiti nemici per crear confusione nel mio. Non lo sapeva?

LERICE              - No.

SELVA               - E poi mi si dice che non ho ragione di sospettare? Porta la veste che porta, e non sa ancora che la metà di noi arrivano in Parlamento in questo modo.

LERICE              - Deputati per dispetto.

SELVA               - Per dispetto. Sono i più sicuri.

LERICE              - Eh già, se uno ci pensa, in quale altra maniera, altrimenti, ci potrebbero arrivare?

SELVA               - Sapesse che spinta elettorale è!

LERICE              - Me ne rendo conto. Ora capisco perché non ce n’è uno di simpatico.

SELVA               - E’ una regola di tutti i partiti, da noi. Nessuno vota per il suo. Non se lo sogna nemmeno. Guai, sennò! LERIVE Di modo che?

SELVA               - E’ semplice. Un partito tanto più prospera, quanto più riesce a far diventare forte il partito contrario. E tanti più voti raccoglie, quanto più sta antipatico alla gente.

LERICE              - Questo spiega tutto.

SELVA               - In Italia, usa così.

LERICE              - Che scienza la politica!

SELVA               - Lo può ben dire. Benedetto il telefono che si è rimesso a trillare, altrimenti nessuno ci risparmiava una lezione come si diventa deputati; che, fra parentesi, non sarebbe né inutile, né piva di divertimento. Questa volta, però, alla seconda chiamata, deciso e disinvolto, il frate alza, lui, il ricevitore.

LERICE              - “...Appunto... Abbia pazienza. O non si è udito, o non ci sarà stata, nella stanza, gente in grado di udirlo... Come no?... Dica pure a me...”.

LAURA              - Ancora quella sfacciata, naturalmente.

LERICE              - (otturando, un momento, il microfono con la mano) Ha un incanto di voce: fresca, sicura. “...Sì, è in casa... Adesso vedo... Resti all’apparecchio... Naturalmente. Già, non posso essere un domestico... Così: abitudini della casa... Ah, ah, un po’ insolente... Curiosa!... Faccia conto di parlare con suo padre...”.

SELVA               - (di slancio, mentre l’altro si affaccia sul giardino a chiamare) Congratulazioni!

LERICE              - MARCO! Al telefono. VOCE DI MARCO       - Maschio o femmina?

LERICE              - Femmina. ( Torna all’apparecchio) “Accontentata. Un momento e viene...”. Simpatia!... Congratulazioni di che?

SELVA               - Come di che?

LERICE              - Ah, domando scusa. Non potevo spacciarmi per muto, dal momento che parlavo. E così, ho approfittato della percentuale di paternità che mi spetta.

SELVA               - Anzi, anzi, nessuna preoccupazione di rubar niente a nessuno. Ce ne fossero dei furti così. Questo semplifica le cose.

LAURA              - Lei è un ottimista. Arriva il MARCO, grondante d’acqua, a piedi nudi, in slip pervinca a righe blu, e si attacca al telefono.

MARCO             - “... Ciao bella. Un genio, tu, per romper l’anima nei momenti meno adatti... Stavo facendo la mia nuotata... Be’, per me è importante.... Auff!... Taglia, taglia, dài, fa’ presto. C’è la vecchia che mi sta fissando come un puma in agguato perché le sto inondando il pavimento. (Ammirevole come “la vecchia” incassa) ... A Fregene?... Adesso?... Con chi?... Sai, avevo pensato di dedicare la giornata alla famiglia... Cosa vuoi, è diventata una famiglia improvvisamente numerosa... Puoi ben dirlo, si tratta di uno sport abbastanza pesante al quale non ero abituato e, così, ho bisogno di allenamento... T’ho chiesto con chi... Con chi a Fregene. Sei un po’ suonata, stella... La Flavia, almeno, viene?... E il Tino? Sì, il Tino... Mi frega tanto se, a te, sta antipatico! È simpatico a me... Cosa? Io e te soli?... Figurarsi che gusto!... No... Ho detto no. Non si farebbe che annoiarci e poi finirebbe come sempre. E oggi non ne ho nessuna voglia... Abbi pazienza, capita... E mòllaci! Sto al telefono con sei orecchie addosso. Anzi otto, perché le due di mia madre valgono per quattro... No. Ci risentiamo”. (Riattacca) La regina dei rompiballe!... (Alla madre) Scusa il vecchia, sai, m’è scappato.

LAURA              - (verde, e maggiormente perché sotto stretto controllo del frate) Già me l’aspetto. Prima o dopo, o sarà una di loro a metter te nei guai, o sarai tu a metter nei guai una di loro, che è anche peggio. Dovresti smettere.

LERICE              - (serafico) Al contrario, alla sua età, dovrebbe continuare sempre di più.

MARCO             - (luminoso, andandogli spontaneamente incontro per stringergli la mano) Grazie. Ecco, finalmente, uno che ragiona! Faccio un altro paio di tuffi, mi infilo un accappatoio e torno.

LERICE              - Che caro! E via di corsa, leggero come un arcangelo.

SELVA               - Bei consigli! E poi insiste, pure, a farsi credere un frate.

LAURA              - Frate o non frate, mi pare che sia mettere il carro davanti ai buoi arrogarsi il diritto di educare il ragazzo come fosse già il proprio figlio.

LERICE              - Non presumo tanto. Puri e semplici suggerimenti dettati dall’esperienza, dall’igiene e dal buonsenso, valevoli per tutta la gioventù in massa.

SELVA               - Grazie della spiegazione! D’accordo, d’accordissimo che un ragazzo debba venir scozzonato al più presto, ma...

LAURA              - Come ha detto?

SELVA               - Scozzonato: promosso uomo... ma non a spese di una ragazza di buona famiglia. Ché, poi, dei genitori perbene se la trovano, magari, incinta e devono: o lasciarla partorire in casa, che è un disonore; o farle fare un viaggio in Svizzera, con la scusa dell’esaurimento nervoso, che è un peccato mortale.

LAURA              - (definitiva) Mi preme che sia chiarito un equivoco. Consiglio per tutti: nessuno si faccia delle illusioni, padre compreso, se riusciranno a mettersi d’accordo. Esperienza, igiene, buonsenso, dai principi morali alla biancheria intima, a mio figlio provvedo, come ho sempre provveduto, io, e basta. Tutt’al più, al padre è consentito lasciarlo erede universale. Questo non è proibito. Ma non è necessario. Non ne avrà bisogno. Approfitto di dovermi andar a cambiare per colazione, così possono meditarci su. E li lascia lì.

SELVA               - Ma vuole o non vuole che suo figlio abbia un padre?

LERICE              - Qui è il bello!

SELVA               - Erede universale. Con altri nove che ne ho! Quella lì è matta. Meno male che io son fuori gioco.

LERICE              - Come fa a dire che è fuori gioco?

SELVA               - Non lo dico io, l’ha detto lei.

LERICE              - Le pare?

SELVA               - Mi levi una curiosità. Per quali vie è riuscito a capire che è figlio suo?

LERICE              - Mi contraria darle un dispiacere, ma lei prende i suoi desideri per certezze.

SELVA               - Non cambiamo le carte in tavola.

LERICE              - Nessuno, purtroppo, ha ancora potuto giocare l’asso di briscola e dubito fortemente anche che lo possa. Io sono ancora nelle sue stesse condizioni: trentatré probabilità su cento. Non una di meno, non una di più.

SELVA               - (fuori di sé) Verrà il momento che potrò capirne qualche cosa!

LERICE              - Non c’è nulla da capire. Ma, raggiante in volto, fasciato in un accappatoio celeste madonna, è già qui di rincalzo il romanziere.

MOLA                - Spiego io ogni cosa. Bisogna vedere come nuota. Una torpedine! Il padre sono io.

SELVA               - Ah, respiro!

LERICE              - Ha dedotto che è suo figlio da come nuota?

MOLA                - Non sono così ingenuo, benché i particolari aggiunti ai particolari, abbiano, anch’essi, la loro importanza. Se non sono prove sono indizi e non vanno trascurati.

SELVA               - Certo, certo.

LERICE              - Non mi dica, adesso, di aver vinto anche i littoriali di nuoto.

MOLA                - Le parrà strano, però ci sono andato vicino. Ma non ho solo indizi, possiedo anche una prova.

SELVA               - Ah bene, bene.

MOLA                - Quando ho insistito per seguirlo in piscina, tenevo la mia idea in testa.

LERICE              - Non so, diversamente, dove l’avrebbe potuta tenere.

MOLA                - Volevo vederlo nudo.

SELVA               - Sconveniente!

LERICE              - E le è piaciuto?

MOLA                - Tanto! M’è piaciuto perché ho trovato quel che cercavo. Si fa scivolare l’accappatoio dalla spalla destra e si volta di schiena, cercando di far coincidere un dito con un punto sotto la scapola. Cosa ci vedono?

SELVA               - Una brutta macchia color caffelatte, grande come una moneta da cinquecento lire. Le ha dato un pizzicotto?

MOLA                - (al frate) E’ d’accordo anche lei?

LERICE              - Sul prezzo?

MOLA                - Ma no. Sulla macchia.

LERICE              - Più o meno.

MOLA                - E’ una voglia di cioccolata di mia madre, quando era incinta di me. Bene: ce l’ha anche lui.

SELVA               - (esplosivo) Congratulazioni. Ah, finalmente, è tutto risolto!

LERICE              - E lei è convinto che una voglia di cioccolata costituisca una prova incontestabile di paternità?

SELVA               - Ma lei è peggio di San Tommaso. Non crede a niente.

MOLA                - Non le ho ancora detto che ce l’ha nello stesso posto, sulla punta della scapola.

SELVA               - Sulla punta della scapola!

LERICE              - Sia pure sulla punta della scapola. Che significa?

MOLA                - Come che significa?

SELVA               - Mai visto uno spirito di contraddizione più ostinato. Lo deve fare apposta. Una malvagità per lasciar orfano quel povero figlio di mamma.

MOLA                - E’ identica, le dico. Fa impressione a vederla. In caso di contestazione, è meglio che il giovanotto si trovi presente, tanto più che il suo accappatoio, un giaccone di spugna al ginocchio, rosso scarlatto, fa un gran bel vedere. Avvicinati, figlio mio. E, quando lo ha a portata di mano, gli denuda naturalmente la spalla destra. Dov’è? Oddio, non c’è più. Sarà mica scomparsa!

LERICE              - Può essersi trattato d’un’allucinazione. I desideri molto intensi, qualche volta le suscitano.

SELVA               - Questo falso frate è d’un cinismo ributtante.

MARCO             - Cos’è che cercano?

MOLA                - La voglia.

MARCO             - Sta a sinistra. Si copre a destra e si scopre a sinistra.

SELVA               - Precisa, tale e quale.

MOLA                - Convinti?

SELVA               - Per me non sussistono dubbi. Ritiro la mia candidatura che, del resto, non ho mai avanzata.

LERICE              - Non scherziamo. Una macchia sulla pelle e nemmeno dallo stesso lato. Stiamo sognando? Oh, ferma sulle scale, non è comparsa, da un po’, anche la protagonista!?

LAURA              - (da schiaffi) Tanto più che, dallo stesso lato, ce l’ho io. L’ha ereditata da me.

SELVA               - Quanto mi sta antipatica quella!

MOLA                - E chi ce lo prova?

LAURA              - (già a pianterreno) Se non è che per questo, possono controllare. Si scopre la spalla anche lei e ne dà dimostrazione.

SELVA               - Sarà mica stata fatta col lapis, per caso? Sa, qui c’è poco da fidarsi. Se la prima attrice non ha niente in contrario non dispiacerebbe che lo lasciasse strofinarci su il dito per sincerarsene. Sennò, si dovrà crederle sulla parola, ma è donna di onore e ci si può fidare.

MOLA                - Non nego che ci sia. La sua, però, è molto più scura.

SELVA               - Sì, sì, è più scura.

LAURA              - Naturale, la mia fu una voglia di tamarindo.

LERICE              - Ed è a sinistra. A sinistra.

SELVA               - Ha importanza?

LERICE              - Biologicamente, sì.

SELVA               - Punto e daccapo!

MOLA                - Eppure, sento nel sangue che questo ragazzo è figlio mio.

MARCO             - Ne avrei anche un’altra.

SELVA               - Un’altra che?

MARCO             - Voglia. Soltanto, è in un posto che non si può far vedere in pubblico.

LAURA              - Nessuno dei concorrenti, ha notizia di possederne una simile da quelle parti?

MOLA                - Io no, purtroppo.

LERICE              - Spiacente. Nemmeno io, credo.

MARCO             - Peccato.

LERICE              - Grazie.

SELVA               - Davanti o didietro?

MARCO             - Tra. Non l’ho mai potuta vedere. Mi fu riferito.

SELVA               - (subitaneo) Vado a telefonare. Devo chiedere un’informazione.

LAURA              - Può chiamare da qui.

SELVA               - Eh, no. Ora sono io a non volere. Le piacerebbe ascoltare ciò che devo chiedere. E fuori. Occupati nelle loro indagini segnaletiche, finora nessuno aveva fatto caso a una tromba d’automobile che chiama da un po’.

LAURA              - Chi c’è, adesso, là fuori, a lacerarci i timpani?

MARCO             - Ho idea di saperlo io. Figurarsi se quella è tipo da non insistere. Morta, ma, fin che non ha realizzato il suo scopo, non la smette.

LAURA              - Mancherebbe che, ora, tu mi dovessi portar anche in casa le tue equivoche avventure telefoniche. Esci e sbrigatela da solo. Che non ci cada sotto gli occhi!

MARCO             - Troppo tardi! E, infatti, la ragazza è già qua. Mica una grinta troppo mansueta, così a prima vista.

LAURA              - Chi è lei? Cosa viene a fare qui?

MARCO             - Sempre retorica, tu mamma. Chi è lo sai, cosa viene a fare: una scenata.

LIDIA                 - (si chiama così) Più o meno.

MARCO             - Spiacente, gioia, ma dobbiamo rimandare gli insulti. Ti andrebbe bene giovedì? Oggi siamo immersi fino al collo in un problema che procede in tutt’altra direzione.

LIDIA                 - Il giorno e l’ora delle mie scenate me li scelgo da me; lo stesso che tu ti scegli, da te, il giorno e l’ora di trattarmi al telefono come fossi la tua ruffiana.

MOLA                - Signorina!

MARCO             - (che stava all’erta, immobilizza la propria madre, già pronta a lanciare, mirando all’intrusa, un antico vaso di Sèvres di inestimabile valore) Buona! Ricordati che è un pezzo di antiquariato unico al mondo.

LAURA              - Pur che riesca a pigliarla in testa, me ne privo volentieri.

MARCO             - E’ appartenuto alla Pompadour, mamma!

LAURA              - Ah, già! Strano, il nome della Pompadour la persuade a metterlo giù. Ma sta già scegliendo, con gli occhi, qualcos’altro più economico. Qualcosa mi devi lasciar rompere.

MARCO             - Da brava, pensa che nessun oggetto, qui dentro, vale meno di un paio di milioni.

LAURA              - Certe soddisfazioni non hanno prezzo.

LERICE              - Signora, depaupererebbe il patrimonio artistico nazionale.

MOLA                - Io son qui ancora trasecolato da quella parola. Ruffiana! Benché scrittore neorealista, non mi azzarderei mai a metterla in bocca, così a freddo, a una minorenne.

LIDIA                 - A freddo o a caldo, l’ho detta, la penso e la mantengo.

LERICE              - Purché non la ripeta. Siamo su un campo minato.

LAURA              - Non c’è nessuno che la butta fuori?

LIDIA                 - Ci ho messo un bel po’ ad aprire gli occhi. Finalmente, all’improvviso, mi si è fatta la luce.

MARCO             - Che luce e luce? Fila se non vuoi che ti gonfi la faccia a cazzotti.

LIDIA                 - Naturale. La verità scotta. Son venuta a dirti che, se proprio ti serve un paravento, io basta! Te ne devi scegliere un’altra!

MARCO             - Bene, cara. Se non era che questo siamo d’accordo.

LIDIA                 - Però, prima, mi devi togliere una curiosità. Sarò cretina, ma da sola non ci riesco ad arrivare. Ti dovevo servir da paravento per la Fulvia o per il Tino?

LAURA              - No eh, no eh!...

MARCO!

MARCO             - Di’, mamma.

LAURA              - Rispondi.

MARCO             - E’ proprio il momento adatto di metterti a risolvere gli indovinelli.

LAURA              - Parla!

LIDIA                 - (d’accordo fino a sovrapporlesi) Parla!

LAURA              - (pentita) No. Contrordine: non dir niente.

LIDIA                 - Fin che non l’ho saputo non mi muovo di qui. Dovessi bivaccarci per una settimana.

MARCO             - Fa’ conto che si tratti di tutte e due, va bene? E, adesso, smamma che m’hai rotto le scatole abbastanza. Prima di maggiori precisazioni, ecco di ritorno, dalla sua indagine telefonica, l’onorevole tutto rasserenato, ma per poco.

SELVA               - Escluso anche da parte mia. Nessuna voglia, né visibile, né invisibile, da nessuna parte, né davanti, né didietro, né tra. Colpo di scena: vede la ragazza, per poco non gli piglia un accidente e mette in difficoltà la compagnia.

LIDIA!

LIDIA                 - Papà!

SELVA               - Che fai tu, qui?

LIDIA                 - Che ci fai tu, piuttosto?

SELVA               - E’ un segreto di Stato. Ma tu, tu?

LAURA              - Ah, una cosa da niente. È un’intima amica di MARCO. Sa, quella che telefonava.

SELVA               - Cosa?... Dio del cielo, mi gira la testa. A me! Soccorso. Vado!...

LERICE              - No. Svenimento niente, onorevole. È già stato sfruttato come finale del primo atto.

SELVA               - E ora, come mi regolo?

LERICE              - Trovi qualcos’altro.

MOLA                - (che, da un po’, lo sostiene) Animo, animo, dilati i polmoni, respiri fondo... Però, siamo giusti, avrebbe più diritto di svenire oggi di ieri.

LERICE              - Non si può. Ci accuserebbero di ripeterci.

MOLA                - Ma cos’è lei, oltre che frate, anche regista?

SELVA               - Come si chiama... come si chiama, ma come si chiama?... nessuno mi aiuta?

LAURA              - Cosa, cosa come si chiama?

SELVA               - Lì, quello che c’è tra loro due... E’ spaventoso... Come si chiama? L’ho sulla punta della lingua e non mi vuol venir fuori.

LAURA              - Accidenti alla memoria!

LERICE              - Ho capito io. Coraggio, onorevole. Stia su. La percentuale di pericolo di incesto non supera quella di pericolo della paternità: uno a tre. Più no che sì, insomma. Anche lei però!... Ha scelto proprio l’occasione meno raccomandabile per sentirsi padre.

MOLA                - Lei non considera la percentuale di probabilità del resto.

LERICE              - (spalancando le braccia) Su quello, per fortuna, non esistono statistiche.

LAURA              - (tre urli) Va’ a prendermi il VITTORIO! Voglio il muto! Mi devo scaricare!

MARCO             - Te lo porto in mezzo minuto. A questo punto ti spetta di diritto. Corre fuori e scende il sipario.

ATTO TERZO

Del pranzo, comprensibilmente non è stato nemmeno il caso di parlare. E ciononostante, siccome qualcosa di caldo e corroborante nello stomaco è sempre utile, la padrona di casa e l’onorevole stanno seduti, dirimpetto, ai due estremi della tavola, ognuno con un ricco vassoio davanti, poveramente guarnito nient’altro che da una capace tazza, senza, con questo, esonerare il proprio sordomuto di servizio posteriormente. Nessuna fretta. Quando hanno finito di sorseggiare si mettono a discorrere. Hanno tempo.

LAURA              - (stranamente calma e signorile) Forse, lei, invece di una camomilla, avrebbe preferito un brodo.

SELVA               - No. Preferisco una seconda camomilla.

LAURA              - Non ha torto. In casi di emergenza, l’ho sempre trovata miracolosa. È il farmaco della mansuetudine. Fa una mimatina al domestico che gli sta dietro e questi, armato da una gigantesca caffettiera d’argento, rifornisce nuovamente la tazza del convitato.

SELVA               - Piena, piena.

LAURA              - Limone o cognac?

SELVA               - Pura.

LAURA              - Vuol mica provare ad aggiungerci un dito di vodka, alla russa?

SELVA               - Ho detto pura.

LAURA              - Io la gusto di più corretta con alcune gocce di rum.

SELVA               - Io, se potessi, mi metterei in bocca direttamente l’erba da masticare, pensi un po’.

LAURA              - Così, nature?

SELVA               - Già! Alla cannibale.

LAURA              - Ognuno ha le sue preferenze. Del resto, in tutte le cose, non solo materiali, il sapore originale è sempre il migliore. Troppe sofisticazioni al giorno d’oggi. Un breve silenzio.

SELVA               - Se mi ha rovinato la ragazza, lo ammazzo, secco, senza lasciargli nemmeno il tempo di raccomandarsi l’anima a Nostro Signore.

LAURA              - Quel che è ammirevole, in lei, onorevole, è la mancanza della logica più elementare. Ciò le conferisce una sorta di innocenza non priva di fascino.

SELVA               - Perché, secondo lei, è logico il criminale imbroglio nel quale ci ha cacciati? Evidentemente, in lei, la camomilla paralizza il senso morale.

LAURA              - Durante tutta la mia vita, ho fatto l’esperienza che, in se stesse, le cose non sono mai né morali, né logiche. Siamo noi che dobbiamo farcele diventare, trasformando in ragionevole ciò che è ferino.

SELVA               - Sembra di sentir parlare quel maledetto volterriano di quell’equivoco frate.

LAURA              - Cerchi, piuttosto, di non perdere l’ultima occasione di far funzionare il cervello. Per quanto tetragono al pensiero e allergico al ragionamento, dopo due tazze di camomilla doppia, non dovrebbe esserle del tutto impossibile.

SELVA               - Si vede che non sono ancora abbastanza.

LAURA              - Senza complimenti. Quella teiera ha la capacità di cinque litri. La teneva sul comodino Caterina di Russia per offrire il tè ai suoi cosacchi, comandanti di servizio, un’ora a testa, per conservarla allegra di notte. Pare che non avesse trovato altro rimedio contro l’insonnia.

SELVA               - Il tè o i cosacchi?

LAURA              - I cosacchi col tè.

SELVA               - Di male in peggio. Conosce anche la storia della Russia zarista, lei.

LAURA              - Ahimè no, utile come sarebbe di questi tempi! Conosco solo la storia dei miei pezzi d’antiquariato.

SELVA               - Altro che camomilla! Qui ci vuole l’Interpool. L’Interpool ci vuole!

LAURA              - Noto già un miglioramento. Prima, aveva parlato di ammazzare.

SELVA               - L’una cosa non esclude l’altra. Interpool per loro due e revolver per quel corrotto ragazzo.

LAURA              - E naturalmente, a sua figlia una medaglia al valore da conferirle in Campidoglio.

SELVA               - Mia figlia in convento dalle pentite.

LAURA              - E se concedesse un armistizio al suo delirio, almeno fin che non si sarà conosciuto il risultato della inchiesta che tiene occupati i suoi due amici?

SELVA               - Amici?

LAURA              - Si fa per dire.

SELVA               - (guardando l’orologio e non è la prima volta) Buoni quelli! Un’ora e ventisette minuti che se li son portati a spasso per interrogarli e ancora non si vedono di ritorno.

LAURA              - Si tratta di indagini delicate e la fissazione del professore, lei lo sa, è di non turbare in alcun modo, la serenità di spirito della gioventù.

SELVA               - E poi proprio loro. Chi si fida?

LAURA              - Abbia pazienza. Mica potevamo né io né lei. Le nostre parentele con i due attori giovani della compagnia sono inequivocabili. C’era pericolo che io strangolassi sua figlia e lei facesse fuori il mio.

SELVA               - Del secondo caso può star sicura.

LAURA              - Nemmeno il primo era improbabile. E poi, non è ai genitori che si confidano certe cose. Vede, dunque, che non esisteva altra soluzione.

SELVA               - Rimandare non vuol dire rinunciare.

LAURA              - (sempre fra una sorsata e l’altra) Le eventualità da prendere in considerazione, a mio parere, sono tre. E, tutte e tre, le danno torto.

SELVA               - Non vedo l’ora di conoscere quali.

LAURA              - Prima: che, tra i ragazzi, non sia accaduto niente. A che scopo un delitto?

SELVA               - Ho detto se. Se mi ha rovinato la figlia, lo ammazzo.

LAURA              - Secco.

SELVA               - Secco.

LAURA              - Anche questo, scusi, non può essere sicuro al cento per cento. Potrebbe sbagliare il colpo o centrare una parte non vitale.

SELVA               - Se ho detto secco è secco. Non per niente, sono stato tiratore in Abissinia con Graziani. Ne ho fatto fuori così, dei piedi neri!

LAURA              - In tal caso, ritiro l’obiezione. Non ne ero informata.

SELVA               - Adesso lo è. Perché deve sapere che io sono veneto, è vero, e quindi di natura pacifica; ma, a forza di occuparmi della Cassa del Mezzogiorno, qualcosa del sangue meridionale ha finito col circolarmi nelle vene.

LAURA              - Che Dio la benedica. Lasciamolo circolare. Può essere l’unico modo rimastoci di raggiungere finalmente questa leggendaria unità d’ Italia. Ciò che non è riuscito a Garibaldi, riuscirà a lei.

SELVA               - In questo momento, ho proprio voglia di sostituirmi a Garibaldi per completare l’unità d’Italia!

LAURA              - Seconda ipotesi: che qualcosa sia accaduto!

SELVA               - Guai, guai!

LAURA              - Ponga il caso che

MARCO             - sia suo figlio, si fa per dire.

SELVA               - Uuhh!... Neanche pensarci. Un orrore simile! Ora meno che mai. Non lo può essere, assolutamente.

LAURA              - Ma poniamo il caso che lo sia. Purtroppo, non dipende né dalla sua né dalla mia volontà. Vuole assassinare suo figlio?

SELVA               - (evidentemente, privo di carburante) Un’altra camomilla! Ancora un ordine muto al domestico e ancora una camomilla all’onorevole.

LAURA              - Non per far economia di quel benefico infuso che m’ha ammansito i nervi e restituito il buonsenso; ma non ritiene d’averne ingurgitato abbastanza? Che, poi, magari, al bisogno del pieno impiego di tutta la sua lucidità mentale, non ci dovesse cadere in letargo e venirsi a trovare in condizioni di spiacevole inferiorità.

SELVA               - Non si dia pensiero. Nemmeno un bagno nella camomilla bollente, riuscirebbe a calmarmi.

LAURA              - Come non detto. Però, che resistenza ai sedativi! Terza ipotesi: che, effettivamente, ci sia stato qualcosa fra due ragazzi estranei; non consanguinei, in altre parole. Ma, santo cielo, capita ogni giorno fra la miglior gente, quando due creature giovani, di sesso diverso, sane, esuberanti e non prive di iniziativa, si frequentano con una certa confidenza. Il professore troverebbe che è la garanzia di un normale sviluppo.

SELVA               - Normale sviluppo?

LAURA              - Si capisce.

SELVA               - Devono avere una ben strana idea, loro qua, dello sviluppo normale.

LAURA              - Eppure, mi sa tanto che, per certe cose, sua figlia non abbia bisogno né di alcool, né di una barca, né del chiaro di luna. E questo, me lo ammetterà, è un progresso. L’opera del maschio ne risulta facilitata, e quindi le sue responsabilità di molto attenuate.

SELVA               - Consideriamo, allora, il caso dall’altra parte. Resta da vedere se il cosiddetto maschio ne sarebbe capace.

LAURA              -

MARCO             - lo conosco. Non può avere di codeste abitudini da bruto.

SELVA               - Contenta lei... Tutto considerato, guardi sarebbe ancora il minore dei mali, il che è tutto dire. Quindi, quarta ipotesi, l’unica rassicurante.

LAURA              - Alt! A quella non ci voglio pensare io. E un’altra camomilla, ora se la fa servire lei. Come neanche il caso fosse loro, immersi in una superiore disputa che li rende distratti sulla presenza degli altri, avanzando il frate e il romanziere.

MOLA                - ...E’ la vecchia storia. Ogni epoca ha i suoi tabù e i suoi pregiudizi.

LERICE              - Ma nemmeno pregiudizi. Se pensa che le figliuole di Loth stanno immortalate nella Bibbia perché, persuase d’esser rimaste le ultime donne al mondo, giacquero col loro padre senza commetter peccato, si rende subito conto della relatività e della mutevolezza dei criteri morali.

MOLA                - Del resto, lei mi insegna, che, al vertice della civiltà egiziana, vigeva la norma che i Faraoni non potessero procreare i loro divini successori altro che tra fratello e sorella. E infrangerla era considerato poco meno che un sacrilegio.

LERICE              - Ma, poi, guardiamo la verità in faccia. Adamo ed Eva, va bene, tutto regolare. Però, eliminato, se vogliamo un po’ brutalmente, Abele, che d’altra parte, non vedo in che modo l’avrebbe potuto utilizzare, non mi dirà che Caino abbia dato l’avvio al genere umano da solo, per partogenesi.

MOLA                - Eggià! Adamo ed Eva devono aver avuto, per forza, anche una figlia. Sicuro. Non ci si pensa mai.

LERICE              - Certo che l’hanno avuta. Certo. Diversamente, oggi, noi non saremmo qui a parlarne.

MOLA                - Pensi: miliardi e miliardi di uomini...

LERICE              - Glorie e abominii, vittorie e sconfitte, splendori e miserie; tutta la nostra superbia, tutta la nostra intolleranza, e, l’origine, eccola! L’incesto!

MOLA                - Alla stessa stregua dell’ultimo degli animali.

LERICE              - Dei mammiferi, per essere precisi. (Una breve meditazione scientifica) Mi correggo: anche degli ovipari.

MOLA                - Magra consolazione.

LERICE              - Non calunni gli animali. (Molto serio, così a orecchio) In essi è depositata la millenaria sapienza della biologia, fondata sull’inesausto cammino dell’evoluzione. E cos’è, in ultima analisi, l’evoluzione se non l’irresistibile slancio trascendente della vita che ascende faticosamente ma inarrestabilmente verso il cielo?

MOLA                - Vuol dire?

LERICE              - Ha dei dubbi?

MOLA                - Se lo assicura lei!...

LERICE              - Chi può escludere che, alla fine dei tempi, una specie umana superiore riesca, su questa terra, ad esprimere la divinità dal proprio seno?

MOLA                - Bello, però, non le sembra un po’ eretico?

LERICE              - Ma quello sarà il maggior dono di Dio all’uomo.

MOLA                - O viceversa.

LERICE              - Qui la volevo. A qual termine, l’umano e il divino si saranno identificati. Del resto, per metà, con Cristo, è stato già tentato.

MOLA                - Non si può dire che gli sia andata troppo bene.

LERICE              - Eppure, siamo stati lì lì per farcela. Lo sbaglio di Cristo, vede, è stato, semmai, d’aver avuto troppa fretta, prendendo l’iniziativa lui, nell’illusione che gli uomini fossero già pronti. Un’illusione d’amore gli ha fatto commettere un peccato di impazienza. Ed ora, la sconta rassegnandosi ad aspettare, ecco tutto.

LAURA              - (dopo averlo ascoltato allibita) Buonanotte! Dopo averne curati tanti, è diventato matto lui. E congeda, con un gesto, i sordomuti di guardia..

SELVA               - Ma come non l’hanno ancora scomunicato quel frate sacrilego? Una mano sulla coscienza. Mettiamoci nei loro panni. Cosa devono pensare due disperati, a digiuno, in privata attesa di una risposta rassicurante ad una domanda angosciosa, ascoltando eresie di quel calibro? Lo si vede dai loro visi, percorsi dal sacro orrore dell’antica tragedia, cosa pensano.

LAURA              - (concreta, lei) Dunque, il peggio.

LERICE              - Il peggio di che?

LAURA              - Se non lo sa lei!...

SELVA               - (incandescente) Varca quella soglia con un discorso blasfemo per il quale un rogo in piazza sarebbe ancora poco, e osa anche domandare di che.

LERICE              - Non riesco ad afferrare il senso di questo inopinato tentativo di passare repentinamente dal vaudeville alla tragedia.

SELVA               - L’ha detto. E tragedia greca, per giunta. Della peggiore, dove cessa ogni freno morale di qualsiasi parentela. Come quel tale... Che nome aveva, accidenti?

MOLA                - Edipo, Mirra, Fedra, Ippolito, sono in tanti!

LAURA              - ...E i Faraoni e le figlie di Loth e tutta la nobile compagnia, vero? Senza escludere gli elefanti e le galline!

LERICE              - Naturalmente. Altrettante testimonianze dell’universale relatività dei nostri fallaci metri morali.

LAURA              - Non faccia lo spiritoso. È una dote che nessuno le contesta, visto che le preme tanto da giocarsi l’anima per il pessimo gusto di non risparmiare nemmeno le cose più sacre. Ma ha scelto male il momento. Perché se, padri oppure no, il dubbio, in ogni caso, non può riguardare né lei, né l’amico che gli fa da spalla, potrebbe riguardare me e questo disgraziato parlamentare.

LERICE              - (che carogna) Non s’è parlato, stamattina, che, prima della fine, avrebbe potuto incappare anche lei nella sua tagliola? E se così fosse?

LAURA              - E’, o non è.

LERICE              - Ho detto se fosse.

LAURA              - E questa sarebbe la sua carità cristiana. Un bell’affare ha fatto la Chiesa a incamerare un sadico morale come lei.

LERICE              - Assapori, assapori il dubbio. Sa di cenere ma, qualche volta, chiarisce le idee.

LAURA              - Caro lei, avessero tutti le idee chiare come me!

LERICE              - Non ne sia tanto sicura. Si rende conto ora, se soltanto un piccolo ritardo a rispondere a ciò che le sta a cuore, basta a metterle il sistema nervoso in stato di emergenza, il rischio, uno fra tanti, in cui ha cacciato noi tre, lei stessa e due innocenti ragazzi?

SELVA               - Iuhh!... C’è da incanutire, in un colpo solo, dall’orrore!

LAURA              - E lei non dica stupidaggini. Non s’è mai visto che i capelli tinti abbiano cambiato colore, altro che sotto l’effetto di una diversa tintura.

SELVA               - Vorrebbe, forse, insinuare che io mi tingo i capelli?

LAURA              - E anche male. Usa un cachet pessimo, che, tutt’al più, andrà bene ad ammazzare i pidocchi. Lo si vede lontano un miglio.

LERICE              - Volevo ben dire.

LAURA              - Lei diventerà calvo, non canuto, glielo dico io.

MOLA                - Era parso sospetto anche a me quello spreco di nero corvino.

SELVA               - Non le permetto!

LERICE              - Non insista, onorevole. Se c’è un competente in materia, è proprio la signora.

LAURA              - E se debbo completare il mio pensiero, lei starebbe meglio biondo.

SELVA               - Va bene. Rinuncio a incanutire e mi farò ossigenare. Ma questo non ci farà andare avanti di un passo.

LERICE              - Siamo qui per riprendere il discorso.

LAURA              - Allora?

LERICE              - Un momento. Ci lasci almeno graduare gli effetti.

LAURA              - Non so quel che potrà accadere, fra cinque minuti, se io rinuncerò a graduare i miei.

LERICE              - Credo di riuscire a figurarmelo. E, questa volta, non avrà probabilmente nemmeno bisogno di parlar coi muti. Le può essere salutare.

LAURA              - (un’altra) E’ questo che vuole? Grazie d’avermi messa in guardia. Sempre leale, gliene dò atto. Ma, me, lei, non mi riuscirà a curare. A costo di dover perdere per sempre la favella.

LERICE              - Sarebbe già un risultato apprezzabile.

LAURA              - Continui pure a giocare al gatto col topo se questo la consola. Vedremo chi si stancherà prima. E si mette a fumare, sdraiata su una poltrona, apparentemente padrona di sé.

SELVA               - (gemebondo) Ma perché ne devo andar di mezzo io? Io non ho alcun bisogno di essere curato con la curiosità. Da uomini a uomini, qualunque sia la sentenza, meglio la verità brutale di un’incertezza che taglia le gambe e mi mette a sedere in una situazione in cui avrei l’obbligo di stare in piedi.

LERICE              - Ma, scusi, onorevole, sia logico. A che tanto spavento, quando ha sempre rifiutato persino di prendere in considerazione l’eventualità di essere lei il padre? Se c’è un che dovrebbe sentirsi tranquillo, è lei.

SELVA               - Anche se non di tutti e due, lo rimango pur sempre della ragazza.

MOLA                - Già è vero, povero Cristo.

SELVA               - E poi, chissà!...

MOLA                - Come chissà? Non ne è sicuro?

SELVA               - Era un chissà per lui, non per lei.

LERICE              - E’ sempre un chissà in ogni caso, perché di tutte le parentele, la paternità è la più opinabile. La nostra ospite ne sa qualcosa.

LAURA              - (calmissima, all’onorevole) Perché non lo uccide?

SELVA               - Non posso. Se lo uccido non saprò più niente. Semmai, dopo.

LAURA              - Potremo, al caso, farla passare per una disgrazia. Ho già eliminato così alcuni sordomuti. Riesce sempre.

MOLA                - Senza complimenti. Se vogliono fare altrettanto anche con me, non abbiano riguardo.

LAURA              - Si vedrà, tanto già non scappa.

LERICE              - Ho detto una sconvenienza?

SELVA               - Quale sconvenienza, in nome di Dio? Io non mi sento più la testa.

LAURA              - Eppure è chiaro. Ha solo cercato, per vie traverse, di darle del cornuto.

SELVA               - (ormai, mezzo balordo) Cornuto a me? Non me l’hanno mai dato nemmeno i comunisti in periodo elettorale, e me lo deve dare un frate in una famiglia perbene, presumibilmente liberale o, al massimo, socialdemocratica!

LERICE              - Come non detto. Ma diventa peggio.

SELVA               - Che ci può essere di peggio? Si spieghi. E finalmente avviene l’esplosione. Essa si slancia, agguanta impetuosamente per i risvolti della giacchetta il romanziere e si mette a urlare, scuotendo come un albero di nespole.

LAURA              - Insomma, ci sono andati sì o no, a letto insieme?

MOLA                - Signora, non sia così brutale.

LERICE              - Finalmente ci siamo.

LAURA              - (che capacità di ripresa) Non ci faccia troppo conto.

SELVA               - Parli o vengo meno.

LERICE              - Il solito ricatto dello svenimento.

SELVA               - Faccia presto, per la miseria!

LAURA              - Parli lei, MOLA. Smettiamo questa perfida farsa.

MOLA                - Ma sì, è tempo. Si sarà già capito che non c’è niente da dire perché, pare che non ci sia stato niente di fatto.

SELVA               - Come pare, come pare?

LAURA              - Crede che ci si possa accontentare di una pare?

LERICE              - Noi ce ne siamo accontentati. O è persuasa che un’indagine sulla vita privata di due giovani sia come scassinare una cassaforte con la dinamite e poi ripulirla col lanciafiamme?

LAURA              - Cosicché, questo pare lo dobbiamo alla delicatezza della sua mano di chirurgo indolore.

LERICE              - Più o meno.

LAURA              - Alle corte. Questo pare è da togliere o da lasciare?

MOLA                - Sono persuaso che sia da togliere.

LERICE              - E ne va ringraziata unicamente la prudenza del giovanotto.

SELVA               - E allora, che Dio vi maledica, perché quei nefandi discorsi sui Faraoni, sulle figliole di... come accidenti si chiamava quel maiale?

MOLA                - Eh, ma la sua memoria per i nomi è un disastro, onorevole.

LERICE              - Si trattava di meditazioni sull’umile origine del genere umano, che rende tutti fratelli, e niente di più.

LAURA              - Rimane stabilito: nulla!

SELVA               - Dio del cielo, adesso che ci penso, non è finita.

LAURA              - Che altro salta fuori, ancora?

SELVA               - Mia figlia, ora sa perché sono qui. E coll’antipatia che ha per me, figurarsi, sarà già andata a raccontarlo a tutta la famiglia.

LAURA              - Be’, che c’è di male? Se sono una famiglia unita, è naturale.

SELVA               - Lei non conosce la mia famiglia. Tutti contro.

MOLA                - Volevo ben dire!...

LERICE              - Onorevole, ci si è guardati bene dal turbarla con una simile rivelazione. Perché, se lo metta bene in testa: per una creatura di vent’anni, poteva essere un trauma con conseguenze per tutta la vita.

LAURA              - Quando si dice la solidarietà maschile! Una gara di magnanimità esemplare, non c’è che dire.

LERICE              - E anche di questo, guardi un po’, buona parte del merito va al ragazzo.

MOLA                - Lui ha retto magnificamente.

SELVA               - Non faccio fatica a crederlo. Privo di qualsiasi senso morale com’è, niente avrebbe potuto impressionarlo meno.

LERICE              - Chissà che non sia, invece, il contrario.

SELVA               - Anche lei ha preso una bella cotta per quell’animale, vada là.

LERICE              - La verità è che la tanto vilipesa gioventù odierna, qualche volta rivela un buonsenso e una maturità che dovrebbero far riflettere chi la denigra solo per non fare la fatica di comprenderla.

LAURA              - In altri termini, colui che ne esce meglio è nostro, pardon, mio figlio. D’altra parte, di

MARCO             - io non ho mai dubitato. Ed ora, la notizia che è ancora vergine, mi dà ragione.

MOLA                - Chi ha detto questo?

LERICE              - La cecità dell’egoismo materno! Si tolga ogni illusione dalla testa. Mai conosciuto un ragazzo di vent’anni meno vergine di suo figlio. Glielo garantisco con tutto il cuore.

SELVA               - Non stento a crederlo.

LAURA              - Alla lunga, lo spettacolo del piacere che lei prova a scandalizzare il prossimo è monotono, professore.

LERICE              - Non solo non è nocivo, di tanto intanto, scandalizzare la gente, ma è salutare scandalizzarla con una certa frequenza. È un ottimo vaccino per la vita.

LAURA              - Attenzione alle dosi!

LERICE              - Saggio consiglio. Teniamone conto. Da un po’, l’onorevole stava riflettendo. Sforzo tanto raro in lui, che, quando gli capita, non può fare a meno di sostenersi la testa con ambo le mani.

SELVA               - Un momento. Se ben ricordo, prima qualcuno mi ha dato del cornuto.

MOLA                - Lasci perdere, acqua passata.

SELVA               - Che lasci perdere, che acqua passata!? No no, altro!...

MOLA                - Non faccia il piantagrane, onorevole.

LAURA              - (perfida) Ricorda benissimo. (Dito accusatore verso il frate) E’ stato lui.

MOLA                - A monte, a monte!

SELVA               - (allegrissimo) Ma è vero. È vero. Grazie. Ah che bellezza!

LAURA              - Cosa?

MOLA                - Lo è davvero?

LERICE              - Lo strano non è che lo sia. È che, il ricordarsene, lo renda tanto allegro. Di solito avviene il contrario.

SELVA               - Sì sì, ha ragione. Ma, in un certo senso, è proprio vero.

LAURA              - Insomma, lo è o non lo è.

SELVA               - Sono un cornuto senza corna, questo è il bello.

MOLA                - Se cercasse di ordinare le idee?...

SELVA               - Ma che distratto! M’ero dimenticato, si figurino, che

LIDIA                 - non è figlia mia.

MOLA                - E di chi?

SELVA               - So solo che si chiamava Amilcare. È figlia di primo letto di mia moglie che ho sposato vedova. Per la ragazza io sono come San Giuseppe per nostro Signore.

MOLA                - Ma no!

SELVA               - Ma sì! dopo tanto tempo, tanti spaventi, tanti figli e tanta camomilla, mi era passato di mente. I miei sono tutti maschi e tutti più belli.

LAURA              - (al limite di rottura) Ah be’, senta...! No. Più tardi, col muto, a tu per tu, da sola.

LERICE              - E così un Amilcare qualunque fa dileguare anche l’ultimo brivido.

LAURA              - Volevo ben dire che non le dispiacesse!

LERICE              - Detesto le esagerazioni. La morale, espulsa dalla porta, rientra, di prepotenza, a sacchi, dalla finestra. Non c’è proprio verso di conservare qualcosa di piccante a questa storia.

MOLA                - Rimane sempre la risorsa di ripristinare l’ombra di quel pare che ci si era affrettati a togliere, forse un po’ troppo precipitosamente.

LERICE              - Comunque, bisogna metterne al corrente il giovanotto. Che almeno ora, se vuol, possa approfittarne con libertà.

SELVA               - Lei scherza!

LERICE              - Dico sul serio. Se c’è uno che merita un risarcimento è lui.

SELVA               - Se ne guardi bene!

MOLA                - Ma scusi, se la ragazza non è sua figlia, a lei che gliene frega?

SELVA               - Facciamo pure, tanto già non mi poteva soffrire. Come, io, lei, del resto.

LERICE              - Così, lei che non vuol esser padre, c’è caso che diventi nonno.

LAURA              - Sarò lietissima di fornire, io, l’informazione a

MARCO.

SELVA               - Però con cautela.

LAURA              - Ma ciò che maggiormente ha valore è che, ora, la candidatura alla paternità dell’onorevole torna a lussureggiare come e meglio di prima. Non se ne dimentichino. E, dopo questo inutile diversivo, è venuto il momento di risolvere finalmente il loro problema. Cerchino di venire ad una decisione. Già, in fondo, tutto si riduce a mettersi d’accordo per fornire un nome per il passaporto e la carta d’identità. Meno di così... Mi sappiano dire. Possibilmente fra non molto. Non vorrei, dopo il pranzo, dover saltare anche la cena. E via, invitta, come una regina.

SELVA               - Una parola! Adesso ce lo giochiamo a tombola e chi estrae il numero più alto se lo porta via.

LERICE              - Meno male che la considera una vincita.

SELVA               - Al contrario, una perdita. Si metta nei miei panni.

LERICE              - Non mi ci troverei bene. Li ho già dovuti cambiare una volta, per questo. E non erano nemmeno panni da onorevole.

SELVA               - Come se, di grane, non ne avessi già abbastanza! Ma se loro ci si divertono, padronissimi.

LERICE              - E’ qualcosa un po’ diverso da un divertimento. E direi che dovrebbe essere anche qualcosa di più importante.

SELVA               - Ma faccia il piacere!...

LERICE              - (serio) Non ho alcunissima intenzione di farle nessun piacere su questo argomento. Non sarà molto cristiano ma è più forte di me.

SELVA               - E’ proprio quello che cerco.

MOLA                - (tutt’altro tono) Quel che mi colpisce maggiormente nel ragazzo, è l’intelligenza.

LERICE              - A me, la naturalezza.

MOLA                - Il senso dell’umorismo.

LERICE              - La sincerità.

MOLA                - La disinvoltura.

LERICE              - La schiettezza del carattere.

MOLA                - La franchezza. Quel guardarti dritto negli occhi.

LERICE              - La lealtà.

MOLA                - La sicurezza.

LERICE              - La spontaneità.

SELVA               - E la spudoratezza, no?

LERICE              - A lei fa comodo prendere per spudoratezza le manifestazioni della sua incoercibile vitalità.

MOLA                - Ecco! Ma le sue mani, il suo sorriso. C’è della generosità in tutto il suo comportamento.

LERICE              - La giovinezza è sempre generosa. Fisicamente e soprattutto moralmente.

MOLA                - Come è vero! Ci se ne rende conto quando si guarda indietro la propria vita.

LERICE              - I guasti avvengono dopo.

MOLA                - Specie a contatto di certe madri.

LERICE              - Non tutto è negativo in lei, siamo giusti. E, ciò che è negativo, lui l’ha saputo respingere d’istinto.

SELVA               - Sarei curioso di conoscere qualche lato positivo di quel fenomeno di donna.

LERICE              - Quella sua tremenda volontà costruttiva, per dirne uno. Pensiamo alle sue origini e poi a ciò che è riuscita a diventare. Non parlo, naturalmente, della ricchezza che ne è stata l’effetto e non la causa.

SELVA               - Discorriamo della causa, allora.

LERICE              - Ma sì, una rivalsa, una vendetta, se vuole. Fossero così tutte le rivalse e le vendette.

SELVA               - Buono a sapersi. E contro chi?

LERICE              - Contro un’ingiustizia, una cattiveria subita.

SELVA               - Contro di noi. O ha cambiato parere?

LERICE              - E che importanza ha se le è potuta servire a sentirsi un po’ meno infelice nella vita?

SELVA               - Adesso veniamo a sapere che è anche infelice.

MOLA                - Abbastanza, mi pare.

LERICE              - Dica pure parecchio. Lei stessa non sa quanto.

SELVA               - E questo, secondo loro, sarebbe sufficiente a farne una buona madre?

LERICE              - In un certo senso, sì. Quella prepotente aggressività, ad esempio, che in lei è insopportabile...

MOLA                - ...Nel ragazzo diventa affascinante indipendenza, è vero.

LERICE              - E non la deve a lei? Educativamente, ha avuto un ottimo effetto. È sempre, più o meno, la stessa storia. Basta andare un po’ in fondo alle azioni del prossimo e, nove volte su dieci, finisci in un’assoluzione.

MOLA                - E poi, diciamo la verità, si mantiene ancora una gran bella donna.

SELVA               - Peccato che lei sia già ammogliato.

MOLA                - E due volte, per giunta.

SELVA               - Spiacente, ma, con la professione che ho e il partito al quale appartengo, io non posso divorziare. L’unico scapolo disponibile rimane il professore.

LERICE              - E, vestito così, nemmeno a farlo apposta, ahimè! m’è impossibile prender moglie.

SELVA               - E’ sempre in tempo a gettar la tonaca alle ortiche.

LERICE              - Forse. Se non fossi persuaso che è più difficile essere un buon marito che un buon frate.

SELVA               - Con una iena come quella, non ho difficoltà a crederlo.

MOLA                - Comunque, mi sa che non sia propriamente questo ciò a cui essa mira. E, meno ancora, noi.

LERICE              - Lei sarebbe disposto a tutto pur di ottenere ciò che le sta a cuore.

SELVA               - Bene bene. Ho bell’e capito. Di candidati padri quel lazzarone ne ha già due pronti. Io posso ritirarmi senza scrupoli e senza rimpianti.

LERICE              - Senza rimpianti nessuno ne dubita. Non oserei affermare altrettanto circa gli scrupoli.

SELVA               - Vuol dire che io non sono un uomo d’onore?

LERICE              - Non me lo permetterei mai. E poi l’onore è un concetto talmente inafferrabile!...

MOLA                - Ma se vuol restarne fuori, scusi professore, perché insiste tanto a tirarlo dentro? Ciò non semplifica le cose. Al contrario.

SELVA               - Eh già. Io lascio libero il campo, lui è fuori gioco perché è frate; se lo piglia lei che non ne può più dalla voglia e tutto è a posto.

LERICE              - Elementare. Tanto varrebbe, come proponeva lei, estrarlo a sorte. Ma un figlio non è un oggetto da giocare alla lotteria. È una creatura umana, con un corpo, un cuore, dei nervi, un’anima e una volontà e tutti i doveri che ci vanno dietro.

SELVA               - Se non te lo vedi gettare fra i piedi senza nemmeno sapere che esisteva.

LERICE              - Ora lo si sa.

SELVA               - Mi si dimostri che è mio e poi si discuterà.

LERICE              - Supponga che lo sia.

SELVA               - E dai! Perché devo supporlo solo io?

LERICE              - Tutti lo dobbiamo supporre.

SELVA               - E perché no, nessuno?

LERICE              - Esiste. Sta lì.

SELVA               - Sì, sì. Ma, a me, le supposizioni non hanno mai fatto né caldo né freddo.

LERICE              - Beato lei. È riuscito a semplificare la vita.

SELVA               - E le par poco? Ad ogni modo, non saranno di questi scrupoli a togliermi il sonno.

LERICE              - Ne sono certissimo. Lei è un uomo tutto d’un pezzo.

SELVA               - E allora, piacere di aver fatto la loro conoscenza. Per mio conto, considero il caso chiuso e tolgo il disturbo. L’unico rimpianto è di aver perso una giornata. E sta veramente per infilare la porta se non fosse fermato – chi lo crederebbe – da un avverbio!

LERICE              - Però...

MOLA                - E lasci che si tolga dai piedi!

LERICE              - Non si può, MOLA. Si renda conto che non si può. Noi siamo qui legati come la Santissima Trinità.

SELVA               - Però che?

LERICE              - Obbiettivamente, se vogliamo, dei tre, lei, onorevole, è colui che di scrupoli dovrebbe averne di più. E non si tratta di supposizioni.

SELVA               - Cos’è, ha scoperto che gli somiglio?

LERICE              - Fortunatamente no. Non vede quant’è bello, intelligente, simpatico?

MOLA                - Tutto il suo contrario.

SELVA               - La ringrazio.

LERICE              - Non ci faccia caso. La pratica della letteratura lo ha abituato alle precisazioni.

SELVA               - Se le dico che gliene sono grato. Eh sì. Sì. Invece di offendermi le sue parole mi rassicurano, pensi un po’!

LERICE              - Le torno a ripetere che, di tutti, lei è colui che avrebbe da dormir meno.

SELVA               - E’ pretender troppo chiederle perché?

LERICE              - Con piacere. Solo un po’ d’attenzione.

SELVA               - Quanta gliene serve.

LERICE              - Pochissima. Io sono scapolo e non ho figli, il nostro amico si è sposato due volte e non ha avuto figli, almeno che si sappia.

SELVA               - Affari loro.

LERICE              - D’accordo. Però...

LERICE              - Però, contro noi due, unico, qui, di cui esista la prova inoppugnabile, sfacciata, offensiva di una esorbitante capacità di generare, è lei.

SELVA               - Ebbene, sono un sensuale. E con questo? Si vogliono, per caso, razionare anche i casti connubi? E deve essere un frate a fare di questi discorsi?!

LERICE              - Nessuno le vuole razionare niente. Si vuol soltanto farla riflettere...

MOLA                - Eh no, perdoni, professore, qui intervengo io. Ho capito dove vuole arrivare.

SELVA               - Vorrei possibilmente arrivarci anch’io.

MOLA                - Certe conclusioni sono avventate, arbitrarie e, mi permetta di dirglielo, alquanto egoistiche. Specie quando vogliono aver l’apparenza dell’altruismo.

LERICE              - Perché, scusi, figli, lei ne ha avuti?

MOLA                - Ma nemmeno lei!

LERICE              - L’ho già premesso. Vede che è costretto a venire dalla mia? Benché, il mio caso, veramente, sia un po’ diverso. Non solo io non ho avuto due mogli, ma non ne ho avuta nessuna. Di me non si sa.

MOLA                - (alterato) Perché, di me? Cosa si sa di me? Cos’è che vuol insinuare?

LERICE              - Non perda la calma. Dio sa se m’ha nemmeno sfiorato l’intenzione di offenderla.

MOLA                - Sicuro che la perdo. Ho ragioni da vendere di perderla. Crede che non sappia quel che si va mormorando in giro?

LERICE              - Io no. Parola.

MOLA                - E non se l’immagina nemmeno?

LERICE              - Ora sì.

SELVA               - Non bastava supporre, non bastava dedurre, adesso cominciamo anche ad immaginare!

LERICE              - Mi dispiace.

MOLA                - Però ci crede. Le dispiace ma ci crede.

LERICE              - Sto a quello che mi dice lei.

MOLA                - E’ una perfida calunnia che mi perseguita da dieci anni. Messa in circolazione da quel serpente della mia prima moglie e fatta circolare dai miei colleghi.

LERICE              - Però...

SELVA               - Un altro però!

LERICE              - Chiedo scusa, ci vuole. Però, quando si dice la fatalità! Nemmeno la sua seconda moglie è riuscita a dissiparla quella calunnia.

MOLA                - Appunto, appunto!

LERICE              - E , magari, lei si sarà risposato proprio per quello.

SELVA               - E se togliessimo qualche però e venissimo al dunque?!

LERICE              - Lasci correre, onorevole.

MOLA                - (partito) Non sono un impotente! Ha capito, ora? Non sono un impotente. Migliaia di donne possono testimoniarlo.

SELVA               - Esagerato!

LERICE              - Riduciamole pure a decine. Del resto, ne basterebbe una: la nostra ospite.

SELVA               - Eggià! Meno male, poveretto.

MOLA                - Come vede.

LERICE              - Sì, ma questo, purtroppo, non prova niente. Lei, MOLA, è troppo intelligente per non capirlo. La mia comprensione del suo caso va anche più in là. Mi spiego: condivido, ammiro, guardi, in questa chiave, il suo desiderio, la sua volontà, il suo bisogno che

MARCO             - sia suo figlio...

MOLA                - Non è questo soltanto. È che io sento che quel ragazzo è mio figlio.

LERICE              - Come sempre nella vita, tutto sta dove pendere. Se verso il piatto della verità o verso quello del sentimento. Il suo è un caso umano comprensibilissimo e, tutto considerato, potrebbe offrire anche una soluzione.

SELVA               - (fregandosi le mani) Dunque, tutto sistemato. Finalmente! Altro tentativo di uscita e altra fermata, però, questa volta, non su un però.

LERICE              - Purtroppo, desiderio, volontà e bisogno non provano che lo sia.

SELVA               - Si torna daccapo!

MOLA                - Ma non provano nemmeno che non lo sia.

LERICE              - Esatto. Tuttavia, i fatti restano i fatti: otto figli a zero! Gli assi in mano li ha tutti lui.

SELVA               - Grazie tante. E per questo dovrei prendermene anche un nono? Ma m’hanno guardato bene in faccia? Mai! Oltretutto, sarebbe uno scandalo abbondantemente sufficiente a rovinarmi la carriera.

LERICE              - Ecco una preoccupazione sprecata. Con quel che si vede al giorno d’oggi, ho idea che farebbe più bene che male alla sua popolarità tra le masse. Finirebbe finalmente sui rotocalchi, che mi sa essere la sua maggiore aspirazione.

SELVA               - Lo dice lei perché non conosce il mio partito. Sono dieci anni che aspettano di farmi fuori. No no. Me, non mi si caccia nel sacco così.

LERICE              - Se, nella vita, davanti a tutto lei mette la carriera!...

SELVA               - E cosa dovrei metterci, un’ipotesi paterna?

MOLA                - Ha ragione. Ha ragione!

LERICE              - Evidentemente, stiamo parlando lingue diverse. Me ne guardo bene. Però...

SELVA               - Io tremo. Ogni però è un nuovo disastro.

MOLA                - Che però e però. Certezze ci vogliono!

LERICE              - Qui non abbiamo certezze. Mettiamocelo bene in testa. Andiamo soltanto per probabilità. E nell’ordine delle probabilità, purtroppo, prima viene l’onorevole, diciamo al settantacinque per cento...

SELVA               - Non si può fare qualcosa meno?

LERICE              - No. Poi vengo io col venti e, infine, lei con un cinque a tenersi larghi. È spiacevole, è doloroso, starei per dire che è umiliante e perfino ingiusto, ma, più ci penso, e più mi persuado che quel che si può dire è tutto qui e niente di più.

MOLA                - Conclusione?

LERICE              - Se si adotta il criterio di andare per esclusione, e non se ne può adottare altri, questo è l’ordine delle precedenze.

MOLA                - In altre parole, poiché le probabilità, nel nostro caso, non hanno senso, non possono averlo, ne sappiamo meno di prima.

SELVA               - Ecco!

LERICE              - Sta di fatto che la genetica è tutta contro di lei, onorevole.

SELVA               - E io, dopo aver persuaso mia moglie, vado alla Camera a raccontare di essere perseguitato dalla genetica?

LERICE              - Sarebbe la soluzione più semplice.

SELVA               - Perché non prova a far lo stesso, lei, col papa? Che, se non altro, quello tiene la bocca chiusa!

LERICE              - Basterebbe un vescovo. Nei suoi panni, credo che ne sentirei il dovere.

MOLA                - E me, che tutto sarebbe tanto più facile, niente!

LERICE              - Scherzi della sorte. Le previsioni sono a vantaggio di chi non lo vuole e lo merita meno, e a svantaggio di chi lo vuole e, forse, lo merita di più. Per poca che sia, spiace, al giorno d’oggi, dover della riconoscenza ad un uomo politico, tuttavia, con una gran sberla in fronte, è proprio lui a fornire il piccolo colpo di scena utile a tirare avanti.

SELVA               - Ah! Emanuele! La salvezza è in Emanuele. Come è stato possibile che mi fossi scordato di Emanuele!?

MOLA                - Che le succede, onorevole?

SELVA               - Un colpo di memoria.

LERICE              - Un altro?

SELVA               - Il maggiore. Bisogna sentire Emanuele.

MOLA                - Che c’entra Emanuele?

SELVA               - Ce lo faccio entrare io. Per amore o per forza. Il problema è come pescarlo e poi vedrà!

LERICE              - Tenti di ricorrere ad un altro colpo della sua memoria.

SELVA               - Sta arrivando.

LERICE              - E dire che passava per smemorato.

MOLA                - Che ha a che fare, con noi, il suo Emanuele?

SELVA               - Ha a che fare con me e questo è l’importante. Dio del cielo, fa che si trovi! Fino all’anno scorso insegnava matematica al liceo di Macerata dove l’avevo fatto trasferire io da Firenze.

LERICE              - Una bella promozione.

SELVA               - Gli piaceva il nome. Emanuele è un umile e un mistico. Penso io! Telefono di Stato. Direzione Generale della Polizia, precedenza assoluta su tutto, si trattasse pure di una bomba in Vaticano. Chiamo di là per ragioni di segretezza. Vado e torno. (Via precipitosamente).

LERICE              - Faccia pure con comodo.

MOLA                - Cosa combinerà di nuovo ancora?

LERICE              - Tra loro, nel suo partito, posseggono anche dei taumaturghi dai quali traggono consigli, ispirazione e Dio sa che, nei momenti difficili. A proposito, come fa di nome il sindaco di Firenze? Quello che, all’inverno, regala il paletò ai poveri e così, ogni anno, se ne può fare uno di nuovo?

MOLA                - Non si chiama Emanuele.

LERICE              - Magari come secondo nome.

MOLA                - Ad ogni modo, non è professore di matematica e non ha mai insegnato a Macerata, che io sappia.

LERICE              - E poi, non lo strapperebbero da Firenze nemmeno con le catene. Si tratterà di un altro. Ne hanno sempre qualcuno di ricambio.

MOLA                - Come fa a saperlo?

LERICE              - Generalmente finiscono frati anche loro. Servono a tenere allegro l’ambiente, mantenendo viva la tradizione dei giullari di Dio. Non pare, ma l’Italia è un paese che si sa difendere. Ma a tirarli fuori, o a sospingerli più dentro al vicolo cieco del loro discorso giunge la protagonista.

LAURA              - Fatto.

MARCO             - è avvertito.

LERICE              - Figurarsi se lei avrebbe resistito alla tentazione di procurare a uno di noi qualche altro guaio supplementare.

LAURA              - L’esito non è stato molto soddisfacente. Ha risposto che, se, prima, la fanciulla gli piaceva poco, adesso gli piace ancora meno per via che le ricorda il suo patrigno.

MOLA                - (al frate) Vede, lei che insiste tanto a volerglielo regalare. Nessuna affinità.

LAURA              - E’ un ragazzo pieno di delicatezza. Ma non vedo l’onorevole. È uscito a far quattro passi per sgranchirsi le gambe?

LERICE              - E’ andato in cerca di Emanuele.

LAURA              - Emanuele... Non mi riesce nuovo questo nome.

LERICE              - Eppure, non è frequente.

LAURA              - Tutt’altro. Chi sarà?... Sta a vedere...

LERICE              - Un colpo di memoria anche lei che non dimentica nulla. Coraggio!

LAURA              - No, non è possibile... Però!...

LERICE              - Forza. Dove c’è però, c’è speranza.

LAURA              - Emanuele!... Macché!... sarebbe il colmo.

MOLA                - Non sia reticente. Quello sta creando delle complicazioni diplomatiche per scovarlo.

LAURA              - Ah sì?

LERICE              - Occhi negli occhi: lei Emanuele lo conosce.

MOLA                - Un suo vecchio amico, qualche, scusi... antico amante... tanti anni fa... una ventina, facciamo.

LAURA              - Escluso.

MOLA                - Temporaneo, occasionale, di passaggio... di quelli sa, capita a tutti, che si cancellano subito dalla mente. Attimi di debolezza. Un colpo e via.

LAURA              - Niente, niente. Colpi di Emanuele, niente.

LERICE              - Non insista, MOLA. È fuori strada.

MOLA                - E che ne sa lei?

LERICE              - (forse un pizzichino di perfidia indiretta) Le ha detto escluso. Le può credere. Glielo garantisco io.

LAURA              - Quella che si chiama difesa d’ufficio, vero?

LERICE              - Dovere.

MOLA                - Non l’ho detto per offendere.

LERICE              - Anzi per lusingare. E infatti non s’è offesa.

MOLA                - Solo per aiutarla a ricordare, nel caso...

LAURA              - (secca) Nessun caso. Non ho niente da ricordare.

MOLA                - Magari l’ha conosciuto con un diminutivo.

LAURA              - Mai usati diminutivi in vita mia.

MOLA                - Emanuele: Lele... Mani... Momi... Manolito...

LAURA              - Senta bene. Chiunque avessi incontrato che si facesse chiamare così, me ne ricorderei, non fosse altro perché mi sarebbe venuto il voltastomaco.

MOLA                - Eppure, l’onorevole non può essere improvvisamente impazzito.

LERICE              - Non tutti i pazzi si credono la regina Elisabetta o Guglielmo

MARCO             - ni.

LAURA              - Ha forse detto che questo Emanuele mi conosce?

MOLA                - Questo no. Ma aveva tutta l’aria di presupporlo.

LAURA              - (all’altro) Ha avuto anche lei questa impressione?

LERICE              - Vagamente.

MOLA                - Ci dica chi è Emanuele, signora!

LAURA              - Non nego che questo nome non faccia un certo solletico alle mie circonvoluzioni cerebrali, ma non riesco proprio a dargli un volto. (Altro tono) Be’, e allora?

LERICE              - Allora che?

LAURA              - Cosa s’è deciso?

MOLA                - Siamo stati interrotti dall’intrusione di Emanuele.

LAURA              - Erano almeno arrivati a buon punto?

MOLA                - Se lo può figurare. Un punto morto.

LERICE              - Proprio morto non si può dire.

MOLA                - Morto, mortissimo. Supposizioni campate in aria.

LAURA              - E’ dunque tanto difficile?

MOLA                - Perché, a lei, sembra facile? Ha una bella pretesa.

LAURA              - A me non sembra né facile né difficile. Ripeto che mi guardo bene dall’entrare nei loro problemi. Pretendo solo, se la vogliono chiamare pretesa, di conoscere quale dei tre, è persuaso di avere il diritto di dare il proprio nome a

MARCO             - e poi, un paio di firme e ognuno per la sua strada. Meno di così!...

LERICE              - Perché, lei, naturalmente, ci ha riuniti qui, convinta che se ne potesse venire a capo! Ci ha presi per dei rabdomanti?

MOLA                - E che questo, poi, si chiamasse una paternità.

LAURA              - Io ho fatto quel che ho dovuto e potuto.

MOLA                - Per ridurci in questo stato. Per metterci l’uno contro l’altro. Per umiliarci e vederci andar via a bocca asciutta. Con questa cimice nell’animo tutta la vita.

LERICE              - Si fermi qui, MOLA. Non faremmo che ripetere quel che già si è capito da un pezzo. Bisognava andarsene di comune accordo, appena invitati ad entrare nella trappola.

MOLA                - Ma io ci credo a questo figlio! Lo capisce che ci credo?

LERICE              - E’ un punto sul quale siamo tutti d’accordo. Purtroppo è anche l’unico. E temo che lo rimarrà fino al giorno che non saranno adottate le paternità collettive.

MOLA                - Mai. O di uno o di nessuno.

LAURA              - E si lamentano? Sono già su una buona strada.

LERICE              - Sì. Abbiamo escluso il giudizio di Salomone di tagliarlo a pezzi.

LAURA              - Ma hanno anche scoperto Pirandello.

MOLA                - E’ un autore che detesto.

LERICE              - E perché? Io lo trovo ottimo.

LAURA              - Non sia indiscreto, professore. Probabilmente, perché Pirandello è stato Premio Nobel e lui non lo è ancora.

LERICE              - Non ci ero andato su.

LAURA              - E va bene, prendiamo un po’ d’aria in attesa dell’onorevole con notizie di Emanuele, visto che è una giornata così scarsa di emozioni. Apre un parasole che, forse, non aveva portato con sé per darlo in testa a qualcuno, e si dirige verso il giardino.

MOLA                - (come chi abbraccia una decisione improvvisa)

LAURA!

LAURA              - (voltandosi stupefatta nel sentirsi chiamare per nome) Come ha detto?

MOLA                - Mi scusi. Avrei da dirle una cosa.

LAURA              - (richiudendo l’ombrellino) L’ascolto.

MOLA                - Da solo a sola. È importante.

LAURA              - (tornando ad aprire il parasole) Le va in giardino? All’ombra dei salici piangenti, sotto il canto degli uccelli e tra il profumo dei nontiscordardimè?

MOLA                - Dove vuole, ma le devo parlare.

LAURA              - E allora, tanto per avviare il discorso, cominci ad offrirmi il braccio e sono tutta per lei. Incredibile a vedersi, escono a braccetto.

LERICE              - Però, accidenti che donna! Dieci anni meno, un temperamento da domatore e meriterebbe davvero di tornar borghese. Bene o male che sia, lo vedremo, si trova davanti il ragazzo.

MARCO             - Cosa dice, reverendo?

LERICE              - Hai ragione, figliolo. Reminiscenze laiche. Buon Dio, perdonami.

MARCO             - Non m’ero scandalizzato per questo.

LERICE              - E per cosa?

MARCO             - Lei non conosce mia madre. Con lei, da borghese, la penitenza non sarebbe terminata: comincerebbe.

LERICE              - Più ardua è la prova, maggiore il merito. Dal punto di vista della mortificazione, non sarebbe una cattiva scelta.

MARCO             - Non credo che Nostro Signore le possa voler male fino a questo punto. Non siamo più al tempo dei martiri.

LERICE              - A te non avrebbe fatto piacere?

MARCO             - Vederla sbranare nel Colosseo? Certo no.

LERICE              - Non questo.

MARCO             - E cosa?

LERICE              - Vedermi, per esempio, guadagnare faticosamente il paradiso al fianco di tua madre, anziché comodamente nella pace di un convento, decifrando antichi codici.

MARCO             - (un’esitazione) Mah...

LERICE              - Non vuoi rispondere?

MARCO             - Non è che non voglia...

LERICE              - Non ti senti? MACO E’ un’ipotesi così...

LERICE              - Assurda?

MARCO             - Nemmeno.

LERICE              - Innaturale?

MARCO             - Le cose a cui non si riesce a pensare, ecco.

LERICE              - E quando ci si pensa?

MARCO             - Credo che sarebbe imbarazzante, ecco tutto.

LERICE              - E tu non sei facile a provare dell’imbarazzo, vero?

MARCO             - Come ha fatto a capirlo?

LERICE              - Così. Intuizione. E poi, lo si è visto stamattina.

MARCO             - Stamattina avrei voluto sprofondare. Sono i casi in cui ricorro alla mia faccia tosta... Quella scenata...

LERICE              - Davanti a tua madre, vuoi dire?

MARCO             - Non tanto. Davanti a loro... A lei.

LERICE              - A me? Il ragazzo gli risponde con un semplice mugolio affermativo: mmh mmh. Agli altri due, no?

MARCO             - Meno.

LERICE              - E perché?

MARCO             - Va a capire!... Così.

LERICE              - Per questa veste che indosso?

MARCO             - Forse. Ma poi nemmeno. Mah... Non è che ci sia proprio bisogno di fermarlo, ma è un fatto che si è venuto a trovare sulla soglia del giardino.

LERICE              - Te ne vai?

MARCO             - Davo un’occhiata fuori a vedere se hanno slegato il cane e farlo correre un po’. Sta sempre alla catena. Sa, per via dei pavimenti. Per mia madre, i pavimenti sono sacri come la pelle delle sue clienti che, dopo la cura, fanno più schifo di prima.

LERICE              - C’è anche lei là fuori. Con uno di noi.

MARCO             - Grazie d’avermi avvisato. Torna sui suoi passi e va a versarsi da bere. Vuole?

LERICE              - Grazie.

MARCO             - Cosa preferisce?

LERICE              - Quello che prendi tu.

MARCO             - (mentre traffica a mescolar liquori) Una volta, anni fa, era ancora un cucciolo, nevicava e lo portai a dormire in camera mia. Lei se ne accorse e, la mattina dopo, mi rispedì subito a far Natale in collegio. Ero a casa da quarantott’ore.

LERICE              - Sei vissuto molto in collegio?

MARCO             - Fino a due anni fa. Lei era sempre in giro per i suoi affari. (Gli porge il bicchiere) Speriamo che le piaccia. È l’intruglio che io preferisco.

LERICE              - Niente male. Non hai curiosità di sapere con chi è fuori tua madre?

MARCO             - L’uno o l’altro è lo stesso. È davvero uno scrittore così celebre quello che fa romanzi?

LERICE              - Piuttosto.

MARCO             - Scriverà bene ma nuota male. Lei li ha tutti i suoi libri. Io ho provato a leggerne uno e non sono riuscito ad arrivare a metà. Parlava di due a letto. E questo e quello, tutta una cosa di testa, un’ingegneria che secondo me, non c’entra niente col far l’amore.

LERICE              - Tu hai cominciato presto a far l’amore? Sarà una combinazione, ma, al momento di rispondere per soddisfare la curiosità dell’interlocutore, e non solo di lui, gli va di traverso e la domanda resta in sospeso. Ancora imbarazzato?

MARCO             - E’ che, lei, non mi è mai capitato, mi fa diventar timido.

LERICE              - Non è questo che volevo.

MARCO             - Va a capire perché.

LERICE              - La timidezza generalmente non incoraggia la confidenza.

MARCO             - Forse mi sarò espresso male. Non sarà timidezza. Sono così poco abituato a parlar coi vecchi. Scusi tanto, volevo dire con gli adulti.

LERICE              - La verità è che ogni generazione ha la propria lingua.

MARCO             - (qualcosa di monellesco, mentre va bighellonando per la stanza) Anche lei, però, non è che si sbottoni molto.

LERICE              - Sarà timidezza anche la mia.

MARCO             - Be’, in parte la capisco. Nemmeno per lei dev’essere facile.

LERICE              - No. Non lo è proprio.

MARCO             - Peccato.

LERICE              - Peccato davvero. (Più deciso) Hai mai pensato quel che farai nella vita?

MARCO             - Chi lo sa? Una cosa è certa. Occuparmi dell’azienda, come pretenderebbe, mia madre se lo sogna.

LERICE              - Non ti va?

MARCO             - Nemmeno un po’. Già, pur col bene che le voglio, non è che mi entusiasmi da morire neanche mia madre. Figurarsi poi la sua baracca.

LERICE              - Pure, è una grande azienda.

MARCO             - Ha già reso abbastanza, no? senza che mi ci deva seppellire anch’io. E poi che avrei da cavarci in mezzo a tutte quelle carampane che, la meno vecchia, potrebbe avermi messo al mondo solo in caso di menopausa ritardata? Ogni tanto le piglia la libidine di portarmi con sé in uno dei suoi viaggi. Non è capitato una volta che qualcuna non abbia tentato di mettermi le mano addosso.

LERICE              - E allora, a che ti andrebbe di dedicarti?

MARCO             - Se lo dico faccio ridere. Per ora, il mio ideale sta a cavallo fra il campione di nuoto e il professore di matematica. Buffa, no?

LERICE              - (l’ombra di un allarme) Ti piace la matematica?

MARCO             - Ma sì. L’opposto di quel che sono, eppure mi piace. Ma, forse, mi piace solo perché mi riesce facile e mi dava prestigio a scuola. Come a tanti cantare. Sono, ecco, intonato per la matematica. Pensi che riesco a risolvere, a memoria, radici quadrate di quattro cifre in trenta secondi, con le frazioni e tutto. Provare per credere.

LERICE              - Curioso. La matematica è una delle rare facoltà sicuramente ereditarie.

MARCO             - Qualcuno di loro la possiede?

LERICE              - Io no, purtroppo.

MARCO             - Non mi dica che la possiede uno degli altri.

LERICE              - Speriamo nemmeno.

MARCO             - In ogni modo, sarà prudente tenere la notizia fra noi.

LERICE              - D’accordo. Se non altro, avremo un segreto in comune.

MARCO             - Parola?

LERICE              - Parola. Segue una breve pausa, il ritmo rallenta.

MARCO             - Avevamo un insegnante che le somigliava, quello di storia e filosofia.

LERICE              - E così ti ricordo i banchi di scuola.

MARCO             - Oh, lui non era un insegnante. Era unico. Il nostro preferito.

LERICE              - Davvero?

MARCO             - Davvero. Con lui non erano interrogazioni. Si conversava. Era quello che pretendeva meno e otteneva di più. Ne eravamo, si può dire, innamorati tutti.

LERICE              - Ed egli non era che un insegnante! (Altro tono, c’è pericolo di andar nel tenero) E amici, ne hai?

MARCO             - Dipende da cosa si intende per amici. Tanti. Quando lei, la vecchia, voglio dire: mia madre insomma, non c’è, facciamo di quelle cagnare qui; che, poi, i muti devono lavorare una giornata a tirar la casa a lucido. Ma veri amici, da potersi confidare, è un altro discorso. Uno solo.

LERICE              - Quel Tino di cui s’è parlato stamattina?

MARCO             - Lui, sì. (Volesse cambiar discorso) E lei sta sempre in convento?

LERICE              - Eh già.

MARCO             - Da quanto?

LERICE              - Quasi cinque anni.

MARCO             - E’ lontano?

LERICE              - Abbastanza.

MARCO             - Avrei voglia di visitare un convento.

LERICE              - Ce ne sono anche qui vicino.

MARCO             - Avrei voglia di visitare il suo, reverendo.

LERICE              - Non chiamarmi reverendo. Non mi piace.

MARCO             - Non piace neanche a me. Ma come s’ha da chiamare un frate?

LERICE              - Padre. Una pausa, naturale al punto da non avvertirla.

MARCO             - E cosa fa, là dentro tutto il giorno?

LERICE              - Quel che si fa in un convento.

MARCO             - Confessa, anche?

LERICE              - Chi lo desidera.

MARCO             - Chissà quante ne sente. Tutto ciò che fa piacere è proibito.

LERICE              - Non è vero. Ti hanno ingannato.

MARCO             - Non fanno che ripeterlo continuamente, dal primo all’ultimo.

LERICE              - Lo dicono coloro che hanno paura della vita. I peccati, i peccati veri, sono molti, molti meno di quanti si vuol far credere. Dio non è permaloso.

MARCO             - E allora, perché vengono a confessarsi?

LERICE              - Otto volte su dieci, proprio perché gli hanno messo in corpo quella paura.

MARCO             - E lei glielo dice?

LERICE              - Io cerco di far capire una cosa che i preti non vogliono capire. Dio e l’uomo sono amici, dei grandi amici; e lo rimarranno sempre, nonostante tutto. Soltanto, come nella vera amicizia, bisogna rispettarsi a vicenda e sapersi perdonare le reciproche debolezze, ecco tutto.

MARCO             - Ma certo!

LERICE              - Allora, l’uomo si rende conto quale creatura libera potrebbe essere e avrebbe il diritto di essere.

MARCO             - Non m’era mai accaduto. Con lei, mi sento come un altro. Mi diventa tutto più serio e, nello stesso tempo, più facile. Non riesco ad essere bugiardo, ad esempio.

LERICE              - Ti consideri bugiardo?

MARCO             - Be’ sì, spesso. Non so neanch’io perché. Probabilmente per farmi credere più vecchio.

LERICE              - Vorrai dire meno ragazzo.

MARCO             - Più importante, forse. Sarà un po’ quella paura che dice lei... Accidenti, quanto ho parlato oggi!

LERICE              - (un gesto della mano dove abortisce il desiderio di una carezza) Caro...

MARCO             - (la grazia di chi si esime con rammarico) Come si fa a chiamare padre uno che confessa?

LERICE              - Eh già, non lo si può chiamare altro che reverendo.

MARCO             - Non è colpa mia. Dispiace anche a me.

LERICE              - E se, ogni tanto, ti scriverò, ti dispiacerà?

MARCO             - No. anzi.

LERICE              - Mi risponderai?... Come a un amico.

MARCO             - Proverò. Acqua in bocca, però, con tutti. È più bello. È già il momento di tenerne conto, poiché è qui sua madre, seguita a distanza dal romanziere non troppo su di umore, a quel che pare.

LAURA              - (radiosa) Al solito, quant’è difficile trovare ciò che si cerca, altrettanto è facile trovare ciò che non si cerca. Qui mi si vizia. Cercavo un padre per mio figlio e ho trovato un marito per me. Due minuti fa, ho avuto l’onore e il rammarico di rifiutare la mano del più illustre dei nostri romanzieri. Per starmi vicino fino alla fine dei suoi giorni, sarebbe disposto a separarsi dalla sua seconda moglie con un terzo matrimonio all’estero, oppure con un secondo annullamento in patria. Niente arsenico, che sarebbe stata la via più spiccia. Sotto a chi tocca, dunque.

MARCO             - Evidentemente, sono tutti molto coraggiosi questi signori.

LERICE              - Ci avrei scommesso. Non troppo leale, lo riconosca, da parte sua,

MOLA.

MOLA                - Non è slealtà, è che nessuno mi toglierà dalla testa che il ragazzo sia mio figlio. Tu sei figlio mio,

MARCO.

MARCO             - Non è escluso.

LERICE              - Dopo le paternità indovinello, le paternità putative.

LAURA              - Bisogna riconoscere che un certo sforzo è stato fatto.

MARCO             - (l’ombra di un’intenzione complice?) Ci sono anche le paternità morali, dicono.

LERICE              - Tu, ci credi?

MARCO             - Non ho mai provato, ma se lo dicono...

LERICE              - Come ci sono gli amori platonici. Consolazioni da rinunciatari. Comunque, meglio che niente.

MARCO             - E’ sempre un piccolo gradino più su.

LAURA              - E tu, che ci stai a fare, lì, con quel sorriso ebete stampato in faccia, dispensando improvvisamente gentilezze a tutti?

MARCO             - Mi ci è rimasto su da prima e non mi sono ricordato di cancellarlo.

LAURA              - Toglilo. Non ti dona.

MARCO             - Mi ringiovanisce?

LAURA              - Al contrario. Ti invecchia.

MARCO             - Ci contavo. In tal caso, lo lascio.

LAURA              - Lo fai per dispetto?

MARCO             - Per difesa personale.

LERICE              - Si consoli, MOLA. Se non altro, da questa assurda storia, ci potrà ricavare un romanzo di successo o una brillante commedia, perfino con qualche probabilità di non essere fischiata, anche se non sarà creduta.

LAURA              - Lo farà, lo farà. Esiste forse qualche cosa che i letterati rinuncino a sfruttare?

MOLA                - M’avete dato un’idea.

LAURA              - Vede, che, tirate le somme, qualcosa ci ha già guadagnato? Ma è ora di recuperare l’onorevole, se si vuol arrivare in fondo, ammesso di farcela.

SELVA               - (molto su di tono) Tanto perché, poi, non nascano contestazioni, ho deciso che mi passi la comunicazione qui. (Verifica che il telefono funzioni) Non può far che arrivi Emanuele!

LERICE              - E poi ci si lamenta dei telefoni italiani!

SELVA               - (sotto il naso della protagonista col ghigno delle grandi occasioni) La congiura è sfatata. Emanuele. Ha capito?

LAURA              - (senza fare una piega) No.

SELVA               - Ah no? Stupefacente!

LAURA              - No.

SELVA               - Non si era noi soli gli smemorati, o le faceva comodo escludere l’unico che è rimasto un povero diavolo senza fama e senza sostanze?

LAURA              - Ah, si chiamava dunque Emanuele? Ecco perché non mi riusciva nuovo quel nome.

MARCO             - Mamma! Non erano già sufficienti tre?!

MOLA                - Per caso...

LERICE              - Naturalmente.

MARCO             - Nemmeno un film di Vadim!

SELVA               - Proprio così. Quella notte, in barca, non si era in tre. Si era in quattro.

MARCO             - Deve essersi trattato di un bastimento.

LERICE              - Per larga, era larga abbastanza.

MOLA                - Ma no, ma no. Non è possibile. Mi rifiuto.

SELVA               - Escluso ogni dubbio. È lei la prima a non negarlo. Avevamo fatto l’autostop da Vicenza e viceversa, e non ci si è lasciati mai. M’è venuto tutto in mente benissimo. Eravamo in quattro e il quarto era Emanuele. Posso anche aggiungere un particolare. Salendo in barca, era preoccupato perché temeva di soffrire il mal di mare.

LAURA              - (sempre imperturbabile) Che memoria. Complimenti. È tutto da ridere, non trovano?

MARCO             - Tranne che per me, se me lo permetti.

LAURA              - Tu stattene zitto.

MOLA                - Veramente, sarebbe il solo ad aver diritto di dir qualcosa.

LAURA              - Anzi, vattene.

MARCO             - No, rimango, nella speranza di trovar da ridere come te. Ma non ci conto troppo.

LERICE              - Be’, anche così, in fondo, l’orizzonte si amplia, ma non è che il paesaggio cambi molto.

MOLA                - In altre parole, da un trentatré per cento, le singole responsabilità scendono a venticinque, non per questo cessano.

SELVA               - Intanto, è già qualcosa; son sempre otto punti persi. E poi, per me, la situazione cambia moltissimo. Si rovescia addirittura. Da così a così.

LAURA              - Vuol dire?!

SELVA               - Dubbi, scrupoli, rimorsi, tentativi di incastrarmi, tutta la paura che s’è cercato di mettermi in corpo: zero!

LERICE              - Come come?

SELVA               - Coi miei otto figli, io cesso di essere in testa alla graduatoria. Per chi non lo sapesse, due anni fa, Emanuele era già a undici. Il primo passa lui.

LERICE              - Un buon colpo, non c’è che dire.

SELVA               - Sarebbe piuttosto quell’inqualificabile donna lì che dovrebbe aver qualcosa da dire.

LERICE              - Ma la dirà, poi?

MOLA                - Forse, dal fecondo Emanuele, non avrà ricevuto la cartolina come da noi.

LAURA              - Precisamente. SELVSA Diamo la colpa alle poste, adesso!

MOLA                - ... E perciò non poteva conoscere né il cognome né l’indirizzo.

LAURA              - E’ così, ma non erano necessari. Non erano proprio necessari.

LERICE              - Abbia pazienza, sarebbe stato doveroso almeno avvertirci.

SELVA               - Il minimo della decenza, sarebbe stato.

LAURA              - Non avrebbe avuto scopo. Visto che nessuno lo chiamava in causa, non spettava a me complicare le cose.

SELVA               - Comodo. E dopo tutto ciò, le si dovrebbe credere quando vuol attribuire a noi tre suo figlio!

LAURA              - Certo che mi si deve credere.

MARCO             - Per la prima volta, ti trovo inferiore alla tua fama, mamma.

SELVA               - Chissà anche se tua madre è lei. Ormai, tutto è possibile.

MARCO             - Sarebbe una soluzione anche questa. E nemmeno la peggiore, al punto che si è arrivati.

LAURA              - Aggiungi ancora una parola e ti piglio a sberle.

MARCO             - Mi sa che arriveresti un po’ tardi. Ma da dove siete venuti fuori tutti voialtri? Siete veri o siete finti?

LERICE              - Avrei voglia di stringerti la mano, figliolo. Ma interviene finalmente il telefono.

SELVA               - (trionfante, afferrando il ricevitore come uno scettro) Eccolo!... “Macerata?... Qui Roma... SELVA, sì: onorevole SELVA... No, non si tratta del nome. Onorevole. Non si sa nemmeno cosa sia un onorevole a Macerata?... Mi metta in comunicazione, per la miseria!... Sei tu, Emanuele? Caro, che piacere sentire la tua voce. Come stai? E a casa?... Come, non sei Emanuele?... I tuoi soliti scherzi da fucino!... Scusi tanto... Non era in casa? Non l’hanno trovato?... parli, parli, Commissario... E parli... Se sono forte? E a lei cosa interessa?... Perché dovrei farmi coraggio?... No... No! (Piomba a sedere senza smettere di telefonare) No... non mi dica! Sì, sì, va bene, ho capito...”. (Getta via il ricevitore) Gli stanno facendo il funerale in questo momento. L’altro giorno, fermatosi a soffiarsi il naso sotto casa, gli è cascato un balcone in testa. Secco!

LERICE              - L’edilizia del giorno d’oggi!

SELVA               - Ed ha lasciato sua moglie incinta per la dodicesima volta.

LAURA              - Poveretta, è spiacevole, col da fare che dà un funerale.

SELVA               - In ogni modo, esistere è esistito e in barca c’è stato. Anni quarantotto, figli dodici.

LAURA              - Chi l’avrebbe detto, evanescente com’era! Sto qui tentando invano di ricostruirgli la faccia. Era il tipo d’uomo che si può continuare a guardarlo senza vederlo.

LERICE              - Be’, questo, per certe cose, ha un’importanza relativa, se vogliamo. LAUA Comunque, si mettano il cuore in pace. La fatica poliziesca dei suoi sbirri è stata sprecata, onorevole.

MARCO             - Non si può dire che ti manchi la faccia di bronzo, sai.

LAURA              - Non c’è bisogno di facce di nessun genere. Perché quella notte, Emanuele fu l’unico ad essere solo sentimentale. Chiaro? Eh, già, il mal di mare, onorevole. E, di conseguenza, secondo la loro morale goliardica, non avendo fatto una bella figura, lui che era stato il solo a non farla brutta, non si fece più vivo. Ecco perché venne escluso dalla competizione. Diversamente, per me, ci sarebbe stato più gusto ancora. Chi mi conosce lo sa.

LERICE              - Su questo non c’è il minimo dubbio.

SELVA               - Ma allora, in nome di Dio?

LERICE              - Punto e si ricomincia.

MOLA                - Io torno a rinnovare la mia proposta.

SELVA               - Quale proposta?

LAURA              - M’ha offerto di sposarlo.

SELVA               - Ottimo! Benissimo, benissimo.

MARCO             - (senza scomporsi) Un’accidente, benissimo!

LAURA              -

MARCO!

MARCO             - M’avete scocciato abbastanza. Tutti. Te compresa. (Attenuando verso il frate) Quasi, tutti.

LERICE              - (mormorato) Grazie.

LAURA              - Ma, in fondo, poi, MARCO, cosa si cerca? Un nome e basta.

MARCO             - Già che c’ero, dietro a quel nome, avrei voluto possibilmente trovare un padre, se permetti.

LAURA              - Hai da scegliere fra tre. Tanto non può, non deve restare che un nome.

MARCO             - E che me ne faccio così?

SELVA               - Pure di prima scelta lo vuole!

LERICE              - Ne ha bene il diritto.

MOLA                - E come dovrebbe essere secondo te?

MARCO             - Non lo so. Ma mi sono bastate queste ventiquattr’ore per imparare come non dovrebbe essere.

LAURA              - Meriteresti un bacio, tesoro.

MARCO             - Mi sa che non sarebbe ricambiato, perché ho imparato anche come non dovrebbe essere una madre.

LAURA              - Quella te la devi tenere, mio caro. E puoi ringraziare il cielo che sia così com’è.

MARCO             - Non siamo dello stesso parere.

LAURA              - Da quando in qua hai un parere?

MARCO             - Conto di averne anche molti altri, in seguito. Un breve silenzio teso.

LERICE              - Nel caos in cui siamo, dopotutto, non è stato un suggerimento sbagliato.

MARCO             - Cosa?

LERICE              - Che debba essere tu a scegliere, figliolo.

MARCO             - Io? E me lo dice lei?

LERICE              - E’ ancora la soluzione meno peggio, figlio mio.

LAURA              - Senti senti, lo chiama già figlio mio!

MOLA                - Ora è sleale lei, professore.

MARCO             - Poi non mi mandi a quel paese.

LERICE              - Parola.

MARCO             - Va bene, come vuole.

LERICE              - (quasi a ritardare il verdetto) Ma sì, caro. Ciò che conta è unicamente che tu ne esca libero, col minor danno possibile. Questo!

MARCO             - Scelgo il morto.

LAURA              - Che?

MARCO             - Scelgo il morto. Per essere orfano. Un “ahhh” dell’onorevole lungo fino all’uscita e coperto dalle parole degli altri.

MOLA                - Ma, hai sentito, ti hanno dimostrato che è l’unico, sicuramente a non poter essere tuo padre.

MARCO             - Appunto.

LAURA              - Ti giuro che non lo è. Non credi più nemmeno a tua madre?

MARCO             - E’ proprio perché ti credo ancora. Mio padre non c’è. Non esiste. Non è mai esistito. Non voglio che esista.

MOLA                - Ma è assurdo!

LERICE              - Bravo

MARCO!

MARCO             - Deluso?

LERICE              - No. Va bene così, figliolo.

LAURA              - Una lezione, signori!

MARCO             - Ance per te, mamma.

LAURA              - Cosa intendi dire?

MARCO             - Sei stata tu a dirlo. Una lezione. Anche per te.

LERICE              - Anche per lei. E ho idea che non si fermerà qui.

LAURA              - Non vuoi, dunque, avere un padre?

MARCO             - Comincio a dubitare anche di aver avuto mai una madre. Ed ora, con la coscienza in pace, prima di salutarvi, potete brindare alla famiglia. Su questo argomento, io mi considero astemio. Capirete, avendo appena perduto uno dei miei genitori, ne devo rispettare il lutto.

LERICE              - Più che giusto! Accidenti, un così buon finale sulla via della morale e ancora il telefono!

SELVA               - Questa è certamente quella ninfomane di mia figlia.

LAURA              - Stavo pensando la stessa cosa.

MARCO             - Speriamo, perché ho proprio bisogno di rilassarmi. (Solleva il microfono e gli si illumina il viso) “... Tino!...abbiamo avuto lo stesso pensiero. Ti avrei chiamato io... Dobbiamo vederci... Non lo puoi indovinare... Ho conosciuto i marziani... Sul serio: i marziani... Altro se esistono! Un giorno intero con loro... No, no, mica uno soltanto, tutto un campionario: un morto, una femmina e (una fugace occhiata al frate) due maschi... e mezzo... No. il mezzo che resta m’è sembrato abbastanza di questa terra...”.

FINE