Uno cantava per tutti

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DON

UNO CANTAVA PER TUTTI

Commedia in tre atti in cinque quadri

di ENRICO BASSANO

                                                                                    

PERSONAGGI

ANGELO - ANNA - MICHELE - IL SERGENTE

IL DOTTOR GOOD - LUCIA - GIOVANNI

IL GIUDICE - IL GENERALE - IL BENEFATTORE

IL SEGRETARIO - FRIDA - LULA - MAUD

ILIA - STELLA – I° VIAGGIATORE – II° VIAGGIATO­RE

1° SOLDATO - II" SOLDATO

1° MACCHINI­STA - 11° MACCHINISTA

UN MENDICANTE - UNA MENDICANTE

ALTRO MENDICANTE - ALTRA MENDICANTE

1° GIORNALISTA - 11° GIORNALISTA – III° GIORNALISTA

UN PIANTONE - UN AGENTE

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

QUADRO PRIMO

(Il caffè-bar di una piccola stazione ferroviaria sperduta in una grande pianura. Pochi treni si fermano alla stazione. Poca gente frequenta il locale. Nessun riferimento geografico: si potrebbe pensare, però, alle grandi pianure desertiche americane, percorse soltanto dai grandi espressi che uniscono il Pacifico all'Atlantico. È il tramonto: un tramonto viola, bellissimo, che riempirà d'ombre la scena. La poltrona di vimini entro la quale è affondato Giovanni è posta sulla porta, in fondo, perché il malato goda dell'ultimo sole. Anna è al banco. Lungo silenzio).

Giovanni                       - (biondo, fine, esangue, ancor giovane) Anna!

Anna                             - (trasale: ogni volta che Giovanni la guarda, o le rivolge la parola, lei sussulta) Signore...

Giovanni                       - Guarda là, quel volo di uccelli... Così compatti, fanno una grande ombra sulla terra. Un'ombra nera, che cammina sulla pianura. (Con sgomento) Ecco, adesso sono qui, sulla nostra casa.

Anna                             - Sono rondini, signore.

Giovanni                       - Non è vero, Anna, non sono ron­dini, e tu lo sai. Sono corvi, Anna, e mi fanno tanta paura. Senti come gracchiano, passando sulla nostra casa?

Anna                             - Sono rondini, ve lo assicuro. I corvi, di questa stagione, migrano lontano. Sono verso le montagne, adesso. Il caldo li ucciderebbe.

Giovanni                       - Io sento sempre il loro gracchiare, qui, negli orecchi. Sono felice quando passa il treno, perché il treno li spaventa. Da ragazzo, quando abitavo al sud, uccidevo più corvi che potevo: coi lacci, con la fionda, col fucile... Adesso, Anna, ho paura che si vogliano vendicare...

Anna                             - (andando verso di lui) Non dite, non dite questo, padrone... Credo sia male pensare sempre a queste brutte cose...

Giovanni                       - (tenendole una mano) Tu non sai, Anna, non sai... Quando uno è malato, molto malato, vede chiare le cose lontane, e capisce molto bene le cose nascoste... Come se la sua vista si facesse migliore, come se dentro di lui funzio­nasse un altro senso... Anna...

Anna                             - (timorosa, portando le mani al cuore) Padrone...

Giovanni                       - Da quanto tempo sei con noi?

Anna                             - Sei mesi, padrone.

Giovanni                       - Sei mesi. Sempre qui, vicino a me, vicino a noi. (Un silenzio) Sei buona, tu, Anna. Molto buona. Forse troppo. (Pausa) Qualcuno, qui, non ti vuole bene abbastanza...

Anna                             - (spaventata) Non è vero, padrone, non è vero. La signora mi vuol bene, tanto. Non lo merito, io... (Sincera) Sono così poco, io. Sono proprio nulla. (D'impeto) Eppure...

Giovanni                       - Eppure?

Anna                             - No, scusate. Non volevo dire.

Giovanni                       - (insistendo) Hai detto: eppure... (Pausa) Forse volevi dire che lo sai bene, in fondo, di non essere poca cosa... Sei bella!

Anna                             - (sinceramente vergognosa) Oh! Signore...

Giovanni                       - Bella, sì, e giovane. Non hai ancora vent'anni. Lo so. E passi qui il tuo tempo. Qui, su questo grumo di terra sperduta. (Quasi con un grido) Perché, Anna? Perché non scappi di qui? Al di là della pianura ci sono le grandi città piene di luci, c'è la vita, c'è la salvezza... Qui si muore, Anna. Salvati, Anna, tu che lo puoi. Salvati. Sei tanto giovane, sei tanto bella...

Anna                             - (rompendo in -pianto) Padrone... Io... io non posso andar via. Io... io debbo restare qui...

Giovanni                       - Ma perché? Sono io che ti dico di andare, di prendere uno di questi treni che pas­sano sempre con tanta fretta, di lasciarti alle spalle tutta questa terra bruciata, questo cielo così basso... Hai ancora tanta vita, innanzi a te...

Anna                             - (gettandoglisi ai piedi, afferrandogli una mano, baciandogliela) Padrone, padrone... Il mio posto è vicino a voi. (Come ispirata) Io vi debbo guarire, capite? Vi debbo guarire. Non so più nulla, di me. Ho dimenticato di dove sono venuta, non ho più ricordi. Sono qui, e nessuna forza mi può allontanare. Poi, un giorno, quando sarete guarito...

Giovanni                       - (ha un cenno stanco).

Anna                             - (rapida) Non dite. Guarirete. Io lo so, io lo sento. Quando sarete guarito, allora, sol­tanto allora, potrò andarmene. Non so dove. (Con voce lontana, staccata) Non so dove andrò. Non avrò più nessuno. Come ieri: senza avere un'anima a cui pensare. Par d'essere pie­tra, filo d'erba, nuvola. (A sé) Poi, d'un tratto, un giorno ti accorgi che puoi ancora pensare a qualcuno... Par di sognare. Ti accorgi di vivere. Non sei più sasso, erba, nuvola, sei una cosa che vive, che fa parte del mondo, che ha un'anima e un cuore... (Con slancio improvviso) Signore, non ditemi mai più di andarmene di qui, di lasciarvi... Io debbo, io voglio guarirvi. Guardate queste mani. Oh! sono povere mani, lo so. Ma quando mi acco­glieste qui, quando la... (titubante) quando la signora mi accolse su questa soglia, e nemmeno sapeva di dove venivo, le mie mani erano rosse, gonfie, screpolate, facevano orrore e pietà. Ho continuato a governare la casa, a lavare i piatti, a fare ogni sorta di lavori duri... Ma ho anche cominciato a curarvi, signore, a preparare il vostro infuso d'erbe, ogni giorno, quando il sole si leva, quando splende alto, quando muore laggiù... E le mie mani non sono più quelle, signore. (Con tene­rezza) Guardate: paiono le mani di una signora...

Giovanni                       - Sono molto belle, Anna.

Anna                             - (raggiante) Sono le mani che vi curano, signore. Non ho altra gioia, nella vita. Non ho altra missione che questa, signore. Se non fossi venuta qui, sarei morta, signore. Peggio: sarebbe stato inutile che io fossi nata e vissuta. Lo sento, è così. Non chiedo altro, alla vita: potervi preparare l'infuso di erbe, e offrirvelo, così, con queste mani... (Un fischio di treno, lontano. Anna si rialza, e corre al banco, dove ha lasciato in preparazione l'infuso).

Lucia                             - (entrando) Ecco il « Falco d'oro ». Puntuale. (Al marito) Qui, sulla porta, a prendere la prima umidità... Quando lo vorrai capire che devi riguardarti molto? Fra qualche giorno ar­riverà il dottor Good.

Giovanni                       - Perché? Lo hai mandato a chiamare?

Lucia                             - Certo. Non si può aspettare il peggio, così, senza far nulla, assolutamente nulla.

Giovanni                       - Potevi avvertirmi.

Lucia                             - Di che?

Giovanni                       - Ti avrei detto di no.

Lucia                             - Ma devi pur cercare di guarire...

Giovanni                       - Mi curo.

Lucia                             - Quelle sciocche pozioni, quei brodi di erbe che prepara Anna?

Giovanni                       - Quelle. Sento che mi fanno bene.

Lucia                             - Ma non dire sciocchezze. Hai lasciato le cure serie per seguire questi sistemi da stregoni...

Giovanni                       - (con violenza) ; Mi fanno bene. Lo sento.

Lucia                             - (ad Anna, con ironia sottile) Tu non sei nata al nord. Tu sei del sud. Tu credi ancora alle stregonerie. (Ad Anna) C'era uno stregone, Anna, nella tua tribù?

Anna                             - (con dolcezza ferma) Non sono nata in una tribù, signora. L'ho già detto.

Lucia                             - E invece io sono sicura di sì. Per questo credi nelle erbe, e ne fai medicine. (Con rinnovata ironia) Sentiremo il dottore, che cosa dirà delle tue erbe miracolose. Tra poco sarà qui. Ecco il «Falco» che arriva. (Treno in arrivo: sibili vicini - sferragliare - voci - sbattere di sportelli. Entrano alcuni viaggiatori che vanno al banco, due soldati, due macchinisti della ferrovia, il dottor Good).

Il dott. Good                - Buongiorno, amici. Eccomi qui.

Lucia                             - (meravigliata) Siete già qui, dottore? Vi aspettavo fra qualche giorno...

Il dott. Good                - Ho anticipato. Avevo anche la chiamata di un altro cliente. Come va il no­stro Giovanni? (Gli si avvicina, lo saluta affettuo­samente) .

Il primo Viaggiatore     - (ad Anna) Bella ragazza! In mezzo a questo mucchio di terra c'è una ragazza così bella!

Il primo Macchinista     - La nostra Anna! È un piccolo fiore sciupato, qui. Come ci sei arrivata, Anna?

Anna                             - Non so. Ci sono nata, credo.

Il primo Soldato            - Non ne siete ben certa?

Anna                             - No.

Il secondo Soldato        - Oh! Questa è buffa. Non sarete arrivata qui col paracadute, spero.

Anna                             - Può essere.

Il secondo Viaggiatore           - Sapete cantare?

Anna                             - Perché?

Il secondo Viaggiatore           - Rispondetemi. Sapete cantare?

Anna                             - (vergognosa) Non saprei... Forse sì.

Il primo Viaggiatore     - Allora siete scrit­turata! (Risata) Il mio amico cerca artisti: gli manca una « stella » per la sua compagnia. La cerca dappertutto.

Anna                             - lo so cantare solo per me...

Il secondo Viaggiatore           - Non importa. Vi scritturo. « Schraps scrittura una vedetta nel centro della prateria! ». Che successo!

Anna                             - No, signore, sono certa di non fare al vostro caso. Io non so cantare.

Il primo Macchinista     - Addio, Anna. Aspet­taci sempre qui. Un giorno o l'altro scendo con un pastore, ti sposo, e allora te ne dovrai venir via con me per forza! Faremo il viaggio di nozze sulla mia locomotiva, a 200 l'ora!

Il secondo Macchinista - Non gli dar retta, Anna. Lui è sposato, e a casa l'aspettano sei figli. Ti sposerò io, invece. Io ho soltanto una moglie, ma in un «amen » la metto fuori combattimento.

Il primo Soldato            - E io, appena congedato, vengo a prendervi. Mi volete? Mi chiamo John, John Forsyde, di Atlanta... (Fischio acuto).

Il secondo Soldato        - Vieni via, buffone. È la decima promessa di matrimonio che ti sento fare in tre mesi di ferma. Prima del ritorno a casa ne avrai fatto qualche centinaio!

Il primo Viaggiatore     - Pensateci bene: volete la scrittura?

Anna                             - Ci ho pensato. Grazie. Troverete altrove chi fa per voi.

Il primo Viaggiatore     - Peccato. Sarebbe stato un gran bel colpo! (Escono).

Lucia                             - Allora non ripartite, dottore?

Il dott. Good                - Verrà qui a prendermi, con un cavallo, l'altro mio cliente.

Lucia                             - Bene. Parleremo ancora un poco di Giovanni.

IL dott. Good               - Certo. (La locomotiva fischia, parte) Si sta bene, qui. Dovete avere molta pace.

Lucia                             - Troppa.

Il dott. Good                - (scorgendo Anna) E quella?

Lucia                             - È Anna, la nostra donna di servizio.

Il dott. Good                - (incuriosito) 0 dove l'avete pescata?

Lucia                             - Perché? È capitata qui, un giorno, non ho mai saputo bene come... (Con diffidenza) E meticcia...

Il dott. Good                - Non vedo nulla di male in ciò...

Lucta                             - È lei che prepara gli infusi di erbe per Giovanni. Sta fuori interi pomeriggi, a frugare in terra, tra le pietre, alle radici degli alberi...

Il dott. Good                - Strano.

Lucia                             - Strano che?

Il dott. Good                - Nulla. Così. (Cercando di mutar discorso) E il nostro Giovanni va meglio. Molto meglio.

Lucia                             - Ne siete sicuro, dottore?

Il dott. Good                - Perché dovrei ingannarvi?

Lucia                             - (quasi con ira) Non saranno certo le erbe di quella sciocca, a farlo guarire...

Il dott. Good                - (semplice) E chi lo sa? Si sono viste guarigioni anche più strane. Eppoi le erbe fanno bene. Possono veramente compiere miracoli.

Lucia                             - (con un chiaro molo di ira) Ma figuria­moci se una stupida ragazza... D'altra parte ho già deciso di levarmela dai piedi. Vada dove vuole. Il mondo è grande.

Il dott. Good                - E perché?

Lucia                             - Perché... Perché mi infastidisce... L'ho raccolta come si raccoglie un cane randagio, l'ho vestita, sfamata, ripulita... Adesso basta.

Il dott. Good                - (insinuante) E... non c'è altro ?

Lucia                             - (torcendosi le mani) C'è... C'è che le premure di quella ragazza per Giovanni mi urtano, mi infastidiscono... E Giovanni non fa che par­lare di lei, quasi fossero soltanto le sue erbe male­dette a fargli intravedere la speranza di una guari­gione... (Sgomenta) Oh! dottore, sapeste la pena d'esser qui, sola, in questo deserto di silenzio, tra quei due... Ho paura, ho tanta paura!...

Il dott. Good                - Bisogna calmarsi, bisogna rendersi sempre ragione dei propri sentimenti...

Lucia                             - Adesso ho deciso. La ragazza lascerà la casa. Giovanni debbo curarlo. io, debbo gua­rirlo io sola. Sono sua moglie. Ho il dovere e il diritto io sola, di occuparmi di lui.

Il dott. Good                - Troppo giusto. Soltanto, state attenta a non prendere decisioni troppo affrettate. Son quelle che spesso rovinano l'equi­librio della nostra vita...

Lucia                             - Vi ringrazio. Ma ho deciso. Scusate. Debbo far qualche cosa. La cena sarà pronta fra poco. Preparerò anche la vostra camera. Sarete stanco.

Il dott. Good                - Niente affatto. Il treno non mi stanca mai. Mi diverte. È bello veder correre il paesaggio. Di solito sono gli uomini che corrono, senza mèta, senza scampo, sempre. In treno, invece, corre il mondo. Si resta lì, comodi, a guar­darlo...

Lucia                             - Facciamo rientrare Giovanni...

Il dott. Good                - Andate pure. Lo farò io.

Lucia                             - Grazie. (Esce).

Il dott. Good                - (dopo aver lungamente osservato Anna) Sei tu la ragazza delle erbe?

Anna                             - Sì, signore.

Il dott. Good                - Vieni qui. Voglio conoscerti meglio.

Anna                             - (gli va accanto, asciugandosi le mani nel grembiule) Ai vostri ordini, signore.

Il dott. Good                - Sai chi sono io?

Anna                             - Il dottor Good, credo.

Il dott. Good                - Brava. E non ti senti intimo­rita della mia presenza, tu che hai la sicurezza di guarire i malati con le erbe?

Anna                             - (semplice) No, certo, signore. Ognuno fa quello che può, nella vita. Voi con le medicine. Io con le erbe della prateria.

Il dott. Good                - (scrutandola) Sei meticcia?

Anna                             - (con fermezza) Sì, signore. Mio padre era un uomo di colore. (Con una concitazione improvvisa) Unbrav'uomo, signore, un caro uomo...

Il dott. Good                - E chi ti ha insegnato a rac­cogliere le erbe? Chi te le ha indicate?

Anna                             - (confusa) Non so. Forse ho sempre saputo.

Il dott. Good                - Le raccoglievi anche prima?

Anna                             - Prima di che?

Il dott. Good                - Prima di venir qui, prima di conoscere (indica Giovanni) il signore...

Anna                             - (tormentata) Non so, non so... Non ricordo, adesso, se ne raccoglievo anche prima. (Candida) Non ricordo nulla, di prima. Non voglio più ricordare. So soltanto di adesso.

Il dott. Good                - (semplice, come concludendo un discorso fatto tra sé, dopo un lungo silenzio) Bene. Ma bisogna lasciare subito questa casa, ragazza. (Con un senso di misteriosa comprensione) Se farai ancora in tempo.

Anna                             - (con lo stesso tono) Non credo, signore. È tardi, ormai. (Con altro tono) Che ho detto?

Il dott. Good                - (avvicinandola e guardandola fissamente negli occhi) È vero. È tardi, ormai. Non si può più far nulla. (Altro tono accennando a Giovanni) Bisogna farlo rientrare, l'aria della sera è troppo umida.

Anna                             - Certo. Che stordita! Me ne ero dimen­ticata... (Vanno entrambi alla sedia di Giovanni).

Il dott. Good                - Si è addormentato.

Anna                             - (trepida) Signore, signore...

Giovanni                       - (risvegliandosi) Che c'è?... Siete voi, dottore? Peccato. Stavo bene, appisolato qui. In letto non mi riesce mai di dormire.

Anna                             -   Ho preparato la vostra pozione. (Lo aiutano ad alzarsi, lo accompagnano al centro della camera, lo riadagiano sulla sua sedia) Adesso ve la porto. (Va al banco, a preparare la bevanda).

Giovanni                       - (dolcemente) La mia salvezza, dot­tore. Avete osservato le mani di Anna? Non sono le mani di una creatura di questa terra. Sono le mani di un angelo. Vi posso assicurare, dottore, che le sue mani hanno un cerchio di luce intorno, quando mi porgono l'infuso di erbe. Io guarirò, se Anna lo vorrà. È vero, dottore?

Il dott. Good                - Tutto può essere, amico mio. Adesso dovete andare a riposare. Domattina faremo una visita più completa.

Lucia                             - (entrando) La vostra camera è pronta, dottore. Spero dormirete bene. Il letto è abba­stanza soffice. Ora vi farò servire il pranzo da Anna. (Si accorge che Anna sta preparando la solita pozione. Con uno scatto secco e irresistibile della voce) Ti ho detto di smetterla con il tuo infuso di erbe. Non c'è bisogno di fattucchiere, qui. C'è un dottore, e ci sono io, per curare mio marito. Basta.

Anna                             - (come se Lucia non avesse parlato, si avvia con la tazza verso Giovanni) Ecco, signore.

Giovanni                       - (al dottore) Guardate le sue mani, dottore.

Lucia                             - (si para con tutto il corpo sui passi di Anna: è fremente) Basta, ho detto. Non voglio più vederti qui. Non posso più soffrire l'odore di questi tuoi intrugli maledetti. (Rovescia con un colpo della mano la tazza, che cade a terra) Via, via di qui. Fuori dalla mia casa. Domani te ne vai, . hai capito? Via! Via!

Anna                             - (resta immobile, rigida, con lo sguardo duro fisso negli occhi di Lucia).

Il dott. Good                - Suvvia, signora, bisogna calmarsi.

Giovanni                       - Sei pazza, tu. Mi togli la possi­bilità di guarire. Dottore, vi giuro, è lei, che mi fa guarire...

Lucia                             - Lei, vero? Lei che ti fa guarire. Col suo brodo di erbe, come gli indiani. Maledetta! Chi ti ha cercato? Chi ti ha detto di occuparti di lui? Chi te l'ha chiesto? Chi ti ha chiamato? Via, via di qui, subito! (Ha uno scoppio violento. di pianto; poi, d'improvviso, trova in esso la sua energia, e, senza più piangere, con volto duro, imperioso, quasi feroce, grida) Subito. Hai capito? Subito.

Anna                             - (con grande freddezza) Sta bene.

Lucia                             - (esce).

Anna                             - (come un automa si avvicina al banco, apre un cassetto, trae un oggetto che nasconde sotto il grembiule, s'incammina dietro la padrona. Sulla soglia ha un attimo di titubanza, poi, decisa, esce).

Giovanni                       - (spaventato, con voce tremante) Anna se ne va, dottore! Se ne va. Non guarirò mai più, mai più...

Il dott. Good                - Calma, Giovanni... calma... Non bisogna agitarsi... Fa male al cuore.

Giovanni                       - Dottore, io ho tanta paura... Che cosa avverrà adesso? Che si può fare, dottore?

Il dott. Good                - (con voce ferma) Non si può far nulla. Nulla per nessuno. Ci sono attimi nella vita degli uomini, che nessuno può fermare. (Dall'interno si sente un urlo, il tramestio di una breve colluttazione,  il tonfo sordo di un corpo che cade a terra).

Giovanni                       - (balza in piedi tremante) Dottore! (Ma non ha forza, protende disperatamente le mani, annaspando).

Il dott. Good                - (lo sorregge, lo fa sedere sulla poltrona)

Anna                             - (appare sulla soglia. Il suo aspetto è apparentemente tranquillo).

Giovanni                       - (lentamente, ma con disperata mera­viglia) Dottore, avete visto? Le sue mani non hanno più luce...

Il dott. Good                - (fermo, calmissimo) La luce ritornerà.

QUADRO SECONDO

(Il cortile interno di una grande casa padronale. Un portale comunica con la strada. Il portale è ' chiuso, soltanto una porticina, aperta nel battente di destra, è dischiusa. All'aprirsi del velario alcuni mendicanti sono seduti a terra, ai piedi del muro che continua, ai due lati, il portale. Altri arriveranno).

Un Mendicante             - Forse oggi non sarà la solita zuppa.

Una Mendicante           - Chi l'ha detto?

Il Mendicante               - (annusando) È un odore nuovo. Me ne intendo, io. Direi... (golosamente) ... forse è minestra di cotenne...

La Mendicante              - Non t'illudere. Pensa un po' se danno le cotenne a noi. S'ha un bell'essere signoroni, ma le cotenne...

Il Mendicante               - Sono buone, le cotenne. Grasse. Morbide. Sembran carne di bambino lat­tante. Quando le mangi, il grasso ti cola dalle labbra... (Stirandosi) Ah!

La Mendicante              - È tanto che non ne mangi?

Il Mendicante               - (gesto) Mah! Però le sogno. Le sogno sempre.

Un altro Mendicante     - Beato te. Almeno mangi dormendo. Neppure questo, a me. Se sogno, sono guardie che mi rincorrono e mi versano addosso pentole d'acqua bollente. Fosse brodo, almeno.

Il Mendicante               - (dolce) Le ho sognate anche stanotte. Cotenne grasse, gocciolanti, lisce, lu­centi... Guance di bimbo...

 La Mendicante             - Sarà brodo con le carote e qualche foglia di cavolo. Puah!

Il Mendicante               - Ringrazia Iddio che ci danno almeno questo. Io me la godo. Poi oggi c'è il sole. Nel pomeriggio voglio andare lungo il fiume, mi spoglierò tutto, mi stenderò sull'erba, riuscirò a spulciarmi, stavolta. Voglio proprio rivoltarmi sull'erba come fanno i cani e i montoni... (Pausa) Sì, mi metterò nudo.

La Mendicante              - E ti arresteranno. Così ti passerà la voglia di prendere il sole.

Il Mendicante               - Un piatto di cotenne... E berci su una botte di birra. Eppoi morire. La vita dovrebbe sempre finire così: darti quello che sogni e non hai, e poi finire. Sarebbe il modo migliore di andarsene. In carrozza, come un signorone. (Dalla porticina arrivano altri mendicanti. Entrano, vanno ad accatastarsi con gli altri. Si grattano, girano pigri sguardi intorno, sbadigliano, rimestano nei loro secchi, preparano le loro stoviglie di latta o di terraglia slabbrata. Entrano anche Angelo e Michele: sono due giovani, poco più che ventenni. Angelo ha un sacco nuovissimo sulle spalle. Viene avanti, se lo toglie di spalla, lo posa cautamente a terra).

Michele                         - (guardandolo) È un gran bel sacco. Nuovo. Forte.

Angelo                          - (con trasporto) Non è certo uno di quei sacchi fatti durante la guerra. Questo è di prima; guarda che trama! Senti che peso. Ci po­tresti portare dentro una casa.

Michele                         - (con un tono un poco triste) Sei stato fortunato, tu! Come gli hai detto?

Angelo                          - Gli ho detto: se mi date un sacco di quelli, vi porto via l'immondizia per due mesi di fila.

Michele                         - E lui?

Angelo                          - E lui mi ha risposto: se mi prometti di non passare mai più da queste parti, te lo regalo.

Michele                         - E tu?

Angelo                          - Credevo scherzasse. Stavo per allon­tanarmi. Invece lui ne ha preso uno, lo ha piegato per bene, me lo ha messo sotto braccio, poi ha detto: d'accordo, allora. Non farti vedere mai più... (Pensieroso) Giuro, è andata proprio così.

Michele                         - (dopo una pausa) Credevo che tu lo avessi rubato.

Angelo                          - Mi conosci, Michele. Se ti dico...

Michele                         - Basta. Ti credo. (Pausa) E dov'è quel mercante?

Angelo                          - Non posso dirtelo, Michele. Sii buono. Io ti capisco. Forse vorresti...

Michele                         - Una curiosità. (Pausa) Certo, non c'è nessuno in città, che abbia sacchi belli e forti come questo... (Fa l'atto di prenderlo).

Angelo                          - (ritraendolo selvaggiamente) No, non lo toccare!

Michele                         - Eh! Non te lo mangio mica.

Angelo                          - (umile) Scusa, sai. Scusa. Proprio, non so come ho fatto. È più forte di me. Sai, di notte mi sveglio di soprassalto...

Michele                         - Hai paura che te lo rubino?

Angelo                          - Ecco. Mi pare che una mano arrivi ad afferrarne un lembo, e tirare, tirare lentamente, fino a strapparlo, e lo vedo volare lontano, come un aquilone, come una cometa... È terribile. Non riesco quasi più a dormire.

Michele                         - Vedi? Io, senza sacco, sono più felice di te.

Angelo                          - Però lo vorresti...

Michele                         - Macché. Solo per vederlo. Se volessi...

Angelo                          - Oh! Non credere: non basta volere. Bisogna meritare. ;

Michele                         - (ridendo aspro) E tu l'hai meritato? Come? Quando?

Angelo                          - Non si può sapere. Così. Forse l'ho meritato senza saperlo. Mi ha detto: «non farti vedere mai più ». E aveva una voce strana. Non saprei più tornare in quella strada.

Michele                         - (con voce dolce e incerta) Senti, Angelo...

Angelo                          - (con ansia improvvisa) No, Michele, no, te ne prego, te ne scongiuro. Non mi devi chiedere quello che non potrei darti. Siamo come fratelli, vero? Abbiamo fatto la guerra insieme, per tanti anni: abbiamo sofferto tanta fame, abbia­mo visto passare vicino la morte tante volte; adesso stiamo anche peggio, non siamo ricchi che di pulci e pidocchi, e ancora facciamo della fame; e io ti posso anche cedere, se la vuoi, la mia zuppa d'oggi; ma il sacco, no. Il sacco nuovo, no. Non ho altro. (Supplichevole) Sii buono. Non doman­darmelo. (Piano) Se potrò, ne ruberò uno per te. Oppure rubalo tu. Ma questo... questo è mio. Non puoi volere proprio questo, vero?

Michele                         - (con .sufficienza) Ma figurati! Pensa se io ho proprio bisogno del tuo sacco. Non so davvero che cosa ti passi per la testa. Idee tue. Hai sempre delle idee strambe, tu. Anche la scorsa settimana, per quella ragazza zoppa...

Angelo                          - (con ira improvvisa) Non volevo che tu la deridessi. Per questo...

Michele                         - Poco è mancato tu mi strangolassi... (Si passa la mano sul collo) Mi duole ancora...

Angelo                          - (umile, pentito) Ti giuro, non so che cosa succeda in me... È come se una gran nube rossa mi entrasse di schianto nel cervello... Ecco: come quando scoppiavano le bombe vicino, e la testa sembrava saltare in aria, e lo stomaco spro­fondava giù, nei calzoni. Non c'è più tempo per ragionare. Ti infossavi in una buca, o ti buttavi avanti, a testa bassa. Adesso... Si arriva a pic­chiare per un nonnulla... Scusami, sai...

 Michele                        - Sciocchezze. (Altro tono, chiedendo in giro) Che, non si mangia, oggi? I signori bene­fattori fanno sciopero?

Il Mendicante               - Preparano una sorpresa.

Un altro Mendicante     - Che ne sai, tu?

Il Mendicante               - Vedrete.

Michele                         - Sorpresa di che genere? Anche il chiuderci la porta in faccia può essere una sor­presa.

Il Mendicante               - Una bella sorpresa: cotenne...

Angelo                          - (ansioso) Che dici?

Il Mendicante               - Cotenne di maiale... (Allu­cinato) Minestra di cotenne...

Angelo                          - (con un balzo) Ah! Perdio!

Un altro Mendicante     - Ma non credere! È fissato. Non fa che parlare di cotenne.

Angelo                          - (lo afferra alla gola) Di', è vero?

Il Mendicante               - (quasi soffocato) Che ti salta? Che cosa ho detto?

Angelo                          - (scrollandolo) Hai parlato di cotenne... Hai detto che oggi, qui, ci daranno la minestra di cotenne...

Il Mendicante               - (c. s.) Io non so... non so nulla!

Angelo                          - (trasportato da una furia tremenda) Maledetto! Maledetto!

Michele                         - (afferra Angelo, gli fa lasciare il men­dicante) Su, smettila. Ha scherzato.

Angelo                          - (lascia il collo del mendicante, poi siede sul suo sacco, col volto tra le mani. Mormora, sor­damente) Imbecille. Ho creduto subito, io. (Con improvviso abbandono, mettendo un braccio intorno al collo di Michele che gli si è seduto accanto) Me le ha preparate mia madre, prima che partissi per la guerra, un piatto così... (Mette una mano sulla bocca) È terribile, ne sento ancora il gusto adesso... (Improvviso) Perdio, per un piatto di cotenne sento che ucciderei un uomo!

Michele                         - Eh! Via. Un giorno le mangerai, e senza uccidere nessuno.

Angelo                          - (sconfortato) No, Michele, sento che non le mangerò più. Nessuno di noi ne mangerà più. Noi non torneremo più a galla. Andremo giù, sempre più giù. Dove non si mangiano cotenne. Si mangiano lassù, in cielo. A casa, insomma. E noi non avremo più niente.

Michele                         - (con voce insinuante) Tu però hai il tuo sacco nuovo...

Angelo                          - (di soprassalto) Questo è mio!

Michele                         - E chi te lo tocca? Tuo, si capisce. (Pausa) Come se tu avessi trovato un pezzo di casa.

Angelo                          - (raggiante) E vero! È proprio così! Un po' di casa. (Lo stringe al petto) La mia casa nuova... (Teneramente) Il mio guanciale, la to­vaglia, la coperta per ripararmi... Oh! Michele, sono davvero felice. È così morbido, così bello...

  Michele                       - (allunga una mano per toccarlo).

Angelo                          - (lo sottrae al contatto della mano di Michele. Senza una parola, guardandosi negli occhi, ì due restano fermi, passa nei loro animi una tre­menda bufera. E questione di un attimo. Lentamente essi riprendono i loro aspetti regolari, ritornano i pigri movimenti. Un lungo silenzio. Poi un suono di campanella).

Il Mendicante               - (alzandosi) Ah! Ci siamo. - (Gli altri lo imitano, si mettono lutti in fila, Michele e Angelo sono gli ultimi).

Il Segretario                  - (entra. È un tipo piccolo, segaligno, giallo, viscido) Cari amici! Lieto di vedervi qui tutti. Oggi ho una buona notizia da darvi!

Il Mendicante               - Lo dicevo io: cotenne!

Il Segretario                  - Oggi riceverete una visita, una visita inattesa: qualcuno verrà a trovarvi, a pas­sare qui, tra voi, qualche minuto della sua gior­nata. Spero che sarete lieti di questa bella notizia...

Il Mendicante               - E... si mangia?

Il Segretario                  - Che diamine, amico mio! Certo, che mangerete. E meglio del solito.

Il Mendicante               - (si passa il dorso della mano sulla bocca, golosamente. Tra se) Cotenne!

Il Segretario                  - Il cibo sarà migliore, oggi, perché vi sarà servito di persona dal nostro bene­fattore, dal benefattore di noi tutti, da colui che si è volontariamente assunto il compito di invitarvi ogni giorno alla sua mensa...

Il Mendicante               - Puah! Sicché, non saranno contente?

Il Segretario                  - Non saprei dirti, figliolo caro. D'altra parte lo saprai ben presto... (Con voce alterata) Ecco il nostro benefattore in persona... Vi prego, un applauso generale, per il nostro bene­fattore... (Applaude, alcuni lo imitano pigramente. Entra il benefattore).

Il Benefattore               - (un grasso uomo dal tondo viso flaccido. È in « tight » nero. Testa porcina. Grasse mani bianche. Parchi movimenti. Voce melliflua, sotto la quale s'indovina il tono di comando) Cari, cari amici miei! Sono lieto di ritrovarmi fra voi: è da un po' di tempo che non ci vediamo... Ho avuto molto lavoro, sono stato lontano di qui... Ma non vi ho mai dimenticato. Il mio cuore, cre­detelo, è sempre qui, tra voi. (Nessuno gli risponde. Tutti hanno l'aria assente, lontana, qualcuno addi­rittura di aperto disprezzo).

Il Segretario                  - (tenta di rendere meno penoso il silenzio) Essi... essi... sono lieti della sua presenza, qui, tra loro: me lo dicevano dianzi... Molto lieti...

Il Benefattore               - (con un ghigno appena velato) Già, si vede, si capisce. E anch'io sono lieto. Vedo però che ci sono molti vuoti... II vecchio Giuseppe...

Il Mendicante               - (con voce roca) È crepato.

 Il Benefattore              - Poveretto! E MaJvina...

Il Mendicante               - Crepata anche lei.

Il Benefattore               - Ne sono dolente. E quella coppia... marito e moglie, ancora giovani...

Il Mendicante               - Impiccati.

Il Benefattore               - Che cosa mi dite mai!

Il Mendicante               - (con gusto sadico) Li abbiamo trovati, una mattina, appesi allo stesso ramo. Secchi come baccalà.

Il Benefattore               - Mi date un vero dolore!

Il Mendicante               - Noi siamo abituati, invece, a queste notizie. Non può accadere altro, tra noi. Ogni giorno ci si conta, manca sempre qualcuno: è l'unico modo, per noi, di andare a star meglio.

Il Segretario                  - (battendo le mani) Su, su, amici, oggi non bisogna essere malinconici. Il nostro benefattore è tra noi, e dobbiamo fargli festa.

Il Mendicante               - Bene. Intanto mangiamo. Ho le budella che si torcono.

Il Benefattore               - Certo. (Al segretario) Si facciano venire gli uomini di cucina.

Il Segretario                  - Subito! (Esce correndo).

Il Benefattore               - (avvicinandosi ai due ultimi arrivati, Michele e Angelo) Oh! Ecco qui due nuove conoscenze.

Angelo                          - (un poco impacciato) Certo. Veniamo appena da qualche giorno...

Il Benefattore               - Così giovani... Come mai?

Angelo                          - (sta per aprire bocca, ma Michele gli dà una gomitata in un fianco).

Michele                         - Siamo di passaggio. Difficoltà momentanee. Presto avremo un'azienda, io e lui.

Il Benefattore               - Un'azienda?

Michele                         - Si capisce. Lavoreremo e guada­gneremo bene. Vero, Angelo?

Angelo                          - Eh!... Certo.

Il Benefattore               - (incuriosito) E... un'azienda di che cosa, scusate?

Michele                         - Bè... Affari. Compra e vendita. Molti affari.

Il Benefattore               - E fino ad oggi, scusate, che cosa avete fatto?

Angelo                          - (con. tono pacato) Beccamorti.

Il Benefattore               - Come sarebbe a dire?

Angelo                          - La guerra. Abbiamo fatto la guerra. Sempre e solo la guerra. Ammazzare o essere ammazzati. Per sette anni non abbiamo visto che morti. Morti nostri e morti degli altri. Tutti eguali. Tutti con lo stesso fetore. Capito?

Il Benefattore               - Capito. Brutto affare, vero?

Angelo                          - Secondo. Con la guerra ci sono anche quelli che se la passano bene. Per noi, invece, è andata male. Non c'è rimasto neanche un auto­carro, neanche un cavallo, neanche un telo da tenda. Solo queste. (Mostra le due gavette, lucide, pulite) Belle, vero? Paiono d'argento. In sette anni di guerra, io e lui, sempre insieme, non abbiamo guadagnato che questo. E i cucchiai. Tutto il resto è qui: (si picchia sulla testa) ricordi, tutti eguali, morti e morti, case vuote, case saltate in aria, alberi spaccati, terra sconvolta...

Il Benefattore               - E le vostre famiglie?

Angelo                          - Saltate in aria anche loro, con le case. Più nessuno.

Il Benefattore               - Siete giovani. Vi rifarete...

Angelo                          - Il marcio è proprio questo: essere giovani. Che cosa ce ne facciamo, della nostra gioventù? Ce la cuociamo?

Il Benefattore               - Domani... il domani...

Angelo                          - Con vostra licenza, sul domani ci io uno sputo sopra. (Eseguisce).

Il Benefattore               - Bisogna aver fede...

Angelo                          - Bravo, In chi? In che cosa? Lei ce l'ha la fede?

Il Benefattore               - Certo.

Angelo                          - Perché è padrone di quella grande casa là. Perché chi sa quante altre ne ha. Perché può permettersi il passatempo di dare da mangiare alla gente come noi. Per questo crede di avere una fede... La fede è un lusso, signore!

Il Segretario                  - (riapparendo) Eccovi serviti, amici! Buon appetito a tutti.

Il Benefattore               - (va incontro a due famigli che portano una marmitta. Uno dei famigli gli porge un mestolo, e il benefattore comincia a distribuire la minestra nei piatti, nelle pentoline, nelle scodelle, nelle gavette dei mendicanti. Quando un mendicante è servito, va a sedersi qua e là, in terra, e comincia a mangiare. Si ode soltanto un gran sciacquio di liquido sorbito, e risulta chiara l'avidità dei men­dicanti) .

Il Segretario                  - (con gli atteggiamenti di un buf­fone, passa da uno all'altro, quasi saltellando e parlando con voce melliflua, appiccicosa, flautata) Eccovi, amici, nelle giuste condizioni per poter valutare le grandi doti di bontà e di generosità del nostro benefattore. Egli è un uomo che per­ segue un solo ideale, un unico scopo: fare del bene, seminare il bene, spandere il bene. Sollevate un poco lo sguardo verso di lui, o amici, e vedrete quanta e quale luce di bontà s'irradia dai suoi occhi, dalla sua fronte! Egli, in questo momento, è veramente felice! Il benessere che subentra in voi, lo colma di gioia. Egli vive di questo e per questo! Le sue grandi officine, le sue fabbriche immense, il lavoro del suoi mille e mille operai, non servono che a questo, o amici: dare da man­ giare a coloro ai quali il destino nega ogni bene. Egli è il vostro padre, il vostro fratello, il vostro amico più schietto e sicuro. E che cosa vi domanda, in cambio di quanto fa per voi? Nulla. Proprio nulla. Vi chiede soltanto un poco di affetto e di riconoscenza. Egli vi ama tutti di un amore...

Michele                         - (che ha finito di mangiare la sua gavetta di minestra, volge intorno uno sguardo soddi­sfatto, e prorompe in un formidabile rutto che ferma la parola sulle labbra del segretario).

Angelo                          - (sbotta in una grande risata) Ah! Bravo Michele. Ci voleva. Punto e a capo! (Tutti gli altri ridono scompostamente. Segretario e bene­fattore allibiscono).

Michele                         - (al segretario) Forza, attacca di nuovo. Come dicevi? Sai, le tue parole mi sono andate giù con la sbobba, e adesso me le sento tutte qui! (Accenna allo stomaco).

Il Mendicante               - (segnando col cucchiaio il bene­fattore) Diceva che lui è come un santo, che tutte le sue officine e le sue fabbriche lavorano per dare a noi tutta questa broda. È proprio un gran santo, va! (Tutti si sganasciano dalle risa, buttandosi rovesci come se fossero ebbri).

Angelo                          - Poveretto. È certo che un giorno o l'altro, scialacquando così il suo denaro, il po­veruomo si ridurrà sul lastrico! Allora saremo noi che daremo a lui, vero? Lo inviteremo una sera per uno, a casa nostra, nelle nostre sale!

Il Mendicante               - Gli daremo le cotenne.

Un altro Mendicante     - Se la vorrà, io gli darò anche mia moglie: basterà lavarla per benino... (Risate. Il tono della beffa deve crescere, con cori di risate e sberleffi. Il benefattore e il segretario, l'uno accanto all'altro, sono sempre più a disagio).

Il Segretario                  - (al benefattore, come scusandosi) Mai accaduto questo!

Michele                         - Vi renderemo tutto, state tranquillo, quando ci saremo arricchiti noi col nostro commer­cio! Vi manderemo a prendere con la macchina.

Angelo                          - Il miglior letto sarà il vostro!

Michele                         - E le migliori pulci, e i più grassi pidocchi!

Angelo                          - Ne volete qualcuno in anticipo? (Si cerca nel petto) Ne ho visto giusto un paio, poco fa... Parevano bovi, con le corna e tutto il resto.-.. (Le risate fanno coro, il benefattore e il segretario spariscono. Altre risate, e battimani generali).

Michele                         - (dando una affettuosa manata sul collo di Angelo, e rotolandosi a terra con lui, lot­tando come ragazzi) Li hai fatti scappare, coi tuoi pidocchi cornuti

Angelo                          - (e. s.) Se aspettavano ancora un secondo li seppellivo...

Michele                         - (gettandoglisi addosso e tentando di metterlo con la schiena a terra) A te!

Angelo                          - (reagendo) Non ce la fai! (Lottano ancora, mentre gli altri, insonnoliti, accennano a voler far la siesta, coricandosi qua e là, in pitto­resco accampamento, e prendendo presto sonno).

Michele                         - (lascia Angelo dalla stretta. I due amici siedono vicini, incominciano a parlare sot­tovoce, affettuosamente).

Angelo                          - (ha piegato con ogni cura il sacco, e se lo tiene sulle ginocchia, con lo sguardo fisso sopra. Si capisce che tutti i pensieri che esprimerà nelle battute seguenti nascono dalla visione del suo sacco nuovo) Di' Michele, tu credi che noi due si riuscirà ad avere, un giorno, una casa tutta nostra?

Michele                         - (dopo una lunga pausa) Mah! Quante volte, in guerra, mi è venuto questo pen­siero... Poi, quando ho visto la mia casa distrutta, e la famiglia dispersa, e tanta cenere in ogni cosa, ne ho perduto il ricordo, di questo pensiero. (Pausa) Io credo che ci sia. della gente, al mondo, condannata a non avere mai nulla di quanto desi­dera, di quanto spera. Noi siamo forse di quelli.

Angelo                          -   La casa di quand'eri ragazzo te la ricordi ancora?

Michele                         - Poco, un cenno appena. Come una cosa tanto lontana.

Angelo                          - Io invece la ricordo benissimo. Però, in certi momenti, non so più se la casa che ricordo è proprio quella vera, oppure è quella che mi sono fantasticata io. Una casa che sembra dipinta. Piccola, coi muri rosa, e le persiane verdi, e un giardinetto sul davanti... Sul tetto, un comi­gnolo grosso come il dito, e dal comignolo esce un fumo bianco, compatto, come fosse di bam­bagia... Proprio, una strana casa. (La voce s'im­pasta col sonno) Sulla soglia mi aspetta una dorma... Non so più se è mia madre, o una donna più gio­vane, molto più giovane... Forse è... No, non riesco proprio a capire chi sia. Ma so che quella è la mia casa... Proprio la mia casa... Darei la vita, per la mia casetta rosa... (S'addormenta).

Michele                         - (lo spia, cautamente. Si capisce che ha concepito il disegno di rubargli il sacco. Len­tamente, con mosse guardinghe, incomincia a ti­rare il sacco che sta piegato, fra le ginocchia e il petto di Angelo. Quando è riuscito ad averlo tra le mani, s'alza, e in punta di piedi s'avvia alla por­ta, dà ancora un'occhiata ad Angelo, esce).

Angelo                          - (si scuote d'improvviso, cerca il sacco, intuisce d'un lampo il gesto di Michele, balza in piedi, e urlando disperato rincorre il ladro) No, Michele! No! Fermati. Il mio sacco, il mio sacco nuovo! No, Michele! (La voce si allontana. I mendicanti si risvegliano).

Il Mendicante               - Che c'è?

Un altro Mendicante     - Che cosa succede? (Giunge un grido, un grido straziante, di Michele, raggiunto, afferralo da Angelo. Al grido, tutti ammutoliscono. Hanno capito. Per un attimo restano fermi, nemmeno respirano. Poi, di là del muro, si ode scalpiccio di gente, grida: « Prendetelo! E’ qui! Tenetelo ». I mendicanti riassettano la loro roba, qualcuno si alza, si avvia, pigramente, già staccati dal dramma, indifferenti).

Fine del secondo atto

ATTO SECONDO

QUADRO PRIMO

(La sala d'aspetto di un Commissariato di polizia. Una stufa. Due lunghe panche. Un tavolino per il piantone. Squallore classico di simili antri. TI piantone sonnecchia. Ad un tratto suona la « cicala » dello studio del commissario).

Il Piantone                    - (si alza stancamente, entra nello studio, dopo pochi istanti ne esce, va all'altra porta, si affaccia, parlotta con qualcuno, torna a sedere al suo tavolino. Un silenzio. Poi la porta si spalanca, entra Anna con i polsi ferrati. L'accompagna un agente attempato).

L'Agente                       - (fermandosi) Entriamo subito?

Il Piantone                    - Aspetta. Ha detto di tenerla pronta qui. Falla sedere.

L'Agente                       - Siedi. Ci fanno aspettare. Mettiti là, vicino alla stufa... Hai freddo?

Anna                             - No. Perché?

L'Agente                       - Tremi, lo sento.

Anna                             - Forse è il freddo di questo ferro... Non potreste toglierlo... Sapete, non ho nessuna intenzione di fuggire.

L'Agente                       - Lo credo. Ma non si può. Bisogna aspettare che dia l'ordine lui... (Accenna alla porta del commissario).

Anna                             - Bene. Aspetterò. (Si rannicchia sulla panca).

L'Agente                       - (siede tra Anna e la stufa) Io sono stanco, e sento un freddo nelle ossa... (Si accosta alla stufa) Qui si sta quasi bene... (Guarda Anna) Oh! Non tu. Lo so che tu non stai bene, qui.

Anna                             - E perché? Può anche darsi ch'io stia benissimo. Non mi lamento affatto.

L'Agente                       - Ah! No?

Anna                             - No. Forse sto meglio qui, adesso, che fuori.

L'Agente                       - Oh! Questa, poi... (Giungono risate di donne, scalpiccio, alte voci concitate, ordini secchi).

Il Piantone                    - Accidenti. Ci mancavano queste, adesso.

L'Agente                       - Che c'è?

Il Piantone                    - La rete del sergente.

L'Agente                       - L'hanno mandato a pescare?

Il Piantone                    - Come al solito. E lui scarica qui dentro tutto il suo pesce marcio. Non lo senti il fetore che arriva? Accidenti a lui e a tutti quanti. (Si spalanca la porta, entrano cinque donne, quattro di esse sono in «toilettes » da sera, vistose, di pessimo gusto. Due sono evidentemente ubriache. Una è giovanissima, poco più che una bambina. Per ultimo entra il sergente).

Il Sergente                    - Brave, ragazze. Non fate chiasso. Mettetevi su queste comode poltrone. Sarà que­stione di pochi minuti. Poi qualcuno vi farà un ricevimento coi fiocchi.

Lula                               - (evidentemente brilla) Bene, caro amico. E che cosa ci farete servire, qui?

Il Sergente                    - Champagne. Qui si serve solo champagne, roba di gran marca. E i « tappi », qui dentro, contano solo per me.

Frida                             - Allora voi fate il nostro stesso mestiere! Siamo colleghi! Evviva!

Il Sergente                    - Zitta, adesso. Siedi là.

Lula                               - Vi obbediamo perché... perché... Debbo dirglielo, Frida?

Frida                             - Oh! Per me, puoi dirgli tutto quello che vuoi. Tanto non me ne frega niente.

Lula                               - Ecco, adesso vi metto a parte di un nostro grande segreto: stiamo buone, vi obbediamo, non scassiamo neppure una di queste vistose pol­trone, perché... perché siamo tutte innamorate di voi, caro, caro e grande «pescatore! ».

Il Sergente                    - (sorridendo bonariamente) Ma guarda un po'!

Lula                               - (accennando a Frida) Lei vi sogna anche di notte... La sento spesso pronunciare il vostro nome... quando dorme sola! Il che, per la verità, le accade piuttosto di rado...

Frida                             - (balzandole incontro, pronta alla lotta) E tu sei una stupida, più stupida di una mela marcia. Chi ti autorizza a raccontare a questo branco di cretini le faccende mie? Bada, sai!

Il Sergente                    - Smettila. Sedetevi, senza far chiasso. (Indicando i -posti) Tu qui, e tu qui. (A Lula e Frida, due posti lontani l'uno dall'altro) E voi due qui, da questa parte   - (Ilia e Maud) e tu (a Stella) piccolina, mettiti accanto alla stufa: hai l'aria di avere freddo. (La fa sedere accanto ad Anna. Tutte eseguiscono).

L'Agente                       - Dove le hai pescate, sergente?

Il Sergente                    - (accende la pipa, e parla con uno strano tono di voce, come se raccontasse una favola) Lontano, lontano... In un paese che conosco soltanto io... (Indicando Lula e Frida) Quelle due erano state imprigionate da un mago maligno, che le ha costrette a bere una certa acqua di fuoco...

Frida                             - Era un gran signore, caro pescatore, un signorone, pieno di moine, d'inchini e di biglietti di grosso taglio...

Lula                               - Il suo portafoglio sembrava una fisar­monica...

Il Sergente                    - E voi avete tentato di suonarla. Vero? Ma il signorone se n'è accorto, ha gridato come un tacchino spennato vivo, ed io ho dovuto pescarvi.

Lula                               - Sarà per un'altra volta, sergente.

Il Sergente ------------ - E quelle due lì, così calme e tran­quille (indica Ilia e Maud), passeggiavano tra le so  nuvole, proprio come due angioletti, e io mi sarei messo a piangere dalla commozione, se non mi fossi accorto che strizzavano l'occhio ai passanti... Un brutto comportarsi per essere degli angeli...

Ilia                                 - (con voce stanca) Datemi voi del lavoro più pulito, sergente; vi assicuro che non cerco di meglio.

Maud                            - Io, invece, lo faccio per sport. Mio padre è milionario, mia madre è servita da sei cameriere, le mie due sorelle minori fanno otto pasti al giorno, sicché a me non è rimasto altro da fare che strizzare l'occhio a quelli che passano... (Sputa in terra in segno di disprezzo) Alla faccia della buona società!

Ilia                                 - Amen! (Ride cavernosa).

L'Agente                       - (indicando Stella) E quella lì? È quasi una bambina...

Il Sergente                    - Ah, sì... Ci sarebbe da piangere, caro collega, se ne fossimo ancora capaci! (Piano, quasi avesse timori di farsi udire dalle « altre ») Era in un bar, con un grasso uomo che voleva ad ogni costo farle inghiottire un bicchiere grande così di gin puro... E lei s'era messa a frignare, proprio come fanno i bambini quando debbono inghiottire l'olio di ricino... Una pena, caro collega...

L'Agente                       - E perché l'hai «pescata?... ».

Il Sergente                    - L'uomo grasso, a un certo punto, si è messo ad urlare che qualcuno gli aveva soffiato l'orologio e la catena... roba d'oro, d'oro puro, gridava il grassone... Io passavo di là, ho dovuto intervenire...

Stella                             - (abbandona la testa sulla spalla di Anna che le è accanto) Non sono stata io, lo giuro!

Il Sergente                    - Su, bimba, te la caverai con una sciacquatina di capo... Quell'uomo che è di là non è peggiore di tanti altri...

Anna                             - (alza le mani, sempre legate dalle manette, e le fa una carezza sulla fronte) Su, coraggio. Passa tutto.

Frida                             - (che sì è accorta adesso di Anna e dei suoi ferri) Toh! Ci avete messo insieme a un perso­naggio illustre! Perché a lei i braccialetti, e a noi no? (Risaie) Dì, Lula, noi protestiamo! Vogliamo anche noi i braccialetti. (Ride scioccamente).

Lula                               - (scandendo) I bra-ccia-le-tti! Sì, sì... I bra-ccia-le-tti!

Il Sergente                    - (si avvicina ad Anna, le toglie le manette) Queste non sono mani da portare braccialetti così pesanti. Ecco.

Anna                             - Grazie. Siete buono. Ma queste mani hanno fatto del male. Hanno ucciso. Quindi me­ritano i ferri.

Stella                             - (ha un gesto involontario di paura).

Anna                             - No, piccola, se vuoi, puoi restare. Io ho finito di far del male. Adesso tocca a loro. (Accenna alla porta dell'ufficio del commissario).

Stella                             - (le prende con tenerezza le mani) Che belle mani.

Anna                             - (le ritrae, con un brivido) Non sono ancora degne di essere toccate da te...

Lula                               - (alzandosi) E ci mettete qui con una assassina? Io protesto.

Frida                             - Giusto: noi siamo oneste: dei veri fiorel­lini siamo, di fronte a una che confessa tranquil­lamente di aver ucciso... (A Stella) Vieni via, bambina, vieni qui, vicino a noi... Puzzeremo ma­gari un po' troppo di « wisky », ma non fa nulla. Noi non siamo delle assassine.

Stella                             - (rannicchiandosi) Lasciatemi stare. Sto bene qui.

Anna                             - Non ve la guasto, state certe. È un male, il mio, che non si comunica. Basta per me...

Ilia                                 - (andandole lentamente accanto) Sicché, hai ucciso?

Maud                            - (c. s.) Come? Raccontaci...

Lula                               - (ghignando) Chi uccide sarà ucciso! Ti metteranno la corda al collo, signorina!

Anna                             - (semplice) Lo so.

Lula                               - E non crepi di spavento, solo a pen­sarci?

Anna                             - Affatto. Sono qui per questo...

Ilia                                 - Ah! Mi fai più paura tu che un serpente in letto! Ma la sentite, ragazze?

Lula                               - (andandole ancor più vicino, e guardandole con attenzione il viso) E se non mi sbaglio, c'è anche del sangue, nero nelle tue vene... È così?

Anna                             - È così. Mio padre era del sud...

Lula                               - (ghignando e rifacendo il tono di Anna) ...era del sud... (Con disprezzo) Era negro. Puah!

Anna                             - (insorgendo) Era un grande uomo, mio padre!

Maud                            - Un negro!

Anna                             - Un uomo che voleva bene agli altri uomini, a tutti gli uomini. (Pausa) Per questo lo hanno ucciso.

Lula                               - (trionfante) Impiccato! Dì tutto. Im­piccato ad un albero, quando violentò una bianca e nascesti tu!

Anna                             - (veemente) Non è vero! Sposò mia madre, e mia madre lo adorava, e io... io...

Frida                             - Raccontaci... Io vado pazza per queste storie...

Anna                             - Lo hanno ucciso le guardie, a fuci­late, sotto i nostri occhi, i miei e quelli di mia madre, davanti al cancello bianco del nostro giar­dinetto... Tutto il suo sangue cadde sul cancello, tingendolo di rosso vivo...

Lula                               - Continua...

Anna                             - (perduta in una visione lontana) Tutti i bambini del nostro villaggio languivano di fame, e anche i grandi... la siccità aveva bruciato tutto il raccolto, anche le bestie venivano a morire ai bordi della prateria... Non c'erano più scorte, non c'era più un chicco di grano... Ma qualcuno aveva ancora il granaio ben fornito. Allora mio padre, il solo del villaggio che ne avesse avuto il coraggio, andò dai padroni delle fabbriche, e disse che non era più possibile andare a lavorare, e che i figli degli operai erano sfiniti dalla fame e non si reg­gevano più in piedi, e anche le scuole si erano dovute chiudere, e anche il Tempio... Bisognava distribuire il grano che i padroni avevano in serbo. Distribuirlo giustamente, sino all'arrivo delle scorte che qualcuno aveva promesse... Sapete come gli risposero? Prima con la stupida bugia che anche loro erano alla fame, e poi facendolo cacciare dalle guardie armate... Mio padre allora tornò a casa, chiuse la porta alle sue spalle, cadde a sedere sul letto col capo tra le mani... Poi, ad un tratto, balzò in piedi, scansò mia madre che s'era messa davanti alla porta, mi guardò a lungo, attraversò di corsa il nostro giardinetto... Poco dopo un gruppo di uomini percorreva il villaggio, dirigendosi verso la casa dei padroni delle fabbriche... Mio padre era alla testa di quegli uomini.

Lula                               - Che storia ci racconti, adesso? Vuoi farci piangere tutte come fa Padre Alberto, alla predica della domenica mattina?

Anna                             - Io vi racconto quello che era mio padre, un uomo buono e saggio come pochi altri uomini...

Stella                             - E allora?

Anna                             - (continuando) I padroni s'erano bar­ricati in casa, e le loro guardie si erano schierate sulla porta dei magazzini del grano. Allora gli uomini guidati da mio padre avanzarono verso i magazzini, e poiché le guardie avevano impugnato le armi, gettarono i primi sassi... Bastò quel gesto. Altre guardie irruppero da nascondigli, carica­rono gli uomini, li inseguirono. Mia madre ed io vedemmo giungere davanti alla nostra casa mio padre... Un istante ancora, e forse si sarebbe salvato... Ma un gruppo di guardie lo raggiunse, lo chiuse in mezzo, e come lui cercava di uscire da quel cerchio... ecco, lo uccisero a fucilate, proprio come un cane rabbioso, e lui cadde riverso sul cancelletto bianco. (Pausa).

Frida                             - Assassini!

Anna                             - Uccisero mio padre per difendere il loro grano. E mia madre morì di crepacuore, e io restai sola, senza più una guida, senza più un affetto. Non si può vivere senza un affetto. E quando un giorno ne trovai uno, dolce e innocente, e ci fu chi tentò di togliermelo, uccisi anch'io. Avevo imparato. (Con un grido) Ecco perché ho ucciso!

Il Sergente                    - Sta calma, adesso. Vedrai che qualcuno ti aiuterà...

Anna                             - (volge lo sguardo allo studio del giudice).

Il Sergente                    - (ridendo) Oh! Non lui, di certo. (Misterioso) Qualcuno che ti è molto vicino...

Anna                             - (si guarda smarrita intorno).

II Sergente                    - Non cercare. Adesso è inu­tile cercare. Aspetta con calma. (Semplice, sicuro) Verrà. (Suono di cicala).

L'Agente                       - (ad Anna indicando l'uscio del giudice) Su, va a confessarti.

Anna                             - (si alza, s'avvia) Addio, ragazze... (Tutte restano mute).

Il Sergente                    - (conducendo Anna) E parla forte, con Suo Onore: è un po' duro d'orecchi. (Escono).

Stella                             - (lentamente si è alzata, quasi a reggere Anna; poi, fermata da un suo gesto, resta accanto alla panca, incomincia a piangere in silenzio, e si lascia scivolare a terra, accoccolandosi e appoggiando la testa dov'era seduta Anna).

QUADRO SECONDO

(Lo studio di un giudice istruttore. Pochi mobili indispensabili. Molto squallore. Il giudice è al suo tavolo. Lo circondano alcuni giornalisti).

Il Giudice                      - (continuando un discorso ai giorna­listi, i quali prendono appunti) Insomma, una buona giornata, per voi della stampa. Per conto mio, nella mia ormai lunga carriera, non mi sono mai intoppato in due canaglie di questa risma. E lo strano è questo: due delitti diversi, avvenuti a molti chilometri l'uno dall'altro, in ambienti diversissimi, senza il minimo legame materiale ti a loro, presentano lo stesso aspetto di ferocia e di negazione di ogni valore umano... La ragione è questa, cari amici: che l'umanità è in rapido declino. Esempi come questi sono chiari e lampanti. Non c'è più niente da fare: siamo sulla china, e bisogna evitare di sdrucciolare fino in fondo.

Il primo Giornalista       - Giovani?

Il Giudice                      - Giovanissimi: quasi due ragazzi.

Il secondo Giornalista   - Bella?

Il Giudice                      - Chi?

Il secondo Giornalista   - La ragazza.

Il Giudice                      - Che cosa volete che ne sappia, io. Io sono il giudice delle loro azioni, mica delle loro persone fisiche. Per me è un diavolo, forse il diavolo in persona. Mi fa più paura lei di lui. Vedeste: calma, tranquilla, e con una luce di estasi negli occhi... E le mani! Le tiene appoggiate, qui, sul tavolo, come se fossero mani da mettere in vetrina. E sono belle...

Il secondo Giornalista   - Ah! Questo l'avete visto. Ve ne siete accorto, insomma. Mani di fata.

Il Giudice                      - Che diamine. Le ho guardate, certo. Ha ucciso, con quelle mani. Ha sgozzato una creatura, come un capretto. E come se le guarda, con tenerezza...

Il terzo Giornalista        - Con tenerezza?

Il Giudice                      - Certo. Se le accarezza con lo sguardo.

 Il secondo Giornalista - E che dice?

Il Giudice                      - Ha detto poco. Del resto, ancora non ho potuto farle domande definitive. È qui da ieri appena.

Il primo Giornalista       - E l'altro?

Il Giudice                      - Ha lo stesso contegno. Pensate: ha ucciso il suo migliore amico: come un fratello era per lui.

Il terzo Giornalista        - Motivo?

Il Giudice                      - Un sacco. .

Il secondo Giornalista   - Che?

Il Giudice                      - (esplodendo) Un sacco: per un sacco, un sacco vuoto, un miserabile sacco. Si uccide per un sacco! L'amico glielo porta via, e forse, badate, lo fa soltanto per ischerzo; ma lui lo insegue, lo agguanta, lo strozza...

Il primo Giornalista       - Bene. C'è materia per una settimana almeno. Eravamo giusto all'asciutto.

Il secondo Giornalista   - Si possono vedere?

Il Giudice                      - Prima me li debbo guardare un po' bene io. Debbo vedere come sono fatti, dentro e fuori.

Il terzo Giornalista        - Ma non ci potete dire se è bella o brutta, bruna o bionda, grassa o magra?

Il Giudice                      - E dai. Non so. Una cosa da niente. Ah, Santo Dio, questi sono proprio i segni che il mondo finisce. Adesso, signori, si uccide per un sacco vuoto...

Il primo Giornalista       - E lei? Perché ha ucciso?

Il Giudice                      - È la solita ragazza di servizio che se la intende col padrone. E poiché la padrona s'è accorta della tresca e la caccia via, lei l'uccide!

Il terzo Giornalista        - Bè, ragazzi, se le donne di servizio adottano questo sistema, fra poco non ci saranno più padrone !

Il Giudice                      - E il bello è questo: che, essendo il padrone ammalato, lei gli preparava i decotti d'erbe, e adesso sostiene che ha ucciso la padrona perché questa glielo voleva impedire. Capite che roba?

Il secondo Giornalista   - Bellissimo. Più bello dell'altro.

Il primo Giornalista       - Fateceli vedere. Un minuto solo. Non posso tornare al giornale senza averli visti; mi cacceranno via.

Il Giudice                      - Poi. Dopo. Adesso me li debbo lavorare io. Qui ci vuole una lezione. Se non ci fermiamo, dove si va a finire? Questa è la nostra balda gioventù, signori. Si uccide per un sacco vuoto, si uccide perché la padrona di casa non permette la tresca col padrone... Adesso lasciatemi solo. Vi terrò informati, state tranquilli. Avrete tutto il materiale possibile e immaginabile. Via. E... (con intenzione) pensate un po' anche a me, nelle vostre brodaglie.

Il primo Giornalista       - Non temete. Non sarete dimenticato, si capisce. Diventerete celebre.

Il secondo Giornalista   - Che dici? Ma questo giudice è già celebre! È il giudice più celebre, rispettalo e temuto di tutto il distretto. Sei novel­lino, tu, se non conosci Suo Onore.

Il terzo Giornalista        - Scusatelo, è alle prime armi!

Il Giudice                      - Addio, ragazzi.

I Giornalisti                   - (escono, salutando ancora) Arri­ vederci, capo! Buon lavoro! Ricordatevi di noi!

II Giudice                     - (suona un campanello).

Il Piantone                    - (entrando) Vostro Onore ha chiamato?

Il Giudice                      - Sì. Portami da bere, prima di tutto.

Il Piantone                    - Cognac?

Il Giudice                      - Cognac. Poi il sergente.

Il Sergente                    - (apparendo) Eccomi qui.

Il Giudice                      - Come fate a sapere che volevo vedervi?

Il Sergente                    - (chiudendosi nelle spalle) Non so.

Il Giudice                      - Siete straordinario, voi. Mi fate quasi paura, sergente. Davvero mi domando chi siete...

Il Sergente                    - Se Vostro Onore non è contento di me...

Il Giudice                      - Troppo contento, sergente. E appunto questo che mi fa paura. Bè, adesso por­tatemi quel ragazzo, sergente. E tenetegli gli occhi bene addosso: quello è un tipo capace di tutto!

Il Sergente                    - (con una strana dolcezza nella voce) Non credo. Ha dormito come un bimbo.

Il Giudice                      - (con ira) Ecco però un vostro grave difetto, sergente: gravissimo, anzi. Voi, ogni tanto, vi ammalate di tenerezza per questo o quel soggetto. (Con intenzione) Ed ho anche potuto notare una vostra stranissima particolarità: tanto più il soggetto è pericoloso, tanto più la vostra dolcezza è palese. Si direbbe che la vostra bontà è in ragione diretta con la gravità del caso...

Il Sergente                    - (mormorando) Può darsi...

Il Giudice                      - Che cosa avete detto?

Il Sergente                    - Nulla. Ascolto.

Il Giudice                      - Un giorno o l'altro vi accadrà qualche grosso guaio, sergente. Forse ci rimet­terete i vostri galloni. State attento... (Con nuova ira) Adesso vi intenerite per questo ragazzo, vero? Ha dormito come un bimbo! Strozza l'amico per un sacco vuoto, ed ecco qui un sergente che stanotte lo andrà a cullare, perché possa dormire anche più tranquillo! E la ragazza, dite? Che ha fatto di bello la ragazza? Ha forse cantato la ninnananna a tutta la sezione, stanotte? Ha com­mentato il Vangelo per tutti? (Esplodendo) Sono i due peggiori esseri che mai siano comparsi sulla faccia di questa terra, sergente. E io mi dimetterò, se non mi riuscirà di mandarli dritti sulla forca, tutt'e due, senza un attimo di sosta, nello spazio di pochissimi giorni. Parola d'onore: le dimissioni, darò. (Calmandosi) Ma non ce ne sarà bisogno. Io ho già qui. (Stringe il pugno) Adesso portatemi quello dei sonni tranquilli. E sorvegliatelo bene. Guai a voi se succede qualche cosa. E perquisitelo, prima di farlo entrare qui dentro... E tene­tegli anche le manette. Capito?

Il Sergente                    - Certo. (S'avvia).

Il Piantone                    - (entra) Ecco il cognac. (Serve).

Il Giudice                      - (beve) Meno forte del solito. Al bettolino lo devono annacquare giorno per giorno. Tra poco berremo dell'acqua con qualche goccia di cognac. (Al piantone) Lascia qui.

Il Piantone                    - (mettendo la bottiglia sul tavolo) Bene.

Il Giudice                      - Adesso va. Aspetta: sei armato?

Il Piantone                    - Nossignore. Sono soltanto di piantone.

Il Giudice                      - Non importa. Quante volte debbo dire che anche il piantone deve essere armato? Stai fuori della porta, ma con un'arma in mano. Perdio! Volete vedermi sgozzato...

Il Puntone                     - Bene, signore. (Esce).

Il Giudice                      - (tira fuori da un cassetto una pistola, la esamina per accertarsi se è carica, la rimette nel cassetto: si versa un bicchiere di cognac, lo trangugia. Si bussa alla porla) Avanti.

Il Sergente                    - (entra: ha il polso destro legato con catenella al sinistro di Angelo) Ecco.

Il Giudice                      - (ad Angelo) Sei qui? Siedi.

Angelo                          - (siede) Grazie.

Il Sergente                    - (accennando al suo polso legato) Posso?...

Il Giudice                      - Bene. Ma state qui.

Il Sergente                    - Certo. (Eseguisce).

Il Giudice                      - Sedete là. A noi due adesso. (Esamina delle carte, le scorre con rapidità).

Angelo                          - (si guarda curioso intorno, poi il suo sguardo s'incontra con quello del sergente; un sor­riso in entrambi).

Il Giudice                      - (si accorge del sorriso: ha un gesto d'ira e di profondo disgusto) C'è poco da sorri­dere, pollastrino. A noi due, adesso. Racconta­mi con esattezza come e perché hai ucciso.

Angelo                          - (con voce naturale, senza scatti, forse con tono leggermente annoiato) Ve l'ho già detto stamane, vi ho raccontato tutto, senza tralasciare un solo particolare. Del resto è tutto così semplice...

Il Giudice                      - Certo! È semplicissimo. Un gioco da ragazzi, vero? (Scattando) E perché hai ucciso?

Angelo                          - (con voce atona, quasi parlasse in « trance » ipnotico) Perché qualcuno ha gridato, alle mie spalle: « uccidi! ». (Pausa) E io ho ucciso.

Il Giudice                      - (scattando) Non è vero. Ho già interrogato i testimoni. Nessuno ha gridato alle tue spalle « uccidi! ». Nessuno può averti dato quell'ordine. Tu menti!

Angelo                          - (alzandosi di scatto, prendendosi il capo fra le mani) Giuro che qualcuno ha gridato « uccidi! ». L'ho sentito con i miei orecchi. Se non fosse così, non l'avrei detto. L'ho sentito io. Ben chiaro. Una voce forte, altissima. « Uccidi! » mi ha detto. (Disperato) Giuro che questa è la verità! (Urlando) Lo giuro!

Il Sergente                    - (calmo, appressandogli, metten­dogli una mano sulla spalla e costringendolo a se­dersi) Calma, ragazzo. Bisogna essere calmi, non gridare, non lasciare la tua sedia... Se no, il signor giudice...

Il Giudice                      - Zitto voi, sergente. Nessuno vi ha chiamato.

Il Sergente                    - (tornando al suo posto) So che Vostro Onore non ama il frastuono...

Il Giudice                      - Non amo che mi si prenda in giro, sergente! Questo ragazzo vuole imbottirmi il cranio di stupide bugie. (Battendo la mano su un fascio di carte) Qui ci sono i testi che parlano. E chi avrebbe potuto gridargli « uccidi », se tutti sono d'accordo nel dire che nessuno s'è mosso, che nessuno s'è neppure accorto dell'affare del sacco? Come potete spiegarlo se non con l'impudenza di questo mostro?

Il Sergente                    - (sempre con molta calma, quasi con dolcezza) Forse il ragazzo «crederà » di aver sentito una voce, un comando... Forse la voce l'ha sentita solo lui... Non per questo lo si deve rite­nere un mentitore...

Angelo                          - (che era rimasto col viso affondalo nelle mani) È così sergente, come vi dico io. Non lo faccio per scolparmi. Non voglio scolparmi, non m'interessa di scolparmi. Voglio solo che si sappia la. verità, che si creda alle mie parole... (Al giudice) Vostro Onore mi ascolti. (Pausa) Ogni volta che mi accade di avere una discussione, una disputa; ogni volta che qualcuno mi fa anche una piccola offesa; e anche di notte, se mi avviene di sognare che qual­cuno tocca la mia roba, o m'impedisce di compiere questo o quel gesto; o se alle volte, durante il giorno, mi trovo a faccia a faccia con una persona che desta immediatamente in me un senso di antipatia o di repulsione perché l'avverto nemico, ebbene, sempre, in ognuno di questi casi, io sento una voce che nasce alle mie spalle, una voce tremenda, che ha un tono che non si dimentica, una voce che sembra quella di cento voci messe insieme, che grida ai miei orecchi: «uccidi!». Ah! se Vostro' Onore sentisse quella voce! È terribile, non la si dimentica più. È più forte del tuono, del rombo del treno, dello scoppio del cannone... (Quasi con un grido) Ah! Ecco: sì, aspettate, ho trovato, è come la voce del cannone, è come lo scoppio delle bombe. Sì, sì, è la stessa voce che ci gridava: «uccidi! » quando si andava all'assalto, quando si puntava alla mitragliatrice, quando si sparava col fucile, quando si ficcava la baionetta nelle carni del nemico... Sapete, è difficile uccidere, le prime volte... Dà quasi un senso di ribrezzo, il corpo si rifiuta di eseguire i gesti necessari, le armi diven­tano pesantissime, anche il fucile ha il peso di un cannone... Ma poi, mentre sareste quasi deciso ad abbandonare le armi e a correre incontro al nemico con le braccia tese, ecco la voce tremenda che dagli orecchi trapana il cranio, entra nella carne e nel sangue, e ve l'accende tutto: «uccidi!», «uc­cidi! », «uccidi! », e allora senti che quella è la voce di chi comanda, di tutti quelli che sono rimasti indietro e che ti hanno mandato avanti per conqui­stare terra, per abbattere nemici, per vincere... Devi eseguire, non c'è scampo! Non puoi chiudere gli orecchi: ti entra nelle carni, come una lama... Che orrore! Guai a chi l'ha udita una volta: non la dimentica mai più! Vostro Onore mi deve cre­dere, chi ha fatto la guerra lo sa...

Il Giudice                      - (scattando) Ma la guerra è la guerra! Là bisogna uccidere! Guai a non uccidere! È uccidendo che si vince! Ma dopo la guerra non si può, non si deve più uccidere! Allora c'è la Legge, che ti difende! Ci siamo noi che ti tuteliamo, che non permettiamo la violenza, che non tolle­riamo che si colpisca un proprio simile.

Angelo                          - (col gesto di voler cavare di testa un pen­siero senza riuscirvi) Ma io, in guerra, ho ucciso diecine di uomini che non conoscevo neppure, che non mi avevano fatto nulla di male...

Il Giudice                      - Erano dei nemici. Se tu non li uccidevi, essi uccidevano te...

Angelo                          - (veemente) Non è vero! Questo non è vero... (Pausa; poi, ricominciando a parlare len­tamente, quasi a fatica, come se raccontasse una favola) Vostro Onore mi ascolti. C'era la guerra, allora. Era d'inverno, faceva un freddo tremendo, gli alberi spaccandosi per il gelo, confondevano i loro scoppi con quelli del cannone... (Giungono fiochi ì rombi delle cannonate. Si illumina di luce bianca, alba di inverno, tra la nebbia, una scena laterale, composta di vino scorcio di trincea, in spac­cato; si abbuia la scena dell'ufficio del giudice. Ogni « apparizione » è evocata dalla voce sempre più spenta di Angelo) Io ero insaccato in una trincea, alla foce di un fiume. Era con me Michele, col quale ho fatto tutte le guerre. Gli dico: (Angelo è « passato » nella scena della trincea, ha indossato un cappotto di pelo, ha tra le mani un fucile. Men­tre la sua voce evoca l'episodio, sorge dalla nebbia Michele, che va a sederglisi accanto) Vuoi scommet­tere che anche stamattina ci fregano il caffè?

Michele                         - Bravo, hai vinto la scommessa: chi ce lo portava è saltato in aria cinque minuti fa, l'ho visto io con questi occhi, sembrava un fuoco di artificio: è piovuto sangue, e broda di caffè per un bel po'!

Angelo                          - Che cosa è stato?

Michele                         - Scalogna nera! Il solito fesso della salmeria ha mandato il mulo a far da bersaglio.

Angelo                          - E pensare che si starebbe così bene qui!Non sembra neppure di essere in guerra. Noi non spariamo, di là non si degnano neppure di guardarci... Se non fosse per questo porco freddo...

Michele                         - Succedono di queste cose, in guerra, Si aprono delle strane parentesi, sembra che tutto sia finito... Ti verrebbe voglia di metterti a giuocare alle bocce, fra una trincea e l'altra... Farei una partita anche con loro: in fondo sono uomini come noi, non ti pare?

Angelo                          - Certo sarebbe bello se ci lasciassero giocare con loro, a carte o a bocce. (Ridendo) Senti, che cosa ne diresti se la guerra ce la lascias­sero combattere così: a carte o a bocce? Il risultato mi pare che potrebbe benissimo essere lo stesso, no?

Michele                         - Tanto, per quello che se ne ricava, da una di queste schife guerre!

Angelo                          - Senti: oppure tirando al bersaglio. Invece di uomini veli, si dovrebbero esporre sulle trincee dei bersagli. Ogni uomo ha il suo bersaglio corrispondente. Quando lo colpiscono, si tira giù, e il soldato se ne va a casa. E ritorna uomo.

Michele                         - (divertito) Bellissimo! Ma sono quei porci che stanno ai comandi che non te lo lasciano fare! Sono loro che combinano le guerre.

Angelo                          - Senti, mi piace l'idea del bersaglio! Io sarò una bestia, ma mi pare una grande idea. Voglio comunicarla al comando! Sì, sì, voglio proprio presentarmi al Generale, e dirgli: « Eccel­lenza, ho trovato il modo di fare le guerre senza ammazzare tanta gente. Si fa così e così ». E lui...

Michele                         - E lui ti fa subito fucilare. E quando sei morto, sei fregato per sempre. (Guardando oltre la trincea, verso quella del nemico) Guarda là! È il solito sporcaccione. Ogni mattina è così. Non ha proprio paura di noi!

Angelo                          - Si capisce: perché dovrebbe aver paura? E disarmato, e viene lì solo per mollare i calzoni...

Una Voce                      - (prima con tono sommesso, quasi di chi parla all'orecchio) Uccidilo!

Angelo                          - (come se parlasse a se stesso) Perché dovrei ucciderlo? È vile uccidere così. È disarmato, non ha alcuna intenzione di farmi del male...

La Voce                        - (più imperiosa) Guarda che bel bersaglio! È un colpo sicuro!

Angelo                          - (e. s.) Non voglio uccidere! Non posso uccidere così!

La Voce                        - (con tono di tremenda autorità) Ucci­dilo! Devi ucciderlo! È tuo dovere ucciderlo! Ti comando di ucciderlo!

Angelo                          - (obbedendo meccanicamente, agendo come un automa, si alza, punta lentamente il fucile. Parte il colpo. Dalla trincea scoppia una fragorosa risata collettiva, tremenda).

Michele                         - (ridendo) Bravo! Hai fatto centro! È rimasto seduto sul posto!

Angelo                          - (lascia cadere il fucile, si accoscia a terra, con la testa fra le mani).

Il Generale                    - (appare da sinistra, ha il petto coperto di medaglie) Chi ha fatto questo bel colpo ?

Angelo                          - (si alza, lentamente in piedi).

Il Generale                    - Un bellissimo tiro. Mi congra­tulo con voi. (Tendendogli la mano) Siete un bravo soldato. Andrete in licenza. Vi citerò all'ordine del giorno. (Sparisce di colpo, nel buio fitto della scena. Ritorna la luce nello studio del giudice. Angelo è in piedi, nell'atto di stringere ancora la mano al generale ormai scomparso).

Angelo                          - (gettandosi le mani alla testa, con un grido disperato) Vostro Onore mi creda, è così che si uccide!

Il Giudice                      - (scattando) Non mi incantano le tue storie. Sei un assassino, il più vile assassino ch'io abbia mai incontrato nella mia carriera! (Al sergente) Portatelo via, levatemelo di qui! Via! Via! (Il sergente lo prende sottobraccio, lo accompagna dolcemente verso l'uscita).

                                                                          

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(Due celle attigue: i contorni non sono material­mente specificati. Si chiede uno sfocamento, una nebulosità, un non definito carattere architettonico. In ogni cella una piccola finestra con sbarre: al di là, è visibile un tenue cielo azzurro abbastanza chiaro, dal quale si diffonde un barlume di luce che illu­mina fiocamente i due ambienti. In ogni cella una panca con giaciglio. Angelo e Anna occupano le due celle. Le loro vesti si confondono con la nebu­losità dell'ambiente. Sono entrambi seduti sui gia­cigli. Un lungo silenzio, all'aprirsi del velario. Poi un forte e prolungato rumore di ferri sbattuti, di catenacci aperti. Nella prima cella - quella di Anna, a destra di chi guarda il palcoscenico - entrano: un giudice, due avvocati, un carceriere. Il giudice ha in mano un fascio di carte, altrettanto gli avvocati).

Il Giudice                      - (ad Anna) Alzatevi. La vostra domanda di grazia è stata respinta. Preparatevi ad espiare la vostra colpa.

Anna                             - (china il capo, ritorna a sedere sul giaci­glio).

Il Giudice                      - (esce; entra, con la stessa procedura, nella cella accanto. Ad Angelo) La vostra domanda è stata respinta. Preparatevi ad espiare la vostra colpa. (Tutti escono. Le due celle, a poco a poco, si vanno rischiarando di una dolce luce azzurra e rosa, filtrata dalle due finestrelle dalle quali sono scomparse le sbarre).

Il Sergente                    - (entra liberamente nella cella di Anna, senza il minimo rumore di ferrame. Si ferma accanto al giaciglio, mette una mano sul capo di Anna) Eccoci qui. È una bella mattinata, sapete. Un'alba bellissima. In vita mia, non ho mai visto un'alba come questa.

Anna                             - (alza il capo, fissando il sergente senza mostrare la minima apprensione o curiosità per la sua presenza) Davvero?

Il Sergente                    - Venite a vedere. (L'accompagna alla finestrella) Guardate. Tutto rosa, tutto azzurro. Si sente odore di primavera...

Anna                             - (con un tremito nella voce) Oh! la pri­mavera...

Il Sergente                    - Certo: l'avremo qui tra poco. (Lascia un istante Anna, entra liberamente, attra­verso il muro, si direbbe, nella cella di Angelo, gli si avvicina, lo scuote con un lieve tocco alla spalla) Vieni anche tu, a vedere com'è bello il mondo. (Si appres­sano tutti e tre alla finestrella).

Anna                             - Io l'ho già vista, un'alba bella come questa. Era la mattina di un mio compleanno, non so più quale. Mio padre mi svegliò, mi disse: non ho soldi per farti un regalo, ma qualcuno ha pensato di preparartene uno bellissimo; e, toltami dal letto, mi portò alla finestra, e io vidi un'alba come questa, così limpida, cosi rosa e azzurra...

Angelo                          - Io credo di vederla invece per la prima volta. Tutte le albe che ricordo io sono del tempo di guerra. E in guerra non ci sono albe, né tramonti. Si bestemmia soltanto, quando spunta il sole, perché il nemico incomincia a sparare.

Il Sergente                    - Il mondo è veramente bello...

Angelo                          - Purché non ci si immischi l'uomo. Senza l'uomo, tutto sarebbe bellissimo: albe, tra­monti, primavera, inverno... Non c'è che da scegliere. Ma l'uomo... (Pausa) Così uno se ne va senz'aver gustato nulla. Come se non avesse neanche vissuto. Nato e morto, tutt'uno.

Il Sergente                    - (mettendogli una mano sulla spalla; con voce ferma, quasi un'altra voce) Vedrai qualche cosa di meglio.

Angelo                          - Dite?

Il Sergente                    - Puoi esserne certo. Qualche cosa che non a tutti è dato di vedere.

Anna                             - (timidamente) Anch'io?...

 Il Sergente                   - Anche tu. Tutt'e due. Sono appunto venuto qui per dirvi questo...

Angelo                          - (dopo un certo silenzio, con una voce un po' titubante) Sapete, sergente, quanto mi dite mi fa molto piacere... Specie detto da voi, che siete l'unica persona... come dire?... ecco: l'unica,persona rassicurante ch'io abbia incontrato nella mia vita... Bè, insomma, sono quasi contento... Però, vedete, non vorrei che fosse anche stavolta la solita fregatura... Eh! sì, ne abbiamo ascoltate delle promesse, noi... Promesse di vita migliore, promesse di star bene domani, promesse di grandi e ricchi premi... In cambio, noi si dava tutto, esistenza da cani ogni giorno, stenti, fame, guerre, e la vita, sapete! La vita. Non la si dava tutta ad un tratto, così, come accade a certuni, che nemmeno se ne accorgono e non soffrono neppure un istante... No. Noi si è sofferto per anni e anni, morendo un po' alla volta, giorno per giorno... Sempre aspettando il meglio, sempre aspettando il famoso premio del domani... E il premio non veniva mai, e ci si accorgeva ch'era soltanto uno scherno maledetto, un imbroglio da cima a fondo, una vera lordura, con vostra licenza... Finché uno crepa, e allora l'inganno è completo. Insomma, mi capite. E anche stavolta...

Il Sergente                    - No, figliolo, questa -volta nes­suno t'inganna... Vedrai. Guarda là, davanti a te... (Indica un punto fuori della finestra).

Angelo                          - Che cos'è quello, sergente? Un albero?

Il Sergente                    - Un piccolo albero. Un ciliego in fiore. Non ti sembra stupendo?

Angelo                          - (senza eccessiva convinzione) Certo è molto bello...

Il Sergente                    - Bene. Chi ha fatto quello, ti aspetta.

Angelo                          - (dopo un silenzio) Chi ha fatto quello, sergente, ha fatto anche le pulci e i pidocchi... Non so se mi spiego...

Anna                             - (veemente) Non bisogna dire questo! Io credo sia molto male, pensare così. Anch'io ho sofferto molto, anch'io ho aspettato per tanto tempo un domani che non è mai venuto, ma io ho sempre pensato che non bisogna confondere il male col bene...

Angelo                          - (ironico) Sicché, per voi, il male sarebbero i pidocchi, e il bene i fiorellini del ciliegio?

Il Sergente                    - Anche questo può essere, ra­gazzo! Tutto può essere, finché non si è dato una occhiata a quello che c'è di là...

Anna                             - (trepidante) E noi potremo darla?

Il Sergente                    - Credo proprio di sì.

Angelo                          - È tanto tempo che aspetto di poter capire qualche cosa in questa faccenda... Sapete, sergente, quando uno andava di pattuglia, o tornava ferito, o era addirittura sul punto di andar­sene, io schiattavo dalla voglia di dirgli: « fatti vivo, appena arrivato dall'altra parte... ». Un giorno, all'ospedale, mentre un mio compagno si teneva aggrappato alla vita proprio coi denti, glielo dissi. E lui mi capì, e sorrise dolcemente dicendo di sì, e in un modo tanto buffo, con un cenno della testa; e dopo pochi minuti se ne partì come in volo. Bè, aspettai per un bel po' di giorni e di notti, ficcando gli occhi nel buio, tenendo gli orecchi ben tesi... Niente. Fregato, anche da lui.

Il Sergente                    - Chi va, non torna, ragazzo. E non può neppure dar notizie di sé. È una cosa tutta personale, ecco.

Angelo                          - Be', staremo un po' a vedere... Se dite che ora tocca a noi.

Il Sergente                    - Credo proprio di sì.

Angelo                          - Io sono pronto. (Ad Anna) E voi? Anche voi venite con me?...

Il Sergente                    - Sì, anche lei. Lo stesso viaggio...

Anna                             - Lo stesso orario.

Angelo                          - Non vi ho mai vista prima d'ora.

Anna                             - Non importa. Forse siamo delle stesse parti...

Il Sergente                    - Non credo.

Angelo                          - Io sono del nord...

Anna                             - (ridendo) E io del sud.

Il Sergente                    - (calmo, grave) Eppure siete tutt'e due qui, in 'partenza alla stessa ora, per la stessa destinazione... Vedete com'è?~ Due che non si sono mai visti né conosciuti, ad un tratto si trovano così vicini, quasi la stessa persona...

Angelo                          - Tutte cose che non si capiscono, che non si possono spiegare... .

Il Sergente                    - Ma poi tutto diventa chiaro come il sole. Dopo...

Angelo                          - Se lo dite voi...

Anna                             - (al sergente) Vorrei farvi una domanda, sergente, ma temo possa sembrarvi una cosa molto sciocca...

Il Sergente                    - Dite pure...

Anna                             - Ecco: credete che mi sarà possibile rivedere il giardinetto della mia vecchia casa, prima di questa partenza?

Il Sergente                    - Veramente non saprei... Ma tutto può accadere...

 Anna                            - (abbassando lo sguardo, confusa) Vedete, è una cosa molto stupida... Ma io, sapete, è da tanto tempo che aspetto di poter rivedere il mio giardinetto, il caro giardinetto di quand'ero bam­bina. In un'aiuola, con l'erba tenera, mio padre era riuscito a scrivere il mio nome: Anna. E tutti, passando, dicevano: è il giardino di Anna... (Pausa) Lo uccisero là, sergente, sul cancelletto bianco... e cadde sul nome Anna. Vorrei rivedere il mio giardino, sergente!

Angelo                          - (timidamente, ad Anna) Voi non lo crederete... Sentite: ho anch'io un desiderio. E da tanto tempo. Dalla guerra. Da non so più quale guerra... (Pausa) Una volta entrammo in un pic­colo paese che le artiglierie avevano tutto scas­sato. C'erano più poche case, in piedi. Tra queste, la chiesa: piccola come un giocattolo. Bè, quando arrivammo davanti alla chiesa, e avevamo le armi puntate perché temevamo un'imboscata a ogni passo, udimmo un suono d'organo. Era deserto, il paese, e fumava per gli incendi... Quel suono parve a tutti una cosa impossibile, una dolcissima stra­nezza per noi che si era entrati tra quei muri con le armi in pugno, pronti ad ammazzare anche l'ombra di un cristiano... Rimanemmo tutti muti e fermi come statue. Il suono pareva un canto di,angeli; non ne avevo mai udito uno simile... Qualcuno si lasciò scivolare a terra, tra il fango, distendendo braccia e gambe proprio come se fosse stato in un bel prato fiorito... Qualche altro slacciò Io zaino, e vi sedette sopra, con la testa fra le mani. Quella musica era entrata dentro di noi, come l'aria respirata dai polmoni, come la luce bevuta dagli occhi. Parve a tutti di essere guariti da un grosso male, ci sentimmo buoni e leggeri, le nostre mani non erano più lorde di sangue, e le nostre vesti non erano più incrostate di fango... Eravamo diventati degli altri uomini, degli uomini nuovi, come nati allora, sicuri del nostro domani, senza cattivi ricordi, senza tremendi peccati... Nessuno di noi aveva ucciso, capite? In ognuno entrò la bella certezza di non aver mai ucciso, e questo pensiero era proprio come una musica, era un dono magnifico, qualche cosa che ci avrebbe fatto gridare pazzamente di gioia, se la stanchezza e il torpore non ci avessero tenuti avvinti alla terra... Improvvisamente uno di noi si mise a singhioz­zare, come un bimbo, prima in sordina, poi sempre più forte, sempre più alto, sempre più disperato... Allora un tale, non ricordo più chi, ruppe in una gran bestemmia, si portò con un balzo da bestia sulla soglia della chiesa, spalancò la porta con un calcio... Nell'interno apparve il piccolo altare tutto illu­minato, come in giorno di festa; e alla tastiera dell'organo sedeva un vecchio signore vestito tutto di nero, con il capo sormontato da un'aureola di capelli bianchi, luminosi anch'essi, come se fos­sero stati fili d'argento; e anche la lunga barba era bianca, fino a mezzo il petto. Le mani di quell'uomo erano lunghe e sottili, quasi trasparenti, e accarez­zavano con tanta dolcezza la tastiera d'avorio ingiallito... L'uomo che aveva spalancata la porta rimase un istante perplesso, davanti a quella visione, mentre noi ci eravamo addossati alle sue spalle. Poi, senza un perché, senza la minima spiegazione, imbracciò la sua arma maledetta e sparò dentro, contro il suonatore, contro l'organo, contro le luci,.. Non un grido si levò di là dentro; l'uomo dell'or­gano piegò la testa sul petto, e il suono, lentamente, sempre più fioco, sempre più dolce, andò spegnen­dosi... (Pausa) Non so come fu. Ma senza dir parola, ci trovammo tutti ancor più stretti intorno allo sparatore, ringhianti come cani... Lo finimmo a colpi di baionetta, in un lago di sangue, là, sulla porta della chiesa... (Con un grido disperato) Ho bisogno di riudire quella voce, sergente! (Pausa) Da allora m'è rimasto nel cuore il desiderio di udire ancora quel suono... Credo potrebbe farmi tanto bene...

Il Sergente                    - Bè, tutto è possibile, ragazzo. Non si può saper come, ma tutto è possibile, adesso. Anche che udiate il suono di quell'organo...

Angelo                          - (beffardo) Qui dentro?

Il Sergente                    - Oh! Non qui.

Angelo                          - E dove, allora?

Il Sergente                    - Quando usciremo da queste mura. (Un suono di campana, colpi lenti, attutiti, lontani).

Anna                             - (trasalendo) Che cosa è questo?

Angelo                          - (come indifferente) Una campana. Non avete mai udito suonare una campana?

Anna                             - Come questa... no. (Perduta, lontana).

Il Sergente                    - (mettendole una mano sul braccio) Su, non bisogna lasciarsi prendere dall'inquietudine. È inutile. Bisogna pensare che tutto passerà. (Guarda l'ora all'orologio da polso) Ecco. Io credo ci si possa incamminare. (Li prende sottobraccio entrambi, affettuosamente, come due ragazzi da condurre a passeggio e insegnar loro qualche cosa, lungo il cammino. La campana fa udire i rintocchi più vicino: a mano a mano che e il momento» si avvicina, l'intensità sonora e grave dei rintocchi aumenta) Andiamo, ragazzi.

 Angelo                         - (impuntandosi ad un tratto, per un ter­rore subitaneo) Un momento, sergente. Andare? Ma dove, per favore? Mica vorrete che io vi segua, così, senza saper dove voi mi volete portare... Sergente, qui c'è un grosso imbroglio! (Si guarda disperatamente intorno, tutto pervaso da un tremito di terrore, un tremito che va alimentando rapida­mente, mentre l’atteggiamento è quello di una belva ferita e circondata) Sergente, voi ci portate a mo­rire Adesso vedo chiaro, sergente, quello che volete fare di noi... (Disperato) Ma io non voglio morire... (Quasi aggrappandosi a lui) Sergente, aiutatemi a fuggire! Sergente, se davvero mi volete essere amico lasciatemi uscire di qui...

Anna                             - (con un grido) Ma perché dite questo? Perché avete tanta paura? (Al sergente, quasi im­plorando) Eravamo nelle vostre mani, ci fidavamo di voi... Io ero così serena...

Il Sergente                    - Suvvia, non è che un attimo di smarrimento... Passa tutto. (Ad Angelo) Vero?

Angelo                          - No. Io non voglio morire. Io non ho fatto nulla di male... Sentite, sergente, ditelo voi ch'io non sono colpevole... Ditelo voi a tutti: io non ho ucciso, io non posso avere ucciso! Io ho sempre tenuto un fucile, stretto fra queste mani... (Urla) Sergente, vi giuro, i fucili sparano da soli! Ma io non ho sparato contro quell'uomo che suo­nava l'organo in quella piccola chiesa... Contro quell'uomo che cantava con quella voce d'angelo... (Disperato) Sergente, vi giuro, non ho sparato... (Con foga, come se « vedesse » quello che dice) Ho salvato un bimbo, sergente, una volta. Era caduto in una loggia, annegava; mi son gettato a capo­fitto, l'ho tirato a riva... (Con, disperazione cre­scente, come se cercasse in un'estrema confessione, le poche cose buone della sua vita) E non ho mai rubato, sergente, lo giuro... (Colpito da una visione) Il mio amico... Michele... (Con un urlo) Sì, sergente, io ho afferrato Michele per la gola... Ma non volevo fargli troppo male, sergente! Volevo soltanto fer­marlo, togliergli il mio sacco, il mio bel sacco nuovo... Sergente, credetemi, non volevo ucciderlo... (Con uno scoppio di pianto disperato) L'ho ucciso, ma non sono stato io, sergente... In quel momento ho sentito soffiare nei miei orecchi quella voce tremenda che ci aizzava quando bisognava but­tarci alla baionetta... (Un grido tremendo) Male­detta voce1 Maledetto chi la pronuncia! Maledetto chi l'obbedisce! (Si abbatte di schianto, a terra, come colpito dalla folgore).

Anna                             - (con infinita pietà gli si inginocchia accanto, gli fa appoggiare la testa sulle ginocchia, gli passa con tenerissimo gesto la mano sulla fronte) Coraggio, adesso tutto passerà... To sento, io sono certa che abbiamo finito di soffrire, tu ed io... Adesso non bisogna più pensare a quello che è stato, alla nostra vita che è passata, al sangue che abbiamo visto, al male che abbiamo fatto... Era destino che noi dovessimo soffrire molto, e far molto soffrire... Adesso tutto è passato. Alzati, ti sentirai più leg­gero... Potrai camminare senza fatica, come se la tua carne non avesse più peso... Vieni, io sento che qualcuno ci chiama... (Cerca intorno: ma il sergente è misteriosamente sparito) Siamo soli, adesso. Alzati. Cammina. Così, vicino a me. (Angelo si alza, e tiene nella sua una mano di Anna, con gesto fermo e disperato).

Angelo                          - Tu credi davvero che il nostro gran soffrire sia finito?

Anna                             - Ne sono sicura, lo sento, qualcuno me l'ha detto, con una voce che non può ingannare.

Angelo                          - Non vedremo più scorrere sangue umano, non saremo più costretti ad uccidere i nostri fratelli, i nostri amici più cari?

Anna                             - Abbiamo scontato per tutti, tu ed io. Guarda le nostre mani: erano lorde di sangue. Guardale: adesso sono bianche, sembrano le mani dei bambini... E le nostre vesti non hanno più macchie rosse, grandi, immense...

Angelo                          - (con improvvisa disperazioni') Ma chi, potrà garantirci tutto questo? Lo vedi, il sergente non è più qui accanto a noi, siamo soli adesso... Chi potrà garantirci?

Anna                             - La voce di quell'uomo che un tuo compagno ha ucciso davanti alla tastiera dell'or­gano, quel giorno di guerra, laggiù in quel piccolo paese devastato. Non l'avete ucciso. Avete sol­tanto creduto di averlo ucciso, ma un uomo come quello non si uccide, non si può uccidere. Cento, mille volte hanno creduto di ucciderlo, gli uomini, con le loro stupide guerre, con i loro inutili mas­sacri, con i loro e con i nostri infami delitti... Ma Egli si è sempre salvato, per salvare noi tutti. (Dolce, semplice) Tra poco udremo la sua voce, come quel giorno. E io rivedrò il mio giardinetto di quando ero bambina. Saremo salvi.

Angelo                          - Tu sai tutto questo?...

Anna                             - So, perché adesso vedo chiaro. È come se avessi altri occhi, occhi nuovi che vedono al di là dei muri di questa casa, che vedono tutto il mondo, in una distesa infinita... (Suono di campana) Ecco, ascolta: questa è l'ora. Tra poco vedremo, udremo...

 Angelo                         - (stringendosi ancor più a lei) Sfammi vicina, non mi lasciare... (Tutta la scena si abbuia, e un bianco raggio scende dall'alto a chiudere in un cerchio luminoso Anna e Angelo; essi, fronte al pubblico, con estrema semplicità, dicono)

Anna                             - Ascoltaci Tu che stai per disporre di noi. Noi siamo qui, pronti al tuo volere. Noi abbiamo orribilmente peccato: io ho ucciso...

Angelo                          - ... anch'io ho ucciso...

Anna                             - ... io non ho saputo ascoltare la Tua voce...

Angelo                          - ... io ho vissuto sempre lontano da Te, senza mai ricordarmi di Te...

Anna                             - Solo la voce degli uomini, noi abbiamo ascoltato...

Angelo                          - Solo la volontà degli uomini, noi abbiamo seguito...

Anna                             - Ti chiediamo, per tutti, una grazia: fa ch'essi non abbiano più a versare altro sangue umano...

Angelo                          - Fa che gli uomini che restano dimen­tichino la forza e la violenza...

Anna                             - Fa ch'essi si amino come fratelli...

Angelo                          - Fa ch'essi non dimentichino mai che esisti Tu, Tu solo, per giudicare il loro male e il loro bene!

Anna                             - Fa che sul mondo degli uomini, squar­ciando le tenebre che essi creano con le loro azioni, giunga la luce della Tua bontà, scenda il calore del Tuo affetto, si distenda la verità della Tua giustizia!

Angelo                          - - Tocca il cuore di noi tutti, raccogli nelle Tue mani il nostro destino!

Anna                             - Così sia, Signore!

Angelo                          - Signore, così sia! (Il rullo del tam­buro e i rintocchi della campana soffocano le loro voci, mentre ogni luce si spegne. Ma dopo un attimo di oscurità intensa, lontano, dal fondo della scena, nasce un raggio vivo. Al centro, con le spalle rivolte al pubblico, con passo prima lento e incerto, poi più fermo e sicuro, Anna ed Angelo si avviano verso il fondo. Ad un tratto giunge fievole e poi più robusto un dolce suono di organo; e appare di scorcio, lumi­nosissimo, un ingenuo e tenero giardino smaltato di sole e fiori, cintato da un piccolo cancello bianco. Verso quella visione le due creature si avviano, mentre cala il sipario).

FINE